Attick Demons – Let’s Raise Hell

Let’s Raise Hell è un ottimo album, inutile dire che è un ascolto obbligato per i fans dei Maiden, ma il consiglio si estende anche a tutti gli amanti del metal più classico.

Tornano in pista gli Attick Demons, band portoghese che ripercorre con il proprio sound le gesta della vergine di ferro da ormai vent’anni, pur non avendo una numerosa discografia alle spalle.

Infatti il gruppo, sotto l’ala della label tedesca Pure Steel, è solo al secondo lavoro sulla lunga distanza, le sue uscite si limitano ad un ep omonimo uscito nel 2000, un demo, ed il primo album intitolato Atlantis ed uscito cinque anni fa.
Tre chitarre come i Maiden da Brave New World, disco che vedeva il ritorno di Adrian Smith tra le fila della band del despota Steve Harris, ed un cantante che lascia di stucco da quanto la sua voce sia perfettamente uguale a quella di Bruce Dickinson.
Semplici cloni? Assolutamente no, Let’s Raise Hell è un bellissimo lavoro di heavy metal classico dove le somiglianze con la più famosa metal band del pianeta sono palesi, ma non inficiano un risultato ottimo sotto tutti i punti di vista.
Il songwriting regala perle metalliche dure come l’acciaio, a tratti travolgenti, ma che sanno regalare qualche spunto progressivo, meno prolissi degli ultimi lavori della vergine di ferro e più in linea proprio con l’album uscito nel 2000 e che tornava a far risplendere la maschera di Eddie sui palchi di tutto il mondo.
Let’s Raise Hell vs Brave New World, da questo fantasioso scontro la band portoghese ne esce alla grande, grazie ad una produzione che esalta la potenza vocale del singer e rende i suoni dei brani puliti e cristallini, mentre la bravura dei musicisti contribuisce ad esaltare l’ascoltatore, travolto dai solos che si intrecciano come serpenti in amore, ed una sezione ritmica che esce potente e pesante come un carro armato.
I brani che sparano nobile metallo maideniano sono all’altezza della situazione, Adamastor colma di accelerazioni e cambi di ritmo da infarto, Glory To Gawain dove la voce di Artur Almeida tocca vette altissime, The Endless Game (la Ghost Of The Navigator di Let’s Raise Hell), mentre la palma di migliore song dell’album va all’oscura Dark Angel, aperta da atmosfere arabeggianti, chitarre lusitane e che si trasforma in un midtempo dove il cantante duetta con una voce femminile da brividi.
Il finale è riservato ad un tris di brani dall’alto potenziale esplosivo: Ghost, Nightmare e Ritual tornano a duellare sul campo con lo storico sestetto britannico, in un quanto mai sanguinario corpo a corpo, dove con la song conclusiva valorizzata da una serie di riff straordinari, riescono a fuggire e a rimandare alla prossima uscita il singolar tenzone.
Let’s Raise Hell è un ottimo album, inutile dire che è un ascolto obbligato per i fans dei Maiden, ma il consiglio si estende anche a tutti gli amanti del metal più classico.

TRACKLIST
1. The Circle Of Light
2. Adamastor
3. Glory to Gawain
4. Dark Angel
5. The Endless Game
6. Let’s Raise Hell
7. Ghost
8. Nightmares
9. Ritual

LINE-UP
Artur Almeida – vocals
Luis Figueira – guitars
Nuno Martins – guitars
Hugo Monteiro – guitars
João Clemente – bass
Ricardo Allonzo – drums

ATTICK DEMONS – Facebook

Evoked – Lifeless Allurement

I brani proposti non mancheranno di far felici i fans del death metal senza compromessi

Questa creatura che si aggira nell’underground estremo proviene dalla Germania, è un duo chiamato Evoked e per la Go Fuck Yourself Productions immette sul mercato questo ep di cinque brani.

La band si compone di due musicisti, il chitarrista e cantante Bonesaw ed il batterista Artilleratör, con alle spalle altre esperienze in ambito estremo ed ora insieme per far vivere questa oscura entità che dal death metal old school trae forza.
Un ep che non aggiunge niente al percorso artistico del gruppo, il cui sound è quanto di più vecchia scuola si possa trovare spulciando tra le centinaia di uscite in ambito estremo; l’attacco frontale dei brano rimane confinato nel più profondo spirito underground, messo in risalto dalla copertina in bianco e nero e da una produzione che si poteva riscontrare nelle opere nate nei primi anni novanta.
Oscuro e soffocante, il sound del gruppo respira attraverso le ragnatele che col tempo si sono impossessate del genere; nulla di male, il death metal classico rimane l’arte estrema per antonomasia (almeno per il sottoscritto) e le opere uscite negli ultimi tempi confermano l’immortalità di questo genere, ma il gruppo pecca nel voler mantenere un approccio old school troppo stereotipato, soprattutto nei dettagli (produzione, strumenti ribassati e songwriting leggermente monocorde), non andando oltre la piena sufficienza.
I brani proposti non mancheranno di far felici i fans del death metal senza compromessi e brani come l’opener Mangled Torn & Eaten, Disintegrated Mind e la title track giustificheranno l’acquisto, almeno per chi di queste sonorità continua ingordo a nutrirsi, aspettiamo l’eventuale full length per un giudizio più completo ed esauriente.

TRACKLIST
1. Mangled, Torn & Eaten
2. Swallowed by the Void
3. Disintegrated Mind
4. Tremendous Existence
5. Lifeless Allurement

LINE-UP
Bonesaw – Guitars, Vocals
Artilleratör – Drums

EVOKED – Facebook

Ribbons Of Euphoria – Ribbons Of Euphoria

Ne esce un sound che nel suo essere stupendamente vintage mantiene un’originalità concettuale altissima

La Satanath Records, conosciuta come label che supporta principalmente sonorità estreme, stupisce tutti con l’esordio omonimo di questa band greca, un quintetto ateniese che propone un clamoroso progressive rock dalle mille sfumature, un involucro di suoni dai più svariati generi, un affresco di musica rock adulta, straordinariamente matura per una band all’esordio, pronta per diventare quantomeno oggetto di culto per gli appassionati del rock progressivo.

Ribbons Of Euphoria pesca dal meglio che le sonorità dei mostri sacri del genere ci hanno regalato, amalgamando in modo stupefacente progressive rock, hard rock, psichedelia e blues creando un’opera che risulta una sorpresa ad ogni nota, ogni passaggio, ogni cambio di atmosfera che la band usa a suo vantaggio per stupire l’ascoltatore.
Cinque brani per quaranta minuti abbondanti di musica a 360°, cinque clamorosi trip dove le allucinazioni sempre più reali non sono incubi, ma incontri ravvicinati con il rock che ha fatto storia.
Lasciate perdere disquisizioni tecniche che lasciano il tempo che trovano, le varie Incidence Of Truth, la suite prog/psichedelica A Jester And The Queen, la stoner/blues The Druids Are Rising (To The Forefront Once More), la purpleliana Smokin’ N’ Spittin’ e l’acida e liquida Mindful Of Dreams emanano profumo di erbe bruciate in un lento rituale psichedelico, dove il progressive di Yes e Gentle Giant, incontra l’hard rock dei Deep Purple, il rock blues dei Cream e l’era psichedelica dei fab four e li potenzia con cascate di groove e ritmiche sabbathiane.
Ne esce un sound che nel suo essere stupendamente vintage mantiene un’originalità concettuale altissima, una serie infinita di jam che si accavallano, una sopra l’altra una più clamorosa dell’altra in un rituale altamente acido, portando al genere una ventata di freschezza di cui ad oggi ha assolutamente bisogno per non risultare obsoleto.
Parlare di sound fresco dopo aver nominato le band di cui sopra può sembrare un’azzardo, beh cercatevi questo gioiellino, ascoltatelo e poi fatemi sapere … un album che è già un cult!

TRACKLIST
01. Incidence Of Truth
02. A Jester And The Queen
03. The Druids Are Rising (To The Forefront Once More)
04. Smokin’ N’ Spittin’
05. Mindful Of Dreams

LINE-UP
Stavros Zouliatis – vocals, percussion
Thanos Karakantas – bass, backing vocals
Nick Poulakis – guitars, backing vocals
Thanasis Strogilis – drums

RIBBONS OF EUPHORIA – Facebook

High Spirits – Motivator

Inaspettate influenze tradizionali per un musicista conosciuto nel mondo dell’underground per sonorità estreme e sperimentali come quelle suonate con i Nachtmystium.

Gli High Spirits sono la creatura del polistrumentista americano Chris Black, già attivo con un buon numero di band, anche importanti come Pharaoh e Nachtmystium, qui in veste di rocker a tutto tondo.

Fondati gli High Spirits per soddisfare la sua sete di hard rock nel 2009, ha licenziato due full length prima di questo Motivator, Another Night nel 2011 e You Are Here due anni fa, completando la discografia con qualche singolo, un ep e ben due compilation.
La proposta di Black ricalca l’hard rock a cavallo tra gli anni ottanta ed il decennio successivo, con qualche puntata nell’heavy metal britannico, in qualche solos, per il resto rock duro puro e semplice, arioso in alcune parti, più serrato in altre ma ben confezionato.
Intanto la produzione, senza strafare, permette di godere di tutti i dettagli del sound, le sonorità old school a cui Black fa riferimento vengono così valorizzate in toto, il songwriting di buon livello si evince da una raccolta di buone canzoni, orecchiabili, melodiche ma che non mancano di infiammare i cuori dei rockers più attempati.
Di livello i chorus, Black ha un’ottima voce ed imprime verve profusione in brani che ripercorrono la storia dell’hard rock con buona presa ed ottimo appeal.
Mezz’ora scarsa di durata, ma sufficiente senz’altro per tornare e rivivere i fasti della musica dura tradizionale con due o tre brani sopra la media, dalla metallica Reach For The Glory, all’hard rock di Haunted By Love e Down The Endless Road.
Il musicista di Chicago se la cava sia in fase di registrazione che con gli strumenti utilizzati e Motivator lascia ottime sensazioni, senza strafare ma puntando sull’anima più pura e tradizionale della musica dura.
Tra i solchi dell’album ci si aggira per sentieri battuti da UFO, Survivor, Thin Lizzy e Scorpions, inattese influenze tradizionali per un musicista conosciuto nel mondo dell’underground per sonorità estreme e sperimentali come quelle suonate con i Nachtmystium.
Il gruppo ha una buona attività live, dove Black si contorna di ottimi protagonisti della scena, così da non relegare il progetto alla solita one man band da studio, ma donandogli un’identità live, importantissima per mantenerla in ottima salute.

TRACKLIST
1. Up and Overture
2. Flying High
3. This Is the Night
4. Reach for the Glory
5. Do You Wanna Be Famous
6. Haunted by Love
7. Down the Endless Road
8. Take Me Home
9. Thank You

LINE-UP
Chris Black – All instruments, Vocals

HIGH SPIRITS – Facebook

The Eyes Of Desolation – Awake In Dead

Derivativi ma talentuosi, i The Eyes Of Desolation convincono e sorprendono per la qualità esibita in questo ep.

Se, all’ascolto delle prime note di Awake in Dead, viene da pensare istintivamente all’operato di una band nordeuropea, alle prese con un gothic rock/metal d’autore, è notevole la sorpresa nel constatare che gli autori del lavoro, i The Eyes Of Desolation, provengono dalle ben più assolate lande costaricensi.

Di certo gli influssi centroamericani non fanno mai capolino in questo breve lavoro, che segue l’esordio sulla lunga distanza del 2013, Songs for Desolated Hearts: i quattro brani proposti, infatti, si muovono nel solco della tradizione europea del genere, tra rimandi a Sentenced e NFD, oltre ad attingere agli imprescindibili Type O Negative.
Se il sound sviluppato dai The Eyes Of Desolation non apporta certo chissà quali novità ad un genere che, in fondo, neppure ne ha bisogno, potendo vivere tranquillamente di schemi ben definiti e sempre graditi agli appassionati, convince e sorprende non poco, invece, la qualità esibita in questi venticinque minuti scarsi offerti dall’ep.
Le quattro tracce sono tutte ugualmente godibili (con preferenza personale per la conclusiva Fighting for Your Cause), sufficientemente diversificate tra loro, e si fissano nella mente con un certo agio, riportandoci alla mente i ben tempi andati, quando alcune delle band citate erano ancora attive e capaci di dare alla luce grandi album. Il vocalist Carlomagno Varela prende le mosse da una timbrica alla McCoy/White, arricchendola con un utilizzo vario e sapiente delle sue sfumature più estreme, ben assecondato da una band preparata e conscia del proprio notevole potenziale.
Derivativi ma talentuosi, i costaricensi meritano il massimo supporto da parte di chi ama questo genere, attendendoli alla prova di un nuovo full length che, dopo aver posto queste solide basi, potrebbe espandere la loro fama al di là dell’Atlantico.

Tracklist:
1. Waking Death
2. Crimson Sky
3. I Found My Place
4. Fighting for Your Cause

Line-up:
Javier Murillo – Bass
Chus Mora – Guitars
Carlomagno Varela – Vocals
Mario Vega – Drums
Carlos Carazo – Keyboards

THE EYES OF DESOLATION – Facebook

Black Crown Initiate – Selves We Cannot Forgive

Una band, nata appena tre anni fa, che elabora a suo modo il metal estremo, si spolvera di dosso ogni accostamento possibile ed immette sul mercato il suo secondo lavoro, arrivando in poco tempo ad una maturazione compositiva completa.

Una band, nata appena tre anni fa, che elabora a suo modo il metal estremo, si spolvera di dosso ogni accostamento possibile ed immette sul mercato il suo secondo lavoro, arrivando in poco tempo ad una maturazione compositiva completa.

Gli statunitensi Black Crown Initiate, in soli tre anni hanno dato alle stampe un ep e due full lenght, Selves We Cannot Forgive infatti è il successore del debutto The Wreckage of Stars, uscito un paio di anni fa e che aveva dato al gruppo una già buona popolarità.
Il nuovo lavoro fa compiere un altro importantissimo passo avanti prendendo a spallate i soliti cliché del genere e cercando una via personale alla materia fatta di sfumature e generi che si susseguono nei vari brani, diversi uno dall’altro tanto da sorprendere ad ogni passaggio.
Un bel contenitore di sorprese Selves We Cannot Forgive, dal songwriting elastico e fresco e che passa in modo naturale da roboanti sferzate brutal, a reminiscenze core, passando per brani dalla forte connotazione rock (Again), magari violentati da sfuriate death ma pur sempre strutturate su un esplosivo e moderno prog rock.
Tralasciando un’ottima preparazione strumentale ed una produzione al top (gli americani in questo sono una sicurezza), l’album è talmente vario che si rischia ad un ascolto superficiale di credere d’essere al cospetto di band diverse, ed invece il gruppo cerca nuove soluzioni ad ogni passaggio, continuando a viaggiare tra brutalità e melodia, death metal e parti malinconiche, aperture ariose ed imprevedibili, blast beat e delicati passaggi prog rock.
La componente moderna o core è presente in piccole dosi, e si respira in qualche passaggio tra il growl (assolutamente brutal) e le clean vocals, con qualche ritmica più marziale ma costantemente estrema ed intricata.
Belie the Machine, Transmit To Disconnet, l’ottima Sorrowpsalm (forse il brano che raccoglie tutte le sfumature del sound in un unico caleidoscopio musicale), confermano la bravura di questo combo statunitense, pronto per finire sulla bocca di fans e addetti ai lavori in questa calda estate 2016.
Scommetto che in poco tempo diventeranno la new sensation del metal estremo proveniente dal nuovo continente, noi ve ne abbiamo parlato ora, qualcuno come sempre se ne prenderà i meriti magari più in là, a giochi fatti: è già successo, ma non importa, fatevi sotto perché il gruppo se lo merita …

TRACKLIST
1. For Red Clouds
2. Sorrowpsalm
3. Again
4. Belie the Machine
5. Selves We Cannot Forgive
6. Transmit to Disconnect
7. Matriarch
8. Vicious Lives

LINE-UP
Nick “Bass” Shaw – Bass
Jesse Beahler – Drums
Andy Thomas – Guitars, Vocals (clean)
James Dorton – Vocals

BLACK CROWN INITIATE – Facebook

Lanthanein – Lágrimas

Si sogna con la musica dei Lanthanein, e mai come di questi tempi ne sentiamo il bisogno.

Se si segue con attenzione la scena underground mondiale ci si accorge che mai come in questi anni la musica rock/metal abbia definitivamente cancellato dalla sua mappa stucchevoli e quanto mai inutili confini, muovendosi controcorrente alla società odierna sempre più costruita su muri razziali e religiosi.

Paesi asiatici, Australia, Sudafrica sono entrati prepotentemente sul mercato, regalando realtà assolutamente valide in ogni genere di cui si compone il mondo metallico.
In Sudamerica, per esempio, la tradizione metallica, specialmente in Brasile, è consolidata da decenni, con il metal classico e quello estremo a fare da traino a tutto il movimento.
I Lanthanein provengono invece dall’Argentina e ve ne avevamo parlato in occasione del primo ep Nocturnálgica, un ottimo esempio di symphonic gothic metal che però, voltava le spalle ai suoni bombastici cari alle band odierne per solcare lidi gothic/doom, eterei, melanconici ed atmosfericamente eleganti.
Làgrimas è il debutto sulla lunga distanza che racchiude tutte i brani apparsi sull’ep e, nella sua interezza, conferma la bontà della proposta del duo argentino.
Marilí Portorrico, bravissima soprano e raffinata interprete delle bellissime impressioni gotiche che compongono il sound del gruppo, e A.N.XIIIU.X musicista e parte metallica della musica di Lágrimas, aiutati da una manciata di vocalist classici, interpretano quest’opera gotica, pregna di umori malinconici, ancora una volta cantata usando il più internazionale inglese e la lingua madre, attraversata da orchestrazioni raffinate e metallicamente vicino alle sonorità gotiche delle fine dello scorso millennio.
Il genere non si discosta infatti dal gothic/doom dei primi anni novanta, la scena olandese è madrina del sound di Lágrimas, ma dalla loro i Lanthanein hanno quel tocco passionale innato per chi proviene dalle terre sudamericane che riscaldano di emozionalità i vari brani.
Violini, piano, orchestrazioni a tratti strutturate su ritmiche black, accompagnano Marilí Portorrico in questo passeggiare nel crepuscolo, uno spazio temporale dove il tempo immobile, regala suadenti atmosfere di drammatiche sfumature dark, operistiche ma non invadenti, sfumate su paesaggi dai colori tenui, impresse su tele antiche ed in bianco e nero.
I brani tratti dal primo ep confermano tutta la loro bellezza, ma Lux Pepetua, la stupenda delicatezza di Auraluna e Ceremonia del Alma Dormida non sono da meno, andando a completare un opera dark/gotica affascinante.
Non perdetevi questo album, specialmente se siete amanti di tali sonorità, si sogna con la musica dei Lanthanein e mai come di questi tempi ne sentiamo il bisogno.

TRACKLIST
1. Lacrimosa et Gementem
2. Vestigios (Vestiges)
3. Lanthanein
4. Lágrimas de luna (Moontears)
5. Epifanía (Epiphany)
6. A orillas del silencio (At the Shores of Silence)
7. Auraluna
8. Nocturnálgica (Nocturnalgic)
9. Lux Perpetua
10. Ceremonia del alma dormida (Ceremony of the Soul Asleep)
11. A orillas del silencio (At the Shores of Silence) [acoustic version]

LINE-UP
Marilí Portorrico – Vocals, Choir, Arrangements, Programming
A.N.XIIIU.X – Vocals, Guitars, Bass

LANTHANEIN – Facebook

Lacrimas Profundere – Hope Is Here

Gli undici brani offerti dai Lacrimas Profundere vanno a comporre tre quarti d’ora di musica eccellente ed impeccabile per esecuzione e produzione

Quelli diversamente giovani, tra i frequentatori di questa webzine, ricorderanno senz’altro i Lacrimas Profundere come una giovane e promettente band che, negli anni novanta, provò con un certo successo a mettersi in scia delle migliori band del settore gothic death doom.

Il tempo è passato e le sonorità espresse efficacemente con album quali La Naissance d’un Rêve e Memorandum sono state via via abbandonate, per approdare ad un più rassicurante ma altrettanto valido alternative rock che mantiene comunque un ben definito dna oscuro.
Quello preso oggi in esame è l’undicesimo full length della band tedesca, capace di muoversi con destrezza tra umori che si dipanano a cavallo tra Antimatter e Katatonia, con una maggiore propensione però ad aperture più ariose.
Hope is Here è una collezione di brani dal buonissimo valore complessivo, in grado di non far rimpiangere i tempi andati ma, semmai, di rivestire di abiti più ricercati una malinconia che rappresenta pur sempre la base sulla quale poggi il sound dei Lacrimas Profundere.
Della line-up originaria è rimasto solo quello che è sempre stato il vero motore dei bavaresi, il chitarrista Oliver Schmid, il quale oggi si circonda di musicisti più giovani come la coppia ritmica formata dai fratelli Clemens e Christop Schepperle e dal vocalist Rob Vitacca, in possesso di una timbrica calda che ben si addice alle soffici atmosfere proposte, oltre che dal più esperto chitarrista Tony Berger.
Gli undici brani offerti dai Lacrimas Profundere vanno a comporre tre quarti d’ora di musica eccellente ed impeccabile per esecuzione e produzione; gli estimatori della prima ora della band forse faticheranno a digerire un evidente alleggerimento del sound, ma brani davvero ottimi come The Worship of Counting Down, Hope Is Here e Timbre, tanto per citarne solo alcuni, possiedono la caratura necessaria per mettere tutti d’accordo.

Tracklist:
1. The Worship of Counting Down
2. My Halo Ground
3. Hope Is Here
4. Aramis
5. A Million Miles
6. No Man’s Land
7. Pageant
8. You, My North
9. Awake
10. The Path of Broken Homes
11. Timbre
12. Black Moon

Line-up:
Oliver Nikolas Schmid – Guitars
Tony Berger – Guitars
Rob Vitacca – Vocals
Clemens Schepperle – Bass
Christop Schepperle – Drums

LACRIMAS PROFUNDERE – Facebook

Whipstriker – Seven Inches Of Hell

Poca classe , tanta attitudine ed impatto sconquassante, voce sguaiata e solos veloci come il lampo, al limite del più famigerato speed anni ottanta.

La Folter Records stampa, rigorosamente in vinile, la compilation Seven Inches Of Hell degli Whipstriker, gruppo brasiliano attivo dal 2008 ma con una discografia che abbonda di split ed ep e si completa con un tris di full length che vanno dall’esordio Crude Rock ‘n’ Roll del 2010, passa dal secondo Troopers of Mayhem uscito nel 2013 fino ad arrivare all’ultimo Only Filth Will Prevail licenziato quest’anno.

La raccolta di ben ventisei brani pesca da una serie di ep e split usciti tra il 2010 ed il 2014, un lasso temporale che ha visto il gruppo di Rio de Janeiro in piena overdose di uscite discografiche.
Il sound del gruppo è più di quanto old school potete immaginare, ma anche molto vario, si passa infatti dal rock’n’roll in pieno stile motorheadiano ad accenni thrash/speed tra Venom, Hellhammer e primissimi Slayer.
Palla lunga e pedalare, si direbbe nel gergo calcistico tanto caro al popolo carioca, poca classe, tanta attitudine ed impatto sconquassante, one two three e via di ritmiche thrash & roll, voce sguaiata e solos veloci come il lampo, al limite del più famigerato speed anni ottanta.
Qualche brano raggiunge i quattro minuti, per il resto ci si destreggia tra canzoni sparate e dirette, così come nella tradizione del genere, mitragliate di dirty rock’n’roll o thrash’n’ roll come più vi piace chiamarlo.
Resta il fatto che questa raccolta ci presenta una band in tutto e per tutto votata all’old school, sia nella musica prodotta, con una manciata di brani in grado di farvi saltare come grilli (Cops Victim, Sweet Torment, Viver e Morrer no Subterraneo e Worshippers Of Death), sia nella produzione.
E qui sta il difetto della compilation: ora, non me ne vogliano i puristi, ma una riedizione che mantiene un suono obsoleto, anche se per volere del gruppo, lascia con un pizzico di amaro in bocca; infatti, molti dei brani proposti, con una ripulita in consolle avrebbero mantenuto la promessa di un’esplosività che rimane solo a livello di inenti.
Gli amanti dell’old school a tutti i costi lo apprezzeranno, ma Seven Inches Of Hell con queste premesse rimane appunto un lavoro rivolto solo ai fans più incalliti.

TRACKLIST
Side A
1. Her Fire of Hell
2. Cruel Savage
3. Black Rose
4. Viver e Morrer no Subterraneo
5. Queen Of The Iron Whip
Side B
6. Denied Messiah
7. Seeds of Torment
8. Born Spread The Mayhemic Loudness
9. Start The Warcollapse
10. Stand Up And Be Counted
Side C
11. Burned Alive
12. Worshippers Of Death
13. Bombstorm
14. Outlaw Rules
15. The Excess
16. Loudman
17. Dead On Arriva
Side D
18. Cop´s Victim
19. No Surrender, No Surrender
20. Dead Future
21. Fast Rape Before The War
22. Skill To Destroy
23. Never leave This War
24. Ripping Corpses In The Way
25. Sweet Torment
26. Anguish Of War

LINE-UP
Whipstriker – Bass, Vocals
Skullkrusher – Drums
Witchcaptor – Guitar
Rodrigo Giolito – Guitars

WHIPSTRIKER – Facebook

Wildernessking – … And The Night Swept Us Away/The Devil Within

La label transalpina Les Acteurs De L’Ombre, dopo gli ottimi riscontri avuti dal primo full length, ristampa in un unico formato in vinile i primi due ep dei sudafricani Wildernessking.

Mystical Future aveva ben impressionato gli addetti ai lavori, un album sorprendente sotto tutti i punti di vista, a partire dal paese di provenienza del quartetto fuori dai soliti circuiti fino alla maturità artistica ed allo spessore dell’opera.
… And The Night Swept Us Away e The Devil Within risalgono rispettivamente nel 2012 e nel 2014 e rispecchiano in toto tutte le virtù riscontrate in seguito; il quartetto di Città del Capo conferma il proprio talento nel saper amalgamare il metal estremo dai rimandi black con atmosfere ricche di parti oniriche e malinconiche, risultando maturo già da questi splendidi primi passi.
La furia del black metal alternata a passaggi melodici ed atmosferici, chiamata superficialmente e più semplicemente post black, trova in questi brani una delle sue forme migliori, un’urgenza espressiva e rabbiosa che si scontra con delicate ed intimiste parti melodiche, tragiche e drammatiche nella loro perenne oscurità, ma in grado di trasmettere emozioni forti, con un talento non comune e riscontrabile con il contagocce anche nei paesi che hanno dato i natali a queste sonorità.
Improvvisi impulsi elettrici che si trasformano in tempeste di suoni estremi, si placano all’arrivo di atmosferici passaggi acustici, malinconici ed intimisti, ma assolutamente privi di forzature come se i Wildernessking avessero trovato lungo le strade della loro lontana ed affascinante terra il segreto per riuscire ad amalgamare sonorità così distanti tra loro, ma perfettamente inglobate nel loro songwriting, traducendolo in un susseguirsi di saliscendi emozionali, lungo il doloroso e sofferto spartito.
La titletrack del primo ep seguita, dalle trame acustiche di Morning, ne sono il perfetto esempio, passando dalle tempeste black della prima alle stupende melodie della seconda con una facilità disarmante, come la fine di una tempesta su Capo di Buona Speranza ed il ritorno naturale alla quiete, con il mare che piano ritorna ad addormentarsi.
L’album per intero si sviluppa su queste coordinate, passando dal capolavoro The Devil Within, title track del secondo ep, dove il black metal del gruppo non è mai stato così devastante e le parti atmosferiche così oscure e pregne di umori oscuri ed onirici.
Una band quella sudafricana alla quale, anche grazie a questa uscita, la definizione di cult band calza a pennello: un altro esempio di come la musica non abbia confini geografici, superateli, anche voi vi farete solo del bene.

TRACKLIST
… And The Night Swept Us Away:
1. 1. Adrift 03:33
2. 2. And The Night Swept Us Away 05:26
3. 3. Morning 06:01

The Devil Within:
4. 1. Lurker 04:22
5. 2. Flesh 04:27
6. 3. The Devil Within 10:05

Bonus Track:
Decay 02:56
And The Night Swept Us Away (live studio version) 05:11″

LINE-UP
Keenan Nathan Oakes – Vocals Bass
Dylan Viljoen – Guitars
Jesse Navarre Vos – Guitars
Jason Jardim – Drums

WILDERNESSKING – Facebook

Ribspreader – Suicide Gate – A Bridge to Death

Death metal old school, sempre e comunque di matrice scandinava, ma valorizzato da quel tocco statunitense che fa dell’album un ulteriore esempio di grande musica estrema.

Ormai con il buon Rogga Johansson ci incontriamo almeno tre, quattro volte l’anno: lui stakanovista del metal estremo con i suoi innumerevoli progetti, io a raccontarvi delle devastanti opere che del virus mortale del death metal sono portatrici.

Non un album sotto la media, collaborazioni con i più svariati musicisti da ogni parte del mondo, Johansson porta avanti la sua missione: tenere alta la bandiera del death metal old school , ed anche questa volta il musicista svedese centra il bersaglio con l’ultimo lavoro dei Ribspreader.
Questo ennesimo progetto è attivo da più di dieci anni, è datato 2004 infatti l’esordio del gruppo con l’album Bolted to the Cross, seguito da Congregating the Sick dell’anno dopo, una manciata di ep e compilation e poi il trittico Opus Ribcage MMVI (2009), The Van Murders (2011) e l’ultimo Meathymns uscito un paio di anni fa.
Un’alleanza Svezia/Stati Uniti, con Rogga seguito da due musicisti americani, Jeramie Kling alle pelli e Taylor Nordberg alla solista, entrati nel gruppo per registrare Suicide Gate – A Bridge to Death e tanto death metal old school, sempre e comunque di matrice scandinava, ma valorizzato da quel tocco statunitense che fa dell’album un ulteriore esempio di grande musica estrema.
La bravura dei due nuovi arrivati alza il livello dell’opera, impreziosita da un enorme lavoro alle pelli e dalla classe dell’axeman che macina solos melodici senza soluzione di continuità, rendendo i brani del disco una raccolta di brani irresistibili, almeno per chi ama il death metal vecchia scuola ed in particolare la scuola nordeuropea.
Molto più Edge Of Sanity che Grave, le canzoni vivono di stop and go, solos accattivanti nella loro natura estrema, ritmiche che grondano sanguinolento groove e tanta melodia: il growl di Johansson ripercorre le strade che furono di re Swano in Unorthodox e The Spectral Sorrows, avvicinandosi pericolosamente al capolavoro Purgatory Afterglow (Under Ash-Filled Skies risulta la Blood-Colored di questo lavoro).
Qualità altissima nel songwriting ed appeal estremo: Suicide Gate – A Bridge to Death vive per poco più di mezzora tra una traccia più bella dell’altra ed una tecnica superiore, e bene ha fatto la Xtreem Music nel prendersi cura dell’album.
Ancora una volta Johansson regala agli appassionati un altro ottimo motivo per continuare ad amare il genere, a quando l’inizio dei lavori per il meritato monumento?

TRACKLIST
1. Descent of the Morbid
2. Centuries of Filth
3. Eligi
4. The Suffering Earth
5. A Worthless Breed
6. World Dismemberment
7. In Mankind’s Rotting Grip
8. The Remains in the Wall
9. Under Ash-Filled Skies

LINE-UP
Rogga Johansson – Guitars, Bass, Vocals
Jeramie Kling – Drums
Taylor Nordberg – Guitars (lead)

RIBSPREADER – Facebook

The Dead Goats – All Them Witches

La furia estrema non perde di intensità neppure quando armonie gotiche di tastiere ricamano nenie orrorifiche che durano lo spazio di un attimo, ma che sono la carta vincente di All Them Witches.

Un’altra realtà estrema proveniente da quel nido di entità malefiche che risulta la Polonia, terra che ha visto negli ultimi anni un proliferare di gruppi dediti al metal estremo di matrice death/black.

Il trio dei The Dead Goats invero è molto più vicino alle sonorità death di stampo classico provenienti dalla Scandinavia con la predisposizione alle tematiche horror ed ottimi inserti atmosferici che valorizzano il sound devastante del gruppo.
All’esordio quattro anni fa con il full length Path of the Goat, la band ha rifilato una serie di ep e split che li ha visti nel 2014 in coppia con i grandi Revel In Flesh, deathsters tedeschi autori del magnifico Death Kult Legions, uscito quell’anno.
All Them Witches è un ottimo esempio di death metal carico di furia iconoclasta, ma come detto attraversato da atmosferiche parti horror, che creano un’aura oscura, pregna di attitudine dark, così che il sound risulti vario e ricco si piccole sorprese.
Il death metal del gruppo risulta un attacco frontale, la furia estrema non perde di intensità neppure quando armonie gotiche di tastiere ricamano nenie orrorifiche che durano lo spazio di un attimo, ma che sono la carta vincente di All Them Witches.
Il resto è death metal old school, senza compromessi, con tutti i canoni del genere ben in evidenza e con la denominazione di origine controllata made in Scandinavia.
Un sound, quello delle varie All Them Witches, Darkness and Decay, The Curse of Gallows Hill e la conclusiva The Gloom That Came to Salem, che pesca a piene mani dal periodo storico del death metal svedese, poco male, anzi, l’album trova nelle sue trame devastanti ed oscure un modo per convincere l’ascoltatore, travolgendolo con un fiume in piena di note oscure e pesantissime, riff e ritmiche consolidati nel tempo e nella storia del genere e tanto blasfemo ed intrigante horror/gore.
In conclusione un lavoro riuscito ed assolutamente consigliato ai deathsters amanti dei suoni creati dalla scuola nordeuropea.

TRACKLIST
1. Coven
2. All Of Them Witches
3. Darkness And Decay
4. Broodmother
5. Conquering The Worm
6. The Curse Of Gallows Hill
7. Dwarves In My Coffin
8. Into The Fiery Grave
9. The Gloom That Came To Salem

LINE-UP
Bartulewicz – guitar, vocals
Jaworski – bass, backing vocals
Pierściński – drums, vocals

THE DAED GOATS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=fnrQJmsEY60

Joy – Ride Along!

Se non ci siamo persi nel deserto americano finiremo in dipendenza da Joy, aspettando il prossimo fantastico viaggio tra le note vintage del trio di San Diego.

L’hard rock dalle sonorità vintage e psichedeliche, in questi anni ha trovato molti estimatori ed il fiume di gruppi che inonda il mercato si è diviso in vari torrenti musicali di cui i principali sono quelli che portano al blues ed allo psych rock.

Come da tradizione sono però i gruppi statunitensi quelli che regalano le migliori soddisfazioni, con una serie di realtà dall’alto tasso psichedelico come questo trio di San Diego che di nome fa Joy e che arriva al suo secondo bellissimo lavoro.
Guidato dal chitarrista e cantante Zachary Oakley, anche produttore dell’album, la band si completa con il fantastico batterista Thomas DiBenedetto e dal bassista Justin Hulson, creatori di questo manifesto al psych rock, colmo di sonorità fuzz e sporcato da iniezioni di blues acido.
Oakley fa prodigi con la sua sei corde ricordando non poco il mood hendrixiano e i brani sono caratterizzati da un’aura di jam tipica del genere.
Numerosi sono gli ospiti che intervengono a valorizzare le varie canzoni, tutti musicisti della scena come il drummer Mario Rubacala (Earthless, OFF!), Brendan Dellar, chitarrista dei Sacri Monti e soprattutto quella macchina di riff che risulta Parker Griggs, axeman e leader dei clamorosi Radio Moscow.
Da Misunderstood, passando per Evil Woman e la cover degli ZZ Top Certified Blues, l’album è un trip rock blues psichedelico dall’alto tasso elettrico, la sei corde spara riff saturi, mentre Help Me e Red White And Blues ci aprono la strada per la clamorosa Peyote Blues, song acustica che mischia Led Zeppelin e southern rock in pieno effetto collaterale da funghi allucinogeni, ed il risultato non ci fa smettere di danzare, penzolando in pieno trip settantiano.
Gypsy Mother’s Son conclude il lavoro, il più lungo dei brani raccolti nel disco non può che essere una jam di rock adrenalinico e psichedelico, che ci trascina a suon di watts al gran finale.
Se non ci siamo persi nel deserto americano finiremo in dipendenza da Joy, aspettando il prossimo fantastico viaggio tra le note vintage del trio di San Diego.

TRACKLIST
1. I’ve Been Down (Set Me Free)
2. Misunderstood
3. Evil Woman
4. Going Down Slow
5. Certified Blues (ZZ Top – Cover)
6. Help Me
7. Red, White and Blues
8. Peyote Blues
9. Ride Along!
10. Gypsy Mother’s Son

LINE-UP
Zachary Oakley – Guitar & Vox
Justin Hulson – Bass
Thomas DiBenedetto – Drums

http://www.facebook.com/JOYBANDOFFICIAL”>JOY – Facebook

Eerie – Eerie

Un buon esordio in grado di soddisfare soprattutto gli amanti dell’hard rock con più di un capello bianco sulla ormai rada chioma.

La Tee Pee records presenta il sound di questo gruppo come un ibrido tra il black metal e l’hard rock dai rimandi settantiani, vero in parte anche se a mio parere, oltre alle ritmiche a tratti sferzate da un vento black’n’roll, gli Eerie sono la classica band rock vintage.

E di vintage nell’omonimo debutto del gruppo non manca niente: dalla copertina, alla produzione fino all’attitudine di questi quattro rockers statunitensi che preciso, hanno creato un bel disco di hard rock, psichedelico, irrobustito dalle ritmiche di cui sopra, potenziato da atmosfere sabbatiane e molto stonerizzato.
Un mega trip che dall’opener Hideous Serpent porta la band indietro nel tempo, riprendendo quei canoni stilistici di molte doom rock band (c’è tanto di Sabbath, ma anche di Saint Vitus e Count Raven nel sound), con il cantato evocativo che riempie di atmosfere messianiche i brani (Immortal Rot) e un’aura stoner/psichedelica che sicuramente lascia in un angolo la componente black descritta dalla label.
Poco male perché l’album funziona, il chitarrista Tim Lehi è davvero bravo a costruire un muro di riff e continui solos, urlati in questo nuovo millennio, ma nati tra i solchi dei vinili settantiani, mentre la sezione ritmica tiene il passo con la prova esuberante e varia del drummer Moses Saarni.
Brani medio lunghi come Master Of Creation e la spettacolare Yeti, traccia doom metal hard rockin cui la band trova il perfetto equilibrio tra urgenza metallica, psichedelia e hard rock zeppeliniano, sono il sunto di cosa ci si può aspettare da questi bravi Eerie.
Non fatevi fuorviare, Eerie risulta un buon esordio per il gruppo, ma è in grado di soddisfare soprattutto gli amanti dell’hard rock con più di un capello bianco sulla ormai rada chioma, magari dopo aver trovato in soffitta il vecchio sacchettino di pelle dove una volta nascondevano i loro sogni.

TRACKLIST
1. Hideous Serpent
2. Yeti
3. Master Of Creation
4. Immortal Rot
5. Blood Drinkers

LINE-UP
Tim Lehi – Guitars
Moses Saarni – Drums
Dave Sweetapple – Bass
Shane Baker – Vocals

 

Morphinist – Terraforming

Questi trentacinque minuti intensi ed convincenti mettono il nome Morphinist tra quelli da cerchiare con circoletto rosso, nel novero di coloro che si muovono nello stesso ambito musicale.

Abituati ad esaminare dischi pubblicati da band o musicisti che fanno trascorrere anni tra un’uscita e l’altra, fa sempre un certo effetto trovarsi al cospetto di un tipo come il tedesco Argwohn, che con il suo progetto solista Morphinist, ha già prodotto 10 full length a partire dal 2013 (!), senza contare le restanti band in cui, da solo o in compagnia, è attualmente coinvolto

Difficile, quindi, immaginare il nostro alle prese quotidianamente con qualcosa che non sia uno strumento musicale, anche se dobbiamo ammettere che una tale prolificità di solito fa pensare a una possibile dispersione di energie a discapito della qualità complessiva.
Proprio a causa di questo pregiudizio e non conoscendo il pregresso dei Morphinist, (anche perché ci vorrebbe qualche settimana per ascoltare tutto il materiale partorito …) devo dire che sono rimasto davvero sorpreso da un lavoro come Terraforming, il nono della serie (infatti, il mese scorso, lo stakanovista di Amburgo ha già dato alle stampe il successivo Giants …) che non lascia nulla per strada in quanto ad intensità e focalizzazione a livello compositivo.
Quello che viene proprosto nell’album in questione è il cosiddetto post black, ovvero una versione molto atmosferica e dalle ampie derive ambient doom del genere nato in Norvegia nei primi ’90, con il quale di fatto i legami sono rinvenibili a livello vocale e per le accelerazioni ritmiche in blast beat ; sia a livello grafico che di sonorità appare evidente un’ispirazione di matrice cosmica, che nelle parti rallentate può avvicinarsi persino ai Monolithe (questo avviene soprattutto in Terraforming I), e tutto ciò rende oltremodo intrigante l’operato di Argwohn, il quale dimostra lungo tutto il disco di possedere anche un notevole gusto melodico.
Terraforming è, infatti, un lavoro che, scremato dei suoi momenti più ruvidi, si lascia ascoltare con un certo agio, contraddistinto da passaggi liquidi e di pregevole esecuzione (splendido per esempio l’incipit della terza parte); questi trentacinque minuti intensi ed convincenti mettono il nome Morphinist tra quelli da cerchiare con circoletto rosso, nel novero di coloro che si muovono nello stesso ambito musicale.
A questo punto sono curioso di ascoltare che cosa Argwohn abbia escogitato in occasione di Giants che, al contrario di Terraforming, non pare godere dello stesso dono della sintesi, visto che consta di ben quattro brani di circa venti minuti ciascuno.
Vi faremo sapere …

Tracklist:
1. Terraforming I
2. Terraforming II
3. Terraforming III

Line-up:
Argwohn – Everything

MORPHINIST – Facebook

Grond – Worship The Kraken

Ogni brano è un piccolo gioiellino di genere, niente novità o sperimentazioni, solo grande musica estrema conosciuta come death metal

Gli oceani nacondono nei profondi abissi avvolti da un’oscurità millenaria mostri abominevoli, creature che vivono in luoghi impossibili da raggiungere per l’uomo, ma che, quando decidono di tornare in superficie, portano con sé morte e distruzione ed il mare diventa una trappola mortale, un inferno d’acqua che si chiude sopra i resti del massacro perpetrato dal Kraken, la leggendaria piovra gigante.

La colonna sonora di questo abominio si intitola Worship The Kraken, secondo lavoro sulla lunga distanza per deathsters russi Grond, macchina di morte in musica proveniente dalla Russia, attiva dall’alba del nuovo millennio e con un primo lavoro alle spalle (Howling from the Deep del 2013) più un paio di lavori minori in formato ep.
Il quartetto composto da Kist (batteria, voce), Dust e Raze (chitarre) e Daemorph al basso, pesca dal cilindro un bellissimo lavoro di death metal old school, devastante in tutte le sue parti, una perla nera che dal fondo dell’oceano viene in aiuto ai marinai per rispedire il Kraken nel profondo degli abissi a colpi di metal estremo con le carte in regola per deliziare gli amanti del death metal classico.
Prodotto benissimo, Worship The Kraken deflagra in tutta la sua potenza, blast beat, rallentamenti, riff potentissimi ed un growl d’antologia imprimono al lavoro una marcia in più e tutto funziona a dovere, devastante e letale come la morsa dei tentacoli del mostro marino.
Siamo perfettamente in bilico tra la tradizione europea ed il death metal Bay Area, una blasfema alleanza che produce devastazione in musica, la varietà nel songwriting, i continui cambi di ritmo ed atmosfere, tra roboanti e distruttive cavalcate e la marzialità del doom/death di scuola Asphyx (Below the Thunders… apice dell’opera ) fanno del nuovo lavoro dei Grond un esempio di perfetto di metal estremo vecchia scuola, arrembante, oscuro, guerresco e devastante.
Ogni brano è un piccolo gioiellino di genere, niente novità o sperimentazioni solo grande musica estrema conosciuta come death metal e questo basta per fare di Worship The Kraken uno dei lavori migliori di quest’anno nel genere.
Asphyx, Entombed, Immolation, Dismember, Bolt Thrower, Obituary, la storia del death metal sta tutta in questi quaranta minuti di musica estrema creata dai Grond, perdersela è peccato mortale.

TRACKLIST
1. Invocation
2. Kronos the Devourer
3. Steel Coffins
4. White Waters of South
5. Blood Monk (Goatlord cover)
6. Worship the Kraken
7. Below the Thunders…
8. Devonian Tyrant
9. Japetus the Ice Gate
10. Typhoon is Coming

LINE-UP
Kist – drums / vocal
Dust- guitar
Raze – guitar
Daemorph – bass

GROND – Facebook

Raging Speedhorn – Lost Ritual

Lost Ritual è un disco che afferma rumorosamente quanto ancora hanno da dire e da menare questi ragazzi cresciuti.

Quando ormai le speranze ci avevano quasi abbandonato, ecco tornare i Raging Speedhorn con Lost Ritual.

I ragazzi sono cresciuti come noi, hanno qualche capello in meno e qualche kg in più, ma la furia è sempre la stessa, quella carica di metallica ignoranza che era così bella ai tempi. Riformatisi per un gran concerto al Damnation Festival, i ragazzi di Croby hanno lanciato la loro campagna su Pledge Music per pubblicare l’album. Chi aveva ancora nelle orecchie Thumper non poteva che essere contento. I Raging Speedhorn sono sempre stati molto particolari, nel senso che hanno coniugato un certo tipo di metal caotico con i Motorhead e con cose più hardcore. Con Lost Ritual il paesaggio sonoro muta poiché il gruppo si è avvicinato a sonorità maggiormente sludge che aveva già in nuce. La loro carica da ringhioso pub di provincia, e basta vedere qualche foto della loro natale Corby per capire, è sempre presente con una bella aggressività alla Motorhead, ed infatti così si intitola uno dei pezzi migliori del disco. Dalla band del compianto Lemmy hanno preso quel tipo di metal stradaiolo inglese, fondendolo con riffoni alla Black Sabbath molto più veloci, però. Il risultato è un disco aggressivo, rumoroso, rissaiolo con parti molto ben bilanciate di sludge, metal e hardcore. Il suono degli Speedhorn è molto personale e particolare, soprattutto per l’uso sapiente della doppia voce, cosa che ai loro esordi era risultata devastante e fa ancora il suo effetto. Lost Ritual è un disco che afferma rumorosamente quanto ancora hanno da dire e da menare questi ragazzi cresciuti. Forse la lontananza ha loro giovato, l’ultimo disco prima dello scioglimento Before The Sea Was Buil non era all’altezza dei precedenti. Molto più di un ritorno per monetizzare, i Raging Speedhorn sono qui per fare ancora molto male, e soprattutto divertirci, perché Lost Ritual è davvero un disco travolgente e che ci farà venire voglia di buttarci giù da un palco. Uno dei più bei ritorni. Metal e bestemmie.

TRACKLIST
01. Bring Out Your Dead
02. Halfway To Hell
03. Motorhead
04. Evil Or Mental
05. Ten Of Swords
06. Dogshit Blues
07. The Hangman
08. Shit Outta Luck
09. Comin’ Home
10. Unleash The Serpent

LINE-UP
John Loughlin – vocals
Frank Regan – vocals
Jim Palmer – guitar
Jamie Thompson – guitar
Dave Thompson – bass
Gordon Morison – drums

RAGING SPEEDHORN – Facebook

GxSxD – The Adversary

La guerra personale dei GxSxD è inarrestabile, pregna di morte e paura focalizzate in un sound oltremodo ispirato e dalle sfumature oscure che non risparmiano atmosfere raggelanti.

Una bomba questa mezzora circa di metal estremo proveniente dal paese del sol levante, precisamente da Okayama, e secondo full length dei samurai estremi GxSxD (God Send Death), dopo dieci anni esatti dal primo omonimo album e da una buona raccolta di split e demo.

Per questo nuovo lavoro in uscita per la Pulverised Records, la band nipponica ha fatto le cose in grande iniziando dall’artwork, curato dall’illustratore svedese Pär Olofsson (Exodus, Malevolent Creation, Immolation, Demonaz), mentre le registrazioni sono state lasciate alle mani esperte di Wojtek and Slawek Wieslawski ai Notorious Hertz Studio (Vader, Decapitated, Behemoth, Hate).
Con queste premesse ci si aspettava musica devastante e dal grande impatto ed infatti The Adversary è un buon esempio di death metal old school forgiato nelle caverne dove, a suo tempo, sono stati creati tra le fiamme i lavori di Vader e Behemoth.
Ma il gruppo ha dalla sua un tocco statunitense che riecheggia tra le spire di questo malefico rettile che si attorciglia e stritola, ingoia famelico le proprie vittime e rigurgita violenza, brutale e senza compromessi.
Strutturato infatti come un lavoro brutal i brani raggiungono al massimo i tre minuti di durata, un bene perché il risultato è un’opera senza orpelli, tredici brani sparati , veloci e disarmanti nella loro fredda e disumana foga.
Non male i solos di chitarre che urlano dolore dall’inizio alla fine, in un’atmosfera che si incendia al passaggio di questi monolitici e pesantissimi brani che non risparmiano ritmiche impressionati e trasudano sangue a volontà.
Il growl è ispirato e personale, la guerra personale dei GxSxD è inarrestabile, pregna di morte e paura focalizzate in un sound oltremodo ispirato e dalle sfumature oscure che non risparmiano atmosfere raggelanti.
Un ottimo lavoro, che va sparato fino alla fine e che tutto di un fiato va fatto proprio, come il pasto di un gigantesco rettile. Consigliato.

TRACKLIST
1. To Die For
2. Another
3. The Abbyss
4. Mercy Killing
5. Requiem
6. Choices
7. Chaos World
8. Squall
9. Nightmare
10. Await
11. Abhorrence
12. Day of Suffering
13. Fate

LINE-UP
Yu Sato – Bass
Yohsuke Oka – Bass, Guitars, Vocals
Ikunaga Mimura – Drums
Yusuke Oka – Guitars, Vocals

GxSxD – Facebook

 

Vemod – Venter På Stormene

Venter På Stormene è un album assolutamente da riscoprire in attesa che i Vemod si riaffaccino sul mercato, questa volta però con alle spalle un etichetta in grado valorizzarne al massimo il notevole potenziale.

Sempre alla costante ricerca di musica capace di colpire ed emozionare, la Prophecy attira nel proprio variegato e qualitativo roster i norvegesi Vemod e ne ripropone in un nuovo formato il full length d’esordio Venter På Stormene.

Il duo formato da Jan Even Åsli e Eskil Blix (divenuto nel frattempo un terzetto con l’ingresso del bassista Espen Kalstad) ha mosso i primi passi nel 2004 (quando uscì il demo Kringom fjell og skog) ma è rimasto silente per diverso tempo finché, nel 2011, uno split album con i tedeschi Klage ed un nuovo demo (Vinterilden) hanno preparato il terreno all’uscita di Venter På Stormene l’anno successivo.
Un album, questo, che all’epoca passò inosservato ai più, anche se ben accolto da chi ebbe occasione di parlarne, schiacciato tra la miriade di uscite ed l’incasellamento della band nel calderone black metal, scelta per certi versi obbligata ma per altri piuttosto fuorviante.
Se di black si tratta senza ombra di dubbio, infatti, quello dei Vemod è contraddistinto da caratteri molto eterei ed atmosferici e con una non trascurabile componente ambient e, per di più, racchiude ed amalgama efficacemente diverse fonti di ispirazione, che comprendono ovviamente la matrice di base norvegese, con rimandi alla scuola tedesca ed anche qualche accenno cascadiano proveniente da oltreoceano.
La title track e la successiva Ikledd Evighetens Kappe sono due ottimi brani, contigui nel loro sviluppo, atmosferici ed evocativi ma senza contraddistinti da una gelida asprezza di fondo, mentre Altets Temple è una lunga traccia ambient e Å Stige Blant Stjerner, posta in chiusura, si rivela una magnifica progressione strumentale.
Venter På Stormene (in attesa della tempesta) è un album assolutamente da riscoprire in attesa che i Vemod si riaffaccino sul mercato, questa volta però con alle spalle un etichetta in grado valorizzarne al massimo il notevole potenziale.

Tracklist:
1.Venter på stormene
2.Ikledd evighetens kappe
3.Altets tempel
4.Å stige blant stjerner

Line-up:
E. Blix – Drums, Vocals
J.E. Åsli – Guitars, Bass, Compositions, Lyrics

VEMOD – Facebook

Spit The Blood – Spit The Blood

La band crea un muro di thrash rabbioso e annichilente, ma se la velocità e l’attitudine vecchia scuola fanno la differenza, la parte moderna non riesce a convincere del tutto.

Amalgamare il sound tradizionale con il groove sembra diventata un’abitudine per le nuove leve del thrash metal che si affacciano sul mercato underground metallico.

Un sound che diventa un pugno nello stomaco veloce e potentissimo, mazzate metalliche che alternano la furia del thrash alla marzialità del groove metal, davvero impressionate l’impatto che ne scaturisce quando le due anime si uniscono per sparare bordate di musica devastante.
Non tutte però ci riescono perfettamente così che nei lavori creati è forte la differenza tra le canzoni di chiara ispirazione tradizionale e quelle più moderne.
E quello che succede per esempio in questo debutto omonimo degli Spit The Blood, gruppo proveniente da Atene, un terzetto di thrashers dal sound potentissimo, assolutamente devastante, ma che riesce ad essere incisivo solo nei brani in cui le sonorità old school prendono il sopravvento sulle monolitiche ritmiche colme di groove.
Spit The Blood così funziona a metà, la band crea un muro di thrash rabbioso e annichilente, ma se la velocità e l’attitudine vecchia scuola fanno la differenza, la parte moderna non riesce a convincere del tutto.
Sono fatti per suonare musica veloce i tre musicisti greci, la sezione ritmica quando parte sgommando è da infarto e la chitarra spara riff cattivi e taglienti, ed infatti brani come Mindless, Society e la title track funzionano benissimo, pregne di quel thrash metal vecchia scuola dai rimandi Bay Area style.
Funzionano meno le tracce in cui il gruppo rallenta e la velocità si tramuta in potenza cadenzata, perfetta per i gusti dei fans odierni ma poco incisiva tra le mani del trio.
Spit The Blood nella sua interezza è un disco sufficientemente adatto per spaccare teste in furiosi headbanging in sede live, e se siete fans accaniti del genere dategli un ascolto, altrimenti passate oltre.

TRACKLIST
1. Escape
2. Reason to Kill
3. Mindless
4. Society
5. Track 5
6. The Face
7. Degradation
8. Spit the Blood
9. Predators

LINE-UP
Spyros – Bass
John – Drums
Nick – Guitars, Vocals

SIT THE BLOOD – Facebook

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