Snøgg – Snøgg

il lungo brano autointitolato si rivela sufficientemente interessante anche se la forma di black proposta, con i suoi tratti sperimentali talvolta ai limiti dell’improvvisazione di matrice jazzistca, è altrettanto intricata per essere recepita con un certo agio.

Progetto piuttosto originale, quello messo in scena da questo duo sloveno che propone un black metal altamente sperimentale, riversando il tutto, peraltro, in un solo brano di quasi mezz’ora.

Nati come progetto solista di Matej Voglar (Ulv), gli Snøgg, dopo varie configurazioni, hanno inciso questo ep con l’affiancamento al fondatore del batterista Grega Cestnik (Mørke). La possibilità di andare in tour con i connazionali Cvinger ha aperto qualche porta in più facendo crescere così l’interesse per il nome Snøgg.
Detto il necessario per inquadrare il progetto, il lungo brano autointitolato si rivela sufficientemente interessante anche se la forma di black proposta, con i suoi tratti sperimentali talvolta ai limiti dell’improvvisazione di matrice jazzistca, è altrettanto intricata per essere recepita con un certo agio.
Ne scaturisce un flusso sonoro piuttosto discontinuo, che alterna intuizioni davvero brillanti a fasi eccessivamente cervellotiche, in linea con un lavoro dalle caratteristiche sopra descritte.
Ineccepibile per inventiva e vis sperimentale, l’operato degli Snøgg è destinato a menti aperte più che ad appassionati di black metal nelle sue sembianze più consuete.
Anche in questo caso, quindi, come per tutti le prime uscite di una band aventi un minutaggio limitato, ci riserviamo di fornire per ora un giudizio interlocutorio, in attesa di una nuova e più probante release.
Resta comunque vivo l’interesse per l’operato di un musicista che, seppure riuscendoci in maniera discontinua, cerca nuove vie espressive nell’ambito di un genere che molti (a torto) considerano oggi piuttosto stantio.

Tracklist
1. Snøgg

Line-up:
Ulv – guitars, bass, vocals
Mørke – drums

SNOGG – Facebook

ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY

Sandro Di Girolamo ci ha parlato dei suoi Elevators To The Grateful Sky, del loro passato e del presente che si chiama Cape Yawn, capolavoro stoner/psichedelico in uscita in questi giorni, buona lettura.

Sandro Di Girolamo ci ha parlato dei suoi Elevators To The Grateful Sky, del loro passato e del presente che si chiama Cape Yawn, capolavoro stoner/psichedelico in uscita in questi giorni, buona lettura.

iye Ciao Sandro, raccontaci come nasce il progetto Elevators To The Grateful Sky.

Ciao Alberto, anzitutto, grazie mille per questa intervista e per le gentili parole che hai sempre speso nei confronti degli ETTGS. Il progetto nasce nel 2011, da un’idea mia e di Giuseppe Ferrara (chitarra). Entrambi suonavamo in un duo brutal death (munito di drum machine), Omega. Forse, perché stanchi di portare avanti un qualcosa di così veloce e tecnico o semplicemente rapiti da un genere così incredibile come quello dello stoner-rock e l’heavy psych, abbiamo deciso di fondare gli Elevators to the Grateful Sky. Subito alla batteria si è unito, Giulio Scavuzzo (ex-Horcus), e alla chitarra solista, Giorgio Trombino (con cui suonavo già nel gruppo swedish death Undead Creep e il quale vantava e vanta la sua presenza e “paternità” in/di numerose altre band: Haemophagus, Sergeant Hamster, Furious Georgie, Assumption, The Smuggler Brothers. Proprio lui, infatti, è abbastanza apprezzato all’interno della scena palermitana, per la sua versatilità nel comporre musica e suonarla con i più svariati strumenti).

N.B. E’ qualcosa che non ho mai detto in giro, però ricordo esattamente il giorno … stavo al pc e mi imbattei in ‘Whitewater’ dei Kyuss, metto play e ascolto. Dopo l’intro parte il riff principale, mi aggrappai alla sedia e subito pensai: “Ma che cos’è questa roba fichissima!? E’ questo il mood che ho sempre ricercato! Devo assolutamente fare anch’io questo genere!”. Da lì in poi, la storia si conosce…

iye Cloud Eye è stato un esordio clamoroso per il gruppo: quali sono stai i riscontri ottenuto tra il pubblico e gli addetti ai lavori?

L’album è piaciuto davvero tanto e ha avuto anche un ottimo riscontro sia da parte della critica che del pubblico. Ci sono arrivate un fiume di recensioni (italiane ed estere) estremamente positive e fatto varie interviste. Molti magazine, su tutti uno dei nostri preferiti, Rumore, ci hanno più volte, dato spazio al loro interno. Non possiamo che ringraziare sempre tutti coloro che ci supportano e ci aiutano nel difficile compito di diffondere il più possibile la nostra musica (ovviamente tra queste tante persone, ci sei anche tu, Alberto).

iye Musica desertica, splendidamente psichedelica, un’amalgama del meglio che un certo tipo di rock ha regalato negli ultimi decenni, senza dimenticare il periodo settantiano: sei d’accordo con questa definizione di quel disco?

Assolutamente. Cloud Eye, per quanto anch’esso ricco di citazioni facenti l’occhiolino ad altre “atmosfere” non proprio inerenti al rock desertico in senso stretto, di sicuro pecca di questa maggiore “affiliazione” a quel particolare genere sviluppatosi dagli anni ’70 in poi e che ha trovato la sua evoluzione in Palm Desert e Seattle.

iye Il nuovo lavoro lascia in disparte le sfumature grunge di Cloud Eye per nutrirsi di suoni rock’n’roll e garage, mantenendo quella vena psichedelica che è il vostro marchio di fabbrica.

Esatto, come dicevo prima, se Cloud Eye rimaneva ancora fortemente legato a una particolare “dimensione musicale”, con Cape Yawn abbiamo alzato un po’ il tiro, puntando a qualcosa di più miscelato e personale, come hai detto tu nella recensione dell’album: “liquido”. Ovviamente è importante mantenere, quelli che chiami “marchi di fabbrica”. Personalmente penso che, nell’arte in generale, se non si è capaci di dire “la propria” e a “proprio modo”, si può tranquillamente smettere di suonare/scrivere/dipingere ecc … passando ad impiegare il proprio tempo in altro. Non vorrei essere polemico, ma sento il bisogno di dirlo, è capitato più volte, che abbiano esclamato sul nostro conto, le classiche frasi: “non comunicate nulla di nuovo”, “siete derivativi” (P.S. sentiteli bene i dischi prima di dire la vostra e scrivere sommarie parole). Cari signori, io non capisco invece, dove tutta questa “grande novità” la troviate in gruppi (e ce ne sono a bizzeffe) facenti parti sempre della stessa scena stoner-rock e da voi acclamati e portati in gloria. Riff banali, scontati, scopiazzati, personalità inesistente, suoni stantii, composizione dei brani inconcludente. Non mi sembra che questi nostri colleghi si sforzino più di tanto nel cercare questa tanta agognata “innovazione” o che s’impegnino nel tentativo di esprimere la loro personalità. Noi nel nostro piccolo, cerchiamo di farlo, con tutto ciò che potrete sentire all’interno delle nostre canzoni (es. la parte funky di Mongerbino). La cosa comunque fondamentale, e chiudo, è che questa nostra ricerca non viene stimolata sicuramente dal ricevere il benestare del boss della ‘zine “di turno”, bensì, tutto ciò lo facciamo solamente perché ci va e vogliamo dire la nostra divertendoci e giocando con le note e i suoni. E’ stato e sarà sempre così, che piaccia o dispiaccia, che riesca o no. (P.S. ma poi innovazione, innovazione … ma a un certo punto fanculo, se una cosa è bella, è bella! L’importante è questo!)

iye A mio parere gli anni settanta nella vostra musica sono rappresentati da una vena doorsiana, cosa ne pensi?

Ovviamente le atmosfere dei Doors intrise di trip mistici e oscuro surf-rock trovano larga diffusione nella nostra musica. Probabilmente anche alcuni testi e metriche che compongo richiamano un certo mondo della California di qualche decennio fa. Personalmente apprezzo molto Gleen Danzig, quindi il richiamo può starci tutto (visto le cose in comune con Jim Morrison). Comunque, le influenze inerenti ai ‘70s sono molteplici, non ci basterebbe un’intervista per elencarle!

iye La title track è uno strumentale da brividi, come nasce un brani di questo tipo?

Bella domanda! Guarda non saprei risponderti sul fatto di come “nasce un brano di questo tipo”, ma posso dirti come questo è nato! I riff principali sono stati scritti da me e Giuseppe per poi essere revisionati, armonizzati e implementati da Giorgio e Giulio (anche con l’ausilio di strumenti come il sassofono). Abbiamo registrato, prima una pre-produzione casalinga e poi suonato più e più volte, rendendo la natura della strumentale, sicuramente più “jammata”. Quando componiamo, riflettiamo un po’ su ciò che vorremmo esprimere con quella canzone. Dobbiamo raccontare una storia, particolari stati d’animo, luoghi, persone, che caratterizzano un definito periodo della nostra vita. Proprio Cape Yawn è l’inno perfetto per le nostre “gite”, qui nei dintorni di Palermo (Monte Pellegrino e la costa di Barcarello su tutti). Guardare il tramonto in compagnia degli amici, bere una birra, fumarsi una sigaretta, pensando ad amori passati o impossibili … magari, il tutto avvolto da questa malinconia provocata dall’incertezza per il futuro della nostra terra, cullati dalla bellezza e poesia del nostro paesaggio (spero che dal video che ho realizzato, si capisca tutto ciò). In questo caso, le melodie richiamanti un triste surf-rock, condite da chitarre ovattate e sassofono riverberato, restituivano al meglio un simile mood. Questa è Cape Yawn, “Capo Sbadiglio”.

elevators2

iye Laura è un altro strumentale dedicato a Mark Sandman, frontman dei Morphine: a che cosa è dovuto questo omaggio?

Tutti e quattro siamo degli sfegatati fan dei Morphine. Penso che sia impossibile quantificare le volte in cui ho ascoltato capolavori come “Good”, “Yes”, “Cure for Pain” ecc … Mark Sandman è stata una persona davvero determinante per l’evoluzione della musica rock targata 90’s. Una leggenda. A mio avviso non esisteranno mai più gruppi, con un sound, un appiglio e un groove come il combo di Boston. Proprio il full “Good” mi ha fatto compagnia in un periodo non proprio allegro della mia vita (coincidente con la composizione di Cape Yawn). La semplicità, ma nello stesso la “portata e pesantezza” delle parole del compianto Sandman hanno scavato in noi tutti qualcosa di veramente indimenticabile. Gli hanno dedicato una scalinata a Palestrina, il minimo che potessimo fare noi sarebbe stato scrivere qualche secondo di sassofono in chiave “Dana Colley”. Non so dovunque tu sia, però Mark, ti ringraziamo con tutto il cuore per quello che ci hai trasmesso con la tua arte.

iye La copertina di Cape Yawn è stata disegnata da te: quella del grafico è solo una passione alternativa a quella per la musica, o qualcosa di più?

Di solito ci lavoro part-time. In questi anni non so più quante grafiche ho realizzato (una volta feci pure un inchiostrazione per gli Hooded Menace). Quasi tutte per i gruppi della scena di Palermo, non vorrei esagerare, ma alla stragrande maggioranza delle band della mia città ho fatto o un logo o un artwork o qualcos’altro. Principalmente però, mi sto laureando in Ingegneria Edile-Architettura. Ogni tanto lavoro pure come free-lance in studi di progettazione per la realizzazione di rendering 3d. Cerco per adesso di guadagnare un po’ di soldini, per il gruppo e anche per avere la libertà di poter uscire la sera e devastarmi di birra e Jägermeister al Pub; per chi vuole, mi trova quasi sempre al Krust in via Dante, 19 (qui a Palermo). Passo praticamente le mie serate sbevazzando, a parlare di musica e a sparare cazzate!

iye L’album finora è stato stampato in vinile dalla HeviSike Records, ne è prevista l’uscita anche nel formato cd?

A quanto pare, no. Probabilmente, invece, è prevista l’uscita di Cloud Eye in vinile. Rimanete sintonizzati sul nostro profilo facebook per news e quant’altro.

iye Con nomi quali Elevators To The Grateful Sky, Haemophagus, Sergeant Hamster, spesso collegati tra loro, è giusto parlare dell’esistenza di una vera e propria scena in quel di Palermo?

Questi gruppi sono indissolubilmente legati dal fatto che ci suoni Giorgio. Ora, che non me ne voglia, visto che lui evita sempre di parlare di queste cose e mi richiama più volte e più volte quando lo faccio io, perché eticamente è abbastanza da presuntuosi e spacconi. Però questa volta parlerò, poco importa se mi crederanno o meno e che a lui piaccia o no. Giorgio Trombino oltre che ad essere una persona magnifica, unica, è uno dei miei più cari amici, con cui ho condiviso i giorni e la musica è sicuramente uno dei più grandi talenti dell’underground siciliano (personalmente anche d’Italia per non parlare d’Europa, se vogliamo proprio esagerare). Non è cosa di tutti i giorni incontrare un così poliedrico musicista, nell’ambito degli ascolti, del gusto compositivo (qui si passa da John Coltrane ai Pungent Stench, per farvi capire) e che suoni praticamente TUTTI gli strumenti. Ecco Giorgio. L’ho detto e l’ho fatta grossa, adesso ci odieranno ehehe. Comunque ricordo tutto ciò, per ricollegarmi al fatto che molte cose che sentite provenire dalle nostre parti, sicuramente sono di un certo livello proprio perché c’è il suo zampino. Ad ogni modo, molti sono i gruppi che pur soffocati dalle difficoltà che contraddistinguono la diffusione della musica underground nella nostra città, sono riusciti a canalizzarle per creare un sound personale e di un buon livello. Su tutti (oltre ai progetti del signor Trombino, che avevo già citato): Balatonizer, Airfish, Kali Yuga, La Banda di Palermo, Bigg Men, Cadaver Mutilator, ANF, FUG, Throne of Molok, Stesso Sporco Sangue, Terrorage, Favequaid ecc…

iye La vostra musica è colma di riferimenti a più generi, ma quale tra questi vede Sandro Di Girolamo come suo vero e proprio fan?

Direi quasi tutti, trasversalmente. Certamente, gruppi come: Kyuss, QoTSA, Morphine, Danzig, Yawning Man, Fu Manchu, Captain Beefheart, Melvins, Electric Wizard, Goatsnake, Sleep, Church of Misery, (un po’ banali come citazioni, comunque) ecc… li porto sicuramente nel cuore. Ultimamente ascolto davvero tanto gli Arctic Monkeys. Apprezzo enormemente il talento e le capacità compositive e comunicative di Alex Turner (pure se è ormai diventato il frutto dell’image styler – “lo zio Homme”). In playlist ho quasi sempre “Favorite Worst Nightmare” e “AM”. Ci sono davvero delle belle canzoni (sottolineo, canzoni, non tracce o pezzi) e quando vedo alcuni loro live, non posso che essere (sanamente e costruttivamente) invidioso del loro successo. Arrivare a quei livelli lì, sarebbe davvero un sogno che si avvera. Non chiederei altro.

iye Per finire, quali sono i vostri progetti sul versante live?

Stiamo cercando di organizzare un mini-tour in Inghilterra, visto oltretutto che Giuseppe oramai vive e lavora come infermiere specializzato a Stoke-on-Trent, in pianta stabile (esatto il luogo di nascita di “gentaglia” come il leggendario Lemmy e Slash). Volevamo pianificare qualcosa per Maggio, ma probabilmente il tutto verrà posticipato. Se qualcuno è in grado di darci una mano, per favore, non tardi a contattarci! Per il resto, grazie ancora per questa bella intervista! Ricordiamo che Cape Yawn, sarà disponibile via Hevisike dall’11 Marzo in poi. Spero che tutte le persone sintonizzate, possano sentirlo e apprezzarlo. Magari non è il disco della vita, ma sicuramente è un prodotto sincero, fatto con impegno e passione. Se volete approdare nel nostro mondo, Cape Yawn e l’astronave che vi ci porterà!

On Thorns I Lay – Eternal Silence

Il settimo album degli On Thorns I Lay ha visto finalmente la luce, non fatevelo sfuggire, ve ne innamorerete perdutamente.

Intorno alla metà degli anni novanta il doom/death dalle atmosfere gotiche ebbe il suo momento di gloria, trainato dal successo di band come Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride, a cui si aggiunsero molti altri gruppi da ogni parte d’Europa.

Tra le label come sempre in questi casi iniziò una gara alla ricerca della new sensation del genere, ma fu nell’underground che nacquero le proposte più interessanti.
La Holy Records in quegli anni vedeva tra le proprie file un buon numero di gruppi dalle indubbie qualità, il suo roster era composto da realtà che andavano dal death al doom, dal black classico all’avantgarde, regalando piccoli gioielli di musica estrema ed buone band, tra le quali i greci On Thorns I Lay, che a quel tempo debuttarono con l’ottimo Sounds of Beautiful Experience.
Ancora cinque lavori tra il 1997 ed il 2003, con il bellissimo Crystal Tears a fare da picco qualitativo, prima del trasferimento in Romania per finire gli studi dei due membri fondatori, Stefanos Kintzoglou (basso e voce) e Chris Dragamestianos (chitarra).
Un silenzio durato una dozzina d’anni, ed un album da completare, Precious Silence, che torna rimasterizzato e rimixato sul finire dello scorso anno, licenziato per la Sleaszy Rider e con un titolo nuovo di zecca, Eternal Silence.
Sono della partita Maxi Nil, female vocals ex Visions Of Atlantis, Fotis alle pelli, Antony alle tastiere e l’ospite Labros Kiklis al violino, anche se l’attuale line up vede la singer Anna prendere il posto dietro al microfono della bravissima musa che con la la sua voce incanta su questa opera.
Eternal Silence si apre con tutti i cliché del genere, ed almeno per chi ha vissuto in presa diretta la musica di quel periodo risulta un bel sentire, con il violino a dispensare melodie melanconiche su un tappeto di death metal che la voce brutal di Stefanos rende aggressivo e ruvido, questa è Breathing, primo brano e centro pieno.
Dalla title track in poi entra sulla scena la voce della Nil, prima a contendersi le luci della ribalta con il growl, poi assoluta protagonista dei restanti brani con il suo tono di celestiale, sulfurea e raffinata sirena.
Le atmosfere sono quelle a cui la band ci aveva abituato, d’altronde i brani sono stati scritti dodici anni fa e continuano la tradizione del gruppo, con songs più ritmate e death oriented che lasciano spazio a passaggi gothic, dalla sempre raffinata qualità, con violino e piano che accompagnano la voce dell’eterea musa, ispiratrice di viaggi adagiati sulla coltre di nebbia autunnale (People We Hurt).
Le linee seguite dal gruppo greco, sono quelle delle produzioni, se mi concedete il termine tanto di moda di questi tempi, old school e seguono il sound primigenio del death/doom dalle atmosfere gotiche, così da affiancare Eternal Silence alle opere dei vari My Dying Bride, Celestial Season, Theatre Of Tragedy, primi Within Temptation e
3rd And The Mortal.
Il settimo album degli On Thorns I Lay ha visto finalmente la luce, non fatevelo sfuggire, ve ne innamorerete perdutamente.

TRACKLIST
1. Believe
2. Breathing
3. Eternal Silence
4. Cursed
5. Life Without You
6. People We Hurt
7. Escape From Loneliness
8. One Day To Live
9. Touching The Unknown
10. Eternal Silence (bonus video)

LINE-UP

CURRENT LINE-UP
Stefanos – bass, brutal vocals
Chris D. – guitars
Anna – vox
Fotis – drums
Antony – keyboards

RECORDING LINE-UP
Stefanos – bass, brutal vocals
Chris D. – guitars
Maxi Nil – vox
Fotis – drums
Antony – keyboards
*guest: Labros Kiklis – violins

ON THORNS I LAY – Facebook

Protector – Cursed And Coronated

I musicisti del gruppo hanno abbastanza esperienza per non essere considerati dei discepoli, i molti anni di attività permettono al quartetto di manipolare la materia con personalità e sagacia, attestandosi al di sopra della media.

Con i Protector si entra nella storia del metal underground, la band infatti è attiva addirittura dal 1986 e può vantare una nutrita discografia composta da una marea di demo, split, compilation e cinque full length, l’ultimo dei quali uscito tre anni fa (Reanimated Homunculus).

Dunque Cursed And Condemned è il sesto lavoro sulla lunga distanza di questa band, divisa tra Amburgo e Stoccolma, che dall’alto della propria esperienza ci consegna un lavoro ben fatto, violento, guerresco e dall’impatto oscuro.
La band si muove con disinvoltura, usando il mestiere, tra le note del thrash/death old school, portato all’attenzione dei fans dalla triade tedesca (Sodom, Kreator, Destruction), aggiungendoci un po’ di death metal scandinavo e qualche spunto slayerano, ed il risultato non può che essere convincente.
Brani più veloci e violentissimi lasciano spazio a tracce cadenzate e potentissime, malignità death e violenza thrash si alleano per inondarci sotto una cascata di riff estremi, la sezione ritmica si lancia all’inseguimento della sei corde e raggiunta, la trascina in un putrido abisso dove regna il death metal e Cursed And Coroned si nutre dei due generi, così da trasformarsi in un famelico mostro estremo.
Un gran bel brano death risulta la title track, mentre con Xenophobia, Six Hours on the Cross, The Dimholt e Terra Mater la band ci consegna una manciata di songs perfettamente riconducibili alla sacra triade tedesca.
I musicisti del gruppo hanno abbastanza esperienza per non essere considerati dei discepoli, i molti anni di attività permettono al quartetto di manipolare la materia con personalità e sagacia, attestandosi al di sopra della media.
Detto di un’ottima produzione, l’album ha nelle tre bonus tracks in versione live una buona occasione per sondare il gruppo sul palco, non tradendo le aspettative di una macchina da guerra thrash, pronta ad uccidere.
Cursed And Coroned è il classico lavoro old school, che non deve mancare nella discografia dei thrashers più incalliti.

TRACKLIST
2. Xenophobia
3. Selfdesdrugtion
4. Crosses in Carelia
5. Cursed and Coronated
6. Six Hours On the Cross
7. Base 104
8. The Dimholt
9. To Serve and Protect
10. Terra Mater
11. The Old Boil
12. Intro / Misanthropy (Live Dresden 2013)
13. Sliced, Hacked And Grinded (Live Dresden 2013)
14. Protector Of Death (Live Dresden 2013)

LINE-UP

Line-up:
Martin Missy – vocals
Michael Carlsson – guitar
Mathias Johansson – bass and vocals
Carl-Gustav Karlsson – drums

PROTECTOR – Facebook

https://soundcloud.com/high-roller-records-2/protector-cursed-and-coronated

Fabrizio Giosuè – Tolkien Rocks, Viaggio Musicale Nella Terra Di Mezzo

Magnifico libro, da parte di un vero appassionato, sul mondo musicale che gravita intorno al magnifico universo inventato da Tolkien.

Magnifico libro, da parte di un vero appassionato, sul mondo musicale che gravita intorno al magnifico universo inventato da Tolkien.

Fabrizio Giosuè è un competente ed appassionato giornalista musicale, che ha il suo blog (Misterfolk), un portale sul folk e viking metal tra i migliori al mondo. Fabrizio ha anche scritto il fondamentale Folk Metal, una vera e propria bibbia per gli appassionati del genere. In questo libro tratta dell’ispirazione che le scritture tolkeniane hanno sulla musica moderna. Tolkien è una montagna che si staglia sopra molte arti, ma una di quelle più influenzate è proprio la musica, e più nello specifico quella pesante, il metal. Troviamo molte band ispirate da Tolkien, a partire dai Led Zeppelin, passando per i Camel, fino ad arrivare ai lavori solisti di Leonard Nimroy, sì proprio lo Spock di Star Trek.
Ma più di tutti è stato il metal il genere ad amare maggiormente Tolkien. I Blind Guardian hanno praticamente fondato una carriera sugli scritti del Professore, arrivando ad essere quasi un complemento sonoro alla lettura. Anche il black metal è un genere che, forse, senza Tolkien non esisterebbe, poiché moltissimi gruppi si sono ispirati a Mordor ed alle sue forze oscure. Tutto ciò viene spiegato in maniera precisa, agevole ed appassionata da Fabrizio, che ci mette cuore e grande competenza, tirando fuori delle vere e proprie chicche, come Lingalad aka Giovanni Festa, musicista arrivato ad essere amato anche dalla figlia di Tolkien, con tour americani ed altro. Giosùè racconta tutto bene, ma è eccezionale soprattutto nel trattare il sommerso, quell’underground che senza le sue narrazioni rimarrebbe solo una piega nascosta dello strano origami della musica indipendente. Completa il libro un’appendice sui gruppi metal e black metal che si sono ispirati al più grande di tutti i tempi. Un libro fondamentale, scritto avendo ben compreso ciò che era la musica per Tolkien, ovvero tutto.

FABRIZIO GIOSUE’ – Facebook

Drama / Perdition Winds – Drama / Perdition Winds

Interessante split album, a cura dell’attiva label di S.Pietroburgo Satanath Records, che vede protagonisti i russi Drama ed i finlandesi Perdition Winds.

Interessante split album, a cura dell’attiva label di S.Pietroburgo Satanath Records, che vede protagonisti i russi Drama ed i finlandesi Perdition Winds.

I due gruppi hanno un percorso piuttosto diverso, essendo i primi in circolazione da circa un decennio, con relativa pubblicazione di due-full-length, mentre i secondi sono di nascita decisamente più recente.
Tutto ciò comporta inevitabilmente un approccio differente tra le due band nei confronti della materia black, anche se lo split non soffre di un eccessivo stacco tra i brani dell’una e dell’altra.
Brani che in effetti poi sono solo tre, due appannaggio dei Drama ed uno solo, ma molto lungo, da parte dei Perdition Winds: i russi, nel tempo a loro diposizione si dimostrano un combo davvero capace, riuscendo a mantenere un invidiabile equilibrio tra l’ortodossia del geenre e le sue pulsioni più avanguardistiche e dimostrando delle potenzialità che, a quanto sembra, non potranno essere più sviluppate con questa configurazione visto che i Drama paiono essersi sciolti dopo l’uscita dell’ep.
La band di Helsinki propone, invece, una singola traccia lunga circa tredici minuti, cosa non del tutto consueta per il genere e per certi versi anche piuttosto coraggiosa: qui il black si fa più tradizionale, ma comunque provvisto di sfumature cupe che lo rendono piuttosto interessante.
Nel complesso, detto che in questo split non si inventa nulla, va ribadito che la musica proposta è tutt’altro che superflua essendo offerta da due band (nel senso vero del termine, per una volta non abbiamo a che fare con progetti solisti) di buona levatura, in gradi di sfuggire al rischio di un’esecuzione approssimativa o manieristica.
Detto della situazione dei Drama, in attesa delle mosse dei singoli componenti, per i Perdition Winds vale quanto detto in passati per act minori ma di prospettiva: bene così, per ora, ma la strada per emergere in un panorama così affollato è ancora abbastanza lunga, sebbene tale obiettivo non appaia un miraggio.

Tracklist:
1. Drama – Create Your Death
2. Drama – Gloria Mortis
3. Perdition Winds – Cult of Kain

Line-up:
Drama
Dym – Drums
Vindsarg – Guitars, Vocals
Torden – Bass

Perdition Wings
J.K.A. – Bass, Vocals (backing)
R.S. – Drums
T. K. – Guitars
R.Ä. – Guitars
J.E. – Vocals

PERDITION WINDS – Facebook

Khynn – Supersymmetry

Drammatica e rabbiosa, l’aria che si respira tra le tracce di Supersymmetry soffoca, spessa coltre di suoni violenti, sintetici e pregni di groove così da creare una colonna sonora di ribellione metallica

Il death metal melodico ha cambiato pelle molte volte in questi ultimi anni, come un serpente si rinnova costantemente, aggiungendo o togliendo, a piacimento degli artisti, questa o quell’atmosfera che ne rivoltano completamente il mood, ora più vicino allo schema classico nato nei primi anni novanta, ora devastato da ritmiche thrash violentissime, ed ultimamente accompagnato da input provenienti dal più marziale metalcore e dall’industrial.

Tutte pelli di colore diverso dello stesso rettile che continua ad avvelenare ed ipnotizzare i fans in ogni parte del mondo, avendo ritrovato un minimo di freschezza, specialmente nel sempre e comunque bistrattato underground.
Aldilà del confine transalpino, non sono poche le band che al genere aggiungono ottimi inserti industrial core, non ultimi questi musicisti provenienti da Besançon,attivi da quasi una decina d’anni.
Supersymmetry ne è l’ultimo parto, rigorosamente autoprodotto e dal buon tiro, sempre in bilico tra melodic death metal, core e sfumature industrial, moderno, violento ed alquanto ben fatto.
Undici brani che mantengono alta la tensione, con un intermezzo acustico molto suggestivo (Breath Inside Me), ballad che con Living Time stempera per pochi minuti l’assalto portato dal gruppo francese.
Ritmiche ora thrash, ma molte volte indurite da una marzialità core, ottime e personalissime voci (dallo scream, al tono pulito) e tanto groove portano i Khynn a saltellare per il genere, tra la tradizione e le soluzioni moderne di stampo statunitense, creando un ibrido di suoni estremi molto suggestivo e di sicuro impatto.
Drammatica e rabbiosa, l’aria che si respira tra le tracce di Supersymmetry soffoca, spessa coltre di suoni violenti, sintetici e pregni di groove così da creare, dall’opener Tainted Impression in poi, una colonna sonora di ribellione metallica ottimamente descritta dal gruppo transalpino in brani come Walking Dead, Depersonalization e la conclusiva Into the Supersymmetry.
Siamo nel metal moderno, valorizzato da una buona dose di maturità che fa dell’album un buon esempio di come il metal si sappia trasformare: le influenze ci sono e vanno riscontrate nella scena scandinava ed in quella più moderna di stampo statunitense; decisamente un buon lavoro, comunque.

TRACKLIST
1. Tainted Impression
2. God in Hell
3. Black Circles
4. Breath Inside Me
5. Persona
6. Walking Dead
7. Living Time
8. Depersonalization
9. Wasted Time
10. A Wild Night
11. Into the Supersymmetry

LINE-UP
Mathieu Martinazzo – Drums
Fabien Junod – Guitars, Vocals
Samuel Equoy – Vocals, Guitars
Rémi Verchère – Bass

KHYNN – Facebook

SkeleToon – The Curse of the Avenger

La produzione al top e la prova sontuosa di un vocalist che lascia senza fiato aggiungono valore al cd, la cui custodia non può mancare vicino al lettore di ogni amante del power metal melodico.

Power metal teutonico, veloce, trascinante ed ipermelodico, un cantante spettacolare, tante buone idee, un trio di graditi ospiti ed il gioco è fatto.

I nostrani SkeleToon debuttano tramite Revalve con questa fialetta di nitroglicerina metallica dal titolo The Curse Of Revenge, un concept album che finalmente vede lasciare nell’ombra eroi, guerrieri, spade e fiere mitologiche, per raccontarci delle disavventure di un nerd alle prese con la sfigata vita di tutti i giorni: un eroe quindi, magari lontano dalle gesta eroiche di cavalieri senza paura, ma che affronta le sue battaglie quotidiane sempre in lotta con il cinico e spietato mondo che lo circonda.
La storia è alquanto originale, la musica prodotta un po’ meno, ma il power metal del gruppo fondato dal singer Tomi Fooler non manca di far esplodere dalla poltrona i fans dei vari Helloween, Gamma Ray, Edguy e compagnia teutonica, con questa mezzora abbondante di metallo divertentissimo e travolgente, dove non mancano  super ballad e sgommate sul caldo asfalto del metallo melodico, potente e veloce.
La partecipazione di Roland Grapow (Helloween e Masterplan), Dimitri Meloni dei bravissimi Ensight ( autori dell’ottimo Hybrid, album metal prog di spessore uscito pochi mesi fa) e Charlie Dho dei The Fallen Angel, aggiunge pepe a questo piatto metallico confezionato con cura dal gruppo, che sul genere suonato costruisce le fortune di questi otto brani.
Gli Helloween ammaliati dalla strega di Better Than Raw, sono il gruppo che più si riconosce tra i solchi del disco, chiaro che le altre band sono una conseguenza ai padri del genere, a cui gli SkeleToon fanno riferimento, anche se la personalità e l’efficace songwriting, fanno di The Curse Of The Avenger, un gran bell’esempio di come il genere, suonato a questi livelli, dica ancora la sua alla grande, valorizzato da brani pregni di energia positiva come What I Want, la veloce, potente e melodica Heroes Don’t Complain, la ballad semiacustica Hymn To The Moon e l’inno Heavy Metal Dreamers.
La produzione al top e la prova sontuosa di un vocalist che lascia senza fiato aggiungono valore al cd, la cui custodia non può mancare vicino al lettore di ogni amante del power metal melodico.
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TRACKLIST
1 Intro / Timelord
2 What I Want
3 Heroes Don’t Complain
4 Hymn to the Moon
5 The Curse of the Avenger
6 Bad Lover
7 Joker’s Turn
8 Heavy Metal Dreamers

LINE-UP
Tomi Fooler – Vocals, Concept, Songwriting
Henry “SYDOZ” Sidoti – Drums
Dimitri Meloni – Lead & Rythm Guitars
Charlie Dho – Bass
Roland Grapow – Guitar

SKELETOON – Facebook

Hangarvain – Freaks

Freaks conferma ancora una volta il talento compositivo di questi musicisti, superando il già bellissimo esordio con un lavoro più duro, maturo, intimista, come se l’entusiasmo dell’esordio avesse lasciato il passo alla consapevolezza di essere una grande band

Un giorno, qualche anno fa, un gruppo di ragazzi napoletani con la voglia di essere liberi e suonare hard rock, caricarono la loro cinquecento e partirono dai piedi del Vesuvio alla conquista dello stivale; tanta passione accompagnata da un talento smisurato per il rock americano, li portò sulle strade che al loro passaggio, mentre l’autoradio suonava i brani di Best Ride Horse (il loro debutto), come d’incanto si trasformavano nelle polverose e lunghissime highway di quell’America da vivere fino all’ultimo respiro.

Un anno dopo serviva riprendere fiato e, a Natale 2014 le armonie acustiche dell’ep Naked vedevano gli Hangarvain finalmente riposare, fare un sunto del viaggio che li aveva visti bruciare chilometri e chilometri d’asfalto, mentre i loro strumenti si accendevano su molti dei palchi in giro per le città della penisola, portando un po’ di quell’America, tra hard rock, southern e rock style a chi li voleva ascoltare.
Quasi tre anni sono passati e la band ha sudato, sognato e fatto divertire tanti ragazzi, nel suo lungo viaggiare tra strade impervie e mille difficoltà, ma è ora di tornare verso casa, affrontando un viaggio di ritorno che porta al traguardo di un nuovo lavoro.
E Freaks conferma ancora una volta il talento compositivo di questi musicisti, capitanati dal vocalist Sergio Toledo Mosca e dal chitarrista Alessandro Liccardo, superando il già bellissimo esordio con un lavoro più duro, maturo, intimista, come se l’entusiasmo dell’esordio avesse lasciato il passo alla consapevolezza di essere una grande band, il che si trasforma in molta più personalità e convinzione.
Ora la loro musica non è più solo una stupenda rilettura di un modo di fare rock’n’roll, il viaggio intrapreso li ha fatti tornare maturi e appunto consapevoli, così da imprimere al loro sound il proprio marchio di fabbrica.
Freaks, i diversi, quante volte negli ultimi tempi abbiamo sentito e letto su media e giornali questa parola riguardo allo squallore in cui è piovuta la nostra società, riguardo a problemi che, noi per primi sottovalutiamo, non concedendo chance a chi non è fortunato, che sia un uomo arrivato da un altro paese o di tendenze sessuali sulle quali continuiamo a costruire tabù, imprigionati in un assurdo medioevo spazio temporale.
Ecco questo disco è dedicato a chi non si arrende, a chi vivrà sempre contro, a chi non si piega e vive per il suo sogno, lottando per i propri ideali o molto più prosaicamente, per il prprio lavoro, cercando di non farsi sopraffare da una società che non accetta debolezze.
Il punto di partenza per questa nuova raccolta di songs non poteva essere più azzeccato e la band, ancora senza un’etichetta, ha fondato la propria fregandosene di un music biz sordo come non mai: lottando, ha portato a termine questo stupendo concentrato di hard rock made in U.S.A., amalgamando alla perfezione, sound sudista, post grunge e hard rock classico, questa volta velato di un’oscurità quasi tragica, introspettiva, e portando la propria musica ad un livello emotivo ancora superiore.
Freaks emoziona, aldilà dei fantastici riff scaldati dal sole del sud creati dall’axeman Liccardo, della straordinaria voce di un Toledo Mosca cresciuto tantissimo in personalità, o della sezione ritmica che sanguina groove di Francesco Sacco al basso e Mirkko De Maio alle pelli; emoziona e scava dentro di noi, tra canzoni che sprigionano hard rock moderno (Keep Falling, la title track e Sliding To Hell, per un inizio da infarto), ballad d’autore che tolgono il respiro, energiche come Dancing On A Wispher o meravigliosamente poetiche come Like Any Other, song d’autore che avvicina il gruppo ai Pearl Jam, salti nel puro southern rock con la magnifica A Life For Rock’n’Roll o hard blues sanguigni come A Coke Shot e Stuck In Arizona.
Ten Years Waiting è il commiato: orgogliosamente sudista, trasuda tutta la malinconia di cui è rivestito gran parte di questo capolavoro e ci dà appuntamento sulla piazza, una mattina di primavera, per ripartire verso altri luoghi dove raccontare di diversità, di libertà, di battaglie da vincere e sogni da conquistare, insieme a questa fantastica band chiamata Hangarvain.

TRACKLIST
1.Keep falling
2. Freaks
3. Sliding to hell
4. Dancing on a whisper
5. Devil of the South
6. Like any other
7. A coke shot
8. A life for rock’n’roll
9. Stuck in Arizona
10. Ten years waiting

LINE-UP
Sergio Toledo Mosca – Lead Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars, Backing Vocals
Francesco Sacco – Bass
Mirkko De Maio – Drums

HANGARVAIN – Facebook

Myrath – Legacy

Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune

Per farmi uscire dalla confortevole cripta virtuale, all’interno della quale mi abbevero di tutte le sonorità più cupe e funeree che il mondo musicale può offrire, ci vuole qualcosa di unico, di speciale, capace di entrare in rotazione pressoché fissa nel lettore, anche se di genere normalmente estraneo ai miei ascolti abituali.

L’anno scorso questo “evento” si era verificato grazie ai francesi 6:33, mentre in questo 2016 credo proprio che il loro posto verrà preso dai magnifici tunisini Myrath.
La band nordafricana non è, in effetti, una sopresa vera e propria, neppure per me visto che avevo già avuto modo, qualche anno fa, di apprezzarne le indiscutibili doti espresse con il terzo full-length Tales of the Sands.
Quel lavoro, così come i precedenti, metteva in evidenza un gruppo di assoluto livello ma, ammettiamolo, molta dell’attenzione nei suoi confronti derivava dalla nazione di provenienza, inutile girarci intorno, e questo induceva inevitabilmente a deformare la percezione del contenuto musicale, badando più all’aspetto esotico della proposta che non al suo effettivo e ben consistente valore.
Legacy, lo spero con tutto il cuore, dovrebbe sgombrare il campo da ogni distorsione, rendendo il disco dei Myrath “semplicemente” un capolavoro scritto e composto da musicisti che vivono su questo pianeta, punto; poi, è evidente quanto la grandezza di questo album derivi anche da quelle origini, oggi più che mai compenetrate con la struttura heavy/prog dei brani grazie ad un lavoro di arrangiamento a dir poco stupefacente, oltre che all’operato di un tastierista dalla statura superiore alla media (in tutti i sensi) come Elyes Bouchoucha, in grado di ammantare il sound dei Myrath di quelle orchestrazioni arabeggianti che lo rendono unico.
Questa commistione sonora in passato era riuscita altrettanto bene agli Orphaned Land (soprattutto in Mabool), ma la proposta della band israeliana traeva vantaggio da una maggiore eterogeneità che, quindi, consentiva di spaziare con disinvoltura da partiture estreme a passaggi etnici, senza però raggiungere l’amalgama perfetta espressa invece dai tunisini: in Legacy ogni singola strofa è immersa in questa atmosfera davvero speciale, con suoni caldi e comunque differenti da quelli, solo apparentemente simili, che possono giungere dall’Europa o dagli States; infatti, i Myrath riescono in maniera continua a conferire al loro sound la “riconoscibilità”, ovvero quel quid che rende ogni nota suonata da una band una sorta di marchio di fabbrica.
Certo, si potrebbe obiettare che, esemplificando al massimo, la musica ascoltata in Legacy sia una sorta di versione alleggerita ed arabeggiante dei Symphony X ma, fermo restando che ciò non sarebbe affatto sminuente nei confronti dei Myrath, va ribadito che qui non si sta parlando dell’invenzione di un nuovo genere, bensì di una rielaborazione dell’esistente in maniera del tutto personale: Legacy è un lavoro tutto sommato ortodossamente prog/heavy metal, per cui la bravura dei nostri risiede proprio nella capacità di apparire “unici”, pur muovendosi all’interno di un territorio dai confini stilistici ben definiti.
Del disco restano da citare i brani migliori, ma per far questo sarebbe sufficiente fare un copia-incolla della tracklist, visto che non c’è un solo brano debole tra gli undici (più intro) presentati; messo alle strette confesso però di avere maturato un debole per il singolo Believer (da godersi il video che lo accompagna), per Nobody’s Lives, con il suo refrain cantato in lingua madre, e per quello che ritengo uno dei brani migliori ascoltati negli ultimi tempi, la magica ed evocativa Duat.
Zaher Zorgati è il cantante perfetto per una band si questo tipo, con una voce che potrebbe definirsi, con molta approssimazione, un ipotetico punto d’incontro tra Dio, Jorn Lande e Roy Khan: un vocalist del quale si apprezzano, comunque, le doti interpretative ed espressive più che i virtuosismi.
Inevitabilmente ottimo il lavoro del chitarrista Malek Ben Arbia, fondatore della band quando era appena un ragazzino, meno appariscente in fase solista del suo modello Michael Romeo ma non di meno efficace, ed impeccabile la base ritmica fornita da Anis Jouini al basso e dal francese Morgan Berthet alla batteria.
Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune; il fatto stesso che la band abbia deciso di autointitolare l’album (non è un refuso, Legacy è la traduzione inglese di Myrath) rende l’idea di quanto questo passo fosse ritenuto fondamentale per imprimere una svolta decisiva e definitiva ad una carriera che, da qui in poi, ci si augura possa proseguire in maniera altrettanto luminosa, per la gioia di tutti gli appassionati di musica in senso lato.
Nei primi anni del secolo un gruppo di ragazzi tunisini si dilettava a suonare cover dei Symphony X: nel 2016 quei ragazzi, diventati i Myrath, stanno intraprendendo un tour con quelli che erano i loro idoli (dalla nostre parti arriveranno il 3 marzo all’Alcatraz di Milano), con il concreto “rischio” di metterne in dubbio la leadership e, mi si creda, non sto affatto esagerando …

Tracklist
1.Jasmin
2.Believer
3.Get Your Freedom Back
4.Nobody’s Lives
5.The Needle
6.Through Your Eyes
7.The Unburnt
8.I Want To Die
9.Duat
10.Endure The Silence
11.Storm Of Lies
12.Other Side

Line-up:
Anis Jouini – Bass
Malek Ben Arbia – Guitars
Elyes Bouchoucha – Keyboards, Vocals
Zaher Zorgati – Vocals
Morgan Berthet – Drums

MYRATH – Facebook

Defiance of Decease – Suicide

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta, allora divise tra la scena olandese e quella britannica.

La band russa Defiance Of Decease, all’esordio con questo album licenziato dalla Narcoleptica Prod. in edizione limitata nel supporto musicassetta, si posiziona esattamente fra le due scene, fondamentali per l’evoluzione dei suoni dark, doom e gothic.
E Suicide, il loro debutto accompagnato da una bellissima copertina, torna a far respirare ai fans del genere le atmosfere malinconiche e dark, accompagnate dall’estremismo sonoro del doom/death di quegli anni.
Voce femminile delicata, growl possente, lenti passaggi oscuri, note eleganti dei tasti d’avorio, che passano come banchi di nebbia su tappeti metallici e tanta, drammatica melanconia, fanno di Suicide un buon esempio del genere, come detto lontano dalle produzioni bombastiche a cui ci hanno abituato le symphonic gothic bands odierne.
La band inizia il calvario che porta al suicidio con la dark song Like a Star in The Sky, nella quale l’elegante voce di Anna Velichko accompagna il growl di estrazione doom/death di Ricardo Digolos, ma già dalla seconda traccia (Possessed by a Demon) i suoni si induriscono, il lento incedere verso la morte passa dal monolitico muro sonoro costruito dal gruppo, rendendo il sound pregno di tragiche atmosfere gothic, dove affiorano i demoni che portano la protagonista al fatale gesto.
Nelle oscure trame di brani come Farewell in Heart, Blade of Death e Ribbon of Life, vivono e si rigenerano le note passionali e drammatiche dei primi The Gathering, Paradise Lost, Orphanage e My Dying Bride, nomi di spicco della straordinaria scena gothic doom dei primi anni novanta.
Certo, la produzione non è delle migliori e la band pecca in qualche passaggio monocorde, ma se siete amanti del genere un ascolto è assolutamente consigliato: album per anime tragicamente romantiche.

TRACKLIST
1. Like a Star in the Sky
2. Possessed by a Demon
3. Death in Fire
4. Farewell in Heart
5. Blade of Death
6. Drowned
7. Cruel World
8. Ribbon of Life

LINE-UP
Sergio Darksol – Bass
Paul Stadman – Guitars
Ricardo Digolos – Guitars, Vocals
Juliana Stadman – Keyboards, Vocals (backing)
Arthuro Doretti – Drums

DEFIANCE OF DECEASE – Facebook

Mountain Tamer – Mountain Tamer

Mountain Tamer hanno dentro di loro una fortissima matrice doorsiana, soprattutto per la composizione, per quella capacità musicale che fa viaggiare il nostro cervello su spiagge ventose e su pianeti lontani.

Esordio per questo gruppo californiano che stupisce davvero molto.

I Mountain Tamer sono di Santa Cruz, California e fanno una musica che lievita fra psych pesante, fuzz, stoner e puntate in qualcosa di più duro. In definitiva fanno un disco davvero potente ed impressionista, pennellando i più disparati stati mentali. I Mountain Tamer hanno dentro di loro una fortissima matrice doorsiana, soprattutto per la composizione, per quella capacità musicale che fa viaggiare il nostro cervello su spiagge ventose e su pianeti lontani. Lo stile passa dagli anni settanta ad un sentimento più grunge, soprattutto nella maniera di insistere su taluni passaggi tipica degli anni novanta. La qualità è altissima, e il gruppo non sbaglia una nota, rendendo questo disco un momento davvero piacevole. Ci sono anche momenti più duri e sono notevoli poiché si amalgamano benissimo con le parti più psych. Mountain Tamer è un compendio di psichedelia moderna, con una progressione notevole. Il disco è buono anche per mettersi e passare un momento maggiormente lounge, se così si può dire. Un ottimo debutto e uno dei migliori dischi del buon catalogo dell’Argonauta Records.

TRACKLIST
1.Mindburner
2.Knew
3.Dunes Of The Mind
4.Vixen
5.Wolf In The Streets
6.Sum People
7. Satans Waiting
8.Pharosite

LINE-UP
Andru – Guitar – Lead vocals/loud noises)Casey Garcia(Drums/vocals/art design) Dave Teget(Lead Bass/vocals/private security)

MOUNTAIN TAMER – Facebook

No Man Eyes – Cosmogony

Per gli amanti di Nevermore, Symphony X ed Angel Dust, serviti con abbondanti dosi di thrash ed una spruzzata di neoclassicismo malmsteeniano, la band genovese potrebbe essere un micidiale cocktail di cui ubriacarsi senza pensare alle conseguenze

Ed eccomi a raccontarvi dei miei concittadini No Man Eyes e del loro secondo lavoro, in arrivo in questo inizio d’anno sotto l’ala della Diamonds Prod.

La band genovese nasce nel 2011 da ex membri dei Graveyard Ghost: qualche aggiustamento nella line up porta verso il primo lavoro, Hollow Man ed ad una buona attività live in compagnia di nomi di una certa importanza nel panorama metallico nazionale (Trick or Treat, Roberto Tiranti, Nerve, Mastercastle).
Senza mollare la presa, il gruppo torna con un nuovo lavoro, Cosmogony, prodotto nel Dead Tree Studio del chitarrista Andrew Spane, che si è occupato anche dei testi.
Metal robusto, ritmiche veloci, ottimi solos melodici ed un cantante che, senza strafare, si rende protagonista di una buona performance, sono ad un primo ascolto le virtù dei No Man Eyes, anche se la loro musica cresce con il tempo, facendo trovare tra i solchi dei brani molte sfumature che li porta nell’eletta schiera delle band difficilmente catalogabili.
I nostri, infatti, si disimpegnano con disinvoltura tra l’heavy metal tradizionale ed il thrash, senza dimenticare il power e lasciando che intricate parte ritmiche e solos vorticosi avvicinino il sound al metal prog.
Le influenze sono palesi, chiariamolo, ma sono anche varie e se Cosmogony per molti non risulterà originale, sicuramente piacerà a chi ama i generi menzionati, amalgamati sapientemente dal gruppo in un viaggio fantascientifico e spirituale (questi sono gli argomenti trattati nei testi) sul treno impazzito partito dalla stazione ferroviaria di Genova.
Lord funge da intro e ci prepara per la prima e vera esplosione di metallo, Dreamsland, ritmiche power thrash, molto ben congegnate fanno da tappeto sonoro al cantato altamente melodico ma maschio del buon Fabio Carmotti, mentre si esalta la sezione ritmica, protagonista di un gran lavoro, potente e vario su tutto l’album (Alessandro Asborno al Basso e Michele Pintus a picchiare come un forsennato il suo drumkit).
La parte del leone la fa la chitarra di Spane, che spara mitragliate thrash, solos metallici e qualche spunto neoclassico: Cosmogony non dà tregua, le aperture melodiche mantengono comunque alta la forza dirompente dei brani, contraddistinti da atmosfere oscure, drammatiche e dall’impatto di un pendolino che taglia l’aria con velocità e potenza micidiali.
Tra le songs spiccano Huracan, Blossoms Of Creation, dall’anima spinta nell’abisso oscuro del death metal, non fosse per il cantato pulito, e la title track, ma è nel suo insieme che il disco funziona, carico com’è di energia metallica.
Per gli amanti di Nevermore, Symphony X ed Angel Dust, serviti con abbondanti dosi di thrash ed una spruzzata di neoclassicismo malmsteeniano, la band genovese potrebbe essere un micidiale cocktail di cui ubriacarsi senza pensare alle conseguenze, provateli e non ne farete più a meno.

TRACKLIST
1.Lord
2. Dreamsland
3. Huracàn
4. Bound to doom
5. Spiders
6. Blossoms of creation
7. All the fears
8. How come
9. The death you need
10. Cosmogony
11. Children of war

LINE-UP
Fabio Carmotti – Voce
Andrew Spane – Chitarre
Alessandro Asborno – Basso
Michele Pintus – Batteria

NO MAN EYES – Facebook

Clouds Taste Satanic – Your Doom Has Come

Il secondo album dei Clouds Taste Satanic è una gustosa pietanza alla quale manda l’ingrediente decisivo che la renda irrinunciabile e, soprattutto, l’ennesimo buon lavoro che corre il rischio d’essere ignorato

I newyorchesi Clouds Taste Satanic sono una band di formazione recente che, con Your Doom Has Come arrivano al secondo album dopo quello d’esordio (To Sleep Beyond the Earth) uscito lo scorso anno.

Il quartetto statunitense propone un doom del tutto strumentale e a questo punto, da parte di chi si è imbattuto in qualche mia recensione in passato, ci si aspetterà la solita tirata sull’opportunità o meno di questo tipo di scelta: non intendo deludere tale attesa e quindi lo farò nuovamente, a maggior ragione in questo caso, visto che la propsta dei Clouds Taste Satanic possiede tutti i crismi qualitativi richiesti, salvo appunto la voce.
Con la presenza di un cantante all’altezza, Your Doom Has Come potrebbe collocarsi tranquillamente all’altezza delle migliori cose ascoltate di recente, anche se a volte può apparire forzato pensare d’inserire delle linee vocali laddove, a livello compositivo, si è operato a priori con la consapevolezza di farne a meno.
Detto questo, l’album consta di una mezza dozzina di brani incisivi, intesi e davvero ben suonati: la competenza e la passione del quartetto statunitense è fuori discussione e chi è avvezzo a questo modus operandi non potrà che goderne; peraltro va sottolineato come l’opener Ten Kings sia un brano solido, in grado convogliare in maniera eccellente le diverse sfumature del doom nel corso dei suoi otto minuti, resta il fatto che tutto ciò che segue finisce per brillare di luce riflessa, venendo meno quella variabile decisiva di cui si è ampiamente detto.
Il secondo album dei Clouds Taste Satanic è una gustosa pietanza alla quale manca l’ingrediente decisivo che la renda irrinunciabile e, soprattutto, l’ennesimo buon lavoro che corre il rischio d’essere ignorato; cominciano ad essere troppo le band che praticano questo tipo di soluzione quando, invece, sono pochi quelli che possiedono il talento smisurato necessario per emergere …

Tracklist
1. Ten Kings
2. One Third of the Sun
3. Beast from the Sea
4. Out of the Abyss
5. Dark Army
6. Sudden…Fallen

Line-up:
Sean Bay Bass
Christy Davis Drums
Steven Scavuzzo Guitar
David Weintraub Guitar

CLOUDS TASTE SATANIC – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=JqiJWrIuTQw

Dead Twilight – Endless Torment

Album da ascoltare con attenzione, Endless Torment racchiude in sé una brutale aggressione alla mente umana, stravolta da cotanta belligeranza

La Sicilia non smette di regalare musica di un certo livello, che sia estrema o meno, i gruppi che si affacciano sulla scena underground non difettano certo in personalità e hanno tutti qualcosa da dire, in termini musicali, senza ancorarsi a cliché triti e ritriti.

Il trio estremo dei Dead Twilight conferma quanto scritto, licenziando un album di death metal brutale, disturbante e dall’atmosfera apocalittica.
Nato da un’idea del chitarrista Luca Bellante, uscito dalla death metal band Pantheist nel 2001, il gruppo vede Marco Bellante al growl e Calogero Schillaci al basso, mentre i suoni di batteria sono lasciati ad una drum machine.
Poco male, il sound dei nostri è un inferno sulla terra, un alienante massacro estremo che senza pietà si riversa sull’ascoltatore, tramortito dai micidiali colpi portati di una band oltranzista ed estrema all’ennesima potenza.
Primo lavoro sulla lunga distanza, Endless Torment segue due demo usciti tra il 2006 e il 2011 (…a Litany for the Deads… e Echoes from Nothingness) e si affaccia sulla scena portando morte e distruzione, con chitarre e growl al limite dell’umano e un’attitudine estrema che trova pochi eguali.
Qualche somiglianza con il death metal di estrazione americana, poi Endless Torment vive di luce propria: gli strumenti si rincorrono senza tregua, in un tornano di suoni da tregenda; per i testi vengono usati vari idiomi, dal greco antico al tedesco ed al latino, mentre l’assalto sonoro portato dal gruppo non si ferma fino all’ultimo secondo della conclusiva Letzer Wille.
Eternal City segue l’intro Finis Infinitatis e ci invita a questo massacro sonoro dalla violenza allucinata, lungo una mezz’ora circa di armageddon musicale, ed il risultato è una sequela di brani dall’alto tasso brutale tra i quali Eos e Legion fanno da traino per tutto il lavoro.
Album da ascoltare con attenzione, Endless Torment racchiude in sé una brutale aggressione alla mente umana, stravolta da cotanta belligeranza, consigliato.

TRACKLIST
1. Finis Infinitatis (Intro)
2. Eternal City
3. Neun Tugenden
4. Eos
5. Apocalypsis
6. Legion
7. Dead Realm
8. Carmen Saliare Mars Dicatur
9. Letzer Wille

LINE-UP
Marco “Asavargr” – Voce
Luca – Chitarra, programmazione batteria
C.S. Jack – Basso

DEAD TWILIGHT – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=28pYKyTk9gc

Frostbite – Etching Obscurity

In generale la sensazione che si respira tra le tracce di Etching Obscurity è quella di un lavoro convincente da parte di un gruppo in crescita e dalle ottime potenzialità

Tra i boschi e le nebbie del Canada si aggira un’entità metallica che si definisce ambiziosamente progressive black’n’roll.

Sono i Frostbite da Montreal, quintetto attivo dal 2011 e con un ep alle spalle, dal titolo Through the Grave uscito tre anni fa.
Tornano tramite Tmina Records con Etching Obscurity, esordio sulla lunga distanza che, in effetti, mantiene le promesse, conquistando con un sound ben congegnato che amalgama black metal, parti più intricate che potremmo definire progressive, e ritmiche che, in alcuni casi e nei brani più diretti, si avvicinano al black’n’roll.
Sinceramente il gruppo dà il meglio di sé nelle songs dove il black metal, sound base dei nostri, viene reso più complicato da splendide parti progressive, quando armonie acustiche, solos che si avvicinano al rock settantiano e riffoni metallici dagli umori classici riempiono il suono delle varie Malleus, Through The Grave e dell’intimista Shining, mentre si perde qualcosa allorché le cavalcate di melodico black’n’roll portano tanta energia, attenuando le atmosfere adulte dei brani descritti.
Poco male perché nel suo insieme l’album funziona, con il buon scream della singer Krystal Koffin, di estrazione black, ma soprattutto dal lavoro dei due chitarristi, Max Allard e Anthonny Colin-Bilodeau, bravi nel saper alternare ritmiche estreme a solos di gustoso metal old school, sconfinando, come detto in riff dalle riminiscenze settantiane.
Il mood di Etching Obscurity rimane oscuro, a tratti ricorda i primi Sentenced, quelli di Amok (Soul Devourer), mentre le canzoni, accompagnate da pochi ma splendidi intermezzi acustici, scivolano verso l’inesorabile fine, non stancando l’ascolto.
Forse è proprio la parte più diretta del sound prodotto dai Frostbite che rende il disco più fluido del disco anche se, ripeto, con gli ascolti cresce a dismisura l’altra faccia della medaglia, quella più nobile e matura.
In generale la sensazione che si respira tra le tracce di Etching Obscurity è quella di un lavoro convincente da parte di un gruppo in crescita e dalle ottime potenzialità, ovviamente da seguire per valutare e scoprire dove il talento ne condurrà la musica in futuro.

TRACKLIST
1. Ascending the Void
2. Sigil Seal
3. The Pest
4. Malleus
5. Through the Grave
6. Delayed Perception
7. Etching Obscurity
8. Shining
9. Soul Devourer
10. Forgotten Path
11. Erased from Existence

LINE-UP
Max Allard – Guitars
Alekseïev Delbès – Drums
Anthonny Colin-Bilodeau – Guitars
Stéphane Deschênes – Bass
Krystal Koffin – Vocals

FROSTBITE – Facebook

ATLANTIS CHRONICLES – Barton’s Odyssey

Viaggio ad Hadotopia solo andata!

Eccoci finalmente fuori le lande compassionevoli di Alcest per ritrovarci in un terreno incontaminato, di frontiera senz’altro e ben più (pre)potente.

C’è tutto in questa formazione, tutto quello che la Francia non ha tra i suoi tipici luoghi comuni: prog, death, speed e screamo. Quattro punti cardinali dove dirigersi a seconda delle tracce in un’avventura sonora dal retrogusto tagliente.
Forse gli Atlantis Chronicles ricordano i Bal Sagoth di “Battle Magic”, ma con sonorità molto più dolci rispetto alle rivali terre inglesi, o magari rimandano ai Nekrogoblikon ma, tuttavia, l’originalità del quintetto francese si comprende appieno solo dopo ripetuti ascolti, per essere sicuri di non ricadere nella ricerca di similitudini. C’è da dire anche che in Francia regna sempre più una vaga aura di post/symphonic black, quindi per un gruppo death è necessario decisamente giocare con le improvvisazioni, tanto meglio se spingono in digressioni ritmiche e assoli psichedelici.
Le varie tappe in Francia e in Belgio programmate per tutto il 2016 permetteranno al gruppo di testare l’attitudine live, alla ricerca di ulteriori miglioramenti che potrebbero corrispondere, per esempio, ad una maggiore organicità del sound. Per gli amanti del death la band potrebbe rappresentare comunque un prospetto da osservare attentamente nel corso della sua progressione.

TRACKLIST
1. The Odysseus
2. Otis Barton
3. Back to Hadotopia
4. Within the Massive Stream
5. Upwelling Pt. I
6. Upwelling Pt. II
7. Lights and Motions
8. I, Atlas
9. 50°S 100°W
10. Modern Sailor’s Countless Stories

LINE-UP
Alex Houngbo – chitarra e cori
Sydney Taieb – batteria
Antoine Bibent – voce
Jérôme Blazquez – chitarra
Simon Chartier – basso

ATLANTIS CHRONICLES – Facebook

Nasty Ratz – First Bite

I Nasty Ratz trasformano le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli.

Dalla Los Angeles degli anni ottanta alla Praga del 2015 il passo sembra più lungo di quanto si possa credere.
D’altronde perché non trasformare le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli?

Ci riescono alla grande i Nasty Ratz, giovane gruppo ceco, con questo buon lavoro, che dello street, hard rock, glam ne ha fatto la sua missione, quella di riportare gli sgargianti colori del metal americano dei splendidi anni ottanta non solo nel nuovo millennio, ma nell’Europa dell’est.
Con alle spalle un ep e tanti concerti in giro per il vecchio continente, in compagnia, tra gli altri, di Adam Bomb e Crazy Lizz, la band debutta sulla lunga distanza con First Bite, classico esempio di cosa si suonava negli anni in cui pantaloni di pelle, bandane, mascara e belle figliole erano il pane dei rockers di mezzo mondo che, come mecca, guardavano agli eccessi della Los Angeles delle promesse, molte volte disilluse di fama e successo.
Rock’n’roll travestito da metalliche iniezioni di street e hard rock, attitudine glam e tanta voglia di divertirsi e abbordare, erano la ricetta per l’ottimo pranzo dei gruppi storici, di cui i Nasty Ratz se ne fanno una scorpacciata, tra brani grintosi e super ballatone strappa lacrimuccia, suonate più per far colpo sulla biondona prosperosa che vero momento di nostalgico malessere esistenziale o amoroso.
Il gruppo è formato dall’ottimo singer Jake Widow, anche chitarra ritmica, mentre la solista, tutta fuoco e fiamme, è di Stevie Gunn con la sezione ritmica composta da Tommy Christen al basso e Rikki Wild alle pelli.
Non troppo lungo ma assolutamente compatto e divertente, First Bite, nel genere, è un buon esordio: certo siamo perfettamente in linea con le produzioni dei vari monumenti al rock stradiolo come Motley Crue, Poison, Ratt e compagnia di delinquenti dagli occhi truccati e la rissa facile, ma se siete ancora in botta per le reunion dei Crue o aspettate come il messia quella dei Gunners, brani che schiumano rock’n’roll come Love At First Fight, Made Of Steel e Snort Me vi faranno tornare sulla via losangelina e chiudendo gli occhi vi ritroverete in fila davanti al Whisky A Go Go, ad aspettare il vostro turno, sperando che questa volta sia quella buona per entrare.
Nostalgico? No, solo molto divertente e suonato sufficientemente bene per risultare un buon ascolto. Stay rock!

TRACKLIST
1. Love At First Fight
2. Made Of Steel
3. I Don’t Wanna Care
4. Morning Dreams Come True
5. Snort Me
6. Angel In Me
7. N.A.S.T.Y.
8. I’ll Cut You Off
9. Sharize
10. If You Really Love Me

LINE-UP
Jake Widow – rhytm guitar, vocals
Stevie Gunn – lead guitar, vocals
Tommy Christen – Bass guitar, vocals
Rikki Wild – drums, vocals

NASTY RATZ – Facebook

Thunder Lord – Prophecies of Doom

Se siete fans del power speed metal un ascolto al disco potete tranquillamente darglielo, ma senza nutrire particolari aspettative, altrimenti passate pure oltre.

Poco conosciuti in Europa, i Thunder Lord da quasi quindici anni portano il loro heavy metal in giro per il Sudamerica: attivi infatti dal 2002, arrivano al terzo full length che segue Hymns of Wrath in This Metal Age del 2008 ed il precedente Heavy Metal Rage uscito quattro anni fa.

Tornano dunque per la label tedesca Iron Shieds Records, costola della piovra Pure Steel con questo Prophecies Of Doom, assalto metallico dalle chiare accelerate speed, old school fino al midollo, guerresco e con un tocco epico, un’atmosfera sempre presente nei gruppi del genere.
Niente di clamoroso, un dischetto di metal ignorante, sparato a mille e che non riserva grosse sorprese, a parte un’ottima amalgma tra le componenti, discreti solos classici e fierezza metallica a iosa.
Il quartetto originario di Santiago conferma come l’heavy metal europeo abbia fatto proseliti nel continente sudamericano, più orientato ai suoni classici rispetto ai paesi del nord, compresi gli U.S.A., maggiormente suscettibili ai vari trend.
Se mi si concede un paragone calcistico, i Thunder Lord sono un buon mediano, tanta corsa, sette polmoni, ma poca classe: le canzoni tendono ad assomigliarsi un po’ troppo, lasciando solo ai true defenders più incalliti il desiderio di assaporare le virtù di un classico combo senza infamia e senza lode.
I Running Wild dei primi lavori e gli Exciter, conditi da umori new wave of british heavy metal, sono i paragoni che più calzano alla proposta del gruppo cileno, il quale, tra le varie songs di Prophecies Od Doom, lascia alla sola title track ed alla cadenzata Condemned To Death il compito di alzare al di sopra della sufficienza la media di questo lavoro.
Se siete fans del power speed metal un ascolto al disco potete tranquillamente darglielo, ma senza nutrire particolari aspettative, altrimenti passate pure oltre.

TRACKLIST
1. End of Time
2. Leave Their Corpses to the Wolves
3. Prophecies of Doom
4. Pillan
5. The Darkness’s Breath
6. Condemned to Death
7. The Blood-Red Moon
8. Useless Violence
9. Winds of War
10. Metal Thunder

LINE-UP
Francisco Menares – Bass
Eduardo Nuñez – Drums
Esteban Peñailillo – Vocals, Guitars
Diego Muñoz – Guitars

THUNDER LORD – Facebook

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