Grimirg – MMXV-I

Ben eseguito e rivestito di un notevole gusto melodico, il lavoro va a lambire talvolta territori ambient ma mantenendo, sempre e comunque, una fisionomia volta a creare una malinconia soffusa

Grimirg è il progetto solista del quasi omonimo musicista finlandese Grim666, personaggio molto attivo nel’ambito della scena estrema del suo paese, e MMXV-I è l’esordio su lunga distanza con il quale veniamo invitati a percorrere la strada tormentata del funeral doom .

La sfumatura del genere prescelta è quella più atmosferica, predominata da tastiere avvolgenti sulle quali si abbattono con lenta cadenza i riff ed i colpi della batteria.
Ben eseguito e rivestito di un notevole gusto melodico, il lavoro va a lambire talvolta territori ambient ma mantenendo, sempre e comunque, una fisionomia volta a creare una malinconia soffusa, che le eleganti clean vocals femminili dell’ospite M.Karvinen contribuiscono ad esaltare.
Possiamo dire che i quattro lunghi brani si alternano nel loro incedere, per stile ed umore: se in Solitude e Into My Light si punta di più sul lato atmosferico, affidando soprattutto alle tastiere il compito di condurre le danze, in Infinity Revealed e Cold Abyss viene esibito un lato leggermente più drammatico, grazie ad un sobrio lavoro chitarristico che riporta il tutto su un piano vicino al funeral melodico in stile Ea.
MMXV-I è, quindi, un primo passo più che positivo, con i suoi oltre quaranta minuti all’insegna del funeral più consolatorio e meno ostico; peraltro, Grim666 dimostra anche una certa prolificità, visto che sei mesi dopo ha visto la luce il secondo full length, Pioneer Anomaly, del quale vi daremo conto non appena ne avremo la possibilità, allo scopo di verificare la tenuta su livelli medio-alti ed eventuali sviluppi dal punto di vista compositivo da parte del bravo musicista finnico.

Tracklist:
1. Solitvde
2. Infinity Revealed
3. Into My Light
4. Cold Abyss

Line-up:
Grim666 – All instruments, Vocals

GRIMIRG – Facebook

Lamori – To Die Once Again

To Die Once Again è un potenziale top album, specialmente per chi ama il lato più romantico e melodico del gothic/dark

La Finlandia ha una lunga tradizione per le sonorità ispirate al gothic metal di estrazione dark rock, genere che, negli anni ottanta, ha visto il suo massimo splendore specialmente con il successo delle band britanniche capitanate da Sister Of Mercy, The Mission e Fields Of The Nephilim, ed in parte dal filone tedesco degli anni novanta con in testa i Lacrimosa.

Molti gruppi partiti come death metal band (Sentenced) o ispirati ai suoni rock’n’roll ( The 69 Eyes), si sono, nel corso degli anni, convertiti al lato più oscuro e romantico del rock, rifilando album bellissimi e rimpolpando la scena, così avara di realtà sopra le righe.
Il genere in questi anni è stato messo in ombra dal successo del gothic metal, figlio tanto del dark, quanto delle sonorità più estreme, diventato l’ascolto principale delle anime della notte nei più oscuri locali europei.
Ma, fortunatamente, a volte capita di imbattersi in creature della notte che, a discapito delle mode, guardano con i loro occhi felini alle storiche band citate, lasciando giustamente che gli ultimi vent’anni di musica oscura non siano passati invano.
To Die Once Again, licenziato dalla nostrana Wormholedeath secondo full lenght dei finlandesi Lamori, è uno di questi esempi.
Attiva dal 2009, con un primo ep dal titolo The Reservoirs of Darkness, seguito dall’album Deadly Desires, la band sforna un secondo capitolo che incorpora, da tradizione del gruppo, elementi presi dal sound ottantiano, amalgamandoli con il mood hard rock/metal, caro alle band che più hanno entusiasmato negli anni a cavallo dei due millenni: nelle trame e nelle atmosfere notturne di brani come l’opener Until Death (Do Us Part), Lost In Love, la dolce e tenebrosa titletrack e Palace Of Pleasure, troverete richiami al sound dei vari Him, Poisonblack e compagnia di vampiri.
Nulla a che fare, quindi, con le trame orchestrali dei gruppi capitanati dalle ugole celestiali delle varie muse gotiche: molto più diretti e rock oriented, i Lamori vanno subito al sodo (al collo), tramutando in schiavi di sangue i poveri malcapitati fans.
Melodie dall’appeal molto alto, un sound da far sballare orde di pipistrelli e tanto feeling notturno, non passeranno inosservati, facendo di To Die Once Again un potenziale album top, specialmente per chi ama il lato più romantico e melodico del genere, ed occhio alla giugulare.

TRACKLIST
1. T.D.O.A Prelude
2. Until Death (Do Us Part)
3. Lost in Love
4. Chapter IV
5. To Die Once Again
6. Follow the Ghost
7. Drown Me
8. The Beauty of a Wilted Rose
9. Intermezzo
10. Wicked Little Things
11. Palace of Pleasure
12. T.D.O.A Postlude

LINE-UP
Matias – Vocals
Pellas – Guitar
Mikael – Bass
Jens – Keys
Sanchez – Drums

LAMORI – Facebook

Prisoner Of War- Rot

12″ e mini cd d’esordio per questo truculento gruppo neozelandese che tratta principalmente tematiche di guerra.

12″ e mini cd d’esordio per questo truculento gruppo neozelandese che tratta principalmente tematiche di guerra, confermando una decisa ascesa della scena metal neozelandese, che si conferma veramente true e legata alla vecchia scuola.

I Prisoner Of War sono un bel trio di macellai, si sono uniti nel 2013 per fare un thrash sporco e cattivo, con intarsi anni ottanta per creare un bel magma sonoro davvero potente. Rot è stato registrato dal vivo in un pomeriggio solo, andando poi a overdubbare chitarre e voci a parte. Il risultato è notevolmente una mazzata, ancor di più se si leggono i testi che parlano in maniera diretta e vera della brutta realtà chiamata guerra. Un altro ottimo gruppo neozelandese, di cui aspettiamo un disco di più corposa durata.

TRACKLIST
01. Slow And Painful Death By Gas
02. Evil Sky
03. Purgatorial Shadow
04. Twisted Mass Of Burnt Decay
05. Rot

LINE-UP
Charred Remains – Vocals, Bass.
Typhoid Filth – Guitars.
MG – 42 – Drums.

http://www.facebook.com/IronBoneheadProductions

Uhttps://www.youtube.com/watch?v=0xpbi07uMtw

Lizzies – Good Luck

Non cambieranno il mondo della nostra musica preferita, ma in quanto ad impatto ed attitudine le Lizzies superano di molto i giovani fenomeni pubblicizzati a più riprese dagli addetti ai lavori.

Dalla Spagna, tramite The Sign Records arrivano queste quattro ragazze al debutto sulla lunga distanza con Good Luck, un buon lavoro di metal old school, che non disdegna un approccio hard & roll.

La band, attiva dal 2010 ha già licenziato un demo ed un ep, End Of Time, uscito nel 2013, ed ora si lancia sul mercato con le minime credenziali per non passare inosservata nell’universo underground.
Il gruppo di Madrid ha nell’impatto ruvido e senza fronzoli la sua più accentuata virtù, il sound proposto è una buona versione delle influenze, marcate dei gruppi storici del rock/metal mondiale, a partire dai Motorhead, per passare da casa Iron Maiden e Thin Lizzy.
Si potrebbe tranquillamente parlare di rock’n’roll, non fosse che molti dei solos guardano alla New Wave Of British Heavy Metal e l’atmosfera rimane tesa e poco riscontrabile con il rock da party.
Le Lizzies non sono qui per rallegrare la serata, il loro sound vive di una sana attitudine metallica, le songs forse mancano di ritornelli facilmente orecchiabili, ma l’intensità è buona ed una manciata di brani di discreta fattura.
L’opener Phoenix richiama la storica For Those About To Rock degl AC/DC, mentre Viper guarda al sound britannico ed alla vergine più famosa del metal, a tratti le ritmiche si fanno rockeggianti, segno che le ragazze hanno preso lezione dal Prof.Lemmy, con Good Luck che continua il suo viaggio tra le influenze del gruppo.
Night In Tokio e la conclusiva 8 Ball regalano ancora del buon metal old school, arrivando in fondo senza neanche una ballad, segno dell’attitudine da rockers dure e pure delle Lizzies.
Detto di una buona prova generale delle musiciste, Good Luck rimane un disco piacevole, suonato con l’anima e senza grosse cadute di tono, per cui lo si promuove e consiglia agli amanti delle sonorità classiche e delle band di riferimento.
Non cambieranno il mondo della nostra musica preferita, ma in quanto ad impatto ed attitudine le Lizzies superano di molto i giovani fenomeni pubblicizzati a più riprese dagli addetti ai lavori.

TRACKLIST
1. Phoenix
2. 666 Miles
3. Viper
4. Mirror Maze
5. Night in Tokyo
6. Speed on the Road
7. One Night Woman
8. Russian Roulette
9. 8 Ball

LINE-UP
Motorcycle Marina – Bass
Patricia Strutter – Guitars
Elena Zodiac – Vocals
Saray Sáez – Drums

THE LIZZIES – Facebook

Lizzies – Good Luck

Bastian – Rock Of Daedalus

Un album compatto, valorizzato dalla prova di un Vescera sontuoso, di un Macaluso che sfodera tutta la sua esperienza alle pelli, ben sostenuto dal basso di Giardina, e dalla sei corde dell’axeman nostrano, un chitarrista sanguigno che lascia ad altri virtuosismi fini a se stessi e mette il suo talento a disposizione dei brani

Quello che poteva sembrare un progetto estemporaneo, ha trovato la sua definitiva consacrazione con l’uscita di questo secondo album e i Bastian di Sebastiano Conti possono essere considerati una band a tutti gli effetti.

Due anni fa il chitarrista siciliano aveva stupito tutti con Among My Giants, un bellissimo album di hard’n’heavy che vedeva il buon Conti circondato da un nugolo di musicisti storici della scena come Vinnie Appice, Mark Boals, Michael Vescera e John Macaluso.
Lo scorso anno Among My Giants tornava a far parlare di sé con la riedizione curata dall’Underground Symphony, label per cui esce questo nuovo Rock Of Daedalus con il gruppo ridotto a quattro elementi : Sebastiano Conti alla sei corde, Michael Vescera al microfono, John Macaluso alle pelli e Corrado Giardina al basso.
Rock Of Daedalus non sposta di una virgola il concept musicale su cui si destreggia il chitarrista siciliano: il sound influenzato dalla scena ottantiana e dai mostri sacri del genere, perfettamente bilanciato tra hard rock ed heavy metal, continua a mietere vittime con questi dieci brani ruvidi e diretti, aggressivi e potenti ma tremendamente efficaci.
Una album compatto, valorizzato dalla prova di un Vescera sontuoso, di un Macaluso che sfodera tutta la sua esperienza alle pelli, ben sostenuto dal basso di Giardina, e dalla sei corde dell’axeman nostrano, un chitarrista sanguigno che lascia ad altri virtuosismi fini a se stessi e mette il suo talento a disposizione dei brani, così che possano esplodere in tutta la loro carica hard rock.
Massiccio è forse il termine più adatto per descrivere il sound di questo lavoro, e la band, fin dall’opener Strange Toughts, sfodera ritmiche dal groove viscerale, molto più zeppeliniane rispetto al suo predecessore.
Il mid tempo roccioso di The Pide Piper torna ad esplorare il sound dei Black Sabbath era Tony Martin, mentre Vlad e Terminators confermano la voglia di far male di questa multinazionale dell’hard & heavy, supportata da un Vescera in stato di grazia, epico ed emozionale.
Conti ricama di solos sanguigni e riff tutta grinta e potenza le varie songs, e siamo già alla metallica Steel Heart, apice di questo bellissimo lavoro, un brano heavy metal disegnato coi colori dell’arcobaleno più famoso della nostra musica preferita.
Smokin’ Joe e la ballad Wind Song, chiudono questo ritorno sopra le righe dei Bastian, confermando quello di Sebastiano Conti un gruppo che non può mancare tra gli ascolti degli amanti dell’hard’n’heavy di estrazione classica.

TRACKLIST
1.Strange Thoughts
2.The Pide Piper
3.Vlad
4.Terminators
5.Man Of Light
6.Man In Black
7.18 In Woodstock
8.Steel Heart
9.Smokin’ Joe
10.Wind Song

LINE-UP
Sebastiano Conti- Guitars
Michael Vescera- Vocals
John Macaluso- Drums
Corrado Giardina- Bass

BASTIAN – Facebook

Excruciation – (C)rust

Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature

Torna al full lenght la storica band svizzera Excruciation, dopo una serie di singoli ed ep che ha caratterizzato la discografia degli ultimi due anni.

Partito una trentina di anni fa come thrash metal band, il gruppo di Zurigo ha nel corso del tempo spostato le sue coordinate stilistiche verso un doom/death grezzo, alimentandolo con ottime atmosfere dark, come si evinceva dall’ep Twenty Four Hours, recensito su queste pagine.
Questo lavoro riprende in parte l’irruenza del sound proposto sui precedenti lavori come (G)host, senza perdere le atmosfere oscure ed ottantiane espresse nelle ultime releases.
(C)rust trova nella nuova via intrapresa dal gruppo, una sorta di linfa che contribuisce a rendere il sound più fresco e vario, le atmosfere si alternano, così come il canto di Eugenio Meccariello che passa da uno stile estremo al profondo tono gothic/dark.
I ritmi si mantengono cadenzati, le chitarre abrasive, l’atmosfera sabbatica delle songs viene destabilizzata da sfumature ora dark, ora più orientate verso un metal che, dal vecchio sound suonato dal gruppo, prende l’aggressività e l’impatto.
A mio parere i due brani che si discostano di più dalla proposta monolitica e senza compromessi del gruppo risultano i momenti migliori di (C)rust: la dark oriented Olympus Mons, perfetta via di mezzo tra il gothic/dark classico e quello più intimista e dolente dei Joy Division (di cui la band ha offerto una valida cover nell’ep Twenty For Hours) e la gothic metal Days Of Chaos, che richiama i primi Paradise Lost, specialmente nella performance vocale vicina a quella del Nick Holmes di Icon.
Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature, (C)rust conferma il gruppo svizzero come un valido esponente dello stile proposto e da riscoprire se siete amanti delle sonorità plumbee e cadenzate che fanno capo alla musica del destino.

TRACKLIST
1. Judas’ Kiss
2. Disgrace
3. Olympus Mons
4. Lutheran Psalms
5. The Scent of the Dead
6. Borderline
7. Days of Chaos
8. Glorious Times

LINE-UP
D.D. Lowinger – Bass
Andy Renggli – Drums
Marcel Bosshart – Guitars
Hannes Reitze – Guitars
Eugenio Meccariello – Vocals

EXCRUCIATION – Facebook

www.youtube.com/watch?v=var78obYE3s

Voltumna – Disciplina Etrusca

Il mondo etrusco si presta benissimo ad essere rivisitato attraverso un linguaggio metal, e i Voltumna lo fanno con sensibilità e passione.

Secondo disco per questo gruppo nato in Toscana, alfiere della cultura etrusca trasposta nel linguaggio metal.

Dopo un primo demo di quattro pezzi, Chimera, uscito nel 2011, hanno pubblicato l’esordio sulla lunga distanza Damnatio Sacrorum nel 2012, disco che li ha portati a suonare in lungo ed in largo per l’Italia. Arrivati al secondo album, i Voltumna si dimostrano un gruppo molto sicuro dei propri mezzi, proponendo un death black metal classico molto ben bilanciato e ben suonato. Non ci sono pause per tutta la durata del disco e l’ascoltatore viene incalzato ed inseguito con veemenza. I Voltumna sono discendenti degli etruschi, forse il più meraviglioso e misterioso popolo che abbia visto il suolo italico. Disciplina Etrusca era l’insieme delle arti, dei rituali e delle dottrine, in pratica la summa di quella cultura. Il mondo etrusco si presta benissimo ad essere rivisitato attraverso un linguaggio metal, e i Voltumna lo fanno con sensibilità e passione, producendo un gran disco che invoglia a conoscere più da vicino quell’antica civiltà. Oltre a ciò Disciplina Etrusca conferma i Voltumna come una delle migliori realtà italiane in ambito metal, infatti stanno girando in Europa e persino in Sudafrica con i Behemoth.

TRACKLIST
1. Roma Delenda Est
2. Prophecy Of One Thousand Years
3. Disciplina Etrusca
4. The Alchemist
5. Bellerofonte
6. Bringer Of Light
7. Tages, Born From The Earth
8. Carnal Genesis
9. Measure The Divine
10. Teofagia
11. Black Metal (Venom Cover)
12. Tirreno

LINE-UP
Zilath Meklhum – Vocals
Haruspex – Guitar
Augur – Drums
Fulgurator – Bass

VOLTUMNA – Facebook

Inishmore – The Lemming Project

Tanta melodia, dunque, per un album piacevolmente metallico in il songwriting si dimostra all’altezza ed i musicisti, senza strafare, ottengono un bel voto per tecnica e feeling.

La Svizzera ha una tradizione metallica di tutto rispetto, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock e metal classici, le band che nel tempo hanno trovato i favori dei fans, anche fuori confine, non sono poche e tra le cime dei monti alpini, così come nelle fiabesche valli, il genere ha trovato un sicuro rifugio, anche nei periodi che hanno visto i suoni classici perdere popolarità tra gli amanti della musica dura.

Gli Inishmore sono una band proveniente da Baden, il loro viaggio nella musica metallica è iniziato nel lontano 1997 e all’alba del nuovo millennio il gruppo licenziò il primo full length, The Final Dance, cui seguirono altri due lavori, Theatre of My Life del 2001 e Three Colours Black del 2004.
Un lungo silenzio discografico ha caratterizzato gli ultimi undici anni, anche se il gruppo si è riformato in effetti nel 2011 arrivando finalmente a dare un seguito all’ultimo lavoro con The Lemming Project, licenziato dalla Label Dark Wings.
Il sound della band si sviluppa con un power metal di scuola teutonica, impreziosito da ottime ritmiche e melodie hard rock;,il cantato femminile non punta alle solite linee sinfoniche, care ai gruppi odierni, ma offre una buona prestazione dal timbro melodico e personale della bravissima Michela Parata.
Tanta melodia, dunque, per un album piacevolmente metallico in cui il songwriting si dimostra all’altezza ed i musicisti, senza strafare, ottengono un bel voto per tecnica e feeling.
Tastiere presenti, ma non invadenti, asce a cui non manca la giusta grinta, chorus dal buon appeal e ritmiche che si alternano tra fughe power e ritmi hard rock, fanno di The Lemming Project un ottimo album, vario e ben fatto, dove ogni brano non scende sotto un livello buono e forma con gli altri un lavoro tutto da ascoltare.
Tra i solchi dei vari brani presentati le sonorità power la fanno da padrone, ma, come detto, non mancano sfumature da arena rock, che mantengono comunque un piglio ruvido, metallico, ottimo per scaldare i cuori dei true defenders, così come dei più pacati rockers vecchia scuola.
Merciful, la folk oriented Finally a Love Song, la cadenzata e old school Manifest, la bellissima Red Lake, power metal song dal piglio drammatico, e i dodici minuti della suite che dà il titolo all’album, un piccolo capolavoro di metal orchestrale e progressivo, sono all’origine del buon risultato finale; un disco che raccoglie una moltitudine di atmosfere hard/power e le ingloba in un unico lavoro che, a tratti, risulta entusiasmante.
Pink Cream 69, Masterplan e Rough Silk, sono i primi nomi che affiorano tra le trame di The Lemming Project, dategli un ascolto, ne vale la pena.

TRACKLIST
1. Cup of Lies
2. Merciful
3. Better off Dead
4. Finally a Love Song
5. Part of the Game
6. Manifest
7. Eternal Wanderer
8. Red Lake
9. Where Lonely Shadows Walk
10. The Lemming Project
11. Where Lonely Shadows Walk (Acoustic)

LINE-UP
Michela Parata-Vocals
Fabian Niggemeier-Guitars
Jarek Adamowski-Guitars
Alex Ortega-Drums
Pascal Gysi-Keyboards

INISHMORE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Tv3RTkKZY5k

Pino Scotto – Live For A Dream

Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.

Mi è difficile parlare di Pino Scotto, un artista che amo profondamente, non solo per la sua carriera musicale che, senza ombra di dubbio, è una della più importanti e gloriose in ambito hard rock ed heavy metal del nostro paese, ma soprattutto come persona, un uomo che incarna il mio pensiero al 100%, fuori da inutili ed obsoleti discorsi di una politica che purtroppo è diventato solo un circo, puro e fuori dagli schemi in modo talmente naturale, che quello che dice, molte volte forzando la mano, anche per una persona non più di primo pelo come il sottoscritto, diventa l’unica ineluttabile verità.

Ed è così che diventa un onore scrivere qualche riga per la nostra ‘zine sull’ultimo lavoro del rocker italiano per antonomasia, una raccolta di brani che ne ripercorre la carriera, dai Pulsar, passando per i gloriosi Vanadium, i Fire Trails e l’esperienza solista.
Un rocker che ha attraversato quarant’anni di musica rock in Italia, un paese dove ancora oggi la musica del diavolo è vista come una fastidiosa sottocultura, anche in questi ultimi anni in cui i talenti continuano a moltiplicarsi.
Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.
Il suo tono graffiante da rocker navigato spadroneggia su questo nuovo Live For A Dream, gli ospiti valorizzano brani stupendi, profondi, molti composti da testi di denuncia contro un mondo ed un sistema a cui il musicista partenoopeo non ha mai concesso nulla, tirando dritto per la sua strada che continua a non avere un punto d’arrivo sul proprio navigatore.
Una truppa di talenti della scena tra cui Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie, Dario Cappanera, Stef Burns, Steve Angarthal, Rob Iaculli, Alex Del Vecchio e Fabio Treves, tra gli altri, fornisce il proprio contributo nel far risplendere questa raccolta, tra classici, ultime produzioni ed inediti (Don’t Touch The Kids e The Eagle Scream, brano scritto in memoria del suo vecchio amico Lemmy, e di cui uscirà un video).
Non mancano, chiaramente, oltre alle più datate produzioni i brani simbolo della sua carriera solista, ora più che mai sulla cresta dell’onda anche per il programma Database che conduce da ormai tredici anni su Rock Tv.
Morta La Città, Quore Di Rock’N’Roll, Signora Del Voodoo e Angus Day, e poi le stupende Dio Del Blues e Third Moon (made in Fire Trails) e via via tutte le altre, fanno di Live For A Dream una completa e suggestiva panoramica sul mondo di Pino Scotto, supportata da un DVD contenente immagini live delle registrazioni in studio, interviste e videoclips, in attesa di ritrovare in giro per i palchi nostrani per l’ennesimo tour questo inesauribile condottiero del rock’n’roll.

PS. Nel 2011, insieme a Caterina Vetro, Pino Scotto fonda Rainbow Projects, un progetto di educazione, sanità e sviluppo nato per contribuire a migliorare le condizioni di vita di bambini estremamente svantaggiati come gli orfani e le vittime di abusi in Belize, quelli della discarica di Coban in Guatemala o a forte rischio di prostituzione minorile e mendicanza in Cambogia: questo, tanto per chiarire, a chi se ne fosse fatta un’idea precostituita o travisata, di che pasta è fatto questo monumento vivente alla vera cultura rock’n’roll.
Un artista che musicisti, fans e addetti ai lavori dovrebbero solo ringraziare ogni volta che fa mattina e ci si alza dal letto …

TRACKLIST
1.Don’t Touch the Kids
2.The Eagle Scream
3.A Man on the Road
4.We Want Live Rock ‘n’ Roll
5.Easy Way to Love
6.Streets of Danger
7.Too Young to Die
8.Dio del Blues
9.Gamines
10.Leonka
11.Spaces and Sleeping Stones
12.Third Moon
13.Come noi
14.Quore di Rock ‘n’ Roll
15.Morta è la città
16.Che figlio di Maria
17.Signora del Voodoo
18.Angus Day

DVD
1.A Man on the Road
2.We Want Live Rock ‘n’ Roll
3.Easy Way to Love
4.Streets of Danger
5.Too Young to Die
6.Dio del Blues
7.Gamines
8.Leonka
9.Spaces and Sleeping Stones
10.Third Moon
11.Come noi
12.Quore di Rock ‘n’ Roll
13.Morta è la città
14.Che figlio di Maria
15.Signora del Voodoo
16.Angus Day

LINE-UP
Pino Scotto-Vocals
Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie – Vocals
Stef Burns, Steve Angarthal, Igor Gianola, Dario Cappanera, Filippo Dallinferno, Ale “Fuzz” Regis – Guitars
Rob Iaculli, Alex Mansi, Marco di Salvia – Drums
Dario Bucca, Ciccio Li Causi – Bass
Alex Del Vecchio. Maurizio Belluzzo – Keyboards
Valentina Cariulo – Violin
Fabio Treves – Haromonica

PINO SCOTTO – Facebook

Sunnata – Zorya

Il sound proposto è uno dei più estremi in circolazione ma i Sunnata lo maneggiano con buona disinvoltura

La scena polacca è sicuramente più famosa per il death ed il black metal, generi che in quella terra hanno trovato terreno fertile in questi ultimi anni, ma scavando nell’underground ci si può imbattere in realtà che fanno proprie sonorità che guardano all’hard rock o, come in questo caso, allo stoner estremo.

Doom e sludge riempiono di potenza fuzz il sound di questa minimale band di Varsavia, nata solo tre anni fa, ma con già un precedente album all’attivo, Climbing the Colossus del 2014.
Conosciuto fino al 2013 come Satellite Beaver, il quartetto torna con un monolitico lavoro di cinque brani, dalla durata media che si assesta sui dieci minuti, quindi lunghe jam di sporco sludge potentissimo, riff massicci e qualche accenno più melodico che riporta la band sulle strade più sicure dello stoner.
Si parte con l’opener Beasts Of Prey e si capisce subito che l’ascolto sarà di quelli tosti, i quattro cerimonieri polacchi non vanno troppo per il sottile, il magma elettrico sprigionato dagli strumenti investe l’ascoltatore e la band, compatta, crea questo vortice sonoro, che attanaglia lo stomaco, come una morsa, dolorosa e senza tregua.
Per essere un’autoproduzione Zorya esce alla grande, il volume di potenza sprigionato è altissimo anche se, nelle lunghe jam, a tratti l’atmosfera si attenua un poco (Long Gone), per riesplodere in un’attimo in tutta la sua distruttiva e debordante potenza minimale.
E New Horizon deflagra in un’esplosione di sonorità fuzz, una lunga cerimonia di dolore, lenta e inesorabile, con gli strumenti al limite e la voce che arriva come da un altro mondo, melodicamente drammatica.
Un martello sonoro e brano più riuscito di questo album, la song è quella più vicino al doom, anche se qualche elemento noise tiene il sound ancorato alle più moderne sonorità sludge.
Per gli amanti del genere Zorya è un ascolto sicuramente consigliato, il sound proposto è uno dei più estremi in circolazione, ma la band lo maneggia sempre con buona disinvoltura.

TRACKLIST
1. Beasts of Prey
2. Zorya
3. Long Gone
4. New Horizon
5. Again and Against

LINE-UP
DOB – Bass
ROB – Drums
GAD – Guitars
SZY – Guitars, Vocals

SUNNATA – Facebook

Diesear – Ashes of the Dawn

Un sound rabbioso, veloce e tempestoso, colmo di scale e solos melodic, accompagnato da un tappeto ritmico che varia tra sgommate micidiali di thrash metal e potenti muri di groove moderno

Questo giovane gruppo proveniente da Taiwan nasce nel 2007, è una delle migliori realtà della scena metallica estrema del loro paese e lo confermano con Ashes Of The Dawn, secondo full length che segue le gesta di The Inner Sear, debutto datato 2009.

In Iyezine siamo abituati a confrontarci con il metal proveniente dai paesi più remoti e fuori dai soliti circuiti, perciò non sorprende più di tanto incontrare una band nata in un luogo inusuale per queste sonorità, proponendo un ottimo compromesso tra il melodic death metal scandinavo ed il metalcore statunitense, reso ancora più brutale e potente da ritmiche thrash metal e valorizzato da un lavoro alle sei corde di altissimo livello.
Un sound rabbioso, veloce e tempestoso, colmo di scale e solos melodici, accompagnato da un tappeto ritmico che varia tra sgommate micidiali di thrash metal e potenti muri di groove moderno, una voce cartavetrata, perfetta per il genere, riescono ad elevare questo album a qualcosa di più che una canonica riesumazione del death melodico portato al successo dalle solite band a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio e diciamolo francamente, non è poco.
Taipei, ne Stoccolma o Goteborg, ma Taipei, la nuova frontiera del genere si sposta verso oriente e i Diesear non sono neanche l’unico gruppo di un certo valore che giunge da quei paesi.
India in primis e poi tutte le altre terre che formano il continente asiatico, hanno portato in dote ai vari generi metallici un’orda di gruppi intenti a sviluppare le varie influenze arrivate dall’Europa e dagli States, mettendoci sempre qualcosa di loro, così da non risultare mai banali copie dei più famosi gruppi occidentali.
I Diesear viaggiano a velocità pazzesche sulla transiberiana del metal estremo, Ashes Of The Dawn è una mazzata furibonda, ma attenzione; la tecnica e la personalità di questi giovani musicisti è di alto livello, i brani mantengono un tiro micidiale, la tensione non cala un attimo e come detto le chitarre travolgono l’ascoltatore in un vortice di violenza e melodia da infarto.
Shadows of Grey, la splendida Silent Division e poi via via tutte le altre songs, formano un album che frantuma ogni vostra convinzione su dove si suona meglio il genere in questo inizio millennio, con il quartetto che si candida come una delle più belle sorprese dell’anno, battendo sul campo molti nomi noti in rotazione su Rock Tv e compagnia satellitare.
Primi Soilwork, The Crown, At The Gates e poi Devil Driver e Machine Head, questi sono gli ingredienti con cui il gruppo confeziona un piccantissimo piatto a base di metal estremo, prendete e mangiatene tutti.

TRACKLIST
1. Faith In Ares
2. Shadows Of Grey
3. Fearless
4. Silent Division
5. Corrode My Soul
6. Dying Dust
7. Breath Remains
8. Until The Light
9. Blazing Wings
10. Falling Ashes
11.Dig Your Lies

LINE-UP
Amo – drums
Sui – guitars
Chris-J – guitars
Kurenai – vocals

DIESEAR – Facebook

Pergale – Antropologija

Vilnius è una potenziale Berlino, per gruppi che si creano e brevettano in una potenziale officina.

Aria di primavera, quella fatta di piogge in previsione di cambio clima. Aria fresca e nuove sonorità che cambiano le pastorizie dell’anno passato.

Questo è ciò che si percepisce, almeno dopo pochi minuti di A boy’s night out, traccia apripista del secondo album registrato in studio dal quintetto lituano. Mi sono stupito da come, in poco tempo, tante coincidenze sono affiorate in un’ottima sequenza motorhediana, prog, growling e psycho black. Le chitarre volano senza perdere tempo, si lanciano in fughe e ritornano schiumanti, aggressive e potenti. Questa formula di originalità e di eclettismo, in una prima traccia sempre lascia di stucco, sperando che la seconda a seguire non sia una ripetizione … e così sia . Un tuffo nel vicino passato in cui ancora i Type 0 Negative regalavano la loro attitudine devota a un dark colorato, sinuoso e ammiccante: Estonian Lesbians  ci riporta a quei pomeriggi trasognanti in cui il cimitero monumentale di qualsiasi città faceva probabilmente da anfiteatro malinconico di lunghe passeggiate, per interminabili tattiche su come conquistare la ragazza wave dai capelli colorati e vestita di nero. Buona la voce che assieme alla chitarra comprime molta più energia di quanta già ce ne sia, bilanciando il ritmo sincopato. I cori e le voci femminili aiutano le note del piano ad uscire trionfalmente, un taglio di ballad ad addolcire i toni post black ( anche se siamo lontani dagli Altar of Plague ). Anche perché, per una traccia come Durnius, è necessario un attimo di catarsi, una condizione di necessaria logica, prima di perdersi nella marcia psichedelica che ne consegue. Credo che in questa traccia si assommi l’intero universo Pergale, riconducibile ad un luna park con diverse insegne accattivanti, colorati e smerigliate. Questa marcetta psichedelica ci fa contenti, perché tutti i membri funzionano al loro meglio, e ci stupiscono per la terza volta consecutiva. Bene così, la scaletta funziona ed il disco acquisisce punti . Viskis II riprende in un inciso la traccia contenuta nel precedente Horizontalios maldos palaima, Viskis (Whiskey) e non possiamo fare a meno di fermarci un attimo a pensare a cosa stia dicendo. Qualsiasi cosa sia non importa, ha l’impatto confortevole e coinvolgente di una storia dimenticata e raccontata affettuosamente. Les Yeux Rouges si erige in tutta la sua verticale monumentalità con riff decisamente coinvolgenti e trasognanti: l’intro leggermente epico riporta la normalità con un mid-tempo piacevole, leggero e tonale, compatto. Gabriel the Norwegian è una gran bella invenzione che delizia e scalda i cuori , strizzando l’occhio ai paradigmi del black metal.
Il disco è fatto bene, appartiene a quell’alta fedeltà che mai è fuori moda.

TRACKLIST
1.A Boy’s Night Out
2.Estonian Lesbians
3.Durnius
4.Viskis II
5.Les Yeux Rouges
6.Gabriel the Norwegian

LINE-UP
7 – Vocals
Gusmanas – Guitar
Demonas – Bass
Levas – Keyboards
Ilja – Drums
Simas – Guitar

PERGALE – Facebook

Ocean Of Grief – Fortress of My Dark Self

Fortress of My Dark Self consegna agli appassionati una band dalle enormi prospettive

Ep d’esordio per i greci Ocean Of Grief, i quali arrivano a dare man forte agli Immensity nel proporre una via ellenica al melodic death doom dai tratti altamente evocativi.

Rispetto ai concittadini, il sestetto ateniese propone una versione del genere più ortodossa rinunciando del tutto a pulsioni post metal e conseguente abbondante ricorso a break più rarefatti e clean vocals, per concentrarsi esclusivamente sull’impatto di un sound che trae evidentemente linfa dal già sentito, toccando però con costanza le giuste corde dell’emozione.
Considerando, appunto, che trattasi di band all’esordio la relativa mancanza di originalità passa del tutto in secondo piano, specie se la qualità del sound proposto è elevatissima, come nel caso specifico. In effetti, a ben vedere, i ragazzi ellenici non assomigliano a qualcuno in particolare ma assimilano tutte le loro influenze amalgamandole con sapienza, senza offrire mai la sensazione di trovarsi al cospetto di un banale lavoro di copia e incolla.
Così i cinque brani, neppure troppo lunghi per gli standard del genere, si snodano con grande fluidità e ricchezza di spunti, con un growl efficace ed una chitarra solista a tessere con continuità quelle melodie dolenti che non ci si stanca mai di ascoltare. Il pregio maggiore dagli Ocean Of Grief è quello di proporre il genere nella sua forma più pura, cercando di evocare le emozioni in maniera diretta senza ricorrere a complesse circonlocuzioni, facendo propria in tal senso la lezione dei maestri Saturnus.
Nel segnalare, in una tracklist di eccellente livello medio, due brani stupefacenti come House Of Misery e Drowning In Nostalgia, Fortress of My Dark Self consegna agli appassionati una band dalle enormi prospettive: un prossimo passo su lunga distanza potrebbe già risultare decisivo per consolidare gli Oceans Of Grief ai livelli di band quali Enshine (forse la maggiore fonte di ispirazione), When Nothing Remains, Evadne e Frailty, tanto per citare quelle più contigue alla sorprendente band greca.

Tracklist:
1. Spiritual Fortress
2. House of Misery
3. Futile Regrets
4. Drowned in Nostalgia
5. The Birth of Chaos

Line-up:
Aris Nikoleris – Keyboards
Giannis Koskinas – Bass
Thomas Motsios – Drums
Filippos Koliopanos – Guitars
Charalabos Oikonomopoulos – Vocals
Dimitra Zarkadoula – Guitars

OCEAN OF GRIEF – Facebook

Temple of Dust – Capricorn

Otto brani, otto viaggi lisergici nella musica dura, otto composizioni che si nutrono di heavy rock, psichedelia, stoner e sostanze illegali, otto danze sabbatiche, litanie messianiche che portano allo sfinimento fisico e mentale.

Otto brani, otto viaggi lisergici nella musica dura, otto composizioni che si nutrono di heavy rock, psichedelia, stoner e sostanze illegali, otto danze sabbatiche, litanie messianiche che portano allo sfinimento fisico e mentale.

Capricorn, debutto sulla lunga distanza dei lombardi Temple Of Dust, prodotto rigorosamente in vinile dalla label romana Phonosphera Records, non concede nulla in facili melodie, bisogna lasciarsi andare e farsi trasportare dalle note sporcate dal blues, violentato da noise e fuzz e dal cantato ruvido e allucinato da effetti e riverberi, come in un trip lungo quaranta minuti.
La band, nata in Brianza da un’idea del bassista/cantante Miky Bengala, a cui si aggiungono il chitarrista Mr. Diniz ed il batterista Beppe Gagliardi, arriva all’esordio dopo due ep, Capricorn del 2014 e Requiem For The Sun dello scorso anno, con questo album che riprende tutti i brani contenuti nei precenti lavori.
Difficile trovare una descrizione precisa per la musica del gruppo, inglobate nel sound del trio vivono molte anime, imprigionate da questo terribile demone lisergico in un unico spartito.
Capricorn va ascoltato come una lunga jam dove al suo interno umori diversi compongono una sola lunga danza messianica, drogata di psichedelia, stravolta da elettricità noise, appesantita dal groove stonerizzato e dalle reminiscenze sludge, un altare costruito con pietra vulcanica e reso monolitico da una gettata di cemento lavico dalla pesantezza sovraumana.
Non un minuto di questo lavoro è concesso a note in linea con le mode di questi tempi, la base su cui si staglia questo tempio di musica, che più underground di così non si può, riconduce agli anni settanta e verrà sicuramente apprezzata dagli amanti di Blue Cheer, Hawkwind e Black Sabbath.
Dalla title track fino alla conclusiva White Owl è un lungo discendere nella bocca di un vulcano verso il centro della terra, per incontrare il demone carceriere e tentare di liberare le anime imprigionate nel sound di Capricorn, ma non ci riuscirete, capitolerete prima, molto prima.

TRACKLIST
1.Capricorn
2.Temple of Dust
3.Requiem For The Sun
4.Szandor
5.Thunder Blues
6.Goliath
7.Lady Brown
8.White Owl

LINE-UP
Miki Bengala- Vocal, Bass
Mr. Diniz-Guitar
Beppe Gagliardi-Drums

TEMPLE OF DUST – Facebook

Malokarpatan – Stridzie Dni

Nel complesso un gran bel disco di black metal, che indica ancora una volta che la provincia dell’impero è in grado di essere avanguardia per tracciare il percorso nell’oscurità.

Originariamente pubblicato in digitale l’anno scorso, questo disco ha attirato fortemente l’attenzione della Invictus, che lo ristampato in formato fisico.

I Malokarpatan sono un gruppo slovacco di black metal grezzo e psichedelico, e vanno ben oltre i clichè del genere. Dentro la loro musica è veicolato il folklore e le tradizioni slovacche e più estesamente dell’est Europa. Molto influenzati dai maestri del genere degli anni ottanta e novanta, questi slovacchi portano una notevole ventata di esotismo e malvagità all’interno del calderone black metal. Bisogna ammettere che il folklore slovacco si presta molto bene, con le storie di demoni grotteschi e malvagi ubriachi. Tutti i testi sono in dialetto slovacco dell’ovest che rende molto bene. Nel complesso un gran bel disco di black metal, che indica ancora una volta che la provincia dell’impero è in grado di essere avanguardia per tracciare il percorso nell’oscurità.

TRACKLIST
1.Metelica a kúrnava sa žene nad krajem
2.Kýho besa mi to tá stará ohyzdná striga do pohára nalála
3.Na kríllach cemnoty do horských úbočí zostupuje posol moru a hniloby
4.O víne, kterak učený Hugolín Gavlovič z Horovec vyprával
5.Stridžie dni, kedy neradno po slnka západe vychádzat, ni perí drápat
6.Starý z hory, čo zver svoju budzogánem pobil
7.O jedném, čo pijatikou rozum si pomúcil a nakonec v chléve prenocovat musel
8.Z jazera ozruta, s volíma rohama a telom chlapiny
9.Popolvár najväčší na svete, šarkanobijca a bohatier

LINE-UP
Temnohor – throat.
As – 6 strings & backing throat.
HV – 4 strings & rhythmic beating.

MALOKARPATAN – Facebook

Savage Master – With Whips and Chains

Dal più profondo abisso dell’underground metallico statunitense, risalgono in superficie i Savage Master, della coppia Adam Neal e Stacey Peak, a caccia di streghe in quel di Salem e nei paesi dell’America occulta di due secoli fa.

Dal più profondo abisso dell’underground metallico statunitense, risalgono in superficie i Savage Master, della coppia Adam Neal e Stacey Peak, a caccia di streghe in quel di Salem e nei paesi dell’America occulta di due secoli fa.

Con fruste e catene, come da titolo, il gruppo proveniente dal Kentucky fa strage di chiunque viene sospettato di stregoneria e adorazione del satanasso, un massacro perpetuato più per soddisfazione sadica della bella sacerdotessa del male, che vera missione contro le forze demoniache.
Non viene risparmiato nessuno, in un’orgia di violenza sadica e senza pietà, paesi e villaggi vengono dati alle fiamme dal gruppo di incappucciati musicisti e dalla terribile Stacey.
La musica che accompagna questa carneficina è un heavy metal old school, dalle buone trame chitarristiche, Iron Maiden e Stormwitch riecheggiano a più riprese nel sound del gruppo che riprende, senza tanti fronzoli, il discordo musicale intrapreso con il primo full length, uscito un paio di anni fa (Mask of the Devil).
La produzione mantiene le caratteristiche old school come il sound proposto, la vocalist urla e sbraita mentre la frusta schiocca sulla pelle di donzelle innocenti accusate di stregoneria, il quartetto di boia incappucciati al servizio della crudele dama affilano le asce e costruiscono altari di legno per bruciare e purificare anime e corpi, mentre le varie songs accompagnano le brutali azioni dei nostri senza però contribuire in modo convincente all’atmosfera oscura del concept.
Produzione soffocata, come le terre avvolte nella nebbia fredda e terrificante scesa ad abbracciare in una stretta morbosa i luoghi dei misfatti, qualche cavalcata metallica dal buon passo, tirano fuori il disco da un mood piatto che attanaglia i brani, così come i solos, taglienti ed abrasivi, la vocalist fa di tutto per caricare l’atmosfera di malvagità e violenza, ma ci riesce solo in parte.
With Whips And Chains scivola così, fino alla fine, senza picchi, non andando oltre una sufficienza risicata, dando l’impressione di un lavoro che non va oltre le preferenze degli amanti del genere.

TRACKLIST
1. Call Of The Master
2. Dark Light Of The Moon
3. With Whips And Chains
4. Path Of The Necromancer
5. Vengeance Is Steel
6. Looking For A Sacrifice
7. Satan’s Crown
8. Burned At The Stake
9. Black Hooves
10. Ready To Sin

LINE-UP
Stacey Peak – Vocals
Adam Neal – Guitar
Larry Myers – Guitar
Brandon Brown – Bass
Zach Harris – Drums

SAVAGE MASTER – Facebook

PLATEAU SIGMA + (ECHO) – Imperia 2/4/2016

Nel piccolo ma accogliente locale dell’Arci Camalli di Imperia, situato nella zona portuale di Oneglia, sabato 2 aprile è andato in scena un concerto che ha visto all’opera due delle migliori realtà doom (anche se molto sui generis) italiane, i padroni di casa Plateau Sigma ed i bresciani (Echo).
In realtà alla serata avrebbero dovuto partecipare anche i romani Fish Taco, i quali all’ultimo momento hanno dovuto rinunciare; un peccato, ma non c’era alcun dubbio sul fatto che le due band citate sarebbero bastate ed avanzate per dar vita ad una serata di ottima musica.

Gli (Echo) sono giunti nell’estremo ponente ligure freschi dell’incisione del loro secondo full length Head First into Shadows, l’atteso successore del magnifico Devoid Of Ilusion, la cui pubblicazione è prevista il prossimo 23 maggio sotto l’egida della BadMoodMan (sub label della russa Solitude).
I ragazzi bresciani hanno colto l’occasione, pertanto, per presentare in anteprima quattro dei sei brani che andranno a comporre la tracklist del nuovo album; non posso negare che da parte mia c’era anche una certa curiosità per verificare come fosse stata assorbita la dipartita di Antonio Cantarin alla voce e devo dire, con soddisfazione, che il giovane Fabio Urietti non ha fatto rimpiangere affatto il suo predecessore rispetto al quale ha mostrato forse una minore propensione per le clean vocals, mentre screaming e growl sono apparsi di primissimo livello per cui, complessivamente, non si può che convenire su questa scelta.
Dopo aver inaugurato il set con Summoning the Crimson Soul, brano che di fatto apriva anche Devoid of Illusion, gli (Echo) sono passati alla presentazione delle nuove tracce; per quanto possa valere un primo ascolto, per di più live, si può ragionevolmente ritenere che il lavoro di prossima uscita sarà del tutto all’altezza delle aspettative: la particolare commistione tra doom e post metal, che aveva stupito per maturità nell’unico full length finora prodotto, pare ulteriormente destinata a consolidarsi, raggiungendo picchi già ragguardevoli al primo impatto in tracce come Gone (che su disco vedrà il contributo vocale di Jani Ala-Hukkala dei Callisto) e Order of the Nightshade (magnifica nella sua parte finale), ma non da meno sono apparse A New Maze e Beneath This Lake (qui invece troveremo a prestare la propria voce Daniel Droste degli Ahab).
La stupenda The Coldest Land ha chiuso teoricamente l’ottimo set prima dell’esecuzione, con la partecipazione di Francesco Genduso dei Plateau Sigma, della terremotante cover della sabbathiana Electric Funeral: dopo aver citato il nuovo vocalist è doveroso un plauso al resto della band, per la notevole prova fornita dalla coppia di chitarristi Simone Saccheri e Mauro Ragnoli e da quella ritmica composta da Agostino Bellini al basso e Paolo Copeta alla batteria.

Dopo una breve pausa la scena è stata presa dai Plateau Sigma, attesi alla presentazione dal vivo della loro ultima fatica Rituals, uno dei migliori album pubblicati in questo primo scorcio del 2016 per Avantgarde Music. Giocando in casa, come detto, i nostri hanno catturato l’attenzione di un pubblico competente che, quasi da prassi per qualsiasi concerto che abbia a che fare con il doom nella nostra penisola, non era purtroppo numeroso ma comunque sufficiente a riempire il locale, creando un’atmosfera di grande coinvolgimento.
L a band dell’imperiese, come detto in sede di recensione, con il proprio recente album ha travalicato il concetto di doom proponendo un sound fresco e personale, nel quale parti acustiche ed evocative, caratterizzate dalle clean vocals di Manuel Vicari, trovano il loro contraltare nelle brusche impennate di matrice estrema segnate dal profondo growl di Francesco Genduso. E’ proprio la costante alternanza tra i due cantanti/chitarristi, così diversi per timbrica vocale e per tocco, eppure così naturalmente complementari, la grande peculiarità ed il vero valore aggiunto dei Plateau Sigma, senza dimenticare ovviamente l’ottimo supporto della base ritmica fornita da Maurizio Avena al basso e dai Nino Zuppardo alla batteria.
Rituals è stato presentato nella sua interezza, partendo quindi dalla breve intro The Nymphs e passando per la splendida Palladion, la più robusta The Bridge and the Abyss, la rituale Cvltrvm (traccia che, più di altre, viene esaltata dal contesto live) per arrivare alle due parti della title track, mentre la chiusura è stata affidata alla riproposizione di Maira and the Archangel, tratta dall’Ep d’esordio White Wings of Nightmares. Proprio quest’ultimo e bellissimo brano è un ideale indicatore dello spessore artistico dei Plateau Sigma, capaci di evolversi nel corso degli anni senza snaturare la propria matrice doom, arricchendola di diverse sfumature e rifuggendo schemi compositivi rigidi senza precludersi alcun tipo di traiettoria musicale.

Tirando le somme, una serata perfetta sia dal punto di vista musicale, sia da quello prettamente personale, visto che ho avuto l’occasione di incontrare e fare la conoscenza di ottimi musicisti e soprattutto splendidi ragazzi, cosa che peraltro accade puntualmente in queste occasioni, con buona pace di chi considera chiunque graviti nell’ambiente del metal alla stregua di un’accozzaglia di barbari da confinare ai margini della civiltà …

platecho

Words That Burn – Regret is for the Dead

Cambi di umori improvvisi, muri di suoni estremi che vengono spazzati via da ariose parti di intense melodie, dove l’elettronica fa da spartiacque tra il rock ed il mood sintetico, mantenendo però il suono caldo e molto coinvolgente.

La WormHoleDeath, conosciuta ai cultori dell’underground metallico mondiale, ci investe da anni di suoni dei più svariati, mantenendo una qualità altissima delle proprie proposte che vanno dai suoni oscuri del black metal e del death, a squisite divagazioni sinfoniche ed ombrose atmosfere dark, ma senza dimenticare il metal più moderno, dal core alla nuova corrente thrash.

Puntualmente, ogni anno nuove band si affacciano nel panorama della nostra musica preferita, portate all’attenzione dei fans dall’infaticabile label, una piovra metallica dal fiuto eccezionale per il talento musicale, specialmente estremo.
Perché alla fine il termine estremo si adatta non solo al black metal o al death, ma a mio parere anche a proposte che, con buon uso della melodia, propongono qualcosa di diverso dagli stereopiti del rock di massa.
Oggi va molto di moda dare ad un album fuori dagli schemi o semplicemente composto da più sfumature prese da vari generi, la descrizione di alternativo, un modo semplice e diretto e che vale tanto per il rock, quanto per il metal, tenendo però sempre presente l’area su cui si muove il sound di un gruppo.
Ecco che Regrets Is For The Dead, primo lavoro sulla lunga distanza degli irlandesi Words That Burn, nuova scoperta dell’etichetta italiana, ha in se molti elementi del metal estremo moderno, melodico, dall’appeal enorme, ma pur sempre estremo, in un contesto alternativo, che dà all’album quel tocco di maturità in più, quindi non solo classico metalcore alla moda, ma un ottimo riassunto degli ultimi anni di musica metal/rock.
Death metal dall’inossidabile e terremotante groove, un uso delle voci perfetto, bilanciato tra l’aggressività dello scream/growl e la perfetta melodicità delle cleans, un uso parsimonioso ma geniale di parti elettroniche e tanto metallo che fulmina all’istante, scariche elettriche che folgorano incastonate in un songwriting di altissima qualità, ed ecco che il succulento piatto è servito dallo chef, per riempire di note estreme ed alternative le pance di noi ingordi consumatori di musica del nuovo millennio.
Il quartetto di Dundalk mostra muscoli e forza esplosiva, ma la contorna con una tempesta di melodie, lasciando alla varietà dei brani proposti il primo vero punto di forza dell’album.
Cambi di umori improvvisi, muri di suoni estremi che vengono spazzati via da ariose parti di intense melodie, dove l’elettronica fa da spartiacque tra il rock ed il mood sintetico, mantenendo però il suono caldo e molto coinvolgente.
Our New Sin, Disappear, Chalklines, l’intensa Mirror Perfect Mannequin, sono i picchi di questo bellissimo lavoro che riconcilia con il metal moderno, consigliato a tutti indistintamente, altrimenti che ci stiamo a fare nell’anno di grazia 2016?

TRACKLIST
1. Our New Sin
2. Unalive
3. Disappear
4. Chalklines
5. Hush
6. Scars
7. Mirror Perfect Mannequin
8. In This Moment
9. The Phoenix
10. Last Breath

LINE-UP
Roni MacRuairi – Vocals & Guitar
Ger Murphy – Bass & Vocals
Shane “Beano” Martin – Guitars & Vocals
Jason Christy – Drums

WORDS THAT BURN – Facebook

childthemewp.com