Department Of Correction / Agathocles : Ultra Grindcore vs. Slumbering Sludge

Un gran bello split tra due gruppi che vanno oltre le convenzioni e che ci regalano un qualcosa di nuovo ma con uno spirito antico.

Dividere un disco fra varie band è una pratica consolidata in ambito hc grind metal ed affini, e in questo caso uniscono le forze i francesi Department Of Correction e i mitici belgi Agathocles.

I Department sono un gruppo che fa un grind che deve molto ai primi dischi dei maestri Brutal Truth e Napalm Death, ma i ragazzi francesi ci aggiungono molto di loro, dando a quel suono un tocco importante di modernità.
I loro sei pezzi sono ultra moderni e suoanti molto bene, veloci e precisi. Nell’altro lato dell’Lp ecco gli Agathocles, un gruppo che ha una credibilità ed un reputazione che ben pochi altri gruppi di tutti i generi musicali possono vantare. In giro da tantissimo, hanno scritto la storia del grind più politicizzato, facendo nascere il crust e indicando la via a generazioni di gruppi incazzati e rumorosi. In questo split ci propongono qualcosa di davvero differente rispetto a quello che hanno inciso fino ad ora. La loro partecipazione è un pezzo di oltre sei minuti in stile sludge molto pesante e claustrofobico, che dà l’idea di ciò che potranno fare in futuro dimostrando di non sapere andare solo veloci, ma scavando benissimo in profondità.
Un gran bello split tra due gruppi che vanno oltre le convenzioni e che ci regalano un qualcosa di nuovo ma con uno spirito antico.

TRACKLIST
DEPARTMENT OF CORRECTION:
1. Greencore Is Leaf
2. The Tank Is In The Garden
3. Suck It Up
4. Do It Like
5. Try To Set It Free

AGATHOCLES:
6. Into My Crypts

LINE-UP
Agathocles
Jan – Vocals, Bass
Nils – Drums, Vocals
Koen – Guitars

Department of Correction
Yohann Dieu – Drums
Florian Chrétien – Guitars
Grégoire Duclos – Vocals

DEPARTMENT OF CORRETION – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Purtenance – …to Spread the Flame of Ancients

Una notevole prova di forza da parte del quartetto finlandese, ormai ripulito dalla ruggine del tempo e pronto per dire la sua nel panorama underground estremo.

Con un po’ di ritardo sull’uscita, vi proponiamo questo ottimo lavoro di death metal old school, licenziato dai finlandesi Purtenance, datato combo attivo dall’alba degli anni novanta.

Non più dei novellini, dunque, ma una realtà che ha vissuto all’ombra delle band storiche del genere e tornata dopo un lungo stop a deliziarci con il loro metal estremo putrido e marcissimo.
La band infatti nasce in quel di Nokia, nel 1991, in un periodo di pieno sviluppo del genere nelle fredde terre del nord; il primo ep è seguito dal full length Member of Immortal Damnation del 1992, poi un lungo silenzio interrotto dalla firma con la Xtreem e la reunion che porta, nel 2012, alla pubblicazione dell’ep Sacrifice the King.
La band trova continuità ed il 2013 è l’anno del secondo lavoro sulla lunga distanza, il buon Awaken from Slumber.
Ritroviamo i Purtenance alla fine dello scorso anno con questo nuovo album che li riporta un livello consono alla fama underground del gruppo: …to Spread the Flame of Ancients, pur rimanendo ancorato ai dettami della scuola classica del genere, ha nel songwriting la sua arma letale.
Ottimi brani, tra death metal old school, rallentamenti di scuola Asphyx e passaggi brutali che potenziano ancora di più l’impatto di songs monolitiche e debordanti come On the Far Side of Knowledge, Blood Oath e mazzate estreme come Disseminated Death e The Unseen, risultano davvero devastanti, valorizzate da ritmiche chirurgiche e riffing scritti nell’abisso infernale dove il gruppo risiede, a fianco dei maestri del genere.
Una notevole prova di forza da parte del quartetto finlandese, ormai ripulito dalla ruggine del tempo e pronto per dire la sua nel panorama underground estremo.
Per i fans dei vari Dismember, Entombed, Asphyx e i vari nascituri della nidiata malefica dei primi novanta, …to Spread the Flame of Ancients è un album assolutamente consigliato, a riprova di un ottimo ritorno.

TRACKLIST
1. Invocatio
2. Preventio
3. Waiting to Be Free
4. I, the Sacrificed
5. On the Far Side of Knowledge
6. Destroyed Human Mind
7. Blood Oath
8. Cornerstone of Insanity
9. Disseminated Death
10. The Unseen
11. Kaaos on Kanssamme (Chaos Is with Us)

LINE-UP
Harri Saro – Drums
Juha Rannikko – Guitars
Ville – Bass, Vocals
Ville Nokelainen – Guitars

PURTENANCE – Facebook

Pokerface – Divide And Rule

Divide And Rule non delude certo gli amanti di queste sonorità, ne sentiremo ancora parlare dei Pokerface, scommettiamo?

Torniamo a parlare di metallo forgiato nella madre Russia, per molti provincia della nostra musica preferita, ed invece da anni cilindro da cui escono coniglietti diabolici, dediti ad infuocare la fredda terra sovietica.

La Irond Records questa volta va sul sicuro e ci propone questa band nata solo un paio di anni fa, con un ep (Terror Is The Law) già edito e tanta voglia di spaccare con un thrash metal figlio del periodo ottantiano, irrobustito da buone soluzioni death.
Con una buona esperienza dal vivo con act del calibro di Sepultura, Overkill, e Children Of Bodom, i Pokerface dopo l’uscita dell’album hanno affiancato addirittura sua maestà Dave Mustaine ed i suoi Megadeth, segno che qualcuno crede nel quintetto.
Quella bestia ferita che sentirete urlare la sua rabbia e dolore nel microfono non è un uomo, ma bensì una graziosa fanciulla, con tutte le carte in regole per seguire le orme di Angela Gossow e compagnia di ragazze terribili, una forza della natura che di nome fa Delirium e che vi investirà con una prova da far impallidire tanti maschietti con la pretesa di cantare in una metal band.
Detto della singer, Divide And Rule risulta un buon album di genere, old school, ma prodotto bene, suonato discretamente e con soluzioni ritmiche e chitarristiche sufficientemente convincenti; certo, siamo nel già sentito, le influenze del gruppo escono prepotentemente dai solchi dei brani che lasciano trasparire tutta la devozione per gli Slayer, i Venom e la triade teutonica Sodom/Kreator/Destruction.
Ma questo primo lavoro sulla lunga distanza si fa apprezzare per l’aggressività e la rabbia mai doma, con qualche buon spunto death che ringiovanisce di qualche anno il sound, mantenendo un approccio classico al genere.
L’arpeggio accompagnato dai tasti d’avorio funge d’apertura, non solo all’opener All Is Lie, ma a tutto l’album che, dal secondo numero quarantotto in poi, esplode in un delirio di metal estremo e non si ferma più.
Qualche buona ripartenza, velocità elevata e chitarre che sparano chiodi e attaccano al muro, sono le peculiarità dei brani, ma è indubbio che la parte del leone la fa l’indiavolata vocalist, davvero incontenibile sul tappeto metallico orchestrato dai suoi compari.
Botta di vita da spararsi tutta d’un fiato, Divide And Rule non delude certo gli amanti di queste sonorità, ne sentiremo ancora parlare dei Pokerface, scommettiamo?

TRACKLIST
1. All is Lie
2.Kingdom of Hate
3.The Chessboard Killer
4.Existence
5.Into the Inferno
6.Human Control
7.Age of Terrorism
8.Killed by Me
9.Shut Up!
10.Divide and Rule

LINE-UP
Delirium-vocals
Nick-lead guitars
Maniac-lead guitars
DedMoroz-bass
Doctor-drums

POKERFACE – Facebook

Rotting Christ – Rituals

I Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una lunga storia.

Un nuovo disco dei Rotting Christ non può che rivestire il carattere dell’evento.

Chiaramente qui stiamo parlando di una delle band più importanti e più longeve della scena estrema europea, se pensiamo che è prossimo il traguardo del trentesimo anno di attività e questo dovrebbe già essere sufficiente per spiegare l’importanza del gruppo fondato dai fratelli Tolis.
Rituals è il dodicesimo full-length e non fa calare la qualità media delle uscite della band ateniese: come si può intuire dal titolo, a prevalere è l’aspetto prettamente rituale dei brani, che spesso risultano vere e proprie invocazioni corali; già l’opener In Nomine Dei Nostri esibisce senza mediazioni le sue sembianze di preghiera blasfema che tiene perfettamente fede alla ragione sociale, ma tutto ciò nei Rotting Christ non avviene con le modalità adolescenziali di certe band che pensano sia sufficiente esibire il face panting per apparire minacciose, bensì con la maturità di musicisti completi e soprattutto credibili.
In una carriera così lunga diversi sono stati gli indirizzi stilistici intrapresi da Sakis, dal grind dei primi demo al black metal peculiare dei primi quatto lavori (con i picchi di Non Serviam e Triarchy Of The Lost Lovers), poi con la svolta gothic di A Dead Poem e Sleep Of The Angels, per tornare successivamente sui propri prassi con Kronos fino a Theogonia ed approdare infine, in questo decennio, ad uscite dall’impronta più epica, talvolta anche folk, e se possibile maggiormente radicate a livello di ispirazione nella storia della nazione ellenica.
Se è vero che l’ultimo album fondamentale pubblicato dai nostri è stato Theogonia, datato 2007, va detto che una minore brillantezza del songwriting rinvenibile negli ultimi lavori è stata ben compensata da una sempre maggiore cura dei particolari, a partire dalla produzione per arrivare al contributo dei diversi ospiti che, da Aealo in in poi, si rivela una piacevole costante. Se allora brillava la presenza di una stella assoluta come Diamanda Galas (senza tralasciare un certo Alan Averill), in Rituals spicca la partecipazione di Vorph dei Samael, sorta di corrispettivi elvetici dei Rotting Christ, e di Nick Holmes dei seminali Paradise Lost.
Detto dell’ottima traccia d’apertura (con il contributo di un’altra icona della scena greca come Magus) e della bontà degli episodi che vedono all’opera i due illustri ospiti (Les Litanies de Satan con Vorph e For a Voice like Thunder con Holmes), il brano che maggiormente colpisce per intensità è Elthe Kyrie, sorta di rappresentazione musicale della tragedia greca, con tanto di recitato da parte di un’attrice del Teatro Nazionale (Danai Katsameni): qui ritroviamo anche le classiche progressioni chitarristiche che, se da una parte, possono apparire una forma di autocitazionismo, dall’altra costituiscono un vero e proprio riconoscibile marchio di fabbrica per i Rotting Christ.
Al contrario, un po’ debole e leggermente furi contesto è Devadevam, con Kathir dei singaporiani Rudra a fornire un’impronta fin troppo particolare al brano, mentre qualche ripetitività di troppo (Apage Satana) appesantisce solo parzialmente un lavoro che nel suo complesso non delude, anche perché, come detto, se l’ispirazione che pervadeva dischi come Non Serviam e Theogonia si manifesta ormai solo a sprazzi, tale mancanza viene compensata ampiamente dal mestiere e dal carisma di una band in grado di legare con disinvoltura i diversi spunti che vengono fatti confluire nell’opera.
In definitiva, i Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che, tra alti (molti) e bassi (rari) , ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una storia lunga ma che pare ancora ben lungi dall’essere al suo epilogo.

Tracklist
1. In Nomine Dei Nostri
2. זה נגמר (Ze Nigmar)
3. Ἐλθὲ κύριε (Elthe Kyrie)
4. Les Litanies de Satan (Les Fleurs du Mal)
5. Ἄπαγε Σατανά (Apage Satana)
6. Του θάνατου (Tou Thanatou) (Nikos Xylouris cover)
7. For a Voice like Thunder
8. Konx om Pax
9. देवदेवं (Devadevam)
10. The Four Horsemen

Line-up:
Themis Tolis – Drums
Sakis Tolis – Guitars, Vocals
Vagelis Karzis – Bass
George Emmanuel – Guitars

Guests:
Magus (NECROMANTIA) – “In Nomine Dei Nostri”
Danai Katsameni (NATIONAL HELLENIC THEATER) – “Elthe Kyrie”
Vorph (SAMAEL) – “Les Litanies De Satan (Les Fleurs Du Mal)”
Nick Holmes (PARADISE LOST) – “For A Voice Like Thunder”
Kathir (RUDRA) – “Devadevam”

ROTTING CHRIST – Facebook

Drowning Pool – Hellelujah

L’era del nu metal è finita da un po’ e le band sopravvissute a quello tsunami musicale arrivato a cavallo del nuovo millennio faticano a trovare consensi, surclassate nelle preferenze dei fans e soprattutto degli addetti ai lavori dal sound metalcore, oggi il genere più cool aldilà dell’oceano.

Il ritorno dei Disturbed alla fine dello scorso anno ha confermato però che la musica di qualità molte volte non va a braccetto con la fama, con un buon album che, rispetto ad una quindicina d’anni fa quando qualunque disco uscisse con l’etichetta nu metal era oro che colava, è passato senza lasciare traccia o quasi.
I Drowning Pool rischieranno la stessa fine con questo buon lavoro, non un capolavoro ma un esempio concreto di come si suona il genere.
Certo, magari non saremo sui livelli di Sinner del 2001 e l’asso Dave Williams ha lasciato, con la sua scomparsa, non pochi problemi, ma Jasen Moreno spacca al microfono e la band sembra in forma per far divertire gli appassionati del genere.
Le prime quattro tracce sono un ottimo biglietto da visita: l’irruenza metallica, le ritmiche neanche troppo sincopate, un’attitudine quasi rock’n’roll (By The Blood) che lasciano posto all’aggressione senza tregua di Drop, composta da un chorus da spellarsi le mani, conquistano subito e ci danno il benvenuto all’interno di Hellelujah.
Verso la metà dell’album qualche brano perde colpi ( la ballad Another Name, troppo scontata e colpevole di spezzare la tensione), mentre i nu metal fans si leccano le ferite con bordate di quello che è uno dei generi più amati/odiati degli ultimi vent’anni (Symphathy Depleted, Meet The Bullet) ed al quale il gruppo di Dallas, pur non essendone una dei maggiori esponenti, ha sicuramente dato il suo importante contribuito.
Sono passati i tempi dei grandi festival e le copertine patinate di riviste musicale cool, non solo per i Drowning Pool, ma per tutto il movimento, rimane la musica e, verrebbe da dire, finalmente.
Hellelujah si può tranquillamente definire un ottimo ritorno, anche sennza che vengano apportate grosse novità nel sound del gruppo, concedendo anche qualche citazione (Godsmack e Stone Sour): i Drowning Pool conoscono alla perfezione il genere e, cosa non da poco, lo sanno suonare; vedremo quanto la Napalm ci metterà del suo nel supportare un’opera che a livello commerciale è fuori tempo massimo, ma io un ascolto ve lo consiglio, fidatevi.

TRACKLIST
01. Push
02. By The Blood
03. Drop
04. Hell To Pay
05. We Are The Devil
06. Snake Charmer
07. My Own Way
08. Goddamn Vultures
09. Another Name
10. Sympathy Depleted
11. Stomping Ground
12. Meet The Bullet
13. All Saints Day

LINE-UP
Jasen Moreno – Vocals
CJ Pierce – Guitar
Stevie Benton – Bass
Mike Luce – Drums

DROWNING POOL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=K_X_ZboXQDo

Maze Of Terror – Ready To Kill

Esame sulla lunga distanza superato per i Maze Of Terror: Ready To Kill è sicuramente da considerare un ottimo album di genere.

Thrash metal old school, violento e senza compromessi, alimentato da una vena death che ne fa un esempio di metal estremo, primitivo, rude ed ignorante.

Questo in poche parole è il sound prodotto dai Maze Of Terror, combo peruviano al primo full length dopo la nascita avvenuta nel 2011, un ep e lo split con i greci Amken, uscito lo scorso anno e di cui ci siamo occupati sulle nostre pagine.
La buona impressione che i brani inclusi nello split avevano suscitato, non cambia, il gruppo aggredisce e distrugge con il suo thrash metal di origine teutonica e i richiami ai vari Destruction e Kreator, continuano ad essere preponderanti nel devastante sound proposto dal gruppo di Lima.
Giovani ma attrezzati per convincere i fans dei suoni old school, i Maze Of Terror ci vanno giù pesante, presentandosi con un trittico si brani da massacro senza pietà.
Rotting Force, Lycanthropes e There Will Be Blood danno fuoco ai cannoni e Ready To Kill parte a bomba per non fermarsi più in tutti i suoi cinquanta minuti abbondanti di durata.
Tra i solchi delle tracce presentate, affiorano a tratti gli Slayer , signori incontrastati del genere, mentre la voce aggressiva e cartavetrata di Leviathan ci catapulta in un mondo di guerre, violenze e distruzione ( più o meno, quello in cui viviamo).
La prima impressione è che la band sia migliorata molto sotto l’aspetto esecutivo, non mancano infatti cavalcate metalliche, dove la sezione ritmica spara mitragliate a forti velocità e le sei corde impazzano in corse su e giù per il manico, come carrelli lanciati all’impazzata sulle montagne russe.
Velocità, e rallentamenti cadenzati ma potentissimi, rendono l’album vario (World’s Dead Side), mentre la durata si restringe e si arriva alla conclusiva Giles De Rais, traccia di oltre dieci minuti (cosa rara nel genere) che mette in mostra non solo la bravura, ma la personalità del combo peruviano, affrontando una composizione che risulta violentissima, complessa ma molto ben strutturata, variando il sound ed alternando violenza thrash a momenti metallici più in linea con il mood classico del metal old school.
Ottima prova dunque, ed esame sulla lunga distanza superato per i Maze Of Terror: Ready To Kill è sicuramente da considerare un ottimo album di genere.

TRACKLIST
1. Rotting Force
2. Lycanthropes
3. There Will Be Blood
4. Violent Mind of Hate
5. World’s Dead Side
6. Bringer of Torture
7. Protectors
8. Executio Bestialis
9. Blooded Past, Burning Future
10. Gilles de Rais

LINE-UP
Leviathan – Bass, Vocals
Hammer – Drums
Criminal – Mind Guitars
Razor – Guitars

MAZE OF TERROR – Facebook

Black Whispers – Shades of Bleakness

L’inquietudine che trasuda da Shades of Bleakness viene efficacemente veicolata verso l’ascoltatore con un disco relativamente breve e dalle sonorità piuttosto uniformi, ma che hanno in comune linee melodiche molto efficaci

Ecco un bellissimo disco di depressive black metal proveniente dalla Costarica: fino a qualche tempo fa un simile incipit avrebbe destato una certa sorpresa ma, oggi, è ormai assodato che certe pulsioni dell’animo umano non hanno limiti di tempo e luogo né, soprattutto, di espressione.

In effetti, l’unico costaricense del trio è il giovane J.F., chitarrista e vocalist che si fa coadiuvare dal messicano Nergot e dall’italiana Kjiel, personaggio di spicco della scena DSBM nostrana, qui rappresentata anche da HK, che si occupa del drumming sull’album.
Quello che fa la differenza nell’ambito di questo genere, dato per scontato uno stesso desiderio da parte degli autori di rappresentare stati di alienazione dalla realtà propedeutici a comportamenti suicidi o autolesionistici, è la capacità dei singoli musicisti di rendere credibili e nel contempo fruibili le loro soluzioni espressive. Nei Black Whispers entrambi gli aspetti vengono proposti al meglio, sicché l’inquietudine che trasuda da Shades of Bleakness viene efficacemente veicolata verso l’ascoltatore con un disco relativamente breve (4 tracce più intro) e dalle sonorità piuttosto uniformi ma che hanno in comune linee melodiche molto efficaci e, soprattutto, in grado di comunicare manifestamente tutto il senso di disagio.
Una piccola pecca è rinvenibile nel canonico screaming disperato che, essendo un po’ piatto, talvolta si rivela quasi un elemento di disturbo se inserito in un ambito musicale sovente dai tratti melodici, per quanto foschi; è anche vero, però, che questo aspetto è parte integrante di un genere che, per sua natura, non deve né rassicurare né consolare, quindi a chi apprezza tutto ciò non risulterà sgradito più di tanto.
Una lieve imperfezione che, comunque, non va inficiare quello che si rivela come uno dei migliori album depressive black metal ascoltati negli ultimi tempi e, come detto in fase di introduzione, non stupisca il fatto che l’artefice di tutto ciò provenga dalla Costarica: la musica è un qualcosa di universale, impossibile da delimitare erigendo muri o reti elettrificate …

Tracklist
1. Intro (Useless Existence)
2. Gloom
3. Never-ending Unsteadiness
4. Stuck in the Past Ruins
5. Dying (Life Neglected сover)

Line-up:
J.F. – Vocals, Lyrics
Kjiel – Guitars, Additional Vocals
Nergot – Bass
HK – Drums

BLACK WHISPERS – Facebook

Foundry – Foundry

Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti

La Sleaszy Records, etichetta ellenica che annovera ottime band nel suo rooster, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock, fa il botto con i Foundry, gruppo proveniente da Las Vegas che licenzia il suo debutto omonimo, supportato da un dispiegamento di forze niente male.

Al microfono troviamo infatti Kelly Keeling, di recente sul mercato con un album solista, ex singer dei Baton Rouge e coinvolto in molti progetti gravitanti nel pianeta del rock duro in compagnia di MSG, John Norum, King Kobra, Heaven And Earth, George Lynch, Alice Cooper, Blue Murder, Dokken, Trans-Siberian Orchestra e molti altri, insomma il gotha della nostra musica preferita.
Ad accompagnare prezzemolino Keeling, una band di tutto rispetto, con la sei corde di James Fucci a sparare riff duri come l’acciaio, le pelli del drummer Marc Brattin a formare una sezione ritmica dal groove micidiale insieme al basso di Jason Ebs, che ha suonato nel disco, ma non risulta nella formazione ufficiale.
Detto di Erik Norlander, Scott Griffin e Stoney Curtis come special guests, il vero fiore all’occhiello di Foundry è rappresentato dal guru Steve Thompson al mixer ed alla produzione dell’album, un signore che ha messo a disposizione il suo talento per bands come Guns’n’Roses, Metallica, KISS e Soundgarden.
Con queste premesse ammetto che la curiosità era tanta, ed in parte l’album non delude, l’hard rock made in U.S.A, dalle chiare influenze street, valorizzato dalla voce ruvida del singer, che non disdegna una clamorosa impronta blues, riesce nell’intento di procurare brividi, specialmente a chi ama il rock americano, potenziato da ritmiche che imbottiscono di groove il sound del gruppo.
Il gruppo varia le atmosfere dell’album e si passa cosi da brani dal piglio tradizionale, ad altri molto più moderni, in un’alternanza tra i suoni hard rock classici e molti che sconfinano nel rock anni novanta, vicino all’alternative, in poche parole troppe songs si avvicinano al sound degli Alice In Chains (Rolling Stoned, Calling Allah) perdendo non poco in personalità.
Poco male, i brani risultano ottimi e suonati alla grande, ma è indubbio che da un gruppo di musicisti di tale esperienza, ci si aspettava qualcosa in più che una raccolta di tracce suonate con mestiere.
A mio parere Foundry offre il meglio di se nelle songs che pur conservando un piglio moderno, mantengono i piedi ben saldi nell’hard rock classico (Hell Raiser e Get Over It) e dove il singer estrae dal cilindro quel timbro bluesy che ancor oggi procura pelle d’oca a profusione.
Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti, ma rimane solo un po’ di amaro in bocca per qualche traccia troppo derivativa.

TRACKLIST
1. Blinded
2. Mind Radio
3. Get Over It
4. Rolling Stoned
5. Calling Allah
6. Hell Raiser
7. Shake
8. False Alarm
9. Television
10. Vegas Baby!
11. Vegas Baby! (bonus video, exclusive only on the Sleaszy Rider’s edition!)

LINE-UP

CURRENT LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar

RECORDING LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar
Jason Ebs – bass

FOUNDRY – Facebook

Stigmata – The Ascetic Paradox

Gli Stigmata viaggiano tra tutti i sottogeneri del metal, la loro musica risplende di digressioni jazzate, folkloristiche, in uno tsunami di ritmiche devastanti

Che bello viaggiare virtualmente per il mondo alla ricerca di realtà musicali che, se non fosse per la collaborazione con IYE, avrei sicuramente perso, per quanto nella mia lunga vita da appassionato di musica non abbia mai smesso di cercare e scovare band interessanti e, magari agli inizi della loro carriera, poco conosciute.

Ed ecco che, come ormai d’abitudine, mi immergo nel mondo metallico asiatico, questa volta è lo Sri Lanka ad accogliermi, paese che ha dato i natali nell’ormai lontano 1999 a questa clamorosa band che prende il nome da un album degli Arch Enemy, gli Stigmata.
Il quintetto, proveniente dalla città di Colombo, è in possesso di una nutrita discografia, iniziata nei primi anni del nuovo millennio con un ep (Morbid Indiscretion) e proseguita con tre lavori sulla lunga distanza, Hollow Dreams del 2013, Silent Chaos Serpentine del 2006, Psalms of Conscious Martyrdom del 2010 e quest’ultimo, eccellente The Ascetic Paradox.
Come avrete notato in alto a destra, il genere descritto è semplicemente metal: troppo lunga sarebbe stata la lista se fossi andato nello specifico, perché questi cinque ottimi musicisti inglobano nel loro sound praticamente tutti i generi di cui il mondo metallico è composto.
Il bello è che lo fanno con una semplicità disarmante e quello che ne esce non è un minestrone di suoni, ma un’ apoteosi di metalliche atmosfere devastanti, ipertecniche, progressive, potenti, drammatiche ed assolutamente originali nel loro saltare da un genere all’altro.
Partendo da una base sonora che si avvicina terribilmente ai Nevermore più progressivi (anche per la voce spettacolare del singer che ricorda non poco quella di Warrel Dane), gli Stigmata viaggiano tra tutti i sottogeneri del metal, la loro musica risplende di digressioni jazzate, folkloristiche, in uno tsunami di ritmiche devastanti: le sei corde valorizzano il tutto con riff e solos dalla tecnica formidabile, molte volte a velocità inaudita.
I testi di denuncia politico, sociale e religiosa sono interpretati con toni tragici e drammatici da Suresh de Silva, vocalist sontuoso, dotato di una personalità debordante così come l’album, che risulta un’opera fuori dal comune.
Tra i solchi di questi otto brani, lunghi ed articolati, tutti d’ascoltare, ma guidati dalla progressiva Rush Through The Twilight Silver Slithering Stream e dalla conclusiva suite estrema, di ben oltre tredici minuti, And Now We Shall Bring Them War!, troverete ad aspettarvi Nevermore, Death, Cynic, Tool, Arch Enemy, Pestilence, Dream Theather, Rush e molti altri, uniti in questo stupendo affresco metallico al secolo The Ascetic Paradox.

TRACKLIST
1. Our Beautiful Decay
2. An Idle Mind is The Devil’s Workshop
3. Stillborn Again
4. Rush Through The Twilight Silver Slithering Stream
5. Calm
6. Axioma
7. Let The Wolves Come & Lick Thy Wounds
8. And Now We Shall Bring Them War!

LINE-UP
Suresh de Silva – Vocals, Lyrics
Tennyson Napoleon – Rhythm Guitar
Andrew Obeyesekere – Lead Guitar
Lakmal Chanaka Wijayagunarathna – Bass Guitar
Roshan Taraka Senewirathne – Drums

STIGMATA – Facebook

Elevators To The Grateful Sky – Cape Yawn

Gli Elevators To The Grateful Sky si confermano come una magnifica realtà fuori dagli schemi prefissati del rock attuale, con un altro capolavoro che li eleva a gruppo di culto.

Elevators To The Grateful Sky, Sergeant Hamster, Haemophagus, Undead Creep, per molti saranno nomi poco conosciuti, ma per chi segue l’underground e le ‘zine di riferimento come la nostra, sono tasselli musicali che formano un mondo metal/rock, nella regione più a sud della nostra penisola, la Sicilia.

In quel di Palermo vivono e si riproducono questi virus di musica del diavolo, che hanno nel loro dna molti dei generi di cui il nostro mondo è composto, dal più estremo death metal, allo stoner, dal doom all’hard rock settantiano, tutti suonati in modo originale, per niente scontato, miscelandoli a dovere con garage, psichedelia, progressive e tanto rock’n’roll.
Cloud Eye, primo lavoro dei fenomenali Elevators To The Grateful Sky, licenziato nel 2013 e finito inesorabilmente nella mia play list di quell’anno, seguiva il primo ep omonimo e vedeva la band di Sandro Di Girolamo (ex Undead Creep) alle prese con un capolavoro di musica desertica, psichedelica, matura, probabilmente favorita da un caldo territorio che richiama le aride distese che si trovano sul suolo americano e che hanno influenzato quarant’anni di rock.
Al fianco di Di Girolamo troviamo sempre Giuseppe Ferrara alla sei corde, Giulio Scavuzzo alle pelli e Giorgio Trombino, chitarra e basso, per il secondo viaggio nel mondo di questa musica senza barriere, ancora una volta persi in un universo sonoro, colorato come un arcobaleno di generi uniti tra loro e che vivono in perfetta simbiosi nello spartito del gruppo siciliano.
Cape Yawn perde leggermente le sfumature grunge per avvicinarsi molto al garage, specialmente nei primi brani, Ground e Bullet Words, che partono sgommando e l’elettricità è subito altissima, le ritmiche rock’n’roll della prima lasciano il posto a quelle stonerizzate della seconda, pregne di riff estrapolati dal decennio settantiano, mentre garage rock e stoner compongono la inyourface All About Chemistry, in un’improbabile ma affascinante jam fra Miracle Workers e Fu Manchu.
Scaldata l’atmosfera, il gruppo da Dreams Come Through in poi dà letteralmente spettacolo, la sabbia calda brucia i piedi, la bocca si inaridisce e veniamo scaraventati in pieno deserto: A Mal Tiempo Buena Cara accompagnata da un riff sabbatiano, ci inonda di doom psichedelico, Di Girolamo canta come un Morrison intrippato per i Kyuss ed il disco prende il volo per non scendere più dal livello di capolavoro.
Kaiser Quartz e la monolitica I, Wheel, su un altro album sarebbero top songs, ma nel mondo Elevators, queste due perle di doom/stoner, vengono solo prima della title track, il brano perfetto, liquido, ipnotico, tremendamente sensuale, come un serpente sinuoso che disegna il suo corpo sulla sabbia, entra in noi e ci avvelena di psichedelia, con un intervento di sax nel finale che è un colpo di grazia alle nostre menti perse in questo arcobaleno.
Laura è uno strumentale dedicato a Mark Sandman, frontman dei Morphine, altro nome importantissimo per lo sviluppo di Cape Yawn, mentre l’hard rock di Mountain Ship e Unwind , sorta di outro liquida, chiudono questo ennesimo capolavoro del gruppo siciliano.
L’album è stato stampato solo in vinile ed è accompagnato dalla splendida copertina disegnata da Di Girolamo, che si dimostra artista a 360° come la sua splendida musica, mentre gli Elevators To The Grateful Sky si confermano come una magnifica realtà fuori dagli schemi prefissati del rock attuale, con un altro capolavoro che li eleva a gruppo di culto.

TRACKLIST
1. Ground
2. Bullet Words
3. All About Chemistry
4. Dreams Come Through
5. A Mal Tiempo Buena Cara
6. Kaiser Quartz
7. I, Wheel
8. Mongerbino
9. Cape Yawn
10. We’re Nothing at All
11. Laura (one for Mark Sandman)
12. Mountain Ship
13. Unwind

LINE-UP
Sandro Di Girolamo – voce, percussioni
Giorgio Trombino – chitarra, basso, sax contralto, conga, tastiere, voce
Giuseppe Ferrara – chitarra
Giulio Scavuzzo – batteria, darbouka, tamburello, percussioni, voce

ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY – Facebook

Mourning Beloveth – Rust & Bone

Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere

Gli irlandesi Mourning Beloveth sono una band dallo stato di servizio lusinghiero nel particolare mondo del doom più oscuro, se pensiamo che la loro storia ha preso avvio oltre vent’anni fa.

Fino all’incisione del precedente full length Formless, nel 2013, tutto sommato il gruppo era noto agli appassionati soprattutto per un eccellente album come A Sullen Sulcus, oltre a diverse buone opere in linea con gli stilemi del genere.
Con lo scorso lavoro, invece, era stata impressa una svolta decisa verso suoni che maggiormente attingevano alla tradizione musicale della propria terra di provenienza, non tanto riferiti al folk quanto ad un peculiare mood epico.
In particolare era emersa in tutto il suo splendore quell’affinità elettiva con i Primordial che ne aveva reso i Mourning Beloveth (citando la mia recensione di Formless) “una versione iper-rallentata”, ma ugualmente affascinante quanto personale.
Rust & Bone costituisce un’ulteriore e forse definitiva evoluzione della band proveniente di Athy: i Mourning Beloveth non sono più, di fatto, una band death/doom nel senso più convenzionale del termine, perché, sebbene la lunga opener Godether evidenzi per buna parte passaggi ascrivibili al genere, è l’atmosfera complessiva che è cambiata: il dolore ottundente viene rimpiazzato ora da un sofferenza dai tratti fieri e solenni, ora da una malinconia propedeutica ad una serenità illusoriamente vicina eppure irraggiungibile.
Quando Godether si apre melodicamente, attorno all’ottavo minuto, le emozioni rompono gli argini e non sarà più possibile contenerle fino all’ultima nota dell’album.
Rispetto a Formless, i Mourning Beloveth hanno optato per una maggiore sintesi, visto che Rust & Bone dura meno della metà del precedente lavoro, ma qui non c’è un solo secondo sprecato: anche i due brevi intermezzi Rust e Bone sono funzionali alla causa, andando ad introdurre le altre due perle The Mantle Tomb e A Terrible Beauty Is Born.
La prima prende avvio come se fosse un outtake di quel capolavoro assoluto intitolato A Nameless God e, allorché entra in scena la voce di Frank Brennan, non ci sono dubbi che questa traccia ci trascinerà in un vortice emotivo dal quale non sarà facile riprendersi. Alternato al robusto growl di Darren Moore, il canto evocativo del chitarrista non lascia scampo, finché la vena “primordiale” del brano non si stempera in una seconda parte strumentale nella quale la chitarra solista va a rovistare in maniera irrimediabile nella nostra anima, annichilita da tanta bellezza oltre che sfregiata dall’urlo disperato di Moore.
A Terrible Beauty is Born arriva achiudere l’album con modalità simili alla lunga Transmission, traccia che occupava interamente il cd bonus di Formless: lo spunto di quell’episodio acustico e dai tratti blueseggianti, qui viene perfezionato e reso in una veste che ne accentua il pathos e la limpidezza: l’interpretazione di Brennan fa tutta la differenza del mondo, donando al brano un’intensità rara e preziosa.
Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere; difficile fare meglio di così, davvero.

Tracklist
1. Godether
2. Rust
3. The Mantle Tomb
4. Bone
5. A Terrible Beauty Is Born

Line-up:
Timmy Johnson – Drums
Frank Brennan – Guitars, Vocals (clean)
Darren Moore – Vocals
Brendan Roche – Bass
Pauric Gallagher – Guitars

MOURNING BELOVETH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=spPn5BlHZVo&feature=youtu.be

Seventh Veil – Vox Animae

Complice una produzione da top album, il suono esce pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock, come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.

Ormai è un fatto, l’Italia in questi ultimi anni sta letteralmente scalando, a livello qualitativo, le posizioni nella classifica delle nazioni dove l’underground metal/rock produce realtà notevoli, ormai giocandosela alla pari con i più produttivi paesi del nord europa.

Vero che qui da noi continua a mancare una cultura per il rock, che in altre nazioni è consolidata da anni ma, mentre i media continuano ad ignorare e far spallucce a questa invasione, il nostro sottobosco musicale si arricchisce di ottime band e grandi lavori in tutti i generi e sottogeneri che vanno a comporre l’universo della nostra musica preferita.
Nell’hard rock, genere che solo pochi anni sembrava essere scomparso e che ha trovato nuova linfa con il successo delle band scandinave da una parte, ed il ritorno sulle scene di molti nomi storici dello street rock ottantiano dalla’altra, i gruppi nati su e giù per lo stivale protagonisti di ottimi album non si contano più e i veronesi Seventh Veil si aggiungono alla lunga lista con questo secondo lavoro sulla lunga distanza dal titolo Vox Animae.
Il debutto del 2012 Nasty Skin ed il primo full length White Thrash Attitude del 2013, indicavano il gruppo veneto come una buona street rock band, influenzata dai suoni della Los Angeles del Sunset Boulevard e dagli eroi di degli anni d’oro del rock’n roll ipervitaminizzato e trasgressivo, colonna sonora di una vita al limite con sex, drugs and rock’n’roll come parola d’ordine.
Vox Animae sposta di non poco le coordinate stilistiche della band, sempre hard rock dalle sfumature stradaiole, ma molto più moderno, cancellando definitivamente quella patina nostalgica che i detrattori del genere sottolineano a più riprese quando si parla di street rock.
Niente paura, i Seventh Veil continuano a suonare hard rock, ma nel loro sound entra prepotentemente un mood moderno e se vogliamo alternativo, che rende i brani di questo Vox Animae freschi, al passo coi tempi e dall’appeal molto elevato.
Diciamolo, un brano come Devil in Your Soul, suonato da un gruppo nato aldilà dell’oceano sarebbe in rotazione su Rock Tv ogni quarto d’ora, così ben bilanciato tra tradizione e modernità, colmo di groove e con un refrain che entra in testa spaccandola in due.
Complice una produzione da top album (Oscar Burato ed i suoi Atomic Stuff studio, qui aiutato da Andrea Moserle , sono una garanzia di qualità), il suono esce  pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.
L’inizio di Living Dead richiama Sixx A.M e Beautiful Creatures, le ritmiche di Together Again portano ad una via di mezzo tra lo street rock e l’alternative metal, mentre il bravissimo singer Lorenzo “Steven” Bertasi si avvicina terribilmente al Corey Taylor versione Stone Sour, mentre saltano le membrane degli altoparlanti sotto il bombardamento ritmico di una modernissima Broken Promises.
Si viaggia su queste coordinate per tutto l’album, la qualità rimane alta, a tratti i toni si fanno delicati con la super ballatona Dad, bissata da Nothing Lasts Forever, mentre SMS chiude l’album con suoni più vicini all’hard rock classico.
In definitiva un album molto accattivante, professionalmente ineccepibile in tutte le sue parti, orgogliosamente italiano pur avendo tutti i crismi di una produzione top made in U.S.A.

TRACKLIST
1. Vox Animae/rEvolution
2. Devil in Your Soul
3. Living Dead
4. Together Again
5. Broken Promises
6. Song For M
7. Dad
8. Noway Train
9. Begging for Mercy
10. No Pain No Gain
11. Nothing Lasts Forever
12. Sms

LINE-UP
Filippo “Jack” Zardini – lead guitars
Lorenzo “Steven” Bertasi – vocals
Davide “Pio” Viglio – drums
Marco “Jeff Lee” Sangrigoli – bass

SEVENTH VEIL – Facebook

Proliferhate – In No Man’s Memory

I Proliferhate sono una band di death metal per nulla convenzionale, basato su un grande e sapiente uso della melodia.

I Proliferhate sono una band di death metal per nulla convenzionale, basato su un grande e sapiente uso della melodia.

Formatisi nel 2012 questi ragazzi torinesi hanno subito imboccato un’ottima strada, che qui confermano con questo ottimo album. Nella loro musica i Proliferhate fanno confluire molti elementi stilistici, dalla brutalità alla melodia, pezzi claustrofobici ed ariose aperture. Il loro death metal è molto originale e variegato ed è difficile circoscrivere in un solo genere il risultato. La loro intensa attività live fornisce un grande apporto al loro suono, e li porta ad essere un grande gruppo nel panorama italiano e non solo, poiché la vocazione internazionale è molto presente. Prodotti da Adriano “Vecchio ” Sette, i Proliferhate si candidano ad essere uno dei migliori gruppi metal italiani del presente ma soprattutto del futuro.

TRACKLIST
1Apologia di un Povero Diavolo Pt.1
2 Ashland
3 Resonance Frequency
4 Der Grossmann
5 In No Man’s Memory
6 Apologia di un Povero Diavolo Pt.2
7 The Court of Owls
8 In My Deep feat. AV7 Sounds

LINE-UP
Durante Omar: Vocals, Guitar
Moffa Lorenzo: Guitars
Simioni Andrea: Bass Guitar
Varlonga Daniele: Drums

PROLIFERHATE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=x8PyHyZs3kM

Ape Unit – Turd

Dieci minuti di grindcore spettacolare, unito ad una neanche troppa sottile ironia e scoppia l’innamoramento del sottoscritto per questa band piemontese e la loro musica estrema.

Dieci minuti di grindcore spettacolare, unito ad una neanche troppa sottile ironia e scoppia l’innamoramento del sottoscritto per questa band piemontese e la loro musica estrema.

Bellissima copertina (a cura dell’artista francese Craoman) titoli dei brani che coinvolgono artisti famosi del panorama rock/ metal internazionale ( Mullet For My Valentine, Children Of Boredom, Go Kart Cobain) e tanto metal estremo, suonato alla grande, violentissimo e perfettamente in grado di soddisfare anche l’ascoltatore non avvezzo al genere, per merito di un songwriting perfettamente bilanciato, una potenza esagerata tenuta ben salda tra lo spartito dei nostri, che clamorosamente, riescono nell’impresa di completare un’opera in un minutaggio così ridotto.
Ape Unit, di base a Cuneo, arrivano al quarto lavoro, questo Turd, un esempio lampante di come il genere possa regalare grande musica, estrema certo, ma perfettamente in grado di esprimere tutto quello che gli artisti vogliono in pochissimo tempo e la cosa sinceramente non è da tutti.
Influenzati dai gruppi storici che il genere lo hanno inventato (Napalm Death e Terrorizer), i cinque grindsters danno un’enorme prova di maturità, confezionando un disco che porta l’ascoltatore a non smettere di sentire e risentire l’enorme potenza che Turd sprigiona in queste dieci tracce, dove non mancano, oltre alla devastante velocità, ritmiche colme di groove che aumenta, se possibile, la sensazione lasciata dal sound di trovarci al cospetto di un carro armato impazzito.
Growl cavernoso che, a tratti, si trasforma in scream schizoide dall’input hardcore, chitarre in overdose di watts ed una predisposizione naturale per la forma canzone, fanno di Turd un’opera irrinunciabile per ogni fan del genere.
E, per una volta, non ci si può lamentare del minutaggio ridotto, l’album è perfetto proprio così com’è.

TRACKLIST
1. Puberal Baphomet
2. Mullet For My Valentine
3. Your Body Will Become My Abat-Jour
4. The Will To Smith
5. Tropical Mode-ON
6. Don’t Touch The Forbidden Congas
7. Orango Juice
8. Sperm Bank Robbery
9. Children Of Boredom
10. Go Kart Kobain

LINE-UP
Mariano Somà – Voce
Marco Losano – Chitarra
Alberto Cornero – Chitarra
Umberto Salvetti – Basso
Steve Bianco – Batteria

APE UNIT – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Spina Bifida – Iter

L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Gli Spina Bifida sono una band olandese che fu tra le prime a proporre le varianti più oscure del doom nel paese dei mulini a vento.

Nonostante un solo album all’attivo (Ziyadah, datato 1993), il nome è sempre stato citato tra quelli definibili “di culto”, condizione che spesso viene allargata a band che producono solo un buon album per poi cadere nell’oblio.
L’occasione per riparlare degli Spina Bifida ci è stata fornita la scorsa estate con la riedizione proprio di Ziyadah, quell’unico parto su lunga distanza da molti considerato un lavoro di grande spessore. Al riguardo ci eravamo espressi in maniera diversa, ritenendola un’opera non priva di un suo fascino pur non essendo all’altezza delle migliori espressioni del settore, ma l’indiscutibile aspetto positivo dell’operazione era la sua funzione evidentemente propedeutica ad un ritorno con un nuovo disco di inediti, come effettivamente è avvenuto.
Il lavoro in questione è questo Ep intitolato Iter, che ha il pregio/difetto di ripartire esattamente da dove la band di Tilburg aveva terminato: il death doom qui contenuto continua ad essere asciutto e senza fronzoli, ma anche privo di slanci indimenticabili, pur risultando come il suo lontano predecessore a suo modo accattivante.
Rispetto alla formazione originale, l’unica novità è rappresentata dalla sostituzione del vocalist dell’epoca con William Nijhof dei Faal e, tutto sommato l’avvicendamento, se porta sicuramente qualche miglioria, non si rivela decisivo nell’economia dell’Ep.
Le buone Singular God e Silent Fields bastano comunque per giustificare questo ritorno sulle scene contraddistinto da un sound dal sapore vintage, dovuto al binomio songwrinting/produzione che mostra tratti piuttosto spartani.
L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Tracklist
1. Untitled
2. Singular God
3. Awe
4. The Dead Ship
5. Silent Fields
6. The Heretic

Line-up:
Veronika – Bass
Gerard – Drums
Rob – Guitars
Harrie van Erp – Guitars
William Nijhof – Vocals

SPINA BIFIDA – Iter

Sarasin – Sarasin

Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.

A volte ritornano.

Prendo in prestito il titolo di un famoso romanzo di Stephen King, per presentare il debutto sulla lunga distanza dei Sarasin, band canadese che torna, tramite Pure Steel, dopo aver licenziato il primo lavoro (l’ep Lay Down Your Guns) quasi trentanni fa.
Era infatti il 1987, poi un lungo silenzio, anche se la band è sempre risultata attiva, ed ora il ritorno con una line up rinnovata di 4/5 e capitanata dall’unico superstite della formazione originale, il chitarrista Greg Boileau.
Heavy metal e hard rock, una buona vena epica che sce dai solchi dei brani, un ottimo vocalist, ed un discreto songwriting è quello che presenta il gruppo di Hamilton, vagando tra gli anni ottanta, tra Dio, e Ozzy Osbourne, scaricando riff heavy a profusione ed un’attitudine che potrebbe far breccia nei cuori dei riockers più attempati.
Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.
The Hammer apre le danze sparando un refrain colmo di groove, un classic rock da rocker motorizzati, Michael Wilson entra nella struttura della song con un piglio osbourniano, come inizio non c’è male, presentandoci una band vogliosa di impadronirsi di tutto il tempo andato perso.
Enemy Within e In Our Image accentuano le atmosfere U.S metal, indubbiamente presenti nel sound del gruppo, mentre Now è un hard rock song melodica su cui i Sarasin ricamano un riff dal tono drammatico.
Soul In Vain e Sinkhole sono potenti hard rock song cadenzate, dove il singer dimostra di essere attrezzato quanto basta per un’interpretazione suggestiva; Live To See The Glory, ritorna al rock settantiano, enfatizzata da un riff dall’ottimo appeal, per rallentare seguendo strade progressive, mentre giungiamo al termine con l’heavy rock di Forevermore e la liturgica Wake Up, una danza di rock dall’elevato mood settantiano, perfetta chiusura dell’album.
Detto del buon lavoro delle sei corde e di una sezione ritmica che non sfigura, con una prestazione che segue le varie anime del disco con tecnica e gusto, non mi rimane che consigliare l’ascolto ai rockers di provata esperienza, l’album merita, composto da buone songs, ma dubito che farà proseliti nei metallari più giovani, anche se il senso di operazione nostalgia è da trovare altrove, non certo in Sarasin.

TRACKLIST
1. The Hammer
2. Enemy Within
3. In Our Image
4. Now
5. Soul in Vain
6. Sinkhole 7.
Live to See the Glory
8. Forevermore
9. Wake Up

LINE-UP
Les Wheeler – Bass
Roger Banks – Drums
Jim Leach – Guitars
Greg Boileau – Guitars
Mike Wilson – Vocals

SARASIN – Facebook

Throne Of Heresy – Antioch

Un album compatto con molti momenti sprizzanti grande musica estrema e nessun calo in tutti i suoi quaranta minuti di durata

Il Death Metal è un genere affascinante, da quando più di vent’anni fa le orde di truppe assatanate invasero il mondo scendendo in parte dal nord europa e per l’altra metà, attraversando l’oceano, in viaggio dal nuovo continente, il genere si è sviluppato in una miriade di ramificazioni, tutte portando in se realtà entusiasmanti.

Certo, come in tutti gli altri generi che compongono il variegato mondo metallico, anche il death ha visto band qualitativamente parlando mediocri, ma il trend rimane molto alto, soprattutto quando incipt viene dall’old school e dalla famigerata scena scandinava.
Il gruppo di Linköping (Svezia) è l’esempio lampante di come il genere produca continuamente gruppi di notevole spessore, ed il loro Antioch ribadisce l’ottima salute che gode il death metal scandinavo in questi anni, ritornato nell’underground, dopo i fasti degli anni novanta, ma li dopo essersi leccato le ferito, tornato a far male.
I Throne Of Heresy arrivano, con questa notevole bomba sonora, al secondo lavoro sulla lunga distanza, finalmente con un’etichetta in appoggio, dopo i due lavori autoprodotti, The Stench of Deceit, esordio sulla lunga distanza del 2012 e l’ep Realms of Desecration di tre anni fa.
Antioch non fa prigionieri, un assalto scandinavian death agguerrito e furente con piccole dosi letali di black metal scuola Behemoth che, sporcano il sound di nera pece, letale e ma allo stesso tempo melodico nei solos che spiazzano su riffoni pesanti come incudini.
Produzione perfetta, growl che scatena gli istinti più animaleschi ed una raccolta di brani che stritolano, staccano carne a brandelli come investiti da un cingolato, mordono e si accaniscono sui poveri resti come belve demoniache.
Velocità e lenta pesantezza, melodie e aggressività, una discesa senza freni nel death metal, come lo si suona nei freddi paesi su al nord, tecnica invidiabile e songwriting di elevata qualità fanno di Antioch un must per gli amanti del genere, specialmente per i fans della vecchia guardia, abituati a farsi massacrare dalle opere di Hypocrisy, primi Edge Of Sanity, Arch Enemy e compagnia nordica.
Un album compatto con molti momenti sprizzanti grande musica estrema e nessun calo in tutti i suoi quaranta minuti di durata, in poche parole un gigantesca mazzata made in Sweden … What else?

TRACKLIST
1. The God Delusion
2. Serpent Seed
3. Nemesis Rising
4. Flagellum Daemonum
5. Exordium
6. Black Gates of Antioch
7. Blood Sacrifice
8. Phosphorus
9. Souls for the Sepulchre
10. Where Bleak Spirits Pass

LINE-UP
Mathias Westman- Drums
Tomas Göransson- Guitars
Björn Ahlqvist- Bass
Thomas Clifford- Vocals
Michael Edström- Guitars

THRONE OF HERESY – Facebook

An Argency – Through Existence

I già ottimi An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.

Se c’è qualcosa che mi mette di buon umore è la constatazione che, in ogni parte del mondo, ci sono sempre dei ragazzi che hanno voglia di esprimersi attraverso un veicolo meraviglioso come la musica.

Se poi questa racchiude la rabbia, l’urgenza, la freschezza e, perché no, anche l’ingenuità di un gruppo di imberbi giovanotti di Minsk, beh, tanto meglio.
Gli An Argency ti spiazzano fin dalle foto promozionali: se ascolti il loro disco senza conoscerne le sembianze pensi di imbatterti in rudi e cattivissimi esseri barbuti e capelluti, pronti a sfasciare qualsiasi locale in cui abbiano suonato per vendicarsi della scarsa quantità di birre messe a loro disposizione.
Ma, come ben sappiamo, l’abito non fa il monaco, ed il volto pulito dei nostri è ingannevole quanto mai, infatti Through Existence è una mazzata assestata tra capo e collo dalla quale ci si riprende a fatica: collocabile da qualche parte a cavallo tra Fear Factory e Meshuggah, volendo citare i nomi più noti, senza dimenticare il lato più estremo di band geniali quanto misconosciute come Xanthochroid e Mechina, il sound degli An Argency non fa sconti ed in mezz’ora rielabora e scarica tutto ciò che di spiacevole i ragazzi bielorussi hanno evidentemente già fatto tempo ad assimilare nella loro ancor breve esistenza.
Una durata giusta, anche se apparentemente breve, perché le tracce sono tutte intense quanto “piene” e l’ascolto di sicuro non rivela agevole; si diceva delle poche ingenuità, che possiamo individuare in qualche passaggio leggermente manieristico a base di metalcore tout court o qualcun altro in cui una certa anima djent prende il sopravvento, facendo calare un’intensità che, nella stragrande maggioranza della durata del lavoro, si mantiene a livelli spasmodici, con picchi rinvenibili nel singolo An Empty Shell, nella eccellente Condemned e nella conclusiva Torturer.
Sorpresa tra le più belle degli ultimi tempi, gli An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.
L’album è reperibile per ora sulle più note piattaforme digitali, ma direi che la band bielorussa è già ampiamente pronta per finire sotto l’egida di qualche label che abbia voglia di puntare ad occhi chiusi su gioventù, freschezza e talento da vendere.

Tracklist:
1.Above The Ashes
2.Torturer
3.An Empty Shell
4.False Recognitions
5.Condemned
6.Sheltered
7.A Place To Rest
8.My Solace
9.The Final Conclusion
10.Torturer

Line-up:
Vitaut Kashkurevich – Guitar
Ilya Miroshnichenko – Vocals
Zhenya Buyak – Guitar
Dmitry Romanenko – Drum
Roman Voronkevich – Bass

AN ARGENCY – Facebook

Funeral Mantra – Afterglow

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.

Avevamo parlato molto bene un paio di anni fa di questa band romana, in occasione del loro primo demo autoprodotto, un esordio composto da quattro brani inediti, dopo qualche anno di gavetta come cover band.

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.
Prodotto da Luciano Chessa, già al lavoro con i fenomenali Helligators, La Menade e i Graal, l’album conferma le ottime impressioni avute all’ascolto del passato demo, ora la band risulta davvero una pericolosa macchina da guerra doom/stoner, migliorando molto in personalità e lanciando sul mercato un potentissimo esempio di musica sabbatica, desertica e stonata.
Che il genere sia questo, prendere o lasciare, non fa una piega, è come lo si suona che fa la differenza e la band romana, senza tanti giri di parole spacca che è un piacere, limitando di molto divagazioni psichedeliche e jam acide care a molti gruppi di stoner classico, ed elargendo potentissime bordate di doom settantiano, hard rock e groove come se piovesse.
La prova sopra le righe del vocalist Dude, una via di mezzo tra un orso ferito e Zakk Wylde e l’ottimo songwriting, confermano che siamo davanti ad un gruppo notevole, nel genere uno dei migliori dell’underground dello stivale.
Riff che potrebbero essere usati per demolire palazzi in disuso, solos giunti fino a noi dai lontani anni settanta, ritmiche colme di sano groove stoner, fanno di Afterglow un lavoro annichilente per impatto ed affascinante nelle atmosfere, che mantengono inalterata la coltre di nebbia portata dal vento, che si insinua nella nostra stanza direttamente da cerimonie sabbatiche dove viene rievocato il gotha del genere mondiale, gruppi in cui ci siamo imbattuti negli ultimi quarant’anni di musica rock.
Detto che le quattro tracce presenti sul demo fanno bella mostra di se anche su Afterglow ( arrembante Parsec, monolitica Funeral Mantra, varia e dal gusto alternative Gravestones Reveries, una botta alla Black Label Society, Drifting) le altre sei composizioni arricchiscono il mondo Funeral Mantra di songs trascinanti, irresistibili nel loro coniugare un genere tosto e senza compromessi, come quello suonato, ad un immediato appeal tra i brani e con l’ascoltatore, grazie alla fruibilità e alla freschezza di brani dal notevole carisma come Dimensions Onward, l’irresistibile e ritmata In These Day, la muscolosa Brainlost, tranciata a metà da una frenata e da un assolo creato per sconvolgere, e la titletrack, chiusura psichedelica di un album debordante.
Per chi non conoscesse il gruppo capitolino e vuole i soliti nomi di riferimento, allora avvicinatevi senza indugi a questo lavoro, perché al suo interno ci troverete Black Label Society, Black Sabbath, dirigibili zeppeliniani, Grand Magus, Cathedral, Kyuss e Pentagram; mi fermo qui e vi invito a far vostro questo Afterglow, non lo toglierete dal lettore per tanto, tanto tempo.

TRACKLIST
1. Soulstice
2. Dimension Onward
3. Gravestone Reveries
4. Brainlost
5. In These Eyes
6. Funeral Mantra
7. Parsec
8. Counterfeit Soul
9. Drifting
10. Afterglow

LINE-UP
Vikk- Bass
Richard- Guitars
Randy- Guitars
Simone “Dude”- Vocals
Marco “Karonte”- Drums

FUNERAL MANTRA – facebook

childthemewp.com