Evadne – Dethroned Of Light

Mezz’ora di musica di ottima fattura che, per assurdo, non placa ma rende ancor più impellente il desiderio di ascoltare un nuovo full length da parte degli Evadne.

Dopo un album splendido come “The Shortest Way” non si vedeva davvero l’ora di ascoltare qualcosa di nuovo da parte degli Evadne: con questo Ep intitolato Dethroned Of Light, la band valenciana esaudisce solo in parte questo desiderio.

Infatti, tra le quattro tracce proposte, l’unica inedita è quella d’apertura, Colossal, e mai come in questa caso il titolo appare calzante: atmosfere drammatiche e melodie struggenti ci riportano al death-doom nelle sue espressioni più alte, andando a scomodare i Swallow The Sun più ispirati (quelli di “The Morning Never Came”, per interderci).
Dopo questo brano, che dimostra l’ottimo stato di salute dei nostri dal punto di visto compositivo, il resto del lavoro viene dedicato alla rielaborazione di brani già editi, uno per ciascuna delle precedenti uscite: The Wanderer era la malinconica traccia strumentale presente in “The Shortest Way”, la novità risiede nel fatto certo non marginale che qui vengono aggiunte le vocals, andando a completare nella maniera migliore un brano al quale mancava appunto il growl di Albert Conejero per assurgere allo stato di ennesima perla scaturita dalle mani degli Evadne.
Awaiting riprende i toni più gothicheggianti di “The 13th Condition”, ma è indubbio che questa versione appaia molto più adeguata al sound attuale della band iberica che qui, tra l’altro, si avvale del contributo vocale di Natalie Koskinen, voce femminile dei seminali Shape Of Despair, dei quali attendiamo sempre speranzosi un seguito ad “Illusion’s Play” pubblicato nel lontano 2004; risale allo stesso anno la prima uscita degli Evadne, con il demo “In the Bitterness of Our Souls”, dal quale viene tratta la traccia di chiusura dell’Ep, Bleak Rememberance, resa in maniera tale da non mostrare alcuna ruga essendo del tutto all’altezza, in questa sua nuova veste, della produzione più recente.
Mezz’ora di musica di ottima fattura che, per assurdo, non placa ma rende ancor più impellente il desiderio di ascoltare un nuovo full length da parte della band che oggi, assieme agli Helevorn, rappresenta nel migliore dei modi un movimento doom spagnolo che sta crescendo in maniera esponenziale.

Tracklist:
1. Colossal
2. The Wanderer
3. Awaiting
4. Bleak Remembrance

Line-up:
Albert Conejero – Vocals
Josan Martin – Guitars
Jose Quilis – Bass
Joan Esmel – Drums
Marc Chulia – Guitars

EVADNE – Facebook

Artic Fire – Lower And Louder

Buon esordio di questa band portoghese dedita al credo nirvaniano ed ai suoni di Seattle.

Il grunge: molti negli anni novanta tacciarono il genere come la morte del metal, incolpandolo di chissà quali torti, mentre invece fu una benedizione per tutto il circuito musicale gravitante intorno a quel mondo.

Infatti, mai come nei primi anni novanta i media diedero spazio al rock, trascinati dalla moda grunge che, chiariamolo subito, con la musica aveva poco a che fare, ed i giovani kids di tutto il mondo sulla scia di Nirvana, Soundgarden e compagnia di Seattle ebbero l’opportunità di conoscere le band storiche (molte di queste chiaramente metal) a cui i nuovi eroi del rock si ispiravano.
Come in tutti i periodi d’oro di un genere, a livello di popolarità, anche nel grunge, accanto alle band che segnarono un epoca, uscirono sul mercato anche realtà che durarono lo spazio di un album, tranciate sul nascere dalla morte di Kurt Cobain e dalla definitiva caduta di tutto il movimento.
Come al solito rimangono i grandi, le band e gli artisti che da ottimi interpreti si trasformano in icone e miti continuando a sfornare ottima musica aldilà delle mode e di ciò che “tira” in quel preciso momento.
Nell’underground poi, chi continua a suonare il rock degli anni novanta sono molti, tra cui questo trio portoghese proveniente dalla capitale, all’esordio discografico con un buon esempio di rock alternativo, o grunge come preferite chiamarlo, molto nirvaniano e riconducibile ai primi passi delle band più famose del suono di Seattle.
Lower And Louder, senza far gridare al miracolo, si compone di cinque brani devoti al credo di Cobain e soci, inserendo qua e là atmosfere stoner, in linea con i suoni del momento.
Ne esce uno stile musicale che, pur fortemente debitore nei confronti della band di “Nevermind” e “In Utero”, possiede comunque una sua vita propria di cui specialmente le due ottime Take Me All The Way e Two, poste in chiusura, sono gli esempi migliori.
Gli Artic Fire, formati da Pedro (chitarra e voce), Alex (basso) e Alexia (batteria), ci consegnano un buon Ep, carico di quegli elementi che fecero il botto vent’anni fa e che ancora oggi, con buona pace dei detrattori, continuano ad arrivare a noi tramite ottimi seguaci che ne hanno colto l’eredità.

Tracklist:
1.Running
2.Prozac Addict
3.Give Me A Cancer
4.Take Me All The Way
5.Two

Line-up:
Pedro – Guitars, Vocals
Alex – Bass
Alexia – Drums

ARTIC FIRE – Facebook

In Lacrimaes Et Dolor / The Blessed Hellbrigade / Aphonic Threnody / Y’ha-nthlei – Of Poison and Grief (Four Litanies for the Deceased)

Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.

Altra uscita da parte dell’etichetta russa GS Productions, evidentemente specializzata in split album, questa volta con un lavoro che vede all’opera quattro diverse band, tre delle quali italiane più gli inglesi Aphonic Threnody, anch’essi dotati comunque di una cospicua componente tricolore.

A poche settimane di distanza da “In Memoriam” ritroviamo gli i In Lacrimaes Et Dolor i quali, ancora una volta, convincono con un funeral death doom che, rispetto alla precedente uscita, ritorna a calcare sentieri più classici, andando a lambire più volte con Of Poison and Deceit umori e suoni degli Skepticism. L’uso dell’organo agevola indubbiamente questo accostamento, e del resto l’ottimo growl di Francesco Torresi non è da meno rispetto a quello di Matti Tilaeus. Ancora un’ottima prova quindi per il musicista di Macerata Dany Noctis, in attesa di un nuovo full length che, viste le basi poste in questi ultimi anni, potrebbe rappresentare una folgorazione per molti.
Il secondo brano vede all’opera i novaresi The Blessed Hellbrigade i quali, rispetto ai più giovani colleghi marchigiani, propongono un doom dai tratti più epici che funerei, spesso sporcato da ritmiche di matrice black; la cosa non sorprende visto che i due musicisti impegnati, M. e Mayhem, sono due vecchie conoscenze della scena black del norditalia. Il brano, Maudit et Superieur, è decisamente intrigante, mostrando per di più una certa discontinuità rispetto a quanto proposto dalle altre tre band.
Gli Aphonic Threnody sono la band più conosciuta del lotto, oltre ad essere l’unica sulla carta non italiana, nonostante il vocalist Roberto ed il batterista Marco siano due musicisti sardi ben conosciuti per essere i motori di band come Urna ed Arcana Coelestia ed il nuovo chitarrista Zack provenga anch’egli dalla nostra penisola. Il gruppo guidato dal londinese Riccardo (chitarra e basso) e che presenta alle il neo-entrato Juan, tastierista cileno ex Mar De Grises, dopo altri due split, un Ep ed un magnifico album come “When Death Comes”, continua a proporre ottima musica con questo brano, Bury Them Deep, che esplora un versante meno funeral e più evocativo rispetto a quanto esibito di recente.
Chiude il lavoro il brano offerto da un altro duo, quello formato dai Y’ha-nthlei dei musicisti lombardi Sadomaster ed Omrachk, i quali, con The Tomb’s Penumbra offrono una traccia all’insegna di un funeral più ostico e scarno rispetto al resto della compagnia. Il sound lascia poco spazio ad aperture melodiche privilegiando un andamento dall’impatto decisamente più disturbante per quanto ugualmente efficace.
Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.

Tracklist:
1. In Lacrimaes Et Dolor – Of Poison and Deceit
2. The Blessed Hellbrigade – Maudit et Superieur
3. Aphonic Threnody – Bury Them Deep
4. Y’ha-nthlei – The Tomb’s Penumbra

Line-up:
In Lacrimaes Et Dolor
Francesco Torresi – Vocals
Dany Noctis – Keyboards
Mauro Ulag – Bass
Francesco Castricini – Guitars
Alina Lilith – Songwriting

The Blessed Hellbrigade
Mayhem – Drums
M. – Vocals, Guitars, Bass

Aphonic Threnody
Juan – Keyboards, Piano
Zack – Guitars
Marco – Drums
Roberto – Vocals
Riccardo – Guitars, Bass

Y’ha-nthlei
Sadomaster Guitars, Bass
Omrachk Vocals, Guitars, Drum programming, Effects

New Disorder – Straight To The Pain

“Straight To Pain” ci consegna una band al suo massimo livello ed un album che difficilmente riuscirete a togliere dal vostro lettore, una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi.

C’è tanta carne al fuoco nel nuovo album dei romani New Disorder, il piatto che poi ci confezionano è un delizioso mix di tanti sapori che, uniti, formano una gustosa pietanza di cui sicuramente chiederemo il bis.

Ma andiamo con ordine: la band romana nasce nel 2009 e all’attivo ha due ep, “Hollywood Burns” dello stesso anno, “Total Brain Format” del 2011 ed il full length d’esordio “Dissociety”, uscito per la Revalve nel 2013.
In questi anni, vari cambi di line-up hanno lasciato il solo cantante Francesco Lattes come unico superstite della band originale: niente di male, la band rimpolpa le fila e firma per all’inizio dello scorso Agoge Records anno, che produce e distribuisce questo ottimo Straight To The Pain.
Intanto una considerazione: Francesco Lattes è un gran vocalist, la sua voce passionale, cangiante nei toni, segue in perfetta armonia gli umori di un sound difficile da catalogare e per questo molto affascinante.
Nel songwriting vivono molte personalità, la base su cui si poggia è sì un metal alternativo, ma questo viene manipolato ad uso e consumo della band che stupisce tra ritmiche core, brani dove il rock americano (diciamo post grunge? Diciamolo …) viene travolto da parti in cui il prog moderno (specie nelle ottime partiture chitarristiche) prende il sopravvento e Straight To The Pain può così spiccare il volo.
Musica adulta, matura, canzoni che, ad un primo ascolto, possono risultare difficili, ma che crescono in modo esponenziale dopo che avrete fatto vostre tutte le sfumature di questi ottimi undici brani.
Le atmosfere cambiano, dicevamo, e così si passa dal metal dai rimandi core di Never Too Late To Die, scelta come singolo, alla metallica ed in your face Judgement Day, dalla bellissima semiballad Lost In London alla violente Love Kills Anyway e alla conclusiva The Beholder, tutto con un gusto progressivo che, sommato alla grande prova del singer, fanno di questo lavoro un piccolo gioiello di rock/metal moderno.
Prodotto negli studi di Gianmarco Bellumori, Straight To The Pain ci consegna una potenziale top band ed un album davvero bello che difficilmente riuscirete a togliere dal lettore una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi. Assolutamente da avere.

Tracklist:
1. Into the Pain
2. Never Too Late to Die
3. A Senseless Tragedy (Bloodstreams)
4. Judgement Day
5. Straight to the Pain (feat. Eleonora Buono)
6. What’s Your Aim? (Call It Insanity)
7. Lost in London
8. Love Kills Anyway
9. Bitch On My Wall
10. The Perfect Time
11. The Beholder
12. Lost in London ( acvoustic version)

Line-up:
Francesco Lattes – vocals
Fabrizio Proietti – guitar
Alex Trotto – guitar
Ivano Adamo – bass
Luca Mancini – drums

NEW DISORDER – Facebook

The Way Of Purity – The Majesty Of Your Becoming

Gli undici brani in scaletta scorrono molto piacevolmente esibendo un’anima elettronica che non chiude del tutto la porta alla base metallica della band.

Ai The Way Of Purity sono affezionato per due motivi: intanto, sono stati la prima band della WormHoleDeath che ho recensito per In Your Eyes, poi il fatto d’essere il braccio musicale dell’Animal Liberation Front non può che spingermi a tifare per loro.

Però qui dobbiamo parlare anche e, soprattutto, di musica e allora non si può fare a meno di constatare che il deathcore feroce, per quanto ricco di spunti melodici esibito in “Crosscore” prima e in “Equate” poi, in questo nuovo album abbia assunto le sembianze di un più immediato alternative metal dalle spiccate pulsioni elettroniche. L’ennesimo cambio di vocalist, con la bravissima Kirayel oggi dietro al microfono, ha comportato anche la rinuncia al corrosivo growl femminile che caratterizzava le precedenti uscite.
Inevitabilmente questo quadro non può che preludere ad un lavoro molto più fruibile dal punto di vista musicale, pur senza rinunciare al suo ruolo di veicolo di denuncia delle nefandezze causate dallo specismo. Without Name, uno dei musicisti che stanno dietro a questo progetto che si è circondato sempre di un alone di mistero, ha dichiarato che la sterzata stiistica è volta al raggiungimento di un maggior numero di persone, cosa che sicuramente l’efferatezza del sound messo in mostra in passato non favoriva.
The Majesty Of Your Becoming, nonostante personalmente apprezzassi più la precedente incarnazione dei The Way Of Purity, è comunque un buonissimo lavoro che probabilmente darà ragione ai suoi autori rendendosi appetibile ad un numero molto più elevato di persone, cosa che comunque un po’ cozza con l’atteggiamento tenuto dalla band nei confronti dei media, che non è certo da portare come uno dei massimi di esempi di attenzione al marketing.
Gli undici brani in scaletta scorrono molto piacevolmente esibendo un’anima elettronica che non chiude del tutto la porta alla base metallica della band, che si manifesta più di una volta con i classici riff squadrati, specie nel remake di Eleven: non a caso, quello che era uno dei brani trainanti di “Equate” qui viene ripulito il giusto per renderlo un potenziale hit, anche se il vero crack dell’album è la successiva From The Nest To The Grave, traccia in possesso di un refrain splendido.
Ma in realtà sono molti i brani che meritano una menzione, a partire dall’opener Dare To Be Yourself e la title track, ottime prove di alternative metal impreziosita da una voce perfetta per il genere come quella di Kirayel. Nella seconda parte dell’album in ogni caso i The Way Of Purity spingono maggiormente sull’acceleratore, finendo più volte per avvicinarsi al sound di una band come gli Exilia, differenziandosene proprio in virtù della maggiore componente elettronica. L’album si chiude nel migliore dei modi con un’altra traccia dal grande appeal commerciale quale è Tide.
Se, come detto, preferivo i The Way Of Purity quando si scagliavano con tutta la veemenza possibile nei confronti di Cartesio e delle sue sconcertanti teorie riguardo agli animali, non posso fare a meno di apprezzare ugualmente questa svolta, alla luce dell’indubbia qualità delle composizioni e di una certa compattezza del lavoro a livello stilistico. Se poi, grazie a questo, anche una sola persona dovesse decidere di non contribuire più allo sterminio di milioni di esseri viventi solo per soddisfare il proprio palato o la propria vanità, l’obiettivo di partenza sarebbe comunque centrato.

Tracklist:
1. Dare To Be Yourself
2. The Roots Of Evil
3. The Majesty Of Your Becoming
4. Disfigured By Karma
5. Sarin
6. Jackob
7. Eleven
8. From The Nest To The Grave
9. Noah
10. The Clouds Behind Your Eyes
11. Tide

THE WAY OF PURITY – Facebook

Hierophant – Peste

Venti minuti nel segno della pestilenza, l’inferno sulla terra raccontato dagli Hierophant.

Dura solo una ventina di minuti Peste, ritorno sulle scene della band ravennate, ma sono venti minuti d’intensità estrema notevole, una bordata di metallo massiccio, urlante e assolutamente non convenzionale.

Gli Hierophant sono al terzo lavoro, i precedenti full length messi in archivio portano i titoli di “Hierophant”, omonimo debutto del 2010 e “Great Mother: Holy Monster” dello scorso anno.
Peste supera ogni aspettativa con questi dieci brani collegato tra loro, uno più rabbioso dell’altro e che formano un unico intenso monolite di metal estremo dove l’hardcore, il black, il death ed il punk uniscono le proprie forze per scaricarci addosso una valanga di potenza inaudita.
Un clima di delirio e sofferenza, raccontata dalla musica del gruppo che si avvale delle urla disumane di Carlo, cantore tra i fumi dei falò di cadaveri bruciati, sorretto dal basso colmo di groove di Giacomo che, con il drumming di Ben, compone una coppia ritmica da apocalisse.
Le chitarre sempre impostate su riff pesanti come macigni (Lollo e Steve) formano appunto con il basso un muro sonoro estremamente potente, l’atmosfera vera e non romanzata di un’apocalisse sulla terra, portata da un virus che, nei secoli passati, ha avvicinato con la sua devastazione la terra all’inferno.
Non un attimo di tregua e tanta violenza sonora, sommata alla varietà di stili che la band utilizza per creare il proprio sound, fanno di Peste un lavoro originale ed estremamente affascinante: una band ed un album fuori dagli schemi … notevoli.

Tracklist:
1. Inganno
2. Masochismo
3. Nostalgia
4. Sadismo
5. Apatia
6. Paranoia
7. Sottomissione
8. Alienazione
9. Egoismo
10. Inferno

Line-up:
Giacomo – Bass
Ben – Drums
Lollo – Guitars
Karl – Vocals
Steve – Guitar

HIEROPHANT – Facebook

Woccon – Solace In Decay

Il death doom degli Woccon appare piuttosto peculiare nel suo incedere, proprio per i suoi tempi mai eccessivamente rallentati ed un mood molto meno cupo rispetto alla media.

Al terzo anno di attività arrivano al debutto sui lunga distanza gli statunitensi Woccon, che si erano già messi in luce nel 2012 con l’ottimo Ep “The Wither Fields”, un lavoro che all’epoca mi venne segnalato dallo stesso vocalist e chitarrista Tim Rowland, consentendomi di scoprire una nuova, stimolante realtà, nei confronti della quale non era necessario possedere particolari doti divinatorie per predirne un roseo futuro.

Proprio le basi poste con quell’uscita costituiscono il solido appoggio sul quale gli Woccon creano il loro death-doom invero non del tutto convenzionale, a causa delle frequenti sfumature post rock che talvolta arrivano ad addolcire un sound che, sicuramente, prende come punto di riferimento principale i magnifici connazionali Daylight Dies, senza che ciò vada a discapito della personalità, tutt’altro.
Lo stile della band della Georgia, infatti, appare piuttosto peculiare nel suo incedere, proprio per i suoi tempi mai eccessivamente rallentati ed un mood molto meno cupo rispetto alla media, privilegiando talvolta un aspetto melodico più sognante che malinconico (ed ecco l’aggancio con il post rock di cui si parlava poc’anzi).

L’ottima interpretazione vocale di un Tim Rowland che, per fortuna, non cede alla tentazione di stemperare con passaggi “clean” il suo notevole growl, non sorprende alla luce di quanto di buono aveva mostrato già in occasione dell’Ep, e conferisce al sound quella stabilità che porta gli Woccon ad offrire quasi un’ora di musica avvincente, davvero priva di cali e con alcuni picchi emotivi realmente entusiasmanti quali le splendide Impermanence e Behind The Clouds, senza dimenticare le pennellate più tenui di una traccia come la strumentale Valadiliene, veri colpi di classe che fin da ora collocano la band di Athens su livelli prossimi ai maestri del genere.

Tracklist:
1. Intro
2. Giving up the Ghost
3. Atrophy
4. This Frozen Soil
5. And the World Wept
6. Impermanence
7. Valadilene
8. An Enduring Remorse
9. Behind the Clouds
10. Wherever I May Be
11. Wandering

Line-up:
Tim Rowland – Vocals, Guitars
Tiler Kuykendall – Guitars
Sam Dunn – Bass
Chris Wilder – Guitars
Kellen Harris – Drums

WOCCON – Facebook

Revenge – Harder Than Steel

Assolutamente da avere, “Harder Than Steel” è un ottimo tributo ai suoni classici

Un monolite di heavy speed metal fuso nell’acciaio ottantiano: questo è, per la gioia dei true metallers innamorati dei suoni old school, Harder Than Steel dei sudamericani Revenge.

La band colombiana, veterana della scena heavy mondiale, arriva al sesto full-length di una discografia infinita, colma di Ep e split, iniziata sulla lunga distanza dieci anni fa con “Metal Warriors”.
Una carriera tutta incentrata sui suoni old school arriva al culmine con il nuovo lavoro, entusiasmante per gli amanti dei suoni classici, una tranvata suonata alla velocità della luce, epica come solo l’heavy metal sa essere e piena di quei meravigliosi cliché che ne fanno un monumento al genere.
L’heavy della band viaggia su territori speed, i brani sono quasi tutti a rischio autovelox e sfoggiano grinta e fierezza metallica, impreziositi da un ottimo songwriting che li rende imperdibili.
I quattro guerrieri di Medellin, in stato di grazia, offrono una prova sopra le righe, cominciando dai solos al fulmicotone che sprizzano scintille come una fresa al lavoro (Esteban M. Garcia), passando per la sezione ritmica martellante composta da Jorge Rojas (basso) e Daniel Hernandez (piovra dai mille tentacoli alle pelli) fino all’ottima prova al microfono di Esteban Mejia, grandioso anche nelle parti ritmiche con la sua chitarra.
Pronti e via, Harder Than Steel parte a cento all’ora per travolgere tutto fino alla fine ed oltre: brani dall’ottimo appeal metallico, si susseguono senza soluzione di continuità e, veloci come il vento e duri come il ferro, non fanno prigionieri, avvicinandosi in alcuni casi al thrash dei primi Testament, ma con il power teutonico come nume tutelare della band (non è un caso che l’ultimo brano sia proprio Chains And Leather dei maestri Running Wild).
Assolutamente da avere, Harder Than Steel ha nella title track, Back For Vengeance, At The Gates Of Hell e nella “sassone” Motorider gli episodi migliori di un album tutto da ascoltare: suoni classici all’ennesima potenza, un tributo ai classici suoni old school davvero ben fatto …. long live heavy metal!

Tracklist:
1. Headbangers Brigade
2. Harder Than Steel
3. Witching Possession
4. Gravestone
5. Back for Vengeance
6. Torment & Sacrifice
7. Flying to Hell
8. At the Gates of Hell
9. Motorider
10. Chains and Leather

Line-up:
Jorge “Seth” Rojas – Bass
Esteban “Hellfire” Mejía – Vocals, Guitars
Daniel “Hell Avenger” Hernandez – Drums
Night Crawler – Guitars (lead)

Sepulchral Curse – A Birth In Death

“A Birth In Death” è una bella sorpresa per i fan del death metal old school.

Quindici minuti di devastante Death Metal, marcio, brutale e senza compromessi è quello che ci propongono i maligni Sepulchral Curse nel loro Ep d’esordio dal titolo A Birth Of Death.

La band dai natali finlandesi nasce nel 2013 ed arriva all’esordio con questi quattro brani di puro massacro sonoro, tra la tradizione scandinava ed il brutal, vomitandoci addosso scariche di metal estremo dall’impatto di un atomica.
Veloci come il vento e potenti come un panzer, la band di Turku ha il proprio punto di forza nell’ex Frostbitten Kingdom Jaakko Riihimäki alla sei corde, protagonista di una prova inumana sia nel riffing che nei solos di scuola old school.
I suoi degni compari non sono da meno e nelle buone Sepulchral Curse, Demonic Pestilence, Infernal Pyres e Torn To Shreds esce tutta la bravura di una sezione ritmica dirompente (Niilas Nissilä al basso e Tommi Illmanen alla batteria) e di un demonio dal growl brutale al microfono come Kari Kankaanpää.
Death metal old school si è detto, ed allora i richiami a Grave e Dismember sono palesi, così come il brutal di Autopsy e Cannibal Corpse racchiusi in questo girone infernale che è A Birth In Death.
Per i fan del genere una bella sorpresa, ora aspettiamo il full length.

Tracklist:
1. Sepulchral Curse
2. Demonic Pestilence
3. Infernal Pyres
4. Torn to Shreds

Line-up:
Niilas Nissilä – Bass
Tommi Ilmanen – Drums
Jaakko Riihimäki – Guitars
Kari Kankaanpää – Vocals

SEPULCHRAL CURSE – Facebook

VAPORTEPPA – Intervista (Parte Seconda)

Seconda ed ultima parte dell’interessantissima intervista ad una persona che dice le cose in maniera molto chiara : il Duca di Vaporteppa !!!

Seconda ed ultima parte dell’interessantissima intervista ad una persona che dice le cose in maniera molto chiara : il Duca di Vaporteppa !!!

iye Ci puoi spiegare la genesi e l’importanza di una copertina?

Le copertine sono molto importanti e hanno due obiettivi principali.
Il primo è di attirare l’attenzione del lettore evocando qualcosa, possibilmente che riguardi in qualche modo l’opera. Il secondo è di identificare in modo chiaro una collana, in modo che un lettore che ha già apprezzato altri libri, e quindi è più predisposto a comprarne ancora, a colpo d’occhio riconosca l’appartenenza.

Come cerchiamo di ottenere questi due obiettivi?
Per cominciare con uno stile fumettoso, decisamente non convenzionale per la narrativa in Italia. Poi c’è la palette di colori studiata dal nostro illustratore di fiducia, Manuel Preitano, da cui si capisce che siamo noi. A contraddistinguere la collana da subito, per chi la conosce, c’è anche la scelta grafica, un po’ scomoda ma funzionante, del “bigliettone” retrò con il nostro logo e il titolo.

Vogliamo che l’illustrazione di copertina dia un affresco complessivo di ciò che nell’opera si può trovare, che sia più evocativo e più ricco possibile di suggestioni. Nelle opere brevi usiamo di norma una singola immagine che raffigura uno dei protagonisti, possibilmente nel contesto di una scena presente nel testo: pensiamo alla copertina de “La Gatta degli Haiku”.

Però più una storia è complessa e ricca di elementi, più è difficile che un singolo “fotogramma” basti a rappresentarla nella sua complessità.
Nelle opere lunghe nessuna singola scena rappresenterebbe o evocherebbe sufficienti elementi. Ognuna sarebbe troppo poco, non sarebbe una sintesi visiva dell’opera. Ecco come mai abbiamo scelto di unire al protagonista, rappresentato dalle ginocchia o dall’inguine in su, uno sfondo di “vignette” (come se venissero da un fumetto) con altri elementi della storia. Quindi abbiamo in primo piano un elemento protagonista, graficamente staccato, e sullo sfondo un contesto di elementi tratti dal testo che dà un’idea “fumettosa”.

Le illustrazioni le realizziamo a stretto contatto, in scambio mail, tra l’illustratore, l’autore e me, più magari un parere extra da un altro nostro autore, Alessandro Scalzo (“Caligo”) che ha un buon occhio per queste cose. Passo dopo passo analizziamo e commentiamo bozzetto, matite, colori flat e infine colorazione completa.

iye A tuo avviso come è la condizione dello scrittore in Italia?

Pessima.
Manca l’autentico supporto delle case editrici, possibile solo se queste si occupano di formare gli autori. Sfortunatamente non hanno né le competenze né la cultura aziendale per farlo. Gli autori non sono incentivati a studiare e a impegnarsi, spesso rinnegano il concetto stesso di studio, e questo è colpa anche della mancanza di cultura aziendale degli editori riguardo la formazione degli autori.

Gli scrittori, anche quando hanno un successo adeguato e pubblicano il loro libro puntuale ogni anno, devono necessariamente avere un “lavoro vero” per sopravvivere. Avere un lavoro, oltre a scrivere, non è in sé una cattiva cosa: il lavoro, di solito, fornisce spunti, suggestioni, idee… può aiutare un autore. Però all’estero, negli USA, gli autori di fascia media riescono a vivere delle loro opere. Magari vivacchiano, ma comunque ce la fanno.
Da noi metti che sei fortunato e ricevi un anticipo di 6mila euro su una tua opera da un grosso editore. Uno all’anno. E le tue royalties molto difficilmente lo supereranno. E come ci vivi? Ora poi, con la crisi editoriale, gli anticipi sono sempre più magri. Anche negli USA sono più magri, ma penso che nessuno mi contesterà che la metà di 30-40mila dollari sia comunque di più della metà di 6mila euro. E chi ancora prende 3mila euro, pur essendo uno dei tanti autori di fascia media di una grossa casa editrice, e non un nome di punta, può considerarsi fortunato!

Sul piano soddisfazioni personali… senza una cultura aziendale che promuova una cultura dello studio, dell’analisi oggettiva ecc. agli scrittori non restano che due scenari:
1. se sanno scrivere e sanno come si scrive, sanno che la massa degli altri interlocutori (autori e aspiranti tali: l’Italia ha più aspiranti scrittori che lettori, si dice) rifiuta a priori la discussione tecnica e che è inutile anche solo affrontare l’argomento, per non venire dileggiati dalla “grida dei beoti” (citando Gauss, che così definì l’opposizione che si aspettava al superamento della geometria euclidea);
2. se invece non sanno scrivere la situazione non è poi molto migliore, visto che non potendo affidarsi alla qualità delle loro opere per farsi strada dovranno basarsi su amicizie, lecchinaggio, vivendo una vita pubblica spesso completamente scissa da ciò che in privato credono, costretti per tenere in piedi il proprio sogno di autori a coprire di lodi opere di cui vedono perfino loro la pochezza, per ricevere così pari lodi da quegli autori.

Il secondo scenario è molto meno stressante rispetto a una variante del primo di chi, sapendo scrivere, fa l’errore di pensare agli altri come autori professionali e ragionevoli e, nell’instaurare normali discorsi tecnici come si fa d’abitudine negli USA, si trova contro un muro di gomma di ignoranza, dileggio e rifiuto… ma non poi così migliore, secondo me.
Meglio sapere di essere in mezzo a un gruppo di gente che non sa niente di narrativa e tacere delle atrocità sentite, camuffandosi tra loro, o meglio farseli nemici osando dire che due più due fa quattro? Sta alla dignità di ciascuno decidere se sia meglio la compagnia degli sciocchi o la solitudine dei giusti. Solitudine per modo di dire: tra gli autori che tacciono e non vengono pubblicati non mancano quelli che studiano e vorrebbero discutere su solide basi teoriche… solo che non sanno di esserci, e di non essere pochi, e quindi tacciono perché sono gli stolti a far gruppo e a vociare di più (la cura delle relazioni e della presenza è tutto, per loro, non potendo appoggiarsi sulla qualità delle opere) fino a sembrare gli unici presenti.

Abbiamo dedicato due articoli su Vaporteppa all’arte “senza regole” e al presunto “talento”:
http://www.vaporteppa.it/approfondimenti/la-qualita-e-lunica-realta-che-abbiamo/
http://www.vaporteppa.it/approfondimenti/nascita-o-addestramento/

Lo scenario non è bello? No.
È quindi? Quindi niente, la vita non deve essere giusta né facile se si vuole percorrere la via della rettitudine. Per chi vuole facili scorciatoie e vita semplice, conviene evitare di studiare, per non cominciare a pensare ancora peggio delle altrui opere, e unirsi ai cori di autori vecchio stile: ci si faranno tanti amici e si vivrà senza rodersi il fegato. Ma non sarà la via della vera professionalità seria e della rettitudine verso sé stessi e la propria arte.

iye Quale è lo stato della letteratura underground in Italia?

Ho già risposto in parte nella domanda precedente.
Se quelle sono le premesse, fate due più due ed ecco la risposta. Parlando di Fantasy e Fantascienza, basta vedere com’è andata: autopubblicati che spesso sono peggio del peggio portato in libreria dai grossi editori, rarissime opere decenti che si perdono nel mare di immondizia (perché magari l’autore non è di quelli del primo scenario visti prima, capaci di fare gruppo tra amichetti e spingersi a vicenda ingoiando il conato quando deve lodare opere che trova orribili), immondizia che ha invaso le librerie.
E lettori in forte calo, anche nel fantasy (e sempre stati pochi nella fantascienza), perché dopo gli anni del boom ciò che è rimasto, a furia di leggere schifezze, è stato questo: “Aveva ragione la mia prof del liceo che questo fantasy alla fine sono scemenze che non val la pena leggere! Basta, da oggi solo un libro all’anno e solo Fabio Volo.”
Eh, proprio roba che fa bene al settore…

iye Che consigli puoi dare ad uno giovane scrittore?

Se vuoi diventare un autore pubblicato “costi quel che costi” in ambito fantasy o fantascienza, ti consiglio di seguire questa guida nelle parti rivolte a chi ha questo specifico obiettivo:
http://fantasy.gamberi.org/2010/10/28/editoria-fantasy-in-italia/

Se vuoi diventare prima di tutto un autore competente, che sa quello che fa e che lo fa dando il massimo, allora hai un mantra solo: studia-studia-studia. Studia la tecnica narrativa per rendere concreta, sensoriale e avvolgente l’esperienza narrativa. Studia come si ragionano le sceneggiature, per dare strutture solide alle opere. Studia qualsiasi argomento connesso a ciò di cui parlerai nella tua storia, e quasi sempre questo significa aver letto anche un paio di manuali facili e spendibili a tema psicologico (Eric Berne e/o un saggio introduttivo alla psicologia sociale), possibilmente anche qualcosa di specifico scritto per gli sceneggiatori (c’è un bel manuale sulla psicologia dei personaggi del grande maestro Lajos Egri, semplice e profondo assieme) e se vuoi impegnarti al meglio valuta pure un testo introduttivo che parli del cervello umano (io sto leggendo al momento “Neuroscienze” di Mark Bear, un affascinante mattone universitario di oltre 800 pagine), visto che se vorrai parlare di “persone” e renderle credibili avrai bisogno di qualcosa in più dell’esperienza diretta, spesso piena di errori e pregiudizi. Se vuoi scrivere degli altri, impara a dubitare di te stesso e di ciò che pensavi di sapere. Male non fa, anche senza pensare alla scrittura.

Studia il genere che vuoi scrivere. In teoria se vuoi scriverlo è perché lo ami e lo frequenti, per cui non servirebbe dirtelo, ma magari è un interesse nuovo per cui meglio essere chiari: leggi decine e centinaia di opere fantasy e di fantascienza, se vuoi scrivere uno dei due (i confini sono spesso così labili che un po’ di entrambi fa sempre comodo), e leggi thriller, leggi autobiografie di veterani di guerra, leggi storie di operai cinesi maltrattati, leggi saggistica, leggi qualsiasi cosa che possa arricchirti di informazioni e stimoli. Questo include film, serie tv, fumetti, anime giapponesi, videogiochi. Ogni cosa può contenere stimoli. Snobbare qualcosa a priori è il primo passo verso il fallimento: impara a imparare, senza pregiudizi legati al mezzo.

Impara a fare di ogni esperienza di vita un elemento per le tue storie, a rendere “scrivi ciò che sai” un modo di vivere alla ricerca del dettaglio che ti permetterà di scrivere qualcosa. Sei un operaio edile, sei uno spazzino, sei uno psicologo che lavora nelle scuole, sei un sommelier, sei un imprenditore con tre operai e una piccola fabbrica di bulloneria? Hai l’hobby della storia egizia, della scherma di bastone, della produzione artigianale di salami o di geopolitica mediorientale? Usali, impara a rendere importante nelle tue storie ciò che hai da dire, ciò che sai.
C’è chi ha fatto fantascienza perfino usando la matematica! Non c’è qualcosa che sia del tutto inutile, se sai rifletterci e se davvero conosci quell’argomento a fondo.

iye Progetti futuri dell’ardita Vaporteppa?

Continueremo con le traduzioni in italiano della Bizarro Fiction di Carlton Mellick III e con le nuove opere di autori italiani. Saltuariamente un po’ di vekkiume d’epoca. Sul piano social e blog ho in mente alcuni cambiamenti, dando più importanza al blog e al coinvolgimento dei lettori. Negli ultimi mesi ho ragionato su cosa fare del blog di Vaporteppa, troppo poco curato fino ad adesso, e ora penso di aver capito. Se ho capito per davvero e se funzionerà, lo vedrete nel corso dell’anno: già dai prossimi mesi inizierà il nuovo approccio basato su più contenuti e più dietro le quinte su come ragioniamo, sulla scrittura e sulle opere.

 

Duca-di-Baionette-e-Vaporteppa-un-cretino-senza-fosforescenza

Story Of Jade – Loony Bin

Un album trascinante, non solo per appassionati del genere ma, forte delle sue ottime melodie, adatto un po’ a tutti gli amanti dei suoni metallici.

Nuovo capitolo della storia di Jade: Loony Bin è il terzo lavoro in studio della band nostrana e rappresenta un altro tuffo nell’horror metal.

Gli Story Of Jade, per chi non li conoscesse, sono attivi dal 2002 e hanno già archiviato due lavori, l’ep “The Factory Of Apocalypse” del 2006 ed il primo full lenght “The Damned Next Door (Know Your Neighbors)”, uscito nel 2011 per WormHoleDeath e prodotto da Carlo Bellotti e Alessandro Paolucci.
Una buona attività in sede live ha portato la band a dividere i palchi con nomi del calibro di Eldritch, Tankard, Sinister, Necrodeath e Cadaveria, tra gli altri, per arrivare all’alba di questo 205 con l’uscita del nuovo Loony Bin, prodotto da Pier Gonnella.
Ospiti illustri fanno capolino su tre tracce dell’album: Gerre dei Tankard su Blood Hangover, le tastiere di Antonio Aiazzi dei Litfiba impreziosiscono il singolo Psychosis In A Box, e Steva dei Deathless Legacy appare su Symphonies From The Grave.
Un nuovo contratto (Black Tears) e piccole ma significative rivoluzioni nella line-up, che portano l’entrata di Vrolok Lavey al basso lasciando Bapho Matt a dedicarsi alle sole parti vocali, oltre ad un maggior uso delle tastiere, sono le novità su cui poggia un album che risulta una bella mazzata heavy metal, dalle atmosfere horror sì, ma sempre tenendo ben alta l’elettricità dei brani, a partire fin dall’intro.
Tecnicamente ineccepibili, i brani si susseguono in un clima da grand guignol, anche se nel lavoro dei nostri non si perde tempo in rallentamenti atmosferici, ma si bada ad aggredire l’ascoltatore con ottime parti tastieristiche inserite nella struttura heavy di brani che non cedono di un passo, continuando per tutta la durata dell’album a martellare.
Ottimo Bapho Matt alla voce, teatrale e molto melodico dona un certo appeal orecchiabile a canzoni quali la title track, Psychosis In A Box, Sick Collector e la travolgente Symphonies From The Grave.
Direi che Loony Bin mi ha ricordato tanto il King Diamond solista, leggermente modernizzato nel sound del gruppo, ma spiritualmente presente tra i solchi di questi ottimi undici brani.
Molto riuscita la conclusiva Horror Me(n)tal Disorder, una via di mezzo perfetta tra il sound del vocalist danese ed i nostrani ed ultimi Death SS, che archivia come meglio non potrebbe un album trascinante, non solo per appassionati del genere ma, forte delle sue ottime melodie, adatto un po’ a tutti gli amanti dei suoni metallici.

Tracklist:
1- Corridor
2- Loony Bin
3- The Book Of Lies
4- Sick Collector
5- Psychosis In A Box – feat. Aiazzi (Litfiba)
6- Symphonies From The Grave – feat. Steva (Deathless Legacy)
7- Lobotomy
8- Merculah
9- Room 501
10- Blood Hangover – feat. Gerre (Tankard)
11- Horror Me(n)tal Disorder

Line-up:
YNDY T.WITCH – Lefthanded Drums
AG – Lead/Rhythm Guitars
Mr.VROLOK LAVEY – Bass Guitar
BAPHO MATT – Lead Vocals

STORY OF JADE – Facebook

No One Cares – Dirty

Ottimo lavoro, consigliato agli estimatori dei suoni crossover/metal, i quali troveranno di che essere soddisfatti da questa raccolta di canzoni.

Un altro ottimo lavoro targato Qua’Rock: questa volta il genere vira verso il nu metal/crossover, con il debutto della band toscana No One Cares con questo riuscito e divertente Dirty.

La qualità maggiore del gruppo di Pistoia è l’approccio vario e in your face alla materia, ovvero non il monolitico muro sonoro tanto caro alle ultime generazioni dedite al metal moderno, ma tanto groove ed una predisposizione per il crossover che lo rendono a suo modo originale.
Metal, punk, alternative e buone sfumature rappate fanno di questo lavoro un buon ascolto per i fan del genere: la band punta sull’impatto live dei brani in scaletta, tutti anthem da pogo sotto il palco, ed una attitudine rock’n’roll molto marcata e difficile da trovare in altre realtà dedite al genere.
Ottima la sezione ritmica (Andrea Moroni al basso ed Elena Giraldi alla batteria), che segue la chitarra saturata di metallico groove (Andrea Gorini), e davvero bravo Matteo Turi dietro al microfono, personale e sguaiato il giusto per tenere alta la tensione dei brani, passando dallo scream al rap fino ad un cantato pulito molto punk rock che accentua tutta la voglia di esplodere dei brani in sede live.
Due degli otto brani in scaletta sono cantati in lingua madre (Niente Da Perdere ed Intolleranza), qualcuno potrebbe arricciare il naso nei confronti di tale scelta della band che, invece piazza due songs avvincenti, tenendo botta alla tempesta di ritmi e groove che rilasciano sull’ascoltatore le ottime Bored, First Last, No One Cares (sorta di inno della band) e Rock’n’Roll.
Rage Against The Machine, Lamb Of God ed un pizzico di Offspring, ma ne potrei citare altre mille, tanta è la carne al fuoco e la varietà con cui i No One Cares affrontano la materia, basti ascoltare l’inizio di Lymphoma, la più metallica del lotto, dove il cantato ricorda non poco Anders Friden degli In Flames.
Ottimo lavoro dunque, consigliato agli estimatori dei suoni crossover/metal i quali troveranno di che essere soddisfatti da questa raccolta di canzoni.

Tracklist:
1.Bored
2.First Last
3.Born For This
4.No One Cares
5.Niente Da Perdere
6.Rock’n’Roll
7.Lymphoma
8.Intolleranza

Line-up:
Matteo “MarioMariaMario” Turi – Voce
Andrea “John Pier J.” Gorini – Chitarra
Andrea “Franchio” Moroni – Basso
Elena “Maria Sfiocina” Giraldi – Batteria

Nightraid – Nightraid

Demo d’esordio per i rockers umbri Nightraid.

I ternani Nightraid arrivano al demo d’esordio con il loro convincente hard rock cantato in italiano: fondati dall’ottimo vocalist Andrea, con un passato nel death metal, dopo aver trovato nel chitarrista Alessandro il partner giusto per portare avanti il progetto, la band nasce per fare rock’n’roll con gli attributi, in due parole hard rock.

Il duo nel frattempo diventa un quintetto, cambiando diversi elementi nella line-up e girando per i locali suonando cover di Ozzy, Motorhead e Pino Scotto, l’influenza maggiore sui brani di questo demo.
Al gruppo si aggiungono infine Andrea alla chitarra, Leonardo al basso e Filippo alle pelli, ed è con questa formazione che incidono i brani racchiusi in questo composto da quattro brani di hard rock senza compromessi e dall’ottimo groove.
Pino Scotto fa da ideale padrino alle canzoni, sia musicalmente sia per l’ugola sporca e grintosa del vocalist, ottimo interprete di botte d’adrenalina come Stand By, Nightraid e Misteri, ma tra i solchi delle tracce affiorano riff rimembranti i fratelli Young e ritmiche motorheadiane per un risultato trascinante, specialmente nei primi tre brani.
Il lavoro si chiude con l’ottima semiballad Indians, heavy nel bellissimo solo e interpretata con piglio guerresco dal frontman, risultando il brano top della band, per niente ruffiana ma intensa nel suo incedere ed impreziosita dall’ottimo testo.
Un inizio niente male per il combo umbro: con passione ed attitudine da vendere ed una manciata di buone canzoni da portare in giro, questo demo si può considerare un ottimo inizio.

Tracklist:
1.Stand By
2.Nightraid
3.Misteri
4.Indians

Andrea – voce
Alessandro – chitarra
Leonardo – basso
Andrea – chitarra
Filippo – batteria

NIGHTRAID – Facebook

 

Luna – There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask

L’Ep scorre in maniera oltremodo piacevole, collocando Luna tra i prospetti da tenere sotto stretta osservazione nel prossimo futuro

Ritroviamo, dopo circa sei mesi, questo progetto solista del musicista ucraino DeMort sotto forma di un breve Ep che su rivela, però, piuttosto interessante per diversi motivi.

Dall’ascolto di “Ashes to Ashes”, album uscito lo scorso anno sempre per la Solitude, era rimasta l’eredità delle pesanti influenze di band come Ea e Monolithe, benché di per sé ciò non debba essere considerato in assoluto un male ed il lavoro non fosse affatto disprezzabile: l’adesione a quei modelli appariva però eccessiva, e la presenza saltuaria di buoni spunti melodici non giustificava del tutto la totale rinuncia ad un proprio tratto personale; nei due brani pubblicati in questa occasione, DeMort pare invece essersi svincolato in buona parte da tali spunti stilistici, approdando ad una forma di doom atmosferico dai tratti meno funerei e dalle ampie aperture melodiche, non prive peraltro di una certa solennità.
There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask scorre pertanto in maniera oltremodo piacevole, collocando Luna tra i prospetti da tenere sotto stretta osservazione nel prossimo futuro.
Meno di un quarto d’ora di musica, ma ben focalizzata ed altrettanto ottimamente eseguita, costituisce infatti il viatico ideale per un prossimo full length che potrebbe garantire l’auspicabile salto di qualità alla one man band ucraina.
Resto, come sempre, lievemente perplesso al cospetto di proposte dal formato interamente strumentale (il ricorso ad un buon growl costituirebbe un valore aggiunto non da poco) ma, indubbiamente, questa è una prova che merita la dovuta attenzione ed un doveroso ascolto da parte degli appassionati alla ricerca di nomi nuovi.

Tracklist:
1. In a Silver Velvet of the Moon
2. There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask

Line-up:
DeMort – All Instruments

Mechina – Acheron

Altro straordinario capolavoro di musica estrema targato Mechina.

Esattamente come lo scorso anno il primo di Gennaio si è riaperto lo Stargate e, dall’abisso spaziale in cui era stato esiliato, torna quel mostro apocalittico chiamato Mechina.

A un anno esatto dal capolavoro “Xenon” e pochi giorni dopo l’uscita del mio best of, dove il gruppo dell’illinois era presente come rappresentante della musica estrema moderna, Acheron, il nuovo straordinario lavoro, conferma ed aggiunge nuove sfumature al sound di questo gruppo immenso, andando oltre al suo predecessore ed aumentando il bombardamento sinfonico che è il protagonista assoluto del songwriting del gruppo.
Magniloquente, arabeggiante, fantascientifico, un incubo proveniente da un altro mondo, l’apocalisse palpabile in ogni secondo di questa monumentale sinfonia, terrorizza come solo la musica dei Mechina riesce a fare, toccando vette operistiche in un contesto death/industrial che fa della band un monumento alla musica estrema.
David Holch continua con il suo growl a rendere Mechina un mostro di brutale violenza, la sezione ritmica (Steve Amarantos al basso e David Gavin a devastare tamburi) non tradisce e continua la sua battaglia con ritmiche cyber fredde come lo spazio profondo; Joe Tiberi tra la sei corde ed il programming fa il bello e cattivo tempo ma, come da tradizione, è ancora una volta la parte sinfonica ad essere il vero motore del sound, tra cori orientaleggianti e monastici, vera colonna sonora della fine dell’universo conosciuto e l’inizio di un nuovo “tutto”.
Un opera di oltre un’ora che fa dei Mechina qualcosa di diverso da qualsiasi band estrema vi possa venire in mente: lo scorso anno scrivevo dei Fear Factory per raccontarvi Xenon, ma ormai è troppo tardi, o meglio, la loro musica è ormai troppo lontana da poterla schematizzare avvicinandola a qualsiasi altra band (Ode To The Forgotten Few / The Hyperion Threnody ne è l’esempio) entrando in un’aura di spettacolare magnificenza.
I Mechina sono tornati e questo straordinario Acheron non fa che renderli ancora più inavvicinabili, almeno per chi si raffronta con la musica estrema moderna; ancora con un’autoproduzione, non so se per scelta della band o per sordità incurabile da parte degli addetti ai lavori.
Devo far presto, lo Stargate sta per richiudersi ed io mi sono inevitabilmente perso …

Tracklist:
1. Proprioception
2. Earth-Born Axiom
3. Vanquisher
4. On the Wings of Nefeli
5. The Halcyon Purge
6. Lethean Waves
7. Ode to the Forgotten Few
8. The Hyperion Threnody
9. Adrasteia
10. Invictus Daedalus
11. The Future Must Be Met

Line-up:
Joe Tiberi – Guitars, Programming
David Holch – Vocals

MECHINA – Facebook

Bug – Alpha

Un concept futurista ed un ottimo esempio di metal strumentale per l’esordio di Bug.

Buon esempio di progressive metal strumentale l’esordio di Lorenzo Meoni, che sotto il monicker Bug licenzia questa quarantina di minuti tutti da ascoltare.

Alpha è un concept molto originale: la storia raccontata attraverso il solo uso delle note si sviluppa sul conflitto tra la metà umana e quella robotica racchiusi in un unico corpo, quello del protagonista, che crea la metà cyborg con lo scopo di difendersi sia a livello fisico che mentale.
Col passare del tempo la parte creata si ribella diventando autonoma, iniziando una dura lotta che porterà alla morte questa sorta di creatura metà uomo, metà robot.
Sotto l’aspetto musicale il lavoro è molto vario, passando dal metal, al progressive moderno, con ottimi risultati di fruibilità; Lorenzo Meoni suona tutti gli strumenti con buona padronanza dei mezzi, passando dai suoni cari a Devin Townsend al thrash panterizzato, fino ad esplorare il metal prog di Anthony Lucassen, con ottimi risultati.
Scariche elettriche si alternano a momenti più rilassati sempre tenendo alta la tensione e sopratutto l’attenzione dell’ascoltatore: l’atmosfera di scontro tra le due metà è avvertibile da una drammaticità di fondo ed una violenza musicale che non viene mai meno.
Davvero interessante poi, che in un album strumentale non si avverta il minimo accenno al virtuosismo fine a se stesso, ogni nota racconta di questo inevitabile e drammatico scontro, catturando e affascinando con sfuriate thrash e bellissimi momenti di melodie progressive.
Album realizzato in modo molto professionale, come ormai ci hanno abituato i lavori targati Qua’Rock, Alpha racchiude undici brani, tutti ottimamente prodotti e suonati, da ascoltare tutto di un fiato per assaporare tutti i vari passaggi che porteranno alla tragica fine del protagonista.
Prodotto non solo consigliato agli amanti dei dischi strumentali, ma un po’ a tutti gli amanti della buona musica.

Tracklist:
1.Alpha
2.Tears Of Silicon
3.Ethernet Express
4.The Rebellion Of The System
5.Formatted
6.No Parameter
7.You’re Just A Number
8.Synchro
9.Remove My Circuits
10.Session Terminated
11.Null

Line-up:
Lorenzo Meoni- All Instruments

BUG – Facebook

Woebegone Obscured – Deathscape MMXIV

Una prova interessante, nel suo complesso, che pone le basi per un’ulteriore progressione della band danese.

I danesi Woebegone Obscured, dopo due full length, l’ultimo dei quali risalente al 2013 (“Marrow Of Dreams”), si rifanno vivi con questo Ep uscito il mese scorso.

La band nordica è dedita ad un funeral-death doom piuttosto cangiante per gli standard del genere, visto che le consuete partiture plumbee sono spesso alternate ad ariose aperture melodica con tanto di clean vocals: nel precedente album questa soluzione si rivelava sicuramente interessante ma la sensazione era che le varie componenti risultassero ancora piuttosto slegate tra loro.
Vanno senza’altro meglio le cose in Deathscape MMXIV, dove, oltre a due cover, ci vengono proposti circa 25 minuti di musica inedita, tra i quali spiccano la title track, ottimo brano che spiega più di tante parole quale sia il modus operandi degli Woebegone Obscured (un inizio canonico a ritmi lentissimi che si stempera in un intermezzo acustico propedeutico all’ingresso di una stentorea voce pulita), e la bellissima e soave While Dreaming in the Ethereal Garden, traccia che pare uscita da un album della 4AD degli anni ’90.
In mezzo, Catharsis of the Vessel si rivela un episodio leggermente più cervellotico, per quanto non privo di spunti interessanti che mi hanno riportato alla mente una misconosciuta quanto valida band di due decenni fa quali furono i tedeschi Dark Millennium.
L’Ep si chiude con due cover piuttosto impegnative, visti i nomi che sono chiamati in causa, e bisogna dire che i danesi se la cavano bene in entrambe le occasioni, pur dovendo affrontare due stili diametralmente opposti: sia la bathoriana Call From The Grave, sia soprattutto Xavier, una delle canzoni in assoluto più belle (per chi scrive) tra le tante composte dai Dead Can Dance, vengono rese in maniera piuttosto fedele per quanto adeguatamente “doomizzate”.
In fondo, la contrapposizione tra questi due brani è un po’ la fotografia del sound degli Woebegone Obscured, i quali cercano lodevolmente di far convivere queste loro diverse pulsioni riuscendoci tutto sommato abbastanza bene; inoltre depone certamente a loro favore il fatto che, rispetto al precedente album, sia decisamente migliorata la qualità delle clean vocals e sia stato fatto un notevole passo in avanti anche per quanto riguarda la produzione.
Una prova interessante, nel suo complesso, che pone le basi per un’ulteriore progressione della band danese.

Tracklist:
1. Deathscape MMXIV
2. Catharsis of the Vessel
3. While Dreaming in the Ethereal Garden
4. Call from the Grave (Bathory cover)
5. Xavier (Dead Can Dance cover)

Line-up:
D. Woe – Drums, Keyboards, Vocals
Q. Woe – Guitars, Keyboard, add. Vocals
M. Woe – Guitars
Andreas Tagmose Grønkjær – Fretless Bass, Cello

WOEBEGONE OBSCURED – Facebook

Phantasmal – The Reaper’s Forge

Demo d’esordio per i Phantasmal, duo statunitense votato al metal old school.

I Phantasmal provengono dagli Stati Uniti e sono votati al thrash metal old school, con chiare influenze heavy e black: fondati nel 2012, il loro primo passo discografico è questo demo autoprodotto dal titolo The Reaper’s Forge.

Psychopomp, basso e voce, e Wraith, che si divide tra la sei corde e il drumkit, realizzano tre brani dal buon impatto, influenzati dai maestri Venom, nome che più di tutti spicca sul lavoro dei nostri old metallers, tra ritmiche thrash, vocals black e buoni solos di matrice heavy ottantiana.
The Reaper’s Forge apre le danze, ed è un susseguirsi di cliché di quello che negli anni ottanta erano i primi vagiti del metal estremo, ben confezionati dal duo americano: le vocals al vetriolo di Psychopomp, accompagnano sferragliate thrash e assoli chitarristici, come nella seguente The Eternal Campaign.
Queen Nightshade rallenta il tiro, il sound si fa più cadenzato e ne esce un ottimo brano, l’heavy metal classico prende le redini del sound, ed i Phantasmal regalano un brano notevole, bello nel suo essere tradizionale racchiudendo in cinque minuti tutto quello che un true metaller vorrebbe sempre ascoltare.
La produzione in linea con la musica proposta, fa di questi tre brani una piacevole sorpresa per i fan del metal di scuola ottantina: la strada presa dal duo porterà, se le buone sensazioni suscitate da questi tre brani saranno confermate dalle prossime uscite, ad un buon riscontro tra gli estimatori del metal old school.

Tracklist:
1. The Reaper’s Forge
2. The Eternal Campaign
3. Queen Nightshade

Line-up:
Wraith – Guitars, Drums
Psychopomp – Vocals, Bass

PHANTASMAL – Facebook

Frozen Sand – Prelude

Ottimo ep d’esordio per i prog metallers Frozen Sand, ideale preludio all’imminente full length.

I Frozen Sand provengono da Novara, nascono nel 2010 e, all’insegna di un buon progressive metal, alternando tradizione e modernità, licenziano questo Ep di quattro brani dal titolo Prelude, appunto preludio di una storia che sarà sviluppata nel futuro esordio sulla lunga distanza.

Fractal Of Frozen Lifetimes, questo è il titolo del concept in cui la band sviluppa il suo songwriting fatto di un metal/prog che predilige le atmosfere piuttosto che cervellotiche parti tecniche, anche se ai musicisti del gruppo la bravura strumentale non manca di certo.
Ottime le vocals, che passano da parti evocative che creano un aurea epica, al growl (ormai usato sempre più spesso dalle band del genere) fino ad un’ottima voce pulita, il che rende l’ascolto dei brani vario, così come vario risulta il sound di Prelude che alterna con disinvoltura progressive e metal classico, inserendo ritmiche di death moderno che seguono l’alternarsi delle voci, cambiando atmosfere ad ogni passaggio.
Inutile elencare influenze o band da cui il gruppo piemontese prende spunto, qualsiasi amante dei suoni progressivi troverà modo di farsi una sua idea: la cosa che invece salta all’orecchio è la personalità con cui i Frozen Sand affrontano un genere non facile come quello racchiuso in Prelude, aumentando la curiosità e le aspettative per il futuro full length, di cui sicuramente ci faremo carico di parlarvi.

Tracklist:
1.Chronicle I – Chronomentrophobia
2.Chronicle II – Sand Of The Hourglass
3.Chronicle III – Khrono’s Pendulum
4.Fracture

Line-up:
Luca Pettinaroli – Vocals
Mattia Cerutti – Guitar
Tiziano Vitiello – Bass
Simone De Benedetti – Drums
Federico De Benedetti – Guitar, synth guitar & back vocals

FROZEN SAND – Facebook

Who Dies In SIberian Slush / My Shameful – The Symmetry Of Grief

Un ottimo split album che conferma lo status raggiunto dai My Shameful e che, invece, fa presagire qualcosa di molto interessante per il futuro in casa degli Who Dies In Siberian Slush

Altro split album  dai tratti funerei, questa volta ad opera della label moscovita MFL Records che propone la band di “casa”, Who Dies In SIberian Slush, in coppia con i finlandesi My Shameful.

Come sta accadendo da diverso tempo, le uscite in questo formato si stanno rivelando prodighe di ottima musica, mostrando per di più sfumature diverse di uno stesso genere musicale grazie alla diversa interpretazione delle band coinvolte.
L’apertura è affidata ad uno dei nomi storici del doom estremo nell’area ex-sovietica, gli Who Dies In Siberian Slush di Evander Sinque che, come da loro abitudine, propongono un funeral-death che non punta tutto sulle atmosfere bensì su un impatto più disturbante, con il suo andamento sghembo sempre in bilico tra il drammatico ed il dissacrante; meglio di altre volte, i moscoviti esprimono questo mood peculiare, particolarmente nell’ottima The Tomb of Kustodiev, dove passaggi ultrarallentati vengono rimarcati dall’uso di un trombone: non è difficile, chiudendo gli occhi, associare questo sound alle immagini di una banda che, con passo incerto accompagna il defunto verso la sua ultima e definitiva dimora. Se vogliamo, lo stile degli Who Dies In Siberian Slush mostra sovente tratti più grotteschi che non drammatici, ed è senz’altro un modo diverso dal solito di fronteggiare il dolore della perdita o l’approssimarsi della fine, forse meno evocativo nell’immediato ma ugualmente di grande interesse, come rimarcato anche dall’altro brano affidato alla band russa, And It Will Pass.
La seconda metà dello split è affidata ai My Shameful di Sami Rautio, che si ripongono a breve distanza dall’uscita del ottimo “Hollow”: i due brani presenti, per forza di cose, mostrano una certa contiguità rispetto a quanto mostrato nel full-length, ribadendone la bontà e rafforzando l’idea di una raggiunta focalizzazione dello stile da parte della band finlandese, che oggi pare aver trovato brillantemente il giusto equilibrio tra la ruvidezza della base death ed il malinconico incedere del doom.
The Land of the Living possiede le stimmate del miglior funeral, mentre Downwards mostra tratti più melodici, rivestita com’è di una certa patina gotica: senza dubbio due brani eccellenti, che fugano così il dubbio che in questo split i My Shameful potessero riversare degli “scarti” di “Hollow”.
E’ possibile invece che questi brani siano stati sacrificati in quel frangente per non appesantire oltre un album piuttosto lungo, il che dimostra comunque l’elevata qualità media delle composizioni di una band piuttosto prolifica rispetto alle abitudini di chi si cimenta con il genere.
Un ottimo split album che conferma lo status raggiunto dai My Shameful e che, invece, fa presagire qualcosa di molto interessante per il futuro in casa degli Who Dies In Siberian Slush, alla luce anche del recente splendido lavoro degli Unmercenaries (che ha visto protagonisti Gungrind ed Evander Sinque, oltre a Jürgen Frohling degli Stessi My Shameful, a ribadire lo stretto legame che intercorre tra le due band).

Tracklist:
1. Who Dies in Siberian Slush – The Tomb of Kustodiev
2. Who Dies in Siberian Slush – And It Will Pass
3. My Shameful – The Land of the Living
4. My Shameful – Downwards

Line-up:
Who Dies in Siberian Slush
Gungrind – Guitars (rhythm)
A.Z. – Flute
Alexey Kraev – Bass
A.S. – Drums
Flint – Guitars (lead)
E.S. – Guitars, Vocals
L.K. – Keyboards, trombone

My Shameful
Twist – Bass
Jürgen Frohling – Drums
Sami Rautio – Vocals, Guitars, Keyboards

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

MY SHAMEFUL – Facebook

MFL RECORDS – Facebook

childthemewp.com