Arche – Undercurrents

Splendide progressioni ammantate di pathos si alternano a passaggi più rarefatti o a repentine aperture melodiche, poste quasi a simboleggiare un’effimera quanto illusoria attenuazione del dolore che pervade l’intero lavoro.

Che la Finlandia sia la patria del funeral non ci sono dubbi, visto che i Thergothon prima e gli Skepticism poi hanno di fatto inventato e codificato questo meraviglioso sotto genere del doom metal.

Nel corso degli anni altre band provenienti dalla terra dei mille laghi hanno fornito prove indimenticabili, citiamo solo Shape of Despair, Colosseum e Profetus tra le più note; proprio da questi ultimi proviene Eppu Kuismin, che ha formato da poco questa nuova band denominata Arche e il cui esordio si rivela una nuova dolorosa perla.
Il musicista finnico di fatto si mette in proprio, componendo, suonando la chitarra ed occupandosi anche delle parti vocali, coadiuvato da Panu Raatikainen a basso e chitarra e Ville Raittila alla batteria: il sound proposto dagli Arche non ricalca però più di tanto quello della band madre ma, semmai, si avvicina maggiormente a quanto fatto dai Colosseum.
In qualche modo questa nuova creatura, infatti, va a comare il vuoto creato dall’inevitabile split dovuto alla prematura dipartita di Juhani Palomäki, ripercorrendone le orme con una scrittura contraddistinta da una costante tensione emotiva, optando per un gravoso incedere guidato da riff diluiti e distorti sui quali si vanno ad appoggiare arpeggi che disegnano melodie struggenti, come accade in particolare nel finale della magnifica Plains Of Lethe.
Ma nel sound del trio di Tampere confluiscono, alla fine, anche influenze provenienti sia dal centro Eyropa (Worship, per certi passaggi dalla lentezza soffocante), sia dall’emisfero australe (Mournful Congregation, per un certo gusto nell’utilizzo delle soluzioni acustiche), a denotare una conoscenza della materia da primo della classe da parte di Kuismin.
Funereal Folds è la seconda delle due lunghe tracce che vanno a comporre questa mezz’ora di funeral doom ai suoi massimi livelli: anche qui le splendide progressioni ammantate di pathos si alternano a passaggi più rarefatti o a repentine aperture melodiche, poste quasi a simboleggiare un’effimera quanto illusoria attenuazione del dolore che pervade l’intero lavoro.
Undercurrents è nutrimento fondamentale per chi nella musica cerca emozioni durature e non canzoncine da fischiettare sotto la doccia …

Tracklist
1. Plains of Lethe
2. Funereal Folds

Line-up:
Eppu Kuismin – Guitars, Vocals
Panu Raatikainen – Guitars, Bass
Ville Raittila – Drums

ARCHE – Facebook

https://vimeo.com/131759482

Supreme Carnage – Sentenced By The Cross

Un altro ottimo album che riprende le storiche sonorità dei primi anni novanta, tornate a far sanguinare orecchie negli ultimi anni

Tedeschi, ma musicalmente devoti al death metal old school di matrice scandinava, tornano con un nuovo lavoro i devastanti Supreme Carnage, nati da una covata malefica in quel di Monaco nel 2010, ed al terzo lavoro, dopo aver incendiato impianti stereo a go go, con il debutto A Masterpiece of Execution, ep del 2012 ed il primo full length licenziato due anni fa, Quartering the Doomed.

Giunge dunque, in questo ultimo rigurgito del 2015, questo nuovo album, accompagnato da una bellissima copertina e da undici brani di massacrante, terribile ed epico death metal vecchia scuola, intitolato Sentenced By The Cross, goduria irrefrenabile per gli amanti del buon vecchio metal estremo, suonato tanti anni fa nelle fredde lande del nord Europa.
Il quintetto cala sul tavolo un poker di sonorità che ormai hanno raggiunto lo status di leggenda, portando nel nuovo millennio, con buoni risultati gli insegnamenti delle band madri del movimento estremo dei primi anni novanta.
E allora, fuori grinta e cattiveria e via, all’assalto, con questi cinquanta minuti scarsi di death metal, suonato alla grande, prodotto come si faceva una volta, dall’impatto disumano e dai cliché, magari abusati ma sempre affascinati.
Accelerazioni, doppia cassa a manetta, rallentamenti doom/death ed un growl uscito da una putrida caverna, dove i demoni, nascono e si moltiplicano sono le virtù principali di Sentenced By The Cross.
La band senza strafare sa giocare con la materia, ed usa tutti i mezzi per piacere a chi, nella sua libreria, ha ancora in bella mostra i cd di Dismember, Grave, primi Entombed e Unleashed.
Death metal old school senza compromessi, dunque, ma ben fatto, molto coinvolgente e compatto, un monolito di musica estrema che travolge, forte di una sezione ritmica terremotante, un vocalist in continua possessione demoniaca e asce che torturano, seviziano e urlano dolore.
Non c’è una song che prevale sulle altre, l’album parte a mille e non si ferma finché l’ultimo giro del dischetto viene letto dal laser ottico, a meno che, distrutti da cotanta potenza non siate voi a fermare il massacro, violentati dal genere estremo per eccellenza.
Buon lavoro, un altro ottimo album che riprende le storiche sonorità dei primi anni novanta, tornate a far sanguinare orecchie negli ultimi anni, specialmente nell’underground, per i fans consigliato senza riserve.

TRACKLIST
1. Intro
2. Sentenced by the Cross
3. Skin Turns Black
4. The Sewerage of God
5. One Pound of Iron
6. Compurgation
7. Right of Sanctuary
8. Sodomized
9. Cup of Wrath
10. Burn for Me
11. Fire

LINE-UP
Svensson – Bass
Acker – Guitars
Dragoncolmont – Vocals
Mirko – Drums
Nova – Guitars

SUPREME CARNAGE – Facebook

War Atrocities – Necromantical Legions Ep

Questo disco è molto divertente, ci porta in un incrocio e si sa, gli incroci sono luoghi satanici dove si incontrano punk, metal e trash, con una spruzzata di black metal

Il bello del metal, oltre ad essere metal, è che può essere declinato in molti modi, essere suonato da gruppi o anche da singoli.

Il metal suonato da una sola persona è praticamente un genere a sé stante e vi sono molti ottimi esempi di ciò. In questo caso troviamo la creatura del croato di Spalato Wastelander, War Atrocities, un coagulo di black, trash e scorie radioattive di Venom, Hellhammer, Celtic Frost e di velocità ed attitudine metalpunk. Ma ciò che ricorda maggiormente sono i Bathory dei primi dischi, anche se il croato è più veloce e punk. Il risultato è un disco incalzante e debitore di più di una bevuta a quel signore che è appena venuto a mancare, Lemmy, che con i suoi Motorhead ha anfetaminizzato il rock, spingendolo in territori metal. Infatti l’ultima canzone è il rifacimento di Armageddon dei Bathory, tratto dall’omonimo album del 1984. Questo disco è molto divertente, ci porta in un incrocio e si sa, gli incroci sono luoghi satanici dove si incontrano punk, metal e trash, con una spruzzata di black metal, anche perchè il black deriva da quei generi di cui sopra.
Necromantical Legions raggiunge in pieno lo scopo di dare nero piacere metallico, portandoci fra schiere di demoni che schizzano veloci verso i loro supplizi. Qui si può trovare quello spirito che animò il giovane Quorthon per cambiare le carte in tavola, più dei Venom e di tanti altri gruppi. Un disco notevole per pura e semplice devastazione.

TRACKLIST
1.Screams From The Pits
2.Destruktor of Eternal
3.Mayhem Mongers
4.Cryptic Calls
5.Storm of The Tyrants
6.Ripper Lust
7.Armageddon (Bathory)

LINE-UP
Wastelander : Everything.

WAR ATROCITIES – Facebook

Cauldron – In Ruin

Una band onesta, un sound che è storia del nostro genere preferito, ed un lotto di buone canzoni, fanno di In Ruin un album consigliato agli amanti dell’heavy metal tradizionale di scuola ottantiana.

In questo periodo di ritorno dei suoni vintage e classici, anche l’heavy metal trova i suoi adepti, che tornano al sound di metà anni ottanta con ritrovata verve ed un pizzico di attitudine nostalgica.

A label come la tedesca Pure Steel, ormai punto di riferimento per il metal/rock dai suoni classici, si aggiungono piccole etichette che, con ritrovato entusiasmo, ci regalano lavori dallo spirito vintage, ma di per se molto affascinanti, un viaggio sulla macchina del tempo musicale e fermata nel Regno Unito, intorno al 1982 o giù di li.
La High Roller Records distribuisce in Europa, l’ultimo lavoro dei canadesi Cauldron, trio di Toronto con in testa l’heavy metal old school e la scena britannica, conosciuta come new wave of british heavy metal.
In Ruin è il quarto full length di un’avventura iniziata nel 2006 con l’esordio Live 7 e continuata tra ep, split e tre album, Chained to the Nite del 2009, Burning Fortune del 2011 e Tomorrow’s Lost dell’anno dopo e che ha visto la band calcare i palchi insieme a gruppi di notevole spessore come Nevermore, gli storici Diamond Head, i thrashers Death Angel e le leggende Metallica.
Non male direte voi, beh i Cauldron ci sanno fare, il loro sound così devoto al genere storico per antonomasia di tutto il panorama metallico, non lascia niente all’originalità, ma in quanto ad attitudine sembra davvero di essere al cospetto di un album ed una band uscita tra i vicoli di una Manchester o Londra di primi anni ottanta.
Tutto è perfetto nel suo spirito nostalgico, ritmiche e cavalcate elettriche, cori, refrain e riff che non risparmiano melodie, un tono vocale perfetto per il melodic heavy metal e canzoni sufficientemente buone per tenere l’ascoltatore con le cuffie ed il volume al massimo, dall’opener No Return / In Ruin, giù per Hold Your Fire, Santa Mira, fino alla bellissima semiballad dai rimandi sassoni Delusive Serenade, che avvicina alla conclusione questo buon esempio di heavy metal vecchia scuola, non prima di averci fatto sbattere le capocce con Outrance, che mette la parola fine sul nuovo album dei Cauldron.
Una band onesta, un sound che è storia del nostro genere preferito, ed un lotto di buone songs, fanno di In Ruin un album consigliato agli amanti dell’heavy metal tradizionale di scuola ottantiana.
Da ascoltare stando attenti alle lacrimucce, effetto collaterale per i vecchi true metallers.

TRACKLIST
1. No Return / In Ruin
2. Empress
3. Burning at Both Ends
4. Hold Your Fire
5. Come Not Here
6. Santa Mira
7. Corridors of Dust
8. Delusive Serenade
9. Outrance

LINE-UP
Jason Decay – bass/ vocals
Ian Chains – guitar
Myles Deck – drums

CAULDRON – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=LNibgkOIXEw

Excruciation – Twenty Four Hours

Ep che sembra segnare una svolta dark per gli esperti elvetici Excruciation, in attesa di verificarne l’impatto con l’album di prossima uscita.

Twenty Four Hours è un breve ep che segna, almeno in apparenza, una svolta importante nel sound di un band dalla storia ormai trentennale come gli svizzeri Excruciation.

Nati come fautori di un thrash piuttosto canonico proposto nella prima parte della loro carriera (dal 1985 al 1991), dopo una lunga pausa durata quasi tre lustri gli elvetici si sono ripresentati spostandosi in maniera decisa verso il death doom piuttosto plumbeo che ha contraddistinto i tre full length finora incisi (“Angels to Some, Demons to Others”, “[t]horns” e “[g]host”); quest’ultima uscita, invece, farebbe presupporre un ulteriore cambio di direzione stilistica facendoli approdare su lidi più dark, con sconfinamenti frequenti in un gothic/post punk reso robusto dal persistente scheletro metallico.
Non a caso, l’ep prende il titolo dal singolo omonimo pubblicato poco prima che altro non è se non la cover del capolavoro targato Joy Division. Ovviamente, riuscire a trasmettere lo stesso senso di dolente alienazione provocato dalla voce di Ian Curtis era impensabile, per cui i nostri, avvalendosi invece del gotico vocalismo di Eugenio Meccariello, irrobustiscono non poco le trame fornendo una versione decisamente condivisibile di un brano-monumento della storia della musica (almeno per quanto mi concerne).
Le altre due tracce ci mostrano gli Excruciation alle prese con questa commistione di doom e darkwave abbastanza convincente: il sound è decadente e, come accadeva alla band ottantiane, bada molto di più alla sostanza che non alla forma: quello che ne scaturisce ha così sembianze meno artefatte, consentendo al gruppo zurighese di sfuggire al rischio di apparire eccessivamente fuori tempo massimo.
L’attesa è quindi per la prossima prova su lunga distanza, che ha già un titolo (“[c]rust”) ed una label pronta a pubblicarlo (la nostrana WormHoleDeath), con la curiosità di osservare se questa variazione rappresenti solo un fatto occasionale legato alla coverizzazione dei Joy Division oppure, al contrario, costituisca la nuova via maestra seguita dagli Excruciation.

Tracklist
1.Twenty Four Hours
2.Olympus Mons
3.Borderline (extended)

Line-up:
Eugenio Meccariello – vocals
HNS Reitze – guitars
Marcel Bosshart – guitars
D.D. Lowinger – bass
Andy Renggli – drums

EXCRUCIATION – Facebook

Xpus – Sanctus Dominus Deus Sabaoth

Gli Xpus non scherzano e le varie Desecration of the Image of God, The Cherub’s Throne, Primordial Evil Essence non lasciano spazio all’ascolto distratto di ascoltatori che non siano amanti del genere.

Esordio sulla lunga distanza per gli Xpus, band italiana nati dalle ceneri degli Unholy Land, black metal band nata a Bergamo nel 1998 e con all’attivo due album tra il 2003 ed il 2008 ( The Fall of the Chosen Star, Dethrone the Light).

Il gruppo tricolore è protagonista di un oscuro e devastante black metal d’ispirazione satanica, dove non mancano accenni al death, specialmente nel growl, il resto del sound è totalmente devoto all’oscuro signore, malatissimo e putrido metal estremo, dove non mancano parti cadenzate pesanti come macigni, cori ecclesiastici e furiose sfuriate evil.
Quaranta minuti scarsi di delirio black/death, blasfemo e senza compromessi, una via di mezzo tra la tradizione polacca ed il black metal oltranzista della scena nordica, il tutto circondato da un’aura satanica difficile da riscontrare nelle band di ultima generazione.
Impatto, attitudine anti cristiana ed una buona dose di violenza, fanno di Sanctus Deus Sabaoth il classico album must per i true black metal fans, un inno di glorificazione alla morte, alla distruzione del genere umano ed al satanismo davvero notevole.
Gli Xpus non scherzano e le varie Desecration of the Image of God, The Cherub’s Throne, Primordial Evil Essence non lasciano spazio all’ascolto distratto di ascoltatori che non siano amanti del genere.
Il trio composto da questi sacerdoti del male vede Aren al basso e a vomitare blasfemie con un growl demoniaco, mentre la sei corde di Normak sputa riff black direttamente dall’inferno, accompagnata dalla batteria di L.(Luca Mazzucconi), per una tempesta di note estreme, malvagie, disturbanti e brutali.
Album affascinante e pregno di vero male in musica, una vera opera oscura.

TRACKLIST
01. Intro
02. Desecration of the Image of God
03. Die as a Sinner
04. The Cherub’s Throne
05. LHP
06. Wirlwind of Fire
07. The Great Worm of the Third Circle
08. Primordial Evil Essence
09. Eternal Flame
10. Outro

LINE-UP
Aren – Vocals, Bass
Mornak- Guitars
“L”- Drums

XPUS – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Fleshgod Apocalypse – King

La raffinatezza e l’eleganza della musica sinfonica e classica, violentata dalle ritmiche indiavolate e devastanti del brutal, produce un risultato che lascia esterrefatti candidando il gruppo nostrano come uno dei migliori ensemble estremi in circolazione.

Brutal death metal e musica sinfonica o classica, come vi pare, niente di più distante, per i detrattori del metal e in questo caso, di quello estremo.

Eppure, come ormai è consolidato, il mondo metallico è talmente vicino alla musica classica da essere perfettamente in simbiosi con essa, non una novità per chi ha vissuto sulla sua pelle le varie fasi di questa unione, uno scandalo per altri ed un piacevole diversivo ai soliti suoni per chi i due generi li conosce in modo superficiale.
Uno dei gruppi maestri nel coniugare le due filosofie dello spartito è italiano, si chiama Fleshgod Apocalypse, esce per Nuclear Blast ed il nuovo lavoro è la sublime esaltazione di questo fenomeno che nobilita, a mio parere, non solo il mondo metal ma anche quello apperentemente lontano (concettualmente parlando) della musica classica.
Siamo al cospetto di una band unica, creatrice di un sound magniloquente, un’apocalisse di suoni epici e sinfonici dove la brutalità del metal si unisce all’epicità ed alla monumentalità della classica, per donare forti emozioni che nascono dalla grandezza spirituale dell’arte.
Come i più grandi maestri che, nel corso dei secoli hanno forgiato per noi musica immortale, i Fleshgod Apocalypse tornano con il nuovo lavoro, l’opera ( è il caso di dirlo) King, quarto parto di una nidiata di capolavori iniziata nel 2009 con Oracles e continuata imperterrita con Agony (2011) e Labyrinth (2013), tralasciando le uscite minori, confermandosi come una delle realtà più spettacolari dell’universo estremo mondiale.
Brutal death metal, devastante ed ipertecnico, a fare da tappeto sonoro e compagnia ad uno tsunami di musica sinfonica che, all’unisono, sfociano in un delirio di suoni drammatici, da tregenda, epici e tragici, teatrali nel senso più angosciante del termine.
La raffinatezza e l’eleganza della musica sinfonica e classica, violentata dalle ritmiche indiavolate e devastanti del brutal, produce un risultato che lascia esterrefatti candidando il gruppo nostrano come uno dei migliori ensemble estremi in circolazione.
Ho ancora nelle orecchie le sinfonie accompagnate dal sound futurista dei fenomenali Mechina, mentre In Aeternum, Cold as Perfection, And the Vulture Beholds e A Million Dephts, giungono a riempire il mio spazio cosmico di perfezione estrema, magniloquenza classica e monolitica pesantezza brutal, distanti concettualmente ma uniti da un sapiente uso delle sinfonie.
Saprete che sarete alla fine dell’album perché il sole tornerà a splendere, la pioggia torrenziale si placherà ed una luce divina risplenderà sul vostro soffitto di casa, anche per oggi l’apocalisse è stata solo sfiorata, almeno finché non rischiaccerete il tasto play del vostro lettore … solo applausi a cotanta magnificenza.

TRACKLIST
1. Marche Royale
2. In Aeternum
3. Healing Through War
4. The Fool
5. Cold as Perfection
6. Mitra
7. Paramour (Die Leidenschaft Bringt Leiden)
8. And the Vulture Beholds
9. Gravity
10. A Million Deaths
11. Syphilis
12. King

LINE-UP
Paolo Rossi – Bass, Vocals (clean)
Francesco Paoli – Drums, Guitars, Vocals (backing)
Cristiano Trionfera – Guitars, Vocals (backing), Orchestration
Tommaso Riccardi – Vocals (lead), Guitars
Francesco Ferrini – Piano, Orchestration

FLESHGOD APOCALYPSE – Facebook

Absent/Minded – Alight

Una band compatta, che svolge in maniera ottimale il proprio compito senza lasciarsi tentare da voli pindarici ma neppure limitandosi ad una calligrafica riproposizione dello sludge: per quanto mi concerne, va benissimo così.

Magari avrò la memoria corta, ma lo sludge/doom non è un genre tra i più battuti in assoluto nelle metallicamente fertili lande teutoniche.

Anche per questo il terzo album degli Absent/Minded, intitolato Alight, è una piacevole sorpresa, pur senza apportare chissà quale novità alla materia trattata.
Il lavoro del quartetto bavarese spicca, sostanzialmente, grazie al suo incedere monolitico ma nel contempo abbastanza accessibile, dove le sole parti più ortodossamente doom appaiono come veri e propri muri invalicabili; al contrario, allorché il sound alza seppur di poco i ritmi, i fangosi riff inducono ad uno scapocciamento convinto e tutt’altro che meccanico.
L’opener Light Remains è un perfetto esempio della disinvoltura con la quale gli Absent/Minded riescono a mettere in scena in maniera accattivante trame ampiamente conosciute: alla fine il segreto, che poi non è neppure tale, si riduce al non appesantire ulteriormente con soluzioni cervellotiche un genere che, già di suo, è lieve come un granitico macigno.
Da notare anche il crescendo di un brano come Arrivers, con un basso che si ritaglia un ruolo importante nel delinearne l’andamento, e l’incipit acustico della conclusiva di So Dark, The Con Of Man che, successivamente si allinea al contesto nel macinare riff distorti e dannatamente efficaci.
Per concludere, sono felice che gli Absent/Minded non si siano allineati ad una tendenza che non mi convincerà mai al 100%, pur non essendo deprecabile a prescindere, che è quella di proporre un genere così pesante in versione esclusivamente strumentale: il buon Steve punteggia i brani con il suo growl nella media, ma tanto basta per tenere a debita distanza il rischio noia, autentica iattura per chi si avvicina all’ascolto di qualsiasi disco.
Una band compatta, che svolge in maniera ottimale il proprio compito senza lasciarsi tentare da voli pindarici ma neppure limitandosi ad una calligrafica riproposizione dello sludge: per quanto mi concerne, va benissimo così.

Tracklist
1. Light Remains
2. Stargazin’
3. Clouds
4. Arrivers
5. Skies Of No Return
6. So Dark, The Con Of Man

Line-up:
Steve – Vocals
Uwe – Guitars
Andreas – Bass
Jürgen – Drums

ABSENT/MINDED – Facebook

Fractal Reverb – Songs to Overcome the Ego Mind

Album che va assaporato, avendo la pazienza ed il tempo per farlo propiro, ed una band che assolutamente da supportare e rispettare per la personalità ed il coraggio nel proporre un’opera così ambiziosa al primo colpo.

Premessa: fate molta attenzione quando si parla di rock alternativo o, superficialmente di grunge, perché (lo dico da anni) il grunge a mio parere come genere musicale non esiste, o meglio, quello che fu chiamato così era solo una moda che non riguardava assolutamente la musica scritta dalle band di Seattle, troppo diverse tra loro, troppe anime contrapposte per unirle in un unico calderone musicale.

Così il primo full length dei nostrani Fractal Reverb, band di rockers nati da pochi anni in quel di Milano, con un ep all’attivo licenziato lo scorso anno dal titolo How To Overcome The Ego Mind, alla fine risulta un buon album di rock alternativo, debitore sì del decennio novantiano, ma dall’anima moderna e noise, come se il lato più intimista dei Sonic Youth si fosse appartato con i Pearl Jam e i Tool e facesse l’occhiolino al rock del nuovo millennio.
Voce femminile (Carolina Locatelli) ancora da perfezionare come interpretazione dei brani, ma comunque sufficientemente personale e rock per non sfigurare nel mezzo dei deliri elettrici dei suoi compagni di viaggio( Davide Trombetta alla chitarra e Alessandro Pinotti alle pelli) e un gusto quasi psichedelico per il rock moderno, fatto di brani lunghi, molte volte vicini strutturalmente a delle jam, che perdono in appeal solo per l’eccessiva durata di un album che supera abbondantemente l’ora.
Ecco, questo è l’unico appunto che mi viene da fare al gruppo, ottantadue minuti sono davvero troppi, specialmente in tempi dove, purtroppo anche nel rock, manca il tempo di assimilare lavori di questo genere causa la marea di uscite discografiche e la poca attenzione degli ascoltatori a musica che chiede un minimo d’impegno nell’ascolto.
Sì, perché Songs to Overcome the Ego Mind è un album impegnativo, adulto, poco incline alle facili melodie di band pop rock contrabbandate per il fantomatico post grunge che, se non esisteva l’originale, figuriamoci i facili surrogati.
Se vi avvicinate alla band milanese pensando di ascoltare i nuovi Nickelback ( tanto per intenderci) avete sbagliato indirizzo, qui si fa rock, sporcato di noise e dall’anima punk statunitense, magari nascosta da umori cantautorali, in un’escalation di vibrazioni progressive dove la voce femminile non è il classico specchio per le allodole, ma un modo alquanto personale di raccontare il loro concept, un percorso che parte da una dimensione prettamente estroversa per arrivare ad una introversa, trovando così il perfetto equilibrio … e scusate se è poco.
Album che va assaporato, avendo la pazienza ed il tempo per farlo propiro, ed una band che assolutamente da supportare e rispettare per la personalità ed il coraggio nel proporre un’opera così ambiziosa al primo colpo.

TRACKLIST
1.Introspective
2.I’ll find my way
3.Song of nothing
4.Dystonic wave
5.Spleen
6.Song of something
7.Natural sounds
8.20 January 2013
9.Fall in leaves
10.Test yourself
11.Trees in circles
12.Hidden places
13.Blindfolded
14.Song of everything
15.Outroot

LINE-UP
Carolina Locatelli – basso, voce
Davide Trombetta – chitarra
Denny Cavalloni – batteria

FRACTAL REVERB – Facebook

Autori Vari – Mister Folk Compilation Volume III

In queste canzoni potrete ascoltare quanto di meglio ha da offrire questo genere nel sottobosco musicale, io rimango fermamente convinto che il folk metal underground sia nettamente il migliore, e qui ne abbiamo molto.

Questa compilation è la dimostrazione di quanto la passione e la tenacia possano fare nella divulgazione di un genere musicale.

La musica in questione è il folk metal declinato soprattutto nel sottogenere viking e il fautore di tutto ciò è Fabrizio Giosuè autore del fondamentale libro Folk Metal, e dell’altrettanto ottimo Tolkien Rocks, fondatore e principale autore del sito misterfolk.com da dove proviene questa raccolta, la terza. Da queste pagine nel mare magnum della rete Fabrizio da anni recensisce instancabilmente novità e classici del folk metal e non solo, con grande competenza e passione. Per gli appassionati di questo genere le sue pagine sono una grande gioia ed una sicurezza, poiché chi ha vera passione e competenza raramente sbaglia. In più Fabrizio sforna ogni tanto queste magnifiche compilation con gruppi semi sconosciuti ma di grande valore, e forse questo è il volume più bello.
In queste canzoni potrete ascoltare quanto di meglio ha da offrire questo genere nel sottobosco musicale, e io rimango fermamente convinto che il folk metal underground sia nettamente il migliore, e qui ne abbiamo molto. Speciali a mio avviso le band italiane qui presenti.
Folk on.

TRACKLIST
Dyrnwyn (ITA)
Vinterblot (ITA)
Elforg (POL)
Kanseil (ITA)
Bloodshed Walhalla (ITA)
Netherfell (POL)
Arcana Opera (ITA)
Valkenrag (POL)
Artaius (ITA)
Merkfork (POL)
Sola Norr (FRA)
Servan (ITA)
Morhana (POL)
Blodiga Skald (ITA)
Corr Mhóna (IRL)
Vallorch (ITA)
Isenmor (USA)
Annwn (WAL)
Black Velvet Band (POL)
Grimner (SWE)

MISTER FOLK – Facebook

http://misterfolk.com/mister-folk-compilation-vol-iii/

Shivers Addiction – Choose Your Prison

Basta poco per farsi piacere questa raccolta di brani, serve solo non avere paraocchi di sorta e riuscire ad apprezzare ogni sfumatura che la band ci riserva, senza un attimo di tregua, lungo l’intero lavoro.

E’ tempo di tornare sul mercato per i nostrani Shivers Addiction: il nuovo lavoro, licenziato dalla Revalve Records ed intitolato Choose Your Prison, scaraventa la band tra le realtà più significative dell’hard & heavy nostrano, regalandoci un’oretta di metal rock dalle grandi potenzialità.

Fondato da una decina d’anni, in cui la band ha dato alle stampe il primo demo nel 2007 e successivamente l’esordio sulla lunga distanza tre anni dopo (Nobody Land’s), il gruppo dopo vari cambi di line up, può contare sulle prestazioni del chitarrista Gino Pecoraro dei Nuclear Simphony e soprattutto sul talentuoso vocalist Marco Cantoni dei prog metallers Cyrax, messisi in mostra in questi ultimi due anni con due perle di metallo progressivo ed originalissimo come Reflections del 2013 e Pictures, uscito quest’anno.
Completano la line up i bravissimi Angelo De Polignol alle pelli, Marco D. Panizzo alla seconda ascia e Fabio Cova al basso, un combo compatto e di altissimo livello, così che Choose Your Prison possa risultare un ottimo album che, in modo sapiente ed originale, amalgama alla perfezione thrash metal, progressive, rock e metal classico.
Ed eccoci qua, come Zio Paperone nei dollari, a tuffarci nel variegato mondo musicale del gruppo nostrano che, al primo ascolto riesce nell’impresa di confezionare un album maturo ma godibilissimo, con sorprese che ci investono ad ogni passaggio.
Basta poco per farsi piacere questa raccolta di brani, serve solo non avere paraocchi di sorta e riuscire ad apprezzare ogni sfumatura che la band ci riserva, senza un attimo di tregua, lungo l’intero lavoro.
Come ci ha abituato sui dischi targati Cyrax, Cantoni ne esce alla grande, eclettico, interpretativo e passionale, davvero bravo nel modulare la sua voce tra le sfuriate thrash del gruppo, che, in un attimo si trasformano, in passaggi progressivi, molto vicini al genere classico, lasciando poco al prog metal, abituati a sentire negli ultimi anni.
Bellissime le parti dove armonie acustiche dal sapore folk prendono il sopravvento, accompagnate da un delicato flauto che sa tanto di prog settantiano, per poi essere investiti da tempeste elettriche, dove le chitarre ci assalgono con ritmiche thrash e solos dai rimandi metallici e con la sezione ritmica che al momento opportuno sa picchiare e cambiare tempo come se fossimo in alta montagna.
Preferisco parlare di generi che di band, anche perché la musica dei Shivers Addiction è talmente colma di idee ed atmosfere che risulta cangiante, cambiando pelle in modo repentino anche nello stesso brano.
Un lavoro notevole in fase di songwriting, crea questo arcobaleno musicale dove trovare un brano più significativo è impresa ardua, ma la cattiva We Live on a Lie, la progressiva The King and the Guillotine e l’epica Painted Arrow, sono i brani che più mi hanno entusiasmato.
Cresce a dismisura con gli ascolti Choose Your Prison, pregno di note che appaiono dal nulla ogni volta che vi riavvicinerete con l’udito e con la mente alla musica di questa grande band.

TRACKLIST
1. Eternal Damnation
2. We Live on a Lie
3. La mort qui danse
4. The King and the Guillotine
5. Money Makes the Difference
6. Freedom
7. Where Is My Future
8. Painted Arrow
9. Against We Stand
10. Death Has Nothing to Teach

LINE-UP
Gino Pecoraro – Guitars
Angelo De Polignol – Drums
Marco D. Panizzo – Guitar
Fabio Cova – Bass
Marco Cantoni – Vocals

SHIVERS ADDICTION – Facebook

Pedophile Priests – Dark Transgression Of The Soul

Album che lascia molti dubbi, la musica estrema è arte e non basta fare i cattivi musicalmente o presentarsi con un monicker forte per convincere.

Esordio sulla lunga distanza di questa band polacca (ma di stanza a Dublino) dal monicker a mio parere forzato e che con la musica ci azzecca poco o nulla.

Facile buttare un preti pedofili così, tanto per accalappiare ascoltatori, magari indifferenti al prodotto musicale ma indubbiamente attratti dal nome provocatorio, specchio di una società (badate bene, non religione, ma società) dove ormai certi valori primari sono andati definitivamente persi, a discapito, come sempre, degli innocenti, che siano le frange più
povere dell’umano vivere, gli animali o i bambini poco importa.
I Pedophile Priests, con Dark Transgression Of The Soul, arrivano all’esordio sulla lunga distanza tramite la Metal Scrap Records: la loro proposta è un death metal dalle reminiscenze thrash, che, al primo ascolto risulta di sufficiente presa, anche se, sinceramente un po’ di confusione regna tra le tracce che compongono l’album, colpevole una produzione deficitaria e le troppe idee vomitate sullo spartito ma sviluppate solo in parte.
Eppure Presentiment of Evil, brano che funge da opener, si presenta come una canzone estrema che, alle varie influenze classic death, aggiunge un thrash progressivo alla Mekong Delta, così da fungere da ottimo biglietto da visita per il combo.
Peccato che la produzione deficitaria comprometta il buon lavoro della sezione ritmica, facendo perdere molti punti alle successive tracce e compromettendo il lavoro svolto dai musicisti su brani estremi e devastanti come Crush, Kill, Destroy, Scars at the Sky e The Kingdom Hospital.
Album che lascia molti dubbi, la musica estrema è arte e non basta fare i cattivi musicalmente o presentarsi con un monicker forte per convincere, troppa concorrenza, specialmente nell’underground, mondo che pur non vendo i giusti riscontri a livello commerciale, mediamente regala prodotti avanti anni luce rispetto a questo.

TRACKLIST
1. Presentiment of Evil
2. Czarne Xięstwo
3. Crush, Kill, Destroy
4. Crescent Guided Tributary
5. Sean Ross Abbey – Mother and Baby Home
6. Scars at the Sky
7. Nightcrawler (The Fall)
8. The Kingdom Hospital
9. Pogański

LINE-UP
Piotr “Niemiec” Niemczewski – guitars, vocals,
Krystian “Kruszon” Mistarz – drums
Krystian Mazur – bass

PEDOPHILE PRIESTS – Facebook

Abysskvlt – Thanatochromia

Un solo album non consente ancora di poterlo dire con certezza, ma Thanatochromia introduce una band che appare ampiamente in grado di ripercorrere le orme degli Ea.

Magnifico esordio per i misteriosi russi Abysskvlt, con un funeral doom melodico degno dei migliori Ea.

E sono proprio questi ultimi a fungere come punto di riferimento per i nostri, sia per l’approccio mediatico che lascia ben poco spazio agli ego dei musicisti, mettendo in luce esclusivamente il prodotto musicale, sia soprattutto per uno stile analogamente evovativo, basato su un incedere lento ma sempre focalizzato su un impatto emotivo creato dal muro di chitarre e tastiere.
Quattro brani per un totale che sfora i settanta minuti, sono l’eloquente biglietto da visita di una band che darà soddisfazione a chi ama questo particolare segmento stilistico del funeral, che ovviamente annovera tra i propri esempi più fulgidi i seminali Shape Of Despair.
Immagino e spero che la citazione di questi punti di riferimento sia sufficiente per capire di quale spessore sia Thanatochromia: gli Abysskvlt non vogliono riscrivere la storia del genere ma, essenzialmente, fanno nel migliore dei modi ciò che si aspetta di ascoltare chi ama le band menzionate; forse, a voler cercare il pelo nell’uovo, mancano quei picchi emotivi che altrove vengono regalati a profusione, ma per converso l’album non presenta mai cali di tensione o momenti interlocutori.
Un dolore soffuso ma ininterrotto sovrasta i brani nella loro interezza, anche se House Of Woe, rispetto alle altre tracce, grazie ad una scrittura ancor più volta ad accentuarne la drammaticità con il corollario di voci singhiozzanti in sottofondo, regala una ventina di minuti di livello del tutto all’altezza delle migliori espressioni del genere.
Abysskvlt come nuovi Ea, quindi ? Un solo album non consente ancora di poterlo dire con certezza, ma Thanatochromia introduce una band che appare ampiamente in grado di ripercorrere le orme degli altrettanto misteriosi campioni del funeral doom.

Tracklist
1. Over Cold Tombs
2. Between Two Mirrors
3. House of Woe
4. The Dawn My Unawakening

Cydia – Victims Of System

Questo lavoro è un buon motivo per uscire dai canoni del death classico ed avvicinarsi a sonorità più moderne ma lontane dal deathcore attualmente di moda.

Ormai la musica proveniente dall’est europeo è totalmente sdoganata e tramite molte label attive sul territorio, arrivano a noi ottimi album, non solo di metal classico, ma soprattutto in ambito estremo, dove la scena è tutta da scoprire e da seguire.

Non è così difficile infatti, imbattersi con gruppi dalle buone potenzialità, come, per esempio i Cydia, quartetto di Samara (Russia) che licenzia il suo secondo full length, Victims Of System.
Fondata nel 2007, la band esordisce con il classico demo, per arrivare al 2011 e firmare con la Metal Scrap e tornando sul mercato con il primo lavoro sulla lunga distanza (Evil Sun).
Dopo la pubblicazione di un singolo nel 2012, la band si mette al lavoro sul secondo album, pubblicato in questo ultimo scorcio di 2015.
Victims Of System è un concentrato di metal moderno, dal buon groove e dall’ottimo tiro, lascia dietro di se ritmiche di ruffiano deathcore per puntare sul groove ed un pizzico di new metal anni novanta, con la velocità che alterna fughe a tavoletta a frenate dall’ottimo impatto melodico.
Il quartetto non risparmia l’uso di synth e parti elettroniche, rendendo il sound ancora più moderno, le chitarre graffiano e si lanciano in solos dai rimandi death metal scandinavi, molto melodici e dal piglio classico, che si scontra con l’anima elettro/industrial del sound della band.
Imitation Of Life, posta a metà del lavoro, può essere considerato il miglior biglietto da visita per la band, un sunto di quello che è in generale il mood di Victims Of System, una via di mezzo tra la cattiveria death modernista dei Soulfly, le melodie degli In Flames, la pazzia industrialoide dei Rammstein, ed un tocco di Disturbed, il tutto suonato con ottimo impatto, prodotto perfettamente e molto cool, almeno per chi sbava per queste sonorità.
La voce mantiene un growl grintoso, vagamente vicino al primo Anders Friden, così come gli interventi delle clean vocals e l’album viaggia su questi binari che è un piacere tra canzoni trascinanti (Scars, Created World) ed altre più ragionate ma sempre con l’aiuto delle melodie, punto di forza del combo russo.
Questo lavoro è un buon motivo per uscire dai canoni del death classico ed avvicinarsi a sonorità più moderne ma lontane dal deathcore attualmente di moda in questi ultimi anni, ma non per questo senza un ottimo appeal; da ascoltare.

TRACKLIST
01. Icy March
02. Dancing on the Grave
03. Scars
04. The Spirit of Killers’ Generation
05. Imitation of Life
06. Last Groan
07. Created World
08. Get Me Out
09. Loop

LINE-UP
Stas Nobody – Guitar and Vocals
Oleg Zoob – Guitar
Oleg Bizon – Drums
Ed Coffee – Bass

CYDIA – Facebook

Krobos – Path

Le sette canzoni sono un assaggio di quella che potrebbe essere una grande carriera.

In breve il disco di debutto dei veneti Krobos si potrebbe definire metal per menti ed orecchie aperte, dato che questi ragazzi hanno fondato un gruppo per fare musica senza restrizioni.
Nel loro suono si possono trovare svariati generi, ma ogni canzone fa storia a sé. Le sette canzoni sono un assaggio di quella che potrebbe essere una grande carriera.
Tutto qui è frutto di talento, ascolti disparati e tanta voglia di divertire e divertirsi facendo quello che pare loro. E lo fanno molto bene, tanto che ogni canzone si presta a diverse interpretazioni, come detto sopra.
Ognuno dovrebbe sentire i Krobos e farsi la propria idea, ma sappia che nel farlo gli verrà molto spontaneo muoversi e togliersi le incrostazioni di tanti ascolti quasi parassitari, mentre questa è materia che si muove molto e molto veloce.

TRACKLIST
1. Falling up
2. Around You
3. Like Pricks on a Mission
4. A Gun is way easier to have than a right
5. Path
6. Opportunities
7. Bruised

LINE-UP
Ste: Drums
Niloo: Bass
Lodo: Guitar
Teo : Voice

KROBOS – Facebook

ROSSOMETILE – ALCHEMICA

Alchemica vive di varie anime che si rivelano emblematiche degli umori, ora drammatici ed oscuri, ora più delicati e melanconici, che si rincorrono tra i vari brani.

I Rossometile sono una band di Salerno arrivata, dopo vari cambi di formazione e tre album, al nuovo lavoro intitolato Alchemica che vede l’esordio della cantante Marialisa Pergolesi ed un sound rock/metal intriso di atmosfere gothic/dark.

La band in questi anni ha variato molto la musica proposta, passando di album in album da sonorità metal prog al rock tradizionale, sound protagonista del precedente lavoro del 2012 intitolato Plusvalenze.
L’arrivo della nuova cantante è coinciso con una nuova sterzata musicale ed il quartetto campano si ritrova tra le mani un piccolo gioiello dark rock cantato in lingua madre, con testi molto maturi e, soprattutto, un lotto di buone canzoni che vanno a formare un’opera ambiziosa, relativamente lunga (sessanta minuti non sono pochi) ma dall’ascolto gradevole.
E’ bellissima la voce della cantante, protagonista dell’intero lavoro, elegante e raffinata, assolutamente non forzata in inutili passaggi operistici ma molto personale e dalle sfumature che, a tratti, si fanno pop per non far passare inosservato questo ottimo esempio di rock cantato in italiano, con tutti i crismi per piacere agli amanti del metal dalle reminiscenze gotiche.
Prodotto molto professionalmente, Alchemica vive di varie anime che all’ascolto sono emblematiche degli umori, ora drammatici ed oscuri, ora più delicati e melanconici che si rincorrono tra i vari brani, non dimenticando un volto ad illuminare il mood dark che avvolge i brani.
Ottime sono le parti di chitarra, ad oopera di Rosario Runes Reina, che richiamano il passato metal prog del gruppo con elettrizzanti assoli (Le Ali Del Falco) ed altrettanto valide risultano le parti elettroniche che danno quel tocco dark ottantiano vero punto di forza del gruppo.
Non mancano le orchestrazioni, come da copione nel gothic metal in voga in questi ultimi anni (Pandora), mentre il cuore dell’album è anche il punto più alto della musica dei Rossometile, con le due parti di Nel Solstizio D’inverno, un brano spettacolare che unisce il dark prog degli storici Goblin con i primi Nightwish della splendida Tarja.
Da segnalare ancora la title track e Tirrenica, altri ottimi esempi del sound creato dalla band campana, che guarda al passato del dark rock, senza dimenticare il sound di gruppi attuali come Lacuna Coil, Evanescence e Nightwish.
Alchemica è un ottimo lavoro nel quale l’uso della lingua italiana non inficia assolutamente le atmosfere create dalla musica, perciò poche storie e fate vostro questo album, vivamente consigliato agli amanti dei suoni gotici e dark.

TRACKLIST
1.Solve
2.Amore Nero
3.La Fenice
4.Il Lato Oscuro
5.Le Ali Del Falco
6.Pandora
7.Presenze
8.Candore
9.Nel Solstizio D’inverno parte1
10.Nelo Solstizio D’inverno parte2
11.Guerriero Senza Re
12.Viaggio Astrale
13.Alchemica
14.Ripetizione
15.Terrenica
16.Coagula

LINE-UP
Maria Lisa Pergolesi: voce
Pasquale Murino: basso
Gennaro Balletta: batteria
Rosario Runes Reina: chitarra

ROSSOMETILE – Facebook

Wildernessking – Mystical Future

Mystical Future è molto vicino allo stato dell’arte dell’atmospheric/post black attuale, e il fatto che tutto ciò provenga da una nazione al di fuori della consueta cerchia, è un’ulteriore conferma dell’universalità della musica, in ogni sua forma e stile.

L’allargamento geografico del metal e di tutti i suoi sottogeneri è un fatto consolidato, ma fino ad oggi il Sudafrica, nonostante gli ovvii e pesati influssi culturali provenienti dall’Europa, non aveva ancora prodotto realtà davvero significative, almeno in ambito più estremo.

I giovani Wildernessking arrivano a spezzare questo trend con un album di grande spessore, pressoché perfetti nel loro rielaborare la materia black metal addomesticandola a pulsioni melodiche e malinconiche.
Dopo un già apprezzato album d’esordio datato 2012, il quartetto di Città del Capo ritorna in questi primi giorni dell’anno nuovo con Mystical Future, offerto al pubblico anche in una accattivante versione in vinile a tiratura limitata (500 copie a< cura della Sick Man Getting Sick Records), oltre che nell’immarcescibile formato in musicassetta (Monotonstudio Records) ed il più canonico cd (Les Acteurs de l'Ombre Productions) Il disco presenta circa tre quarti d’ora di musica spalmata su 5 brani nei quali, il virtuale isolamento dei nostri rispetto alle scene principali, pare aver consentito loro di sviluppare una forma del tutto personale nell’approcciare la materia, per quanto l’etichetta post black alla fine le calzi a pennello. In fondo un ascoltatore distratto potrebbe sostenere che in Mystical Future non c’è nulla di più oltre ad una sapiente alternanza tra sfuriate black ed ariose e liquide aperture melodiche, ma in realtà la differenza i Wildernessking, rispetto a molte altre band dedite al genere, riescono a farla riducendo al minimo i passaggi interlocutori, quelli che spesso si rivelano solo uno stratagemma per allungare il brodo fino a riempire il piatto fino all’orlo.
Così, Wild Horses e I Will Go To Your Tomb si snodano nel loro andamento oscillante tra pulsioni oniriche e repentine iniezioni di vetriolo, mentre To Trascend è placida come una superficie lacustre, increspata di tanto in tanto da minacciose voci in sottofondo.
Il lato B del vinile presenta With Arms Like Wands, il brano che i Wildernessking hanno scelto come singolo e che, come spesso accade, è il più canonico del lotto, senza che ciò significhi che non sia all’altezza della situazione, e la lunga If You Leave, conclusivo manifesto musicale della band sudafricana, in cui una prima parte contraddistinta da una soave voce femminile viene progressivamente sovrastata da una robusta progressione melodica, per poi cambiare ulteriormente e poi ancora, in un saliscendi emotivo che definisce ampiamente il livello raggiunto da questi quattro ragazzi.
Mystical Future è molto vicino allo stato dell’arte dell’atmospheric/post black attuale, e il fatto che tutto ciò provenga da una nazione al di fuori della consueta cerchia, è un’ulteriore conferma dell’universalità della musica, in ogni sua forma e stile.

Tracklist
Side A
1. White Horses
2. I Will Go to Your Tomb
3. To Transcend
Side B
4. With Arms like Wands
5. If You Leave

Line-up:
Dylan Viljoen – Guitars
Jason Jardim – Drums
Jesse Navarre Vos – Guitars
Keenan Nathan Oakes – Bass, Vocals

WILDERNESSKING – Facebook

Aterra – All Born In Pain

Se si volge lo sguardo ad est del vecchio continente, seguendo il lungo corso della musica metallica che, come un fiume attraversa l’Europa da ovest, fino al continente asiatico, si scoprono realtà interessanti, alcune notevoli, in tutte le forme del variegato mondo della musica dura.

Nella sua forma più moderna il metal dai suoni estremi regala ottime realtà, andando a giocarsela con i suoni classici, non manipolata dai trend d’oltreoceano e perciò nella sua forma più pura.
Senza spostarci troppo nelle steppe, ci fermiamo in Polonia, precisamente nella capitale Varsavia dove, intorno al 2012 è iniziata l’avventura di questa giovane band che sperimenta con ottimi risultati, amalgamando il deathcore con soluzioni thrash ed elettroniche.
Gli Aterra questo fanno, ed il risultato è All Born In Pain, un susseguirsi di sorprese, un caleidoscopio di suoni moderni, oscuri e drammatici, una rabbia misurata che la band a tratti trasforma in suggestioni apocalittiche e dark.
La band ha nella coppia Caruso (chitarra e voce) e Aero (sampler) i suoi punti di forza, il primo protagonista con la voce, varia e teatrale che passa con disinvoltura dai toni aggressivi cari al deathcore, ad atmosferiche parti dark, mentre il secondo con i suoi sampler sintetici è la base su cui si fonda il songwriting del gruppo.
Intorno Tiger (chitarra), Bereth (basso) e Rajbak alle pelli completano la line up, formando un combo compatto e quadrato, risultando un muro di suoni estremi e finalmente originali.
Proprio l’originalità della musica prodotta è il quid che alza il livello di All Born In Pain, non il classico deathcore made in U.S.A., ma un marziale e violento death/thrash corrosivo, dove la parte sintetica gli dona un’affascinante ed oscuro mood dark oriented.
Low, la nera perla di questo lavoro, in compagnia della title track, della thrash oriented Paper Kings e della monolitica PW, risultano l’ottimo biglietto da visita per il combo polacco, clamoroso quando riesce ad amalgamare tutti i suoni all’unisono nello stesso brano, devastante quando perde le briglie e si lancia all’inseguimento della fiera che anima la propria musica.
Ministry, Lamb Of God, Killing Joke, Pantera e Prong, mischiate il tutto ed avrete un’idea della musica degli Aterra; All Born In Pain è un lavoro maturo e la band in futuro potrebbe regalare ulteriori perle, specialmente se saprà indirizzare la propria proposta verso lidi ancora più moderni e oscuri.

TRACKLIST
01. Keep to Try
02. Awakening
03. Paper Kings
04. Alert
05. PW
06. Mourning
07. Voices
08. Primeval Lust
09. Low
10. Advent
11. All Born in Pain
12. Beginning
13. Empty Rules
14. Saturation
15. Over my Dead Body

LINE-UP
Caruso – Guitar, Vocals
Tiger – Guitar
Bereth – Bass
Rajbak – Drums
Aero – Sampler

ATERRA – Facebook

Teramaze – Her Halo

Her Halo conferma l’assoluta qualità della band australiana ed il talento dei suoi protagonisti.

Con una line up leggermente rinnovata dall’ultimo, bellissimo, Esoteric Symbolism, uscito lo scorso anno e di cui vi avevamo parlato con toni entusiastici su queste pagine, torna la prog metal band australiana Teramaze, creatura metallica guidata dal chitarrista Dean Wells.

Infatti nel nuovo lavoro Nathan Peachey prende il posto del buon Brett Rerekura dietro al microfono, mentre la formazione a quattro che aveva registrato il precedente lavoro si aggiunge di tre elementi, Mat Dawson alla chitarra, Luis Enrique Eguren al basso e Dave Holley alle tastiere.
Non si scende sotto l’eccellenza, neppure con questo album, ed il gruppo nato nella terra dei canguri, ci regala un’altra perla di prog metal di altissimo livello, incastonato nel genere, un altro album da non perdersi se si è amanti dei suoni sofisticati, eleganti e raffinati che il metal dalle sfumature progressive sa donare.
Emozioni, come ci ha ormai abituato la band, il nuovo album è ricco di spunti emozionali che, prendono per il colletto la tecnica strumentale ( elevatissima), la relegano in un angolo e finalmente liberi nella loro funzione ci avvolgono per tutta la durata di Her Halo.
Sono emozioni dal piglio drammatico, malinconico, molte volte intimista che aggiunge all’influenza Fates Warning il sound ancora più malinconico e moderno dei Pain Of Salvation.
Il risultato sommato all’interpretazione sopra le righe del giovane e sconosciuto vocalist, non può che essere una straordinaria alchimia di suoni progressivi, che alternano le classiche sfuriate metalliche, a momenti di classe melodica sopraffina in un turbinio di atmosfere sinfoniche che strizzano l’occhio a quella verve modernista cara al gruppo australiano.
Della durata meno prolissa del suo predecessore, Her Halo acquista quel minimo di facilità nell’ascolto che lo rende più assimilabile, anche se la musica del gruppo ha comunque bisogno di essere maneggiata con cura, per assaporare ogni momento, ogni nota e le tante e diverse sfumature che l’accompagnano.
An Ordinary Dream (Enla Momento) apre le ostilità e veniamo subito travolti da una suite di dodici minuti, tra splendido chitarrismo, eleganti tasti d’avorio ed il regale biglietto da visita che il nuovo cantante ci pone tra le mani.
Non male come inizio, visto che da qui in poi, i suoni si induriscono, l’alternanza tra melodia ed elettricità metallica diventa preponderante e la band da spettacolo con To Love, a Tyrant e la titletrack.
Stupendo il refrain di For the Innocent ed al limite del clamoroso quello che fa Wells con la sua sei corde in Trapeze, brano strumentale al limite dello shred.
Broken addolcisce l’atmosfera, risultando una semiballad, così come l’inizio della conclusiva Delusions of Grandeur, trasformatasi in corso d’opera in una prog metal songs che entra dalla porta principale del teatro di sogno.
Prodotto da Jacob Hansen ex Anubis Gate, una garanzia, specialmente se si parla di metal progressivo e nobile, Her Halo conferma l’assoluta qualità della band australiana, ed il talento dei suoi protagonisti, a cui si aggiunge Nathan Peachey, vocalist di cui sentiremo ancora parlare, disco bellissimo, fidatevi.

TRACKLIST
1. An Ordinary Dream (Enla Momento)
2. To Love, a Tyrant
3. Her Halo
4. Out of Subconscious
5. For the Innocent
6. Trapeze
7. Broken
8. Delusions of Grandeur

LINE-UP
Dean Wells: guitars
Nathan Peachey: vocals
Mat Dawson: guitars
Dean Kennedy: drums
John Zambelis: guitars
Luis Enrique Eguren: bass
Dave Holley: keyboards

TERAMAZE – afcebook

Eshtadur – Oblivion Ep

Gli Eshtadur sanno dove vogliono andare e possono fare molte cose grazie anche alla loro ottima tecnica, che unita ad una composizione molto buona rende la miscela esplosiva.

Dalla Colombia un bel disco di death metal con forti connotazioni sinfoniche e soprattutto con un bel groove.

Originari della provincia di Bogotà gli Eshtadur sono l’ennesima dimostrazione che il metal in America Latina è una cosa seria, ben fatta e con connotazioni tipicamente sudamericane, come la ricerca delle melodie.
Questo disco è la quarta uscita dopo il demo del 2007 e conferma la grande salute di un gruppo che è molto al di sopra della media.
Il loro suono riesce ad essere cattivo ed allo stesso tempo fortemente accattivante, con un gran bel tiro molto vicino a quel suono scandinavo che portava la firma di At The Gates, Grave  e compagnia.
Gli Eshtadur sanno dove vogliono andare e possono fare molte cose grazie anche alla loro ottima tecnica, che unita ad una composizione molto buona rende la miscela esplosiva.

TRACKLIST
01. In a Trance With Darkness
02. Last Day of the Condor
03. Heavens to the Ground
04. The Currency of My Empire
05. The Rebellion

LINE-UP
Vocals – Jorge Lopez
Guitar – Diego Rodriguez
Guitar – Lib Mahecha
Bass – Didier Marin
Drums – Diego Torres

ESHTADUR – Facebook

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