Hamferð – Evst

“Evst” va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013

Sino ad oggi, musicalmente parlando, le isole Fær Øer avevano lasciato una traccia tangibile in ambito metal principalmente grazie ai Týr, la cui popolarità si è consolidata nell’ultimo decennio grazie a un solido folk metal.

Ben diverso è quanto proposto dagli Hamferð che, dalla piccola Thorshavn, capitale dell’arcipelago, ci incantano con un death-doom in grado di spiccare sulla concorrenza grazie a diversi elementi innovativi pur senza snaturare in alcun modo le coordinate del genere. Fin dall’opener Evst (che è anche il titolo dell’album) si può constatare che la band opta per uno stile vocale agli antipodi delle abitudini del death-doom più tradizionale: qui il consueto growl è affiancato da una voce stentorea quanto evocativa, il tutto regalatoci magnificamente dal solo Jón Aldará. Chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo disco degli Helllight non avrà potuto fare a meno di notare quanto la resa complessiva di un lavoro di ottima fattura sia stata penalizzata dal tentativo di utilizzare la voce pulita senza possedere una tecnica sufficientemente solida; ciò non accade affatto in Evst, dove la voce di Jón si erge protagonista indiscussa del lavoro, declamando con la giusta enfasi ed il necessario trasporto le liriche rigorosamente scritte in lingua madre. Se nei primi tre brani, che peraltro risplendono per la capacità degli Hamferð di rendere ariosa una materia musicale di norma opprimente, si palesa piuttosto evidente l’impronta degli Swallow The Sun, nel corso dell’album affiora anche una vena folk-prog che conduce i nostri alla composizione di un brano prevalentemente acustico come At jarða tey elskaðu. Sinnisloysi ci riporta ad atmosfere pregne di disperazione, con un predominio del growl sulle clean vocals che risulta però ingannevole, vista l’abilità dei faroeriani nell’imprimere svolte inattese ad un songwriting decisamente più vario rispetto alle altre band impegnate nel settore: nello specifico fa capolino una voce femminile che conferisce una certa solennità al sound, con l’aggiunta di un lavoro chitarristico impeccabile e di grande sensibilità. Dopo oltre mezz’ora di musica dalla grande intensità, la conclusiva Ytst arriva a confermare anche ai più scettici che gli Hamferð non sono certo la classica band capace di azzeccare quei tre o quattro accordi sui quali costruire un intero disco: questa traccia rappresenta lo stato dell’arte del doom-death, con un caleidoscopio di sensazioni capaci di sovrapporsi nel corso di dieci muniti dal raro impatto emotivo, ed è giusto che la pietra tombale su un disco meraviglioso lo ponga la voce di questo cantante in grado come pochi altri di far vibrare le corde dell’anima. Evst va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013 e, a chi ne è rimarrà estasiato, consiglio vivamente di andarsi a ripescare l’altrettanto valido Ep d’esordio “Vilst Er Síðsta Fet”.

Tracklist:
1. Evst
2. Deyðir varðar
3. Við teimum kvirru gráu
4. At jarða tey elskaðu
5. Sinnisloysi
6. Ytst

Line-up : Jón Aldará – vocals
John Egholm – guitar
Theodor Kapnas – guitar
Remi Johannesen – drums
Esmar Joensen – keys
Jenus í Trøðini – bass

HAMFERD – Facebook

Monolithe – IV

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena.

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena funeral doom, risalente ormai ad un decennio fa, con “I”.

La carriera della band transalpina può esser suddivisa a grandi linee in due fasi disinte: la prima con “I”, “II” e l’Ep “Interlude Premiere”, usciti tra il 2003 e il 2007, e quella attuale, con “Interlude Second” e III pubblicati l’anno scorso ed l’ultimo IV. I Monolithe del primo periodo, benché non fossero del tutto assimilabili al funeral tradizionale, operavano comunque in un ambito ad esso contiguo segnalandosi particolarmente per il ricorso ad un unico brano, normalmente tarato sui cinquanta minuti di durata, nel corso del quale venivano diluite le cupe partiture; “III”, in questo senso, ha segnato una svolta portando la band di Sylvain Begot ad avventurarsi in uno stile contrassegnato da un maggiore dinamismo, staccandosi in parte dagli stilemi tipici del funeral e mostrando apprezzabili variazioni all’interno della consueta lunghissima suite. Alla luce di questo, anche se era lecito pensare che nell’immaginario musicale della band parigina quel barlume di luce che si iniziava a scorgere stesse per trasformarsi in qualcosa in più di un’incerta fiammella, IV riporta nuovamente il suono ad immergersi nella più totale oscurità e non basta qualche sporadico coro femminile o alcuni passaggi dal tono quasi solenne a risollevare l’ascoltatore dall’abisso nel quale i nostri lo hanno fatto nuovamente sprofondare. I Monolithe in quest’occasione abbattono il primato personale di durata, spingendosi fino a ben cinquantasette minuti, contraddistinti da un’ossessivo quanto affascinante tema che, in pratica, si dipana tra l’adeguato growl di Richard Loudin e chitarre distorte e diluite fino all’inverosimile, in un quadro che talvolta assume toni apocalittici ma capace di stemperarsi in passaggi dal grande coinvolgimento emotivo. Se “III” non era certo un lavoro di agevole ascolto, IV si spinge anche oltre fino a lambire i confini dell’incomunicabilità: penetrarne l’essenza è una prova che, se superata, regala come ambito premio un’ora di rara intensità emotiva. Con questi ultimi due lavori, i Monolithe hanno di fatto creato un sound del tutto riconoscibile e mai come in questo momento il loro monicker si sposa alla perfezione con la sensazione di una musica di rara compattezza, sviluppata da una band giunta probabilmente al punto più elevato della propria parabola artistica.

Tracklist:
1. Monolithe IV

Line-up:
Benoît Blin: Bass, Guitars
Sébastien Latour: Keyboards, Programming
Sylvain Bégot: Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin : Vocals

MONOLITHE – Facebook

6th Counted Murder – 6th Counted Murder

Un lavoro che non potrà non piacere sia agli amanti del metal classico sia ai fan del death melodico.

Dura la vita del recensore: la fortuna di poter scrivere di musica è bilanciata, almeno per chi questo “hobby/mestiere” cerca di farlo in modo scrupoloso, con il timore di non essere entrato in sintonia con l’album e di conseguenza con gli artisti che l’hanno creato perchè, alla fine, lo scritto rimane così come la musica delle band.

Questo vale, sopratutto quando ci si imbatte in lavori di qualità come l’esordio dei milanesi 6th Counted Murder, dove la passione e la professionalità degli artisti è pari alla bellezza dell’album. I cinque “assassini” ci hanno lavorato più di un anno nel loro quartier generale (The Basement Studios), se lo sono prodotto e registrato, insomma sacrifici, sudore e lacrime, ma ne è valsa la pena alla luce dell’eccellente risultato. Metallo pesantissimo, tecnico, una creatura che si nutre del sangue della vergine di ferro e assorbe linfa dall’albero del death metal scandinavo, quello dei primi lavori di In Flames e Dark Tranquillity. Le due asce, al secolo, Andrea P. Moretti e Marzio Corona, ricamano riff maideniani con facilità disarmante, assecondati da una sezione ritmica di tutto rispetto composta dall’ex Drakkar Alessandro Ferraris al basso e Gianluca D’Andria dietro alle pelli. Il cantore di questi crimini, Luca Luppolo, gestisce alla perfezione il suo growl, il quale non risulta mai forzato, sorta di lama di quell’ascia che cadrà sulle vostre teste appena schiaccerete il tasto play del vostro lettore. Dark Room dà il via alla mattanza, l’assassino si presenta con un riff dalle dissonanze doom, con sugli scudi la sezione ritmica protagonista di stupendi cambi di tempo; Heaven Kills e Grave sono meravigliosi esempi di come nel metal quello che conta veramente non è l’essere originali a tutti i costi, ma le cose che continuano a fare la differenza sono un songwriting di valore e la padronanza assoluta degli strumenti. Accenni moderni li troviamo nella bellissima Dead Man Talkin, spaccata in due da quaranta secondi di assoli d’alta scuola, Evil Mode non avrebbe sfigurato nella tracklist di “The Jester Race” degli In Flames, prima di essere sopraffatti da pruriti nu metal. Un‘intro acustica annuncia Remember Your Story, mentre ritmi thrash contraddistinguono le dirette Sleepless Night e Rejection; Road To Nowhere è una cavalcata classic metal che risulta, forse, la più ottantiana del lotto, con quella ritmica che mi ha fatto ronzare per la testa altri due grossi nomi del mondo metal: Saxon e i primi Testament. Siamo alla fine, Memories conclude un lavoro che non potrà non piacere sia agli amanti del metal classico sia ai fans del death melodico; suonato divinamente, con un gran lavoro in fase di produzione e curato nei minimi dettagli: insomma, professionalmente ineccepibile.

Tracklist:
1.Dark Room
2.Heaven Kills
3.Grave
4.Dead Man Talkin
5.Evil Mode
6.Remember Your Story
7.Sleepless Night
8.Rejection
9.Road To Nowhere 10.Memories

Line-up:
Luca Luppolo – vocals
Andrea P. Moretti – guitars
Marzio Corona – Guitars
Alessandro Ferraris – bass
Gianluca D’Andria – drums

6TH COUNTED MURDER – Facebook

OvO – Abisso

Abisso. Suoni neri, demoni africani, extra normalità, infelice pungiglione di uno scorpione che uccide piangendo, grida dall’abisso.

Tornano a risvegliare ciò che deve stare sopito Bruno Dorella e Stefania Pedretti, per tutti gli OvO.

Questo disco è un abisso, uno sprofondare a volte cosciente a volte no in territori di soffici incubi, accompagnati dalla saggezza sperimentale ed avanguardistica di questo demoniaco duo.
Il quid di questo disco è però l’africanità, molto presente nel ritmo. Africa di terrore, di notti buie nella savana, di cacce a uomini ed animali. In questa incessante ed incombente opera non sono soli, sono solidali e complici Rico Gamodi dei Uochi Toki, Alan Dubin dei Khanate, Carla Bozulich e i suoi Evangelista, e nella fase di registrazione e missaggio c’è stato l’aiuto di Giulio Favero. Questo disco è stato ispirato sia da “Alchimia & Mistica” di Alexander Robb nella splendida edizione della Taschen, sia dall’Eneide (i capolavori classici sono esenti da virgolette) e dai racconti di E. A. Poe.
Ma l’intensità e la ferocia è tutta degli OvO. Tredici anni di carriera correndo sempre in avanti, cercando nuove soluzioni, trovando vecchi incubi. OvO è sempre stato un progetto interessante e fuori da qualsiasi schema, anche di quello del circuito alternativo. Abisso segna un cambiamento introdotto dall’uso di campioni, batterie elettroniche, registrazioni ambientali e sintetizzatori, alzando l’asticella.
Dopo l’ultimo lembo di estremo, gli OvO.

Tracklist:
1 Harmonia Microcosmica
2 Tokoloshi
3 I Cannibali
4 A Dream Within A Dream
5 Harmonia Macrocosmica
6 Aeneis
7 Abisso
8 Pandemonio
9 Ab Uno
10 Fly Little Demon

Line- up:
Bruno Dorella : batteria e tanto altro.
Stefania Pedretti : chitarra e tantissimo altro.

Xanthochroid – Blessed He With Boils

”Blessed He With Boils” è un lavoro che racchiude talento, ambizione, visionarietà e la capacità di assimilare le influenze più disparate per creare un qualcosa che francamente non capita di ascoltare con grande frequenza.

Per una volta faccio un passo indietro di circa un anno andandomi ad occupare di un disco uscito nel dicembre 2012 e al quale solo alcuni, meritoriamente, hanno dato visibilità evidenziandone le indubbie qualità.

Per fortuna la musica ha il pregio di non essere un prodotto soggetto a scadenza dopo un certo periodo di tempo, quindi la riscoperta di questo splendido lavoro degli statunitensi Xanthochroid è doverosa, nella speranza che ciò possa indurre altre persone ad inserirlo con regolarità tra i propri ascolti. Giunti all’esordio dopo due anni di attività, contrassegnati da un demo e da un Ep, i ragazzi di Lake Forest non entrano in scena certo in maniera timida, ma ci regalano un disco talmente vario ed originale che si fatica a catalogarlo in maniera adeguata: anche se loro stessi si autodefiniscono cinematic black metal, una tale etichetta potrebbe ingenerare sicuramente equivoci. I Xanthochroid partono da una base black ma con una forte componente progressive, e non solo a livello di attitudine visto che certi passaggi riportano addirittura alle gradi band degli anni ’70; a tutto ciò si può certamente aggiungere una vena folk intimista che prende corpo per interi brani e, a tenere fede a quanto promesso, la capacità innata di creare atmosfere solenni, queste sì, degne di potere essere considerate alla stregua di una particolare colonna sonora, sulla scia dei migliori Moonsorrow . Tramite un concept incentrato sulla lotta tra due fratelli per la successione al regno del padre, la band californiana si permette di annichilire al confronto chiunque abbia tentato in questi ultimi anni una simile la commistione di generi: ascoltate la spettacolare title-track, brano nel quale la matrice black iniziale finisce per stemperarsi in una melodia che non sembra poi così lontana da una certa “The Court Of The Crimson King” (King Crimson e black metal ? Perché no). Winter’s End riprende l’anima folk degli Agalloch riuscendo a superare i maestri, in particolare per l’uso delle voci, mentre Long Live Our Lifeless King è un’autentica centrifuga nella quale viene immesso qualsiasi ingrediente passi per la testa a questi straordinari musicisti, per essere poi rimesso in circolazione con un formato non solo commestibile ma dal sapore esaltante. Le due parti di Deus Absconditus fungono da spartiacque in un lavoro nel quale, si stenta a crederlo, il meglio deve ancora venire: The Leper’s Prospect è un delirante brano black sinfonico che possiede una linea melodica indimenticabile, e il suo mood drammatico induce sovente alla commozione, sentimento che non abbandonerà più l’ascoltatore fino all’ultima nota dell’album, e che non viene certo sopito nella successiva In Putris Stagnum, dove il climax tragico viene raggiunto grazie all’alternanza di diverse gamme vocali che rendono perfettamente l’idea di una dolorosa e lancinante resa dei conti tra i protagonisti. “Here I’ll Stay” è uno strumentale pianistico che sembra uscito dalla penna di Vittorio Nocenzi ed introduce il capolavoro del disco che i Xanthochroid hanno giustamente posto al suo termine: Rebirth of an Old Nation è traccia di una bellezza a tratti insostenibile, nella quale si compie il miracoloso connubio tra tutti gli elementi innovativi che hanno contraddistinto band come Pain Of Salvation, Opeth e Moonsorrow, solo per citare quelle più facilmente rinvenibili, lasciandone per strada sicuramente molte altre. L’ascolto di questo lavoro (per il quale non posso che ringraziare chi me l’ha segnalato) è stata una folgorazione, che non fa altro che rendere ancora più compulsiva la mia personale ricerca di nuove band capaci di accompagnarmi negli ennesimi, indimenticabili viaggi musicali. Blessed He With Boils è un lavoro che racchiude talento, ambizione, visionarietà e la capacità di assimilare le influenze più disparate per creare un qualcosa che francamente non capita di ascoltare con grande frequenza. Questa non è il classico disco dai tratti sperimentali, che piace tanto, a parole, agli amanti del “famolo strano”, salvo essere successivamente relegato nelle retrovie di polverosi scaffali; qui vengono scaricate tonnellate di pathos che, unito a una dose altrettanto massiccia di follia, danno vita a un lavoro che, se fosse uscito quest’anno, troverebbe comodamente posto nella mia top five del 2013. Ma, come scritto all’inizio, almeno nella musica non esiste la prescrizione, pertanto godetevi questo luccicante gioiello firmato dai Xanthochroid, siete sempre in tempo.

Tracklist:
1. Aquatic Deathgate Existence
2. Blessed He with Boils
3. Winter’s End
4. Long Live Our Lifeless Kin
5. Deus Absconditus: Part I
6. Deus Absconditus: Part II
7. The Leper’s Prospect
8. In Putris Stagnum
9. “Here I’ll Stay”
10. Rebirth of an Old Nation

Line-up :
Matthew Earl – Flute, Drums, Vocals
David Bodenhoefer – Guitars, Vocals
Brent Vallefuoco – Guitars, Vocals
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Bryan Huizenga – Bass Guitar

XANTHOCHROID

Code – Augur Nox

Il prog death dei Code convince nonostante una proposta d’impatto tutt’altro che immediato

Il ritorno al full-length dei britannici Code, dopo quattro anni, ci mostra un approccio decisamente interessante al metal di stampo avanguardistico.

Curiosamente, la Agonia Records ha pubblicato quasi in contemporanea questo lavoro e l’ultima fatica degli Ephel Duath benché entrambi, sempre secondo un metodo di catalogazione piuttosto sommario, possano essere inseriti nel filone stilistico sopra accennato.
Le differenze tra questi due album sono però sostanziali, dimostrando quanto sia ampio il margine di manovra, e l’unico tratto comune individuabile senza troppa fatica è un suono in costante progressione e contraddistinto da un esecuzione strumentale di prim’ordine; ma, mentre la creatura di Davide Tiso preferisce indulgere in un mood soffocante , relegando a sporadiche apparizioni l’aspetto melodico, il combo inglese guidato da Aort, unico superstite della precedente line-up nonché bassista degli ottimi Indesinence, mostra un songwriting relativamente più fruibile nonostante sia evidente che un disco come Augur Nox debba essere ascoltato e riascoltato prima di poterne cogliere le diverse sfumature.
Se è innegabile che le atmosfere opethiane si manifestano più di una volta in maniera piuttosto evidente, è altresì vero che i ritmi impressi dai Code sono spesso decisamente elevati e riservano i rari momenti di riflessione confinati ai brevi strumentali inseriti nei punti strategici della track-list: questo conferisce al sound quella dinamicità che spesso riesce a compensare la frammentarietà insita in un genere come questo.
Se a tutto ciò aggiungiamo una prestazione vocale di grande versatilità ed efficacia da parte di Wacian, capace di spaziare dal growl a passaggi dalla spiccata eleganza , non si può che approvare senza particolari riserve l’operato della band londinese.
Augur Nox è un disco che, pur nella sua complessità, potrebbe trovare estimatori dalle ampie vedute provenienti da qualsiasi schieramento, metallico e non; brani come Ecdysis, autentico labirinto compositivo capace di disorientare lo stesso Minotauro, The Shrike Screw, dai vaghi sentori anathemiani, almeno nella parte iniziale, o la conclusiva White Triptych, avvicinabile alle atmosfere dei connazionali A Forest Of Stars, sono gli episodi migliori assieme alla splendida The Lazarus Chord, vero manifesto musicale di una band sicuramente non per tutti, ma ugualmente accattivante per chi abbia voglia e tempo di approfondirne la conoscenza.

Tracklist:
1. Black Rumination
2. Becoming Host
3. Ecdysis
4. Glimlight Tourist
5. Dx.
6. Garden Chancery
7. The Lazarus Chord
8. The Shrike Screw
9. Rx.
10. Trace Of God
11. Harmonies In Cloud
12. White Triptych

Line-up :
Wacian (Voce)
Aort (Chitarre)
Andras (Chitarre)
Syhr (Basso)
Lordt (Batteria)

CODE – Facebook

Down Among The Dead Men – Down Among The Dead Men

Il ritorno di Dave Ingram, storico ex-cantante di Benediction e Bolt Thrower, non possiede alcun tratto nostalgico ma porta con sé una carica distruttiva difficilmente riscontrabile anche in chi, agli albori della propria carriera, dovrebbe essere naturalmente spinto dall’entusiasmo e dalla voglia di spaccare il mondo, non solo in senso metaforico.

Il ritorno di Dave Ingram, storico ex-cantante di Benediction e Bolt Thrower, non possiede alcun tratto nostalgico ma porta con sé una carica distruttiva difficilmente riscontrabile anche in chi, agli albori della propria carriera, dovrebbe essere naturalmente spinto dall’entusiasmo e dalla voglia di spaccare il mondo, non solo in senso metaforico.

I Down Among The Dead Men, completati dai due Paganizer Rogga Johansson (anche The Grotesquery e qualche altra decina di band) alla chitarra e Dennis Blomberg al basso, sono una creatura venuta alla luce per tranciare tutto ciò che si trova qualche centimetro al di sopra del suolo, grazie al magnifico ed efferato growl dell’esperto vocalist ed il chirurgico contributo dei suoi due sodali. Un death con una dannata attitudine punk, un’ipotetica session tra Motorhead, Discharge, Napalm Death ed Entombed epoca “To Ride …”, un treno lanciato a tutta velocità pronto ad abbattere ogni ostacolo nella sua corsa impostata su una velocità costantemente elevata, questa è la descrizione sommaria del contenuto dell’album Non attendetevi, quindi, una particolare versatilità da questo lavoro autointitolato, le tredici tracce hanno una durata media di due minuti e fanno della loro sinteticità una carta vincente; Draconian Rage è un titolo magnifico per inaugurare un disco, oltre che una scelta appropriata in quanto racchiude l’essenza di un lavoro che potrà far storcere il naso a chi ricerca sonorità innovative, ma che si rivelerà invece un godimento assoluto per chi si “accontenta” di farsi trascinare da suoni irresistibili nella loro essenzialità. Rari come oasi nel deserto sono i rallentamenti o i momenti concessi agli assoli di Rogga (Venus Mantrap) e non è un caso che il disco si chiuda esattamente come si è aperto, con un brano come The Stones Lament il quale, più che le pietre del titolo, costringe al lamento le casse, mai così vicine vicino al cedimento strutturale a causa dei toni ultra ribassati utilizzati da Blomberg. Un disco che, come recita la pubblicità di un noto energy-drink, “ci mette le ali” e, in questi tempi grami e bastardi, musica come questa può fornire la giusta dose di grinta per affrontare a viso aperto le battaglie, piccole o grandi che siano, che la vita di tutti i giorni ci propone …

Tracklist:
1) Draconian Rage
2) The Doomsday Manuscript
3) As Leeches Gorge
4) The Epoch
5) Adolescence Of Time
6) Bones Of Contention
7) Dead Man’s Switch
8) A Handful Of Dust
9) Infernal Nexus
10) Dead Men Diaries
11) Venus Mantrap
12) Down Among The Dead Men
13) The Stones Lament

Line-up:
Dave Ingram – Vocals
Dennis Blomberg – Guitars
Rogga Johansson – Guitars/Bass

DOWN AMONG THE DEAD MEN – Facebook

Avelion – Liquid Breathing

Tutto sommato i brani scorrono lo stesso piuttosto bene, grazie a una serie di brillanti intuizioni disseminate qua e là ma, in previsione di un prossimo full-length, la missione per la band emiliana sarà quella di riuscire a mantenere intatta la propria carica innovativa rendendo più omogenea la struttura delle canzoni.

Procedendo alla disamina del contenuto di Liquid Breathing non si può prescindere dal tenere nella dovuta considerazione il passato degli Avelion.

Difficile immaginare, infatti, che la band alle prese in questo Ep con un metal dai tratti moderni, tra alternative, prog, djent ed elettronica, sia la stessa che cinque anni or sono aveva pubblicato un disco come “Cold Embrace”, all’insegna di un ben più canonico power metal. In effetti, benché il marchio sia lo stesso, lo stravolgimento della line-up ha sicuramente contribuito alla scelta di intraprendere questo nuovo corso stilistico; è fuor di dubbio che uno spostamento così repentino, da un metal ancorato alla tradizione verso una sua veste decisamente futuristica, potrà risultare spiazzante per chi aveva apprezzato i primi passi dei ragazzi parmensi. Personalmente ritengo che optare per l’abbandono di un genere come il power sia una mossa azzeccata, non tanto perché io non sia un estimatore del genere quanto per l’affollamento e la concorrenza esistente in quel contesto, che rende davvero arduo emergere per chi non abbia a disposizione numeri fuori dal comune (e non è detto che ciò basti ugualmente) . I tre brani contenuti nell’Ep, registrati in maniera impeccabile negli studi di un “top producer” come Jens Bogren, hanno in comune un’eterogeneità stilistica che, inevitabilmente, ne rende frammentaria la fruizione, benché non manchino spunti melodici interessanti; le cose funzionano bene quando il sound assume le sembianze di un prog metal evoluto e dai tratti futuristici, sulla scia degli Empyrios di “Zion”, un po’ meno allorché emergono sentori del nu metal più commerciale, il tutto all’interno di pulsioni elettroniche che talvolta intervengono a spezzare senza alcun preavviso trame ancora in divenire. Metaforicamente parlando, Liquid Breathing è assimilabile a una piccola valigia nella quale gli Avelion hanno cercato di stipare una quantità sovrabbondante di indumenti dalle fogge diverse, riservandosi di eliminare il superfluo solo in un secondo tempo. Tutto sommato i brani scorrono lo stesso piuttosto bene, grazie a una serie di brillanti intuizioni disseminate qua e là ma, in previsione di un prossimo full-length, la missione per la band emiliana sarà quella di riuscire a mantenere intatta la propria carica innovativa rendendo più omogenea la struttura delle canzoni.

Tracklist:
1. Liquid Breath
2. Ain’t No Down
3. Mechanical Faces

Line-up :
William Verderi – Lead Vocals
Gianmarco Soldi – Guitars and Backing Vocals
Oreste Giacomini – Keyboards
Mark “Satir” Reggiani – Bass
Damiano Gualtieri – Drums

AVELION – Facebook

Sirgaus – Sofia’s Forgotten Violin

Il lavoro risulta originalissimo e, dopo lo stupore del primo ascolto, emergono le sfumature dark e goth che non mancano in questa opera rock.

Ora immaginate se la Love imprestasse la propria voce ad un progetto gothic rock, sì perché l’album dei bellunesi Sirgaus ha la particolarità di miscelare gothic e grunge in un’alchimia perfetta e Sonja Da Col ricorda, specialmente nelle tonalità basse, la cantante americana.

La band nasce nel 2011,formata dalla vocalist e dal marito Mattia Gossetti, bassista e backing vocals; in un secondo tempo si unisce alla coppia il chitarrista Massimo Pin e, dopo il debutto live, la band aiutata da Lethien, violinista degli Elvenking, registra quest’opera rock che non mancherà di stupire chi avrà la fortuna di imbattersi in questo bellissimo lavoro.
Protagonista del disco è il violino di Lethien, che appare in tutti i brani, sia da solista che da accompagnamento alla voce di Sonja, assieme alla chitarra di Massimo Pin che disegna assoli rock con reminiscenze blues, assecondando l’ispirazione molto americana del disco.
Il lavoro risulta quindi,originalissimo e dopo lo stupore del primo ascolto, emergono le sfumature dark e goth che non mancano in questa opera rock. Le song hanno tutte una loro peculiarità e la loro importanza nel contesto dell’album, ma Sofia’s Forgotten Diary, Through The Creepers e Desert City le ho trovate fantastiche.
Discorso a parte per il trittico finale, composto da Sofia’s Return, Real Angel e Sofia’s Memories, dove l’album arriva alla resa dei conti e la band sforna quindici minuti di musica travolgente, dove tutto il loro credo musicale si fonde, per un finale da brividi.
Complimenti quindi ai Sirgaus ed al loro originalissimo lavoro.

Tracklist:
1.The orphan’s letter
2.Sofia’s forgotten diary
3.Through the creepers
4.Evening lessons
5.Escape from the mansion
6.Cellar
7.Desert sky
8.Believe in you
9.Sofia’s return
10.Real angel
11.Sofia’s memories

Line-up:
Sonja Da col-vocals
Mattia Gosetti-bass,vocals
Massimo Pin-guitars
Lethien-violin

SIRGAUS – Facebook

Lorelei – Ugrjumye Volny Studenogo Morja

Ottimo esordio per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.

L’esordio su lunga distanza dei Lorelei arriva in un momento di grande fermento della scena gothic death-doom russa.

Si rischia d’essere ripetitivi nell’affermare che le uscite proposte dalla Solitude e dalla BadMoodMan hanno ormai raggiunto un livello qualitativo tale da costituire un vero e proprio marchio di fabbrica. Dopo gli splendidi lavori di Revelations Of Rain e Shallow Rivers, Ugrjumye Volny Studenogo Morja sposta le coordinate musicali verso un gothic dai toni drammatici, enfatizzati dalla consueta dicotomia tra voce lirica e growl maschile. Quando entrambe le componenti vengono eseguite in maniera eccellente come in questo caso e il tutto va ad inserirsi in un contesto musicale raffinato e intenso come quello messo in scena dai Lorelei, ogni considerazione sulla prevedibilità di un disco simile diventa francamente superflua. I tre quarti d’ora di questo lavoro, che la band moscovita dedica al Rinascimento, con particolari riferimenti alla poetica del Petrarca (come almeno noi italiani abbiamo la possibilità di capire dal frequente inserimento di versi recitati nella nostra lingua) rappresentano qualcosa in più di un ideale “bignami” del gothic death-doom: ciò avviene grazie a brani che trasudano romanticismo da ogni nota, esaltati da un’esecuzione strumentale sobria quanto emozionante, dall’impeccabile intonazione lirica esibita da Ksenia Mikaylova e dal growl possente di E.S, (già noto nella scena come anima e voce degli Who Dies In Siberian Slush). Il disco non raggiunge vette epocali proprio perché, nel suo songwriting, è presente quel pizzico di autoreferenzialità derivante dallo stretto legame che unisce gran parte delle doom band dell’area moscovita, aspetto che inevitabilmente tende a rendere piuttosto omogenei i tratti stilistici, nonché i suoni a livello di produzione. Ma al di là di questo e del fatto che l’uso dell’idioma russo, anche qui, come nel caso dei Revelations Of Rain, finisce per precludere a questo prodotto una maggiore diffusione , non si può fare a meno di apprezzare brani, intrisi di un pathos degno dei componimenti del poeta fiorentino, come le magnifiche Ten’ju Bezlikoj … e Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali …, episodi che spiccano all’interno di un contesto complessivo comunque di assoluto valore. Ottimo esordio, quindi, per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.

Tracklist:
1. Intro
2. Holod Bezmolvnogo Zimnego Lesa…
3. Ten’ju Bezlikoj…
4. Ugrjumye Volny Studenogo Morja…
5. La Vita Fugge, Et Non S’arresta Una Hora…
6. Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali…
7. Holodnyj Prizrachnyj Rassvet…
8. Raj Poterjan…
9. Outro

Line-up :
Alexandr Grischenko – Bass
Andrey Osokin – Guitars
Alexey Ignatovich – Guitars, Vocals
Marina Ignatovich – Keyboards
Ksenia “Serafima” Mikhaylova – Vocals

Guest: E.S. – Vocals

Almah – Unfold

Quarto album e centro pieno per Edu Falaschi ed i suoi Almah.

Lasciati definitivamente gli Angra nel 2012, il cantante brasiliano, libero di concentrarsi sulla sua creatura, pesca dal cilindro un grande album che definire solo power metal sarebbe riduttivo.

Questo lavoro e’ Metal e basta, come deve esserlo un disco classico nel 2013: basso pulsante, pieno, in certi frangenti oserei dire quasi di matrice stoner, chitarre superlative nelle ritmiche, i tasti d’avorio del leader che non tolgono un briciolo di energia ai pezzi ma, anzi, riescono a donare classicità sopraffina.
La prova di Falaschi dietro al microfono e’convincente, lasciati per sempre i panni del vice-Matos, canta con la giusta aggressività ed in certi momenti del disco ci regala vocalizzi al limite del thrash.
Cosi’ il disco e’ un susseguirsi di hit travolgenti, che spaziano dalle atmosfere più moderne di In My Sleep e Beware The Stroke, al thrash di The Hostage, al power metal melodico della bellissima Raise Of The Sun, fino ad arrivare a Treasure Of The Gods, la canzone più avvicinabile agli Angra del lotto, nonchè brano fantastico.
Non solo il leader ma tutta la band sugli scudi per un lavoro da top ten di fine anno.

Tracklist:
1.In my sleep
2.Beware the stroke
3.The hostage
4.Warm wind
5.Raise the sun
6.Cannibal in suits
7.Wings of revolution
8.Believer
9.I do
10.You gotta stand
11.Treasure of the gods
12.Farewell

Line-up:
Edu Falaschi – vocals,guitars,keyboards
Marcelo Barbosa – guitars
Marcelo Moreira – drums
Raphael Dafras – bass
Gustavo Di Padua – guitars

ALMAH – Facebook

Mason – Warhead

Un album di thrash con gli attributi, consigliato a tutti i fans del genere.

Uno tsunami che tutto travolge è l’esordio sulla lunga distanza dei Mason, band australiana attiva dal 2009 con un Ep alle spalle.

Già dalla copertina gore, i Mason mettono in chiaro le loro intenzioni: distruggere i nostri padiglioni auricolari con un thrash violentissimo, dove Metallica, Testament, Sodom e Kreator sono le massime fonti di ispirazione. Alarium, brano strumentale, apre l’album, ma già dalla seconda traccia dal titolo Imprisoned siamo allo scontro con il mostro raffigurato in copertina, una carneficina a cui noi umani non ci possiamo sottrarre. Product Of Hate ricorda i primi Metallica di “Kill’em All”, un gran pezzo con l’alternanza di momenti cadenzati ed accelerazioni; grande il lavoro della ritmica su Ultimate Betrayal, dove l’headbanging e’ assicurato. Lost It All, song caratterizzata da un’intro acustica di buon effetto, esplode in un pezzo thrash classicissimo, dopo di che si torna a tavoletta con Wretched Soul e Ways Of The Week per poi arrivare alla title-track, brano trascinante dove tornano ad essere i Metallica gli ispiratori della band. Wasteland e Vengeance chiudono un album di thrash con gli attributi, consigliato a tutti i fans del genere.

Tracklist:
1.Alarium
2.Imprisoned
3.Product of hate
4.Ultimate betrayal
5.Lost it all
6.Wretched soul
7.Ways of the week
8.Warhead
9.Wasteland
10.Vengeance

Line-up
Nonda Tsatsoulis – drums
Jimmy Benson – vocals,guitars
Steve Montalto – bass
Chris Czimmermann – guitars

ArtemisiA – Stati Alterati Di Coscienza

Il terzo album degli ArtemisiA ci porta sui territori del rock cantato in italiano ma dalle energiche venature metal, rendendosi potenzialmente appetibile a diverse fasce di ascoltatori.

Il terzo album degli ArtemisiA ci porta sui territori del rock cantato in italiano ma dalle energiche venature metal, rendendosi potenzialmente appetibile a diverse fasce di ascoltatori.

Dopo diversi ascolti è difficile non scorgere alcune similitudini con quella che, a mio parere, nella prima metà degli anni ’90 è stata per distacco la miglior rock band italiana, ovvero i Timoria; a questo nobile influsso gli ArtemisiA uniscono una propensione a sonorità maggiormente cupe che spesso sconfinano in territori stoner-doom.
La cura nella stesura dei testi, un sound che riesce a mantenere una certa pulizia nonostante la sua connotazione retrò, la varietà e l’incisività della maggior parte dei brani, ci consegnano un lavoro assolutamente degno della massima considerazione.
Brani dalla differente impronta come la delicata Insana Apatia, la potente Nel Dipinto, la cangiante Mistica e l’inquietante, conclusiva Presenza, testimoniano la riuscita di un album ambizioso che si porta appresso un solo piccolo difetto che, magari per molti non sarà affatto tale, ma che per me costituisce un aspetto da limare per quanto possibile in futuro: la bravissima Anna Ballarin, dotata di una voce versatile e potente (anche se la preferisco nei momenti più soffusi, nei quali la sua espressività raggiunge il culmine) ricorre sovente al bizzarro accorgimento di troncare una parola in corrispondenza dell’ultima sillaba per poi riprenderla unendola a quella successiva (“rapi / ta e corrotta”), una soluzione che, anche se funzionale al rispetto di una certa metrica, rende piuttosto farraginosa la fruizione dei testi.
Al di là questo particolare Stati Alterati Di Coscienza è un disco che merita il supporto incondizionato degli appassionati, oltre che per la sua indubbia qualità, anche in virtù di uno stile che di questi tempi non trova molti corrispettivi: un motivo in più approvare l’operato degli ArtemisiA.

Tracklist:
1.La Strega Di Port Alba (Maria La Rossa)
2. Il Bivio
3.Insana Apatia
4.Il Pianeta X
5.Nel Dipinto (Artemisia Gentileschi)
6.Mistica
7.Corpi Di Pietra
8.Vanità
9.Il Libro Di Katul
10.Presenza

Line-up:
Anna Ballarin – voce
Vito Flebus – chitarra
Ivano Bello – basso
Gabriele Gustin – batteria

ARTEMISIA – Facebook

Revelations Of Rain – Deceptive Virtue

Il magnifico tocco chitarristico di Yuriy Ryzhov costituisce il viatico ideale per affrontare questa ennesima, tormentata, navigazione attraverso i mari profondi e sconfinati del dolore e della melancolia.

I russi Revelations Of Rain in realtà, nel loro paese e nelle altre nazioni che utilizzano i caratteri cirillici, sono conosciuti come Otkroveniya Dozhdya e l’utilizzo di un monicker anglofono, cosi come avviene per i titoli degli album, è un semplice escamotage per una più rapida assimilazione del marchio, visto che, in ogni caso, tutti gli album e i relativi brani sono intitolati e cantati in lingua madre.

La band originaria di Podolsk è già al quarto full-length e si è sempre distinta nelle occasioni precedenti per una produzione di buon livello medio destinata, apparentemente, a restare comunque ingabbiata tra la moltitudine di altre band che, soprattutto nella area ex-sovietica, si dedicano a forme di doom estremo.
Questo disco, però, costituisce un’autentica folgorazione e fin dalle prime note si intuisce che Deceptive Virtue non potrà essere derubricato come un lavoro ordinario: il quartetto russo mette in scena un’ipotetica summa del meglio dei mostri sacri della scena gothic-death doom, prendendo le mosse dagli ovvii My Dying Bride, dagli altrettanto scontati Swallow The Sun, ma attingendo anche all’innato senso melodico dei Saturnus e, in certi passaggi più rallentati, alla dolente malinconia degli Ea.
I cinquanta minuti attraverso i quali si dipana il tragico lirismo dei Revelations Of Rain non lasciano alcun dubbio sul fatto che questo disco debba necessariamente entrare a far parte della collezione di chi ama questo genere musicale: partendo dalla splendida opener Chernye Teni, passando per un brano capolavoro come Dekabr – Chast e la successiva Mezhdu Bezzhiznennymi Beregami che, non so quanto per caso, nella sua parte finale si trasforma nella versione ultra-doom di “Shadow Of The Hyerophant” del maestro Steve Hackett, e arrivando alla solenne drammaticità della conclusiva Jestetika Opustoshenija, non c’è un solo momento di stanca in un album che, francamente, ha il solo difetto di conservare quelle caratteristiche autoctone che ne renderanno più complessa la divulgazione al di fuori dei confini dell’ex-impero.
Il magnifico tocco chitarristico di Yuriy Ryzhov costituisce il viatico ideale per affrontare questa ennesima, tormentata, navigazione attraverso i mari profondi e sconfinati del dolore e della melancolia.

Tracklist:
1. Chernye Teni
2. Dekabr – Chast 2
3. Mezhdu Bezzhiznennymi Beregami
4. Obmanchivaja Dobrodetel’ (instrumental)
5. V Bezumii Velichie Tvojo
6. Pepel Nad Nami
7. Jestetika Opustoshenija

Line-up :
Yuriy Ryzhov – Guitars
Ilya Remizov – Guitars (rhythm), Keyboards, Vocals
Igor Yashin – Bass, Vocals
Denis Demenkov – Drums

Finnr’s Cane – A Portrait Painted By The Sun

“A Portrait Painted By The Sun” è un lavoro destinato a crescere in maniera esponenziale ad ogni passaggio nel lettore

Potrà apparire come la classica scoperta dell’acqua calda, ma è sempre utile rimarcare quanto lo status acquisito da una label derivi essenzialmente dal rapporto tra la qualità e quantità delle uscite.

C’è, invero, chi punta tutto o quasi sul secondo aspetto, rischiando così di perdere in credibilità e inficiando indirettamente anche uscite di ottimo livello; non è certo questo il caso della Prophecy Productions (e delle sue affiliate Lupus Lounge e Auerbach) che, in un lasso di tempo relativamente breve come gli ultimi due anni, ha dato alle stampe alcuni capolavori (Dordeduh, Vali, Falkenbach), un elevato numero di grandi album (tra i quali Alcest, Antimatter, The Vision Bleak, Secrets Of The Moon, Empyrium) e una serie di ulteriori uscite all’insegna della diversificazione stilistica, spaziando dal black metal al neofolk. Tutto questo panegirico nei confronti della label tedesca serve per introdurre un’altra piccola perla appena pubblicata con quel marchio, ovvero il secondo full-length dei canadesi Finnr’s Cane, A Portrait Painted By The Sun. Il trio nordamericano propone un affascinante mix tra sonorità black, post-metal, oltre a un pizzico di folk e ambient che, volendo esemplificare al massimo, si va a collocare su lidi piuttosto contigui agli Agalloch, anche se rispetto alla fenomenale band di John Haughm la componente black appare decisamente più sfumata. Il brano d’apertura This Old Oak costituisce un perfetto manifesto del songwriting dei Finnr’s Cane, con il suo incipit acustico che man mano si irrobustisce fino a raggiungere l’apice nel suo finale, quando una dolente melodia chitarristica si fa largo tra il cupo substrato creato dagli altri strumenti, conducendo l’ascoltatore a una chiusura incantevole quanto inattesa. Il disco vive, per i suoi quaranta minuti, di sensazioni del tutto analoghe, con brani che spesso partono in maniera soffusa per poi gonfiarsi come una nube prima del temporale, raggiungendo il pathos nella parte conclusiva; i tre musicisti si districano con grande sensibilità tra suoni sicuramente non fruibilissimi ai primi ascolti. A Portrait Painted By The Sun è, infatti, un lavoro destinato a crescere in maniera esponenziale ad ogni passaggio nel lettore e la magia di brani splendidi come la già citata opener, Time Is A Face In The Sky e Tao ripagherà con gli interessi per l’impegno profuso per potersi immergere idealmente nelle tenebrose foreste dell’Ontario. Per chi apprezza Alcest, Agalloch e Wolves In The Throne Room.

Tracklist:
1. This Old Oak
2. Gallery of Sun and Stars
3. A Promise in Bare Branches
4. The Wind in the Wells
5. A Great Storm
6. Time Is a Face in the Sky
7. Tao

Line-up:
The Slave – Cello, Keyboards
The Peasant – Drums
The Bard – Vocals, Guitars

FINNR’S CANE – Facebook

Dragonhammer – The X Experiment

I Dragonhammer optano per la via del concept che, sembra, si svilupperà anche nei prossimi dischi, e la scelta si conferma azzeccata in virtù di un ottimo lavoro che farà sicuramente acquisire nuovi fans al combo italico.

I Dragonhammer optano per la via del concept che, sembra, si svilupperà anche nei prossimi dischi, e la scelta si conferma azzeccata in virtù di un ottimo lavoro che farà sicuramente acquisire nuovi fans al combo italico.

La storia e’ ambientata in un mondo post nucleare e il power prog metal del gruppo si integra perfettamente con la storia narrata favorendo la riuscita del disco con diversi ospiti illustri della scena italiana (Roberto Tiranti, Titta Tani, David Folchitto). Dopo l’immancabile intro, The End Of The World è già un pezzo da novanta con il suo power melodico e le voci di Tiranti e Max Aguzzi si intrecciano con la giusta dose di melodia e classe. In Seek In The Ice sono protagoniste le tastiere di Giulio Cattivera e si arriva alla title-track, apice del disco che mi ha ricordato anche per il timbro vocale del singer, i Circle II Circle del sottovalutato ma grandissimo Zachary Stevens; My Destiny, con le vocals di Titta Tani a duettare con Aguzzi, è un brano cadenzato dove le parti cantate sono ovviamente il punto forte del pezzo. Il disco scivola via tra The Others, in linea con i brani dell’album, e la ballad Follow Your Star, per arrivare a Last Solution, ultimo pezzo di questo gioiellino, nel quale non ci sono intoppi né incertezze, autentica prova di maturità per una band ormai sicura dei propri mezzi e che ci regalerà altri grandi album in futuro.

Tracklist:
1.It’s beginning
2.The end of the world
3.Seek in the ice
4.The x experiment
5.Escape
6.My destiny
7.The others
8.Follow your star
9.Last solution

Line-up:
Max Aguzzi – vocals,guitars
Gae Amodio – Bass
Giulio Cattivera – keyboards
Giuseppe De Paolo – guitars

Guests:
Roberto Tiranti – vocals
Titta Tani – vocals
David Folchitto – drums
Francesco Fareri – guitars

DRAGONHAMMER – Facebook

Nicumo – The End Of Silence

I Nicumo offrono una proposta decisamente fruibile ed immediata, individuabile in un hard rock dai tratti piuttosto melodici e talvolta malinconici, che si presenta come una summa di alcune delle band finniche capaci, nel recente passato, di lasciare un segno tangibile nella scena europea.

Dopo aver esaminato nel recente passato diverse uscite discografiche da parte di band finlandesi, meritoriamente portate alla ribalta anche nel nostro paese grazie all’operato della Red Cat Promotion, terminiamo almeno per ora questo ideale “tour dei mille laghi” con gli ottimi Nicumo.

Inseriti nell’interessante e variegato valido roster della label locale Inverse Records, i nostri offrono una proposta decisamente fruibile ed immediata, individuabile in un hard rock dai tratti piuttosto melodici e talvolta malinconici, che si presenta come una summa di alcune delle band finniche capaci, nel recente passato, di lasciare un segno tangibile nella scena europea.
L’opener Follow Me mostra subito la capacità dei Nicumo di comporre brani orecchiabili ma non per questo effimeri, andandosi a collocare nella scia dei Sentenced più melodici, mentre la successiva All Gone è un esempio di songwriting versatile, in grado di passare con disinvoltura da momenti carezzevoli in stile Him a ruvidezze vocali degne del Ville Laihiala epoca “Down”. Proprio la capacità di svariare tra diverse gamme vocali da parte del bravissimo cantante Hannu Karppinen è sicuramente uno dei valori aggiunti per il quintetto, basti ascoltarlo quando in Exorcist si traveste (solo metaforicamente, per sua fortuna … ) da Mr.Lordi, conducendo in porto un altro brano dal groove irresistibile. Il resto della band non è certo da meno, anche se la disinvoltura con la quale vengono sciorinati i brani fa apparire tutto molto più semplice di quanto non sia in realtà: ognuno svolge il proprio compito con classe invidiabile, senza strafare e ponendosi come unico obiettivo la riuscita dei singoli brani. Nel prosieguo del disco si segnalano altri ottimi episodi, come la più ritmata My Bullet, o My Own Silence, dove fanno capolino sonorità che richiamano un altro pezzo da novanta della scena finnica quali gli Amorphis. Messa così, potrebbe essere naturale liquidare questo lavoro come una semplice, seppur riuscita, operazione di collage, sottovalutando invece la capacità mostrata da questi musicisti nel fare proprie tali innegabili influenze e rimodellarle in funzione di una resa finale dalla qualità francamente inattaccabile. Sarebbe un vero peccato, quindi, se una realtà come i Nicumo restasse confinata ai ristretti (almeno dal punto di vista demografico) confini nazionali, perché un sound come quello proposto in The End Of Silence ha tutte le carte in regola per poter fare breccia ad ogni latitudine.

Tracklist:
1. Follow Me
2. All Gone
3. Devil
4. Exorcist
5. Firestorm
6. My Bullet
7. Difference
8. Kills Me
9. My Own Silence
10. Lines Drawn by Tears

Line-up :
Sami Kotila – Bass
Aki Pusa – Drums, Percussion
Tapio Anttiroiko – Guitars
Atte Jääskelä – Guitars
Hannu Karppinen – Vocals

NICUMO – Facebook

Elegy Of Madness – Brave Dreams

Questo disco ha tutto per entrare nel cuore degli appassionati del genere, a partire dalla bellissima copertina per arrivare ovviamente ai brani, tutti di eccellente livello.

Ma che bel disco e che band, questi Elegy Of Madness! Il quintetto pugliese esce in questi giorni, con il secondo full-length, prodotto dalla Wormholedeath, un gioiellino di symphonic gothic metal davvero ben eseguito e cosa non da poco, cantato in maniera divina dalla novella Tarja, Anja Irullo.

Questo disco ha tutto per entrare nel cuore degli appassionati del genere, a partire dalla bellissima copertina per arrivare ovviamente ai brani, tutti di eccellente livello.
Come si può intuire dall’accenno fatto in precedenza sulla voce di Anja, gli Elegy Of Madness ricordano sicuramente i Nightwish, ma non solo: rinveniamo chitarre accostabili ai primi Amorphis nella stupenda Suad, brano d’apertura dell’album, oppure troviamo i Paradise Lost che incontrano la band finlandese nel pezzo bomba For You, mentre Run Away è più vicina alla Tarja dell’ultimo album solista. L’album non mostra segni di cedimento e c’è ancora il tempo per farci accompagnare nel mondo degli Elegy Of Madness da brani molto ben riusciti come Brave Dreams, Red Dust e Holding Your Hand. L’unico appunto da fare è la song che chiude il lavoro, Uomo, con un recitato in italiano che a parer mio non rende come forse la band avrebbe voluto. Non più di un dettaglio in un album comunque sopra le righe, degli Elegy Of Madness ne sentiremo sicuramente parlare anche in futuro.

Tracklist:
1.Suad
2.Sinner
3.For you
4.Run away
5.Brave dreams
6.Red dust
7.Into the tale
8.The sacred willow
9.Holding your hand
10.21st march
11.Uomo

Line-up:
Anja Irullo : Voice
Tony Tomasicchio : Guitars and Backing Vocals
Luca Basile : Keyboards , cello and orchestra
Alex Martina : Bass
Lorenzo Chiafele : Drums

ELEGY OF MADNESS – Facebook

Vin De Mia Trix – Once Hidden From Sight

Un esordio su lunga distanza di pregevole fattura che rende la band ucraina una realtà già consolidata e non solo un semplice prospetto futuribile.

Gli ucraini Vin De Mia Trix appartengono a una scena doom di nascita relativamente recente ma in costante crescita, non solo dal punto di vista numerico.

Dopo aver affrontato nelle scorse settimane il lavoro dei Mournful Gust, sicuramente più orientato verso sonorità gotiche, Once Hidden From Sight ci riconsegna alle origini del death-doom fin dalle prime note con il suo incipit chitarristico che porta il marchio inconfondibile di una pietra miliare come “A Cry For Mankind”. Il timore di una riproduzione fedele del sound coniato oltre vent’anni fa dalla “sposa morente” viene fugato da un songwriting piuttosto ispirato, che vede i due lunghissimi brani di apertura dipanarsi dolenti come da copione ma tutt’altro che privi di spunti eccellenti, in grado di sopperire abbondantemente all’inevitabile somiglianza agli imprescindibili My Dying Bride (in A Study In Scarlet) e Swalllow The Sun (nella successiva Nowhere Is Here). Il lavoro ha un minutaggio piuttosto elevato che, forse, poteva essere ridotto snellendo i due brani strumentali, interlocutori per quanto ben eseguiti e non privi di spunti interessanti (particolarmente La Persistència De La Memòria), ma la qualità della musica proposta dalla band di Kiev scongiura l’effetto noia, soprattutto se dopo la lunga pausa di riflessione offerta da Là Où Le Rêve Et Le Jour S’Effleurèrent, The Sleep Of Reason si rivela un esempio impeccabile di approccio alla materia, alla quale i Vin De Mia Trix si avvicinano senza utilizzare le tastiere od altri artifici per aggiungere toni malinconici a un sound essenziale, ma efficace nel riprodurre le angosce e i disagi esistenziali. Silent World denota invece una discreta varietà stilistica, partendo da una delicata base acustica capace poi di svilupparsi in senso ben più energico, sulla falsariga dei primi lavori degli Opeth. Più orientati all’ortodossia doom i due episodi finali Metamorphosis e Matr, in grado di suggellare un esordio su lunga distanza di pregevole fattura che rende la band ucraina una realtà già consolidata e non solo un semplice prospetto futuribile.

Tracklist:
1. A Study in Scarlet
2. Nowhere is Here
3. Là où le rêve et le jour s’effleurèrent
4. The Sleep of Reason
5. Silent World
6. La persistència de la memòria
7. Metamorphosis
8. Matr

Line-up :
Serge Pokhvala – Guitars
Andrew Tkachenko – Vocals
Alex Vynogradoff – Bass, Guitars, Piano, Vocals
Igor Babayev – Drums

VIN DE MIA TRIX – Facebook

Deos – Fortitude, Pain, Suffering

Con questo loro riuscito esordio, i Deos si vanno ad aggiungere alla lista delle band da seguire per quel manipolo di appassionati in grado di apprezzare la dolorosa bellezza del funeral doom.

Ascoltare funeral doom è qualcosa che va oltre la semplice fruizione di un genere musicale ma rappresenta l’appartenenza a una ristretta cerchia di persone le quali, tra note volte a tratteggiare la caducità e l’ineluttabile approssimarsi della fine dell’esistenza, trovano paradossalmente l’impulso per vivere in maniera più serena e consapevole il tempo che il fato ha deciso di concedere loro, poco o tanto che sia.

Per lo stesso motivo, ha un che di miracoloso scoprire che, periodicamente, emergono nuovi musicisti dediti ad un genere dagli sbocchi commerciali pressoché nulli e difficilmente esportabile in sede live. I Deos sono una band di stanza a Londra ma costituita dal rumeno Daniel N. e dal belga Dehà; entrambi hanno avuto esperienze all’interno di gruppi alle prese con diversi generi ma, nonostante questo, a giudicare dall’esito di Fortitude, Pain, Suffering, sembra proprio che il funeral sia parte integrante del loro DNA, tanto questo lavoro si avvicina alla perfezione. Al di là della traccia introduttiva (che, a scanso di equivoci sulle tematiche trattate, si intitola Introducing Suffering … ) i quattro lunghi brani che compongono il disco d’esordio dei Deos sono altrettante dolenti peregrinazioni verso un luogo imprecisato ad di fuori dei confini del tempo e dello spazio. Il sound dei nostri trae linfa dagli imprescindibili Thergothon per avvicinarsi poi, a livello di struttura dei brani, a realtà più recenti come i Comatose Vigil e gli Ea, con le tastiere a svolgere un ruolo predominante rispetto alle chitarre. Se, come da copione, un disco di questo tipo non sbriga certo le pratiche in una mezz’oretta o poco più, a maggior ragione il suo ascolto necessita di una particolare dedizione oltre che familiarità con il genere, visto che il suo apice emotivo viene raggiunto proprio nei due brani conclusivi: Neverending Grief, soffusa marcia funebre esclusivamente strumentale e il capolavoro The Corruption Of Virtue, autentica quintessenza del funeral con i suoi riff sospesi sull’abisso mentre una tastiera dai toni tragici e solenni accompagna la gorgogliante sofferenza di una voce che ha perso ogni sembianza umana. Con questo loro riuscito esordio, i Deos si vanno ad aggiungere alla lista delle band da seguire per quel manipolo di appassionati in grado di apprezzare la dolorosa bellezza del funeral doom.

Tracklist:
1. Introducing Suffering
2. Abandoned
3. Embalmed in Tears of Sorrow
4. Neverending Grief
5. The Corruption of Virtue

Line-up :
Daniel N. – All instruments
Déhà – All instruments, Vocals

DEOS – Facebook

childthemewp.com