Procession – To Reap Heavens Apart

“To Reap Heavens Apart” conferma i Procession come un delle band guida dell’attuale scena doom.

I cileni Procession, con “The Cult Of Disease” e “Destroyers Of The Faith”, si erano già imposti all’attenzione come una delle realtà emergenti nella scena doom e, chiaramente, ciò rendeva piuttosto elevate le aspettative per il loro nuovo full-length: attese che non sono state assolutamente deluse visto che To Reap Heavens Apart conferma l’assoluto valore di questa band.

Questi quaranta minuti di musica sono capaci di toccare le corde giuste, mescolando l’influsso dei grandi nomi del passato con riferimenti a band non necessariamente legate all’ortodossia doom, ma restando sempre in linea con un genere che per raggiungere gli appassionati non ha certo bisogno di assumere connotazioni stravaganti; Felipe Plaza è un cantante che possiede il dono di un timbro vocale capace di raggiungere i meandri più reconditi dell’anima, e lo stesso si più dire dell’operato alla chitarra dello stesso leader, coadiuvato nell’occasione da Jonas Pedersen. Il punto di di partenza per i Procession sono sempre stati e sono tutt’ora senza ombra di dubbio i Candlemass, e non è certo un caso che Felipe, assieme al bassista Claudio Botarro Neira, abbia scelto la Svezia come attuale base completando la line- up con due musicisti nord-europei: il già citato chitarrista danese e il batterista svedese Uno Bruniusson. La forza di questa band risiede nell’innata propensione a creare atmosfere evocative, con quella freschezza che ormai nei maestri e in molti dei loro seguaci più illustri è venuta man mano scemando: in To Reap Heavens Apart non c’è spazio per passaggi dispersivi o interlocutori e la stessa The Death Minstrel, che pure si stacca parzialmente dal canovaccio stilistico del disco per la sue ritmiche catacombali introdotte da una lunga parte acustica, non appare assolutamente un corpo estraneo all’interno della track-list. Conjurer e Death & Judgement ci mostrano i Procession che avevamo conosciuto nel precedente disco, mentre la title-track si abbevera di influenze inattese, ricordando in certi momenti addirittura i Primordial, con un Felipe Plaza in versione Alan Averill. Il lavoro si chiude nel migliore dei modi con la splendida Far From Light, una lunghissima e dolente cavalcata che non può lasciare indifferente chi ama queste sonorità: l’interpretazione vocale di Felipe è da brividi, specie negli ultimi minuti, quando il tema portante, già accennato nella parte centrale, tocca altissime vette emotive. Se qualcuno ritiene che questo disco meriti una valutazione inferiore perché non possiede la sufficiente originalità, forse non ha ancora capito bene che il doom, pur nelle sue diverse forme, non è un semplice genere musicale bensì un rito catartico il cui accesso è riservato ai soli ascoltatori forniti della necessaria sensibilità; To Reap Heavens Apart è, semplicemente, il lavoro che conferma i Procession come una delle band migliori del momento.

Tracklist:
1. Damnatio Memorae
2. Conjurer
3. Death & Judgement
4. To Reap Heavens Apart
5. The Death Minstrel
6. Far from Light

Line-up :
Claudio Botarro Neira – Bass
Uno Bruniusson – Drums
Jonas Pedersen – Guitars
Felipe Plaza Kutzbach – Guitars, Vocals

PROCESSION – Facebook

Aborym – Dirty

Gli Aborym confermano con questo loro sesto disco il raggiungimento di uno status di tutto rispetto conquistato grazie a dischi talvolta accolti in maniera controversa, tutti accomunati però da una mai sopita voglia di sperimentare soluzioni non convenzionali.

Gli Aborym sono da oltre un decennio una realtà consolidata nel versante più sperimentale del metal. Fabban ha sviluppato un percorso musicale del tutto personale arrivando a una forma di black avanguardistico con il quale ha mostrato in ogni sua uscita un volto diverso rispetto al precedente lavoro.

Parlando di Dirty, si nota subito che possiede sembianze meno claustrofobiche rispetto a “Psychogrotesque” (2010), essendo stata abbandonata la componente ambient a favore del versante elettronico del sound. Il risultato è una creatura multiforme, in grado di passare in pochi secondi da sfuriate di black old style a passaggi dove ritmiche di matrice EBM si impadroniscono della scena, quasi mai però in maniera definitiva: quest’alternanza costante delle atmosfere è un autentico marchio di fabbrica della band italiana.
Dirty martella implacabilmente per tutti i suoi cinquanta minuti di durata, rivelandosi un’esperienza imperdibile per gli ascoltatori dalla mentalità più aperta: infatti, chi ha la fortuna di avere nelle proprie corde generi come il black, l’industrial e l’elettronica avrà di che divertirsi.
Peraltro, nonostante un impatto tutt’altro che rassicurante, non è azzardato affermare che questo lavoro forse è anche quello (relativamente) più immediato che gli Aborym abbiano mai composto, considerando che ogni traccia possiede passaggi che riescono a fare centro anche dopo pochi ascolti.
Il brano che meglio può sintetizzare il contenuto di Dirty è, probabilmente I Don’t Know, che in meno di cinque minuti mostra la versatilità di Fabban e soci: un avvio all’insegna di un blast-beat furioso sovrastato da una base elettro-black da paura, un breve rallentamento con clean vocals, ripartenza e chiusura affidata ad un evocativo assolo di chitarra.
Il valore aggiunto del lavoro è, pero, quello di possedere una sua unicità, oltre ad una qualità che chi si è cimentato in questa forma musicale raramente ha raggiunto, o perché indulgendo troppo sul versante elettronico e sperimentale oppure esibendo una vocazione caciarona e smaccatamente alla ricerca di soluzioni ad effetto. Ciò che traspare da quest’album è la rappresentazione di un malessere globale, che non risparmia alcun appartenente al genere umano, il cui destino sembra segnato in maniera ineluttabile; ma gli Aborym scelgono di non piangersi addosso bensì di reagire esibendo un feroce quanto amaro disincanto.
Dalla Irreversible Crisis (economica ma ancor più di valori) che attanaglia “questo mondo che ci vuole fottere” come ripete ossessivamente Fabban nel brano d’apertura, il percorso attraverso le macerie di un’umanità allo sbando non può che concludersi con l’estinzione della stessa e la fine del pianeta che l’ha ospitata, quasi una liberazione sancita da The Day The Sun Stop Shining .
Gli Aborym confermano con questo loro sesto disco il raggiungimento di uno status di tutto rispetto conquistato grazie a dischi talvolta accolti in maniera controversa, tutti accomunati però da una mai sopita voglia di sperimentare soluzioni non convenzionali.
Da segnalare anche la presenza di un secondo cd contente due tra i brani più noti dei nostri in versione riarrangiata, oltre ad alcune cover tra le quali citerei “Hurt” , brano dei Nine Inch Nails noto anche per la sua struggente interpretazione fornita da Johnny Cash.

Tracklist :
Disc 1
1. Irreversible Crisis
2. Across the Universe
3. Dirty
4. Bleedthrough
5. Raped by Daddy
6. I Don’t Know
7. The Factory of Death
8. Helter Skelter Youth
9. Face the Reptile
10. The Day the Sun Stop Shining

Disc 2
1. Fire Walk with Us (new version)
2. Roma Divina Urbs (new version)
3. Hallowed Be Thy Name (Iron Maiden cover)
4. Comfortably Numb (Pink Floyd cover)
5. Hurt (Nine Inch Nails cover)
6. Need for Limited Loss (new track)

Line-up :
Fabban – Bass, Keyboards, Vocals
Faust – Drums
Paolo Pieri – Guitars, Keyboards, Programming

ABORYM – pagina Facebook

Svartsyn – Black Testament

Le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti, Ornias conduce la sua macchina infernale verso un’apocalisse ineluttabile, senza sorprendere né deludere, semplicemente continuando a proporre con coerenza e competenza la propria musica e senza svendere malignità in versione plastificata.

Spiace davvero che certi dischi talvolta vengano giudicati negativamente a causa di una presunta immobilità stilistica, mente altri, aventi analoghe caratteristiche di fedeltà al genere proposto, vengano portati ad esempio di integrità artistica.

Probabile che un tale equivoco possa coinvolgere anche questo settimo full-length, in quasi vent’anni di onorata carriera, degli Svartsyn, ovvero del musicista svedese Ornias, che di fatto ha sempre gestito la band come un suo personale progetto. Black Testament è, essenzialmente, ciò che ogni appassionato del black più ortodosso vorrebbe ascoltare: atmosfere maligne condotte da una screaming feroce, nessuno svolazzo tastieristico o compiacimento melodico, solo dosi massicce di misantropia riversate in un songrwriting statico quanto si vuole, ma ugualmente dotato di grande fascino. Le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti, Ornias conduce la sua macchina infernale verso un’apocalisse ineluttabile, senza sorprendere né deludere, semplicemente continuando a proporre con coerenza e competenza la propria musica e senza svendere malignità in versione plastificata (brani come Carving A Temple e Rising Beast son lì a dimostrarlo). Se tutto ciò sia sufficiente per poter considerare Black Testament un disco riuscito, pur se lontano dai capolavori del genere, dipende dalle aspettative di ciascuno: per quanto mi riguarda la quarantina di minuti da dedicare all’ascolto di questo lavoro sono senz’altro ben spesi.

Tracklist :
1. Intro
2. Revelation in the Waters
3. Venom of the Underworld
4. Demoness with Seven Names
5. Carving a Temple
6. Eyes of the Earth
7. Rising Beast
8. Black Testament

Line-up : Ornias – All Instruments, Vocals

SVARTSYN – Facebook

Ecnephias – Necrogod

La caratteristica di schiudersi lentamente e di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore è una peculiarità dei grandi dischi.

A circa un anno e mezzo dalla pubblicazione di un lavoro magnifico come “Inferno”, gli Ecnephias si ripresentano con un nuovo disco per il quale le aspettative erano piuttosto elevate: lo stesso Mancan, nel presentare il nuovo lavoro, come è suo costume non si è certo nascosto dietro dichiarazioni di facciata, proclamando con convinzione che Necrogod sarebbe stato il miglior album mai inciso dalla sua band.

Se è vero che affermazioni di questo tenore sono all’ordine del giorno in occasione di nuove uscite in campo discografico, va detto subito che quanto affermato dal musicista lucano corrisponde in tutto e per tutto alla realtà.
Per gli Ecnephias, sulla spinta degli ottimi riscontri ricevuti nel recente passato, sarebbe stato facile riproporre una sorta di “Inferno 2” ma è sufficiente conoscere la loro storia per escludere subito questa possibilità: qui si parla di una band che, partita dal black dai tratti comunque evocativi degli esordi, si è evoluta nel corso degli anni verso una forma di heavy metal oscuro e malinconico, dalle ampie sfumature dark, in maniera analoga a quanto fatto, sia pure in un arco temporale più ampio, dai Moonspell (che, assieme a Rotting Christ e Septic Flesh, sono sempre stati per Mancan degli espliciti punti di riferimento).
Sarebbe un grave errore, però, attendersi una versione fedele ma sbiadita della band portoghese: gli Ecnephias rielaborano le svariate influenze musicali (dichiarate e non) assimilate nel corso degli anni dal proprio leader (nonché dal suo storico sodale Sicarius) dando vita a un prodotto che possiede, in tutto e per tutto, un marchio di fabbrica inconfutabilmente e immediatamente riconoscibile.
Se, in Inferno, il retaggio estremo faceva ancora capolino a tratti all’interno dei singoli brani, in Necrogod tutto ciò lascia posto a una forma di heavy metal dalle tinte fosche per atmosfere e attitudine, mentre ogni residua pulsione riconducibile al black sembra essere stata interamente convogliata da Mancan nel suo rinato progetto Abbas Taeter.
Dopo premesse di questo genere, sarebbe lecito attendersi un lavoro orecchiabile o di facile presa e, invece, dopo i primi ascolti accade esattamente l’opposto : Necrogod gode infatti di una profondità inattesa e, per questo motivo, potrebbe risultare ingannevole per chi inconsciamente vi si avvicinasse attendendosi episodi più immediati, sulla falsariga di “A Satana” o “Chiesa Nera”.
E’ possibile che la rinuncia totale all’uso dell’italiano abbia avuto un suo peso nel rendere maggiormente complessa l’assimilazione dei brani, ma non c’è dubbio che la caratteristica di schiudersi lentamente, di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore, sia una peculiarità dei grandi dischi.
Chi riuscirà a non affrontare Necrogod in maniera superficiale, otterrà in cambio la possibilità di godersi un affascinante viaggio musicale incentrato, a livello lirico, sulle divinità conosciute ed adorate in epoca pre- cristiana: così, nei quasi cinquanta minuti di durata del disco, Mancan ci guida in un percorso storico-religioso che include le antiche divinità mediorientali (Baal, Ishtar, Inanna), il serpente piumato dei Maya (Kukulkan), la mitologia greco-egizia (Ade, Osiride, Anubi, Horus), la terribile dea indiana Kali, il mostruoso Leviatano di biblica memoria e la magica ritualità del Voodoo.
Ma passiamo ad eseminare in maniera più approfondita l’aspetto che più ci preme, ovvero la musica: il disco è inaugurato da una breve traccia strumentale che fa già presagire il nuovo corso degli Ecnephias: atmosfere sempre più evocative arricchite da elementi etnici e tribali, in ossequio alle tematiche trattate,
In occasione del primo impatto con Necrogod i due brani che sicuramente colpiscono di più sono The Temple of Baal-Seth, in possesso di un ritmo trascinante ed un chorus in portoghese condotto da Mancan in maniera esemplare, e Voodoo, dove l’evidente citazione dei Rotting Christ è in realtà volta ad omaggiare l’ospite Sakis, che presta la sua voce inconfondibile a una traccia entusiasmante, all’interno della quale la chitarra assume in certi frangenti accenti maideniani.
La title-track e Leviathan mostrano il volto più violento degli Ecnephias, anche se la componente melodica non viene certo messa in secondo piano, ma è evidente che il proprio meglio la band potentina lo offre negli episodi maggiormente coinvolgenti sul piano emotivo, quando la ritualità delle invocazioni alle divinità si amalgama naturalmente a fughe chitarristiche di grande intensità ad opera di Nikko, il tutto punteggiato dall’elegante lavoro alle tastiere di Sicarius e dalla possente e precisa base ritmica a cura di Miguel José Mastrizzi e Demil. Così, se Ishtar assume diverse sembianze musicali nel corso del suo dipanarsi, in ossequio alla mutevolezza di colei che per i sumero-babilonesi era allo stesso tempo dea del cielo, della terra e degli inferi, Kukulkan e Anubis si svelano progressivamente mostrando tutta la capacità di Mancan e soci nell’ideare canzoni dove il growl e i riff di matrice estrema si sposano naturalmente con clean vocals profonde e poggiate su melodie apparentemente suadenti, ma costantemente avvolte da un velo di oscurità.
L’esempio migliore di quanto appena affermato è Kali Ma, un brano che esplode in tutta la sua sfolgorante bellezza solo dopo diversi ascolti, quasi che la temibile divinità in esso rappresentata avesse voluto celare il più a lungo possibile il proprio conturbante fascino.
Winds Of Horus è un’altra traccia strumentale, posta in chiusura, sulla quale scorrono idealmente i titoli di coda di un lavoro che merita di essere riascoltato più volte per assaporarne appieno le fragranze più nascoste.
Necrogod non solo raggiunge ma supera il livello già altissimo raggiunto dagli Ecnephias con “Inferno”; sicuramente per la band lucana questo si può considerare il lavoro della definitiva maturità e rappresenta il raggiungimento di uno status che non va considerato, però, un punto d’arrivo, bensì una base consolidata dalla quale proseguire la costante progressione stilistica e compositiva.
Non è blasfemo affermare che, per il valore dei suoi ultimi due lavori, il combo lucano può collocarsi attualmente all’altezza della più volte citata triade ellenico-lusitana; la vera sfida ora, per Mancan, sarà piuttosto quella di eguagliarne o, quantomeno, avvicinarne la longevità artistica.

Tracklist :
1. Syrian Desert
2. The Temple of Baal-Seth
3. Kukulkan
4. Necrogod
5. Ishtar – Al-‘Uzza
6. Anubis – The Incense of Twilight
7. Kali Ma – The Mother of the Black Face
8. Leviathan – Seas of Fate
9. Voodoo – Daughter of Idols
10. Winds of Horus

Line-up :
Mancan – Guitars, Vocals, Programming
Sicarius – Keys and Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass

ECNEPHIAS – Facebook

PTSD – A Sense Of Decay

I PTSD con A Sense Of Decay forniscono una prova decisamente buona, anche se ho la sensazione che la loro proposta possa attecchire più oltreoceano che non all’interno dei nostri confini

I PTSD (acronimo di lingua inglese che sta per Post Traumatic Stress Disorder) sono una band marchigiana attiva dal 2005 e A Sense Of Decay è il loro secondo full-length dopo l’esordio “Burepolom” risalente a cinque anni fa.

La musica proposta in questo lavoro è un discreto mix di influenze che, dopo un’opportuna frullata, si può definire in maniera alquanto vaga alternative metal; le band di riferimento citate in sede di presentazione sono 30 Secconds To Mars, Alice In Chains, Sistem Of A Down e Breaking Benjamin: sinceramente non conosco in maniera così approfondita i primi e gli ultimi per poter fare una verifica attendibile ma, a naso, direi che i PTSD sono senz’altro meno commerciali di entrambi, mentre l’accostamento ai più noti mostri sacri della scena, se può valere con la band di Seattle in qualche armonia vocale e nell’utilizzo di melodie dal retrogusto malinconico, con il combo armeno-americano non riesco a trovare alcuna affinità evidente se non l’attitudine al crossover tra generi diversi.
Detto questo. il disco è senz’altro valido e, pur collocandosi a una certa distanza da quelli che sono i miei ascolti abituali, l’ora di musica contenuta in A Sense Of Decay mi ha piacevolmente colpito, poiché presenta diversi momenti di livello piuttosto elevato, come nell’opener Event Horizon e, in particolare, nell’intensa Solar Matter Loss. Azzeccata e molto ben eseguita la cover del brano di Anastacia Heavy On My Heart e molto interessante anche il remix del già citato brano d’apertura; del resto la crescita di questa band appare evidente anche esaminando i particolari: la produzione a cura di un nome pesante come Jim Caruana e il contributo in sala d’incisone da parte di uno dei batteristi più quotati della scena, quel Marco Minnemmann , attualmente impegnato anche con gli Ephel Duath.
Henry Guy possiede un bel timbro vocale, sporcato sporadicamente dal un growl avente la sola funzione di supporto, attorno al quale vengono costruiti brani dalla fruizione piuttosto immediata ma non per questo scontati.
In sintesi, i PTSD con A Sense Of Decay forniscono una prova decisamente buona, anche se ho la sensazione che la loro proposta possa attecchire più oltreoceano che non all’interno dei nostri confini ma, vista la notevole differenza dei due mercati, non è detto che questo per i nostri sia una cattiva notizia, anzi …

Tracklist:
1. Event Horizon
2. A Reason To Die
3. Parasomnia
4. Staring The Stormwall
5. Suicide Attitude
6. A Sense Of Decay
7. Breathless
8. Solar Matter Loss
9. By A Thread
10. Heavy On My Heart (Anastacia cover)
11. ……If?
12. Event Horizon (Forgotten Sunrise rmx)

Line-up :
Henry Guy – Vocals
Yorga – Lead Guitars
Jason – Rhythm Guitars
Rob Star – Bass
Marco Minemann – Drums

PTSD – pagina facebook

Evoke Thy Lords – Drunken Tales

Gli Evoke Thy Lords, dopo il gothic doom dell’esordio datato 2008, hanno decisamente mutato pelle trasformandosi in questa creatura dai tratti cangianti e in grado di evocare, grazie all’uso intensivo ma appropriato del flauto, sensazioni dall’alto tasso lisergico.

Quel ristretto manipoli di sventurati che abitualmente legge le mie recensioni  credo abbia intuito che, quando parlo di doom, tendo a diventare più integralista del peggiore dei talebani.

Partendo dal presupposto che questo genere musicale deve semplicemente fluire dal cuore di chi lo suona per approdare direttamente a quello di chi lo ascolta, rigetto l’idea che possa diventare oggetto di contaminazioni pseudo avanguardistiche, utili solo a compiacere chi il doom lo snobba a prescindere. Nonostante questa mia premessa, i siberiani Evoke Thy Lords sono riusciti a fare breccia in questa spessa corazza protettiva proprio perché gli elementi innovativi inseriti nel loro sound, sono tutt’altro che futuristici ma provengono, di fatto, da molto lontano, attingendo in gran parte alla tradizione del prog più psichedelico. Di per sé, questo, potrebbe non sembrare una novità così dirompente se non fosse che la conduzione dei brani, invece d’essere affidata, come sempre accade, alla chitarra, lascia ergersi a protagonista il flauto di Irina Mirzaeva. Chiunque ricordi l’utilizzo di questo strumento fatto dai Cathedral nel loro ineguagliato capolavoro “Forest Of Equlibrium” può farsi in maniera più esaustiva un’idea di ciò che lo attenderà ascoltando Drunken Tales: chiaramente il tessuto sonoro dell’album non possiede i tratti catacombali proposti all’epoca dalla band di Lee Dorrian dato che qui il genere proposto è, a grandi linee, uno stoner doom quasi del tutto strumentale. Gli Evoke Thy Lords, dopo il gothic doom dell’esordio datato 2008, hanno decisamente mutato pelle trasformandosi in questa creatura dai tratti cangianti e in grado di evocare, grazie all’uso intensivo ma appropriato del flauto, sensazioni dall’alto tasso lisergico. I primi quattro brani sono quelli da prendere realmente in considerazione per verificare la bontà dell’operato della band di Novosibirsk, visto che la quinta traccia è una bonus track che, riportandoci indietro di qualche anno, è utile solo a farci capire quale sia stata l’evoluzione stilistica degli Evoke Thy Lords, nonché a mostrarci quanto questa svolta abbia fornito peculiarità ad una band che, altrimenti, avrebbe rischiato di restare confusa tra la miriade di altre proposte provenienti negli ultimi tempi dalla fredde lande sovietiche. Drunken Tales è davvero una ventata d’aria fresca (pure troppo, considerando la provenienza geografica dei nostri …)

Tracklist :
1. Routine of Life
2. Dirty Game
3. Down the Drain
4. Dregs
5. Cause Follows Effect

Line-up :
Irina Mirzaeva – Flute
Yury Kozikov – Guitars
Sergey Vagin – Guitars
Alexey Kozlov – Vocals, Bass
Alexandr Mironov – Drums

EVOKE THY LORDS – pagina Facebook

Paganizer – World Lobotomy

Il classico disco che non cambierà il corso della storia ma del quale i cuori metallici, magari un po’ più datati come il mio, hanno sempre dannatamente bisogno …

I Paganizer sono una delle tante death metal band svedesi la cui attività ha preso il via nel secolo scorso: con World Lobotomy arrivano al nono album, come sempre all’insegna di un death old school che potrebbe essere tranquillamente utilizzato come esempio di ortodossia del genere.

L’instancabile Rogga Johansson è reduce da un altra ottima prova, risalente allo scorso anno con i The Grotesquery con i quali, grazie alla compartecipazione di Kam Lee, esplorava anche a livello lirico il lato più orrorifico del death; in questa occasione, oltre ai suoi taglienti riff ci gratifica anche di un growl profondo quanto convincente, dimostrando che i Paganizer sono fondamentalmente la “sua” band, nonostante la miriade di altri progetti che lo vedono coinvolto. World Lobotomy si fa apprezzare per il senso di coesione tra i musicisti che traspare dalle note, agevolato in tal senso dal fatto, non così scontato, che tre quarti della band facevano parte della line-up che incise il demo d’esordio nell’ormai lontano 1998. I quaranta minuti di aggressione sonora risultano così tutt’altro che stantii, seppure devoti ad un sound che a qualcuno potrà apparire sorpassato; per assurdo brani devastanti come la title-track, la “carcassiana” You Call It Deviance o Hunt Eat Repeat, solo per citarne alcuni, risultano piacevolmente freschi nonostante provengano da molto lontano, a livello di attitudine e di ispirazione; nessuna concessione a tentazioni moderniste, nessun rallentamento, nessuno scampolo di facili melodie, il tutto supportato da una produzione adeguata. Il classico disco che non cambierà il corso della storia ma del quale i cuori metallici, magari un po’ più datati come il mio, hanno sempre dannatamente bisogno …

Tracklist :
1. Prelude to the Lobotomy
2. World Lobotomy
3. The Sky on Fire
4. Mass of Parasites
5. As Blood Grows Cold
6. Ödeläggaren
7. You Call It Deviance
8. As the Maggots Gather
9. Trail of Human Decay
10. The Drowners
11. The Last Chapter
12. Hunt Eat Repeat

Line-up :
Jocke Ringdahl – Drums
Andreas ‘Dea’ Carlsson – Guitars
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Dennis Blomberg – Bass

PAGANIZER – pagina Facebook

Abysmal Grief – Feretri

Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana.

Arrivando un po’ in ritardo sull’uscita di questo disco, si rischia inevitabilmente di essere ripetitivi o, ancor peggio, di fare un bignamino di tutte le recensioni già uscite.

Ciò che mi resta, a questo punto, è provare a parlare, da genovese, di una band della mia città che perpetua un filone musicale che, all’ombra della Lanterna, trae ispirazione da un immaginario agli antipodi della modernità, fatto com’è di riferimenti ai mitici sceneggiati tv in bianco e nero e all’horror all’italiana, più Fulci-Bava che Argento, e lo dimostra scegliendo come copertina un’immagine tratta da uno dei rivalutati B-movies dei primi anni ’70.
In una città che si sta decomponendo seppellita dalla crisi, prima ancora morale che economica, avvilita dall’ignavia dei governanti e aggrappata alle sorti di un porto che fatica a reggere l’accresciuta competitività della concorrenza, gli Abysmal Grief come sfondo per le loro (rare) foto promozionali non scelgono, come parrebbe logico, i monumenti funebri di Staglieno, simbolo decadente della nobiltà di una Superba che ha cessato di esistere da decenni, bensì i piccoli cimiteri di periferia o di campagna, nei quali anonimi resti contrassegnati da una semplice croce faticano a ritagliarsi spazio tra le erbacce e l’incuria volte a simboleggiare, anch’esse, un degrado che appare irreversibile.
Seguendo la strada tracciata, perlomeno a livello di immaginario retrospettivo, dai Malombra prima e da Il Segno Del Comando poi, gli Abysmal Grief esorcizzano il terrore della morte nel miglior modo possibile, ovvero con un doom malsano e dai tratti antichi, nel quale è un magnifico hammond a condurre le macabre danze contrappuntato da un basso pulsante e, talvolta, dominante anche su una chitarra che, quando si ritaglia spazio in versione solista, lascia sempre il segno; a piantare gli ultimi chiodi sulla bara è, idealmente, la voce di Labes C. Necrothytus che ricorda in senso lato quella del grande Carl McCoy, almeno nell’impostazione, passando da tonalità baritonali ad un growl profondo ma sempre comprensibile, e nella capacità di comunicare il funesto contenuto lirico dei brani.
Questo disco mostra un volto diverso, più orrorifico e morboso, del doom, che in tutte le sue versioni mantiene le proprie caratteristiche di musica per pochi, e pazienza se la sua visibilità a livello di media è nulla e se, conseguentemente, chi organizza i concerti fatica a riempire locali anche piccoli; il doom è un modus vivendi (e non “moriendi” come potrebbe erroneamente pensare qualcuno) e per suonarlo ed ascoltarlo è necessaria una sensibilità diversa che consente di godere di sensazioni e vibrazioni psichiche precluse alla maggioranza delle persone.
Feretri in definitiva, corrisponde per filo e per segno a ciò che ogni appassionato avrebbe voluto ascoltare dagli Abysmal Grief; l’insinuante e malefica tastiera che pervade questi tre quarti d’ora di grande musica si è incuneata nel mio cervello e non ha nessuna intenzione di abbandonarlo in tempi brevi.
Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana.
Letteralmente imperdibile.

Tracklist :
1. Lords of the Funeral
2. Hidden in the Graveyard
3. Sinister Gleams
4. Crepusculum
5. The Gaze of the Owl
6. Her Scythe

Line-up :
Lord Alastair – Bass
Regen Graves – Guitars, Drums
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Attractha – Engraved

“Engraved” mette in evidenza una band dalle notevoli potenzialità e dalla sufficiente personalità in grado di regalare soddisfazioni a chi apprezza il metal nella sua veste più classica.

I brasiliani Attractha appartengono all’affollata categoria di band che, a causa di varie vicissitudini legate all’instabilità della line-up, riescono solo dopo diversi anni di attività a presentare al pubblico il frutto del proprio impegno.

In questo caso, il quartetto paulista , con l’Ep intitolato Engraved, fornisce un assaggio di quello che dovrebbe essere il full-length d’esordio programmato entro la fine di quest’anno.
La musica prodotta dai nostri è un heavy metal ricco di diverse sfumature che vanno dall’hard rock al prog-metal, passando per il grunge e l’heavy classico, facendo sì che le quattro tracce proposte possiedano una certa immediatezza che rende davvero piacevole l’ascolto.
Darkness, scelta come singolo per il lancio dell’Ep, mette subito in evidenza sia le ottime doti tecniche del quartetto sia la buona prestazione vocale di Marcos De Canha, ma ancora meglio è la successiva The Choice, dotata di una splendida linea melodica.
Più ordinarie per quanto valide la semi-ballad Blessed Life, impreziosita comunque da un bellissimo assolo di Ricardo Oliveira, e la conclusiva Beginning, dagli evidenti rimandi novantiani.
Engraved mette in evidenza una band dalle notevoli potenzialità e dalla sufficiente personalità in grado di regalare soddisfazioni a chi apprezza il metal nella sua veste più classica.

Tracklist :
01. Darkness
02. The Choice
03. Blessed Life
04. Beginning

Line-up :
Marcos da Canha – Vocals
Ricardo Oliveira – Guitars & vocals
Guilherme Momesso – Bass
Humberto Zambrin – Drums & vocals

ATTRACTHA – Facebook

Soundcloud – The Choice

Crest Of Darkness – In The Presence Of Death

“In the Presence of Death” si rivela un esempio di black-death credibile e da ascoltare con senza alcuna remora.

Ingar Amlien è quasi mio coetaneo ed è anche per questo che, oltre a rispettarlo incondizionatamente, lo ricordo perfettamente negli anni novanta come bassista della power prog band Conception, in grado di riscuotere un certo successo in quegli anni.

Poco prima della registrazione di “Flow”, il disco che sancì la fine di quell’esperienza, Ingar aveva già gettato le basi del suo progetto estremo Crest Of Darkness con la pubblicazione dell’Ep “Quench My Thirst”. Da allora sono passati diciassette anni e altri cinque album ma l’indomito musicista norvegese non ha ancora perso la voglia di proporre la propria musica mantenendosi, come sempre, su buoni standard.
In the Presence of Death arriva dopo ben sei anni di silenzio e ci mostra una band in forma soddisfacente e capace sovente di svincolarsi da formule compositive trite e ritrite: basti ascoltare la parte finale di Demon Child, con una chitarra liquida poggiata su una magnifica base ritmica, per rendersene conto.
E’ innegabile, comunque, che il black dalle venature death dei Crest Of Darkness resti ancorato alla tradizione ma, il fatto che Amlien abbia trascorso gli anni migliori della propria carriera in una band piuttosto lontana da queste sonorità si sente eccome; non è certo un caso, quindi, che il basso sia molto più percepibile rispetto ad altre uscite del genere e che il disco si faccia apprezzare anche per una, pur sempre relativa, pulizia del suono volta a valorizzare le ottime doti dei musicisti.
Va da sé che i brani migliori siano proprio i mid-tempo, come la già citata Demon Child e le corrosive Welcome to My Funeral e From the Dead, anche se il disco è apprezzabile nel suo insieme, favorito da una durata non eccessiva e da una discreta fruibilità dei brani, nonostante la musica dei Crest Of Darkness non si possa certo considerare melodica.
Se alla carriera della band norvegese è forse mancato il disco in grado di consentire il salto di qualità, non si può certo sottovalutare la coerenza e l’onestà della sua proposta; In the Presence of Death ne è l’ulteriore riprova, rivelandosi un esempio di black-death credibile e da ascoltare con senza alcuna remora.

Tracklist :
1. Intro
2. In the Presence of Darkness
3. Demon Child
4. Redemption
5. The Priest from Hell
6. Welcome to My Funeral
7. Womb of the Wolf
8. Vampire Dreams
9. From the Dead
10. The Day Before She Died

Line-up :
Ingar Amlien – Vocals, Bass, Guitars
Kjetil Hektoen – Drums
Rebo – Guitars (lead)
Jan Fredrik Solheim – Guitars (rhythm)

CREST OF DARKNESS – Facebook

Kaledon – Altor: The King’s Blacksmith

I Kaledon dimostrano come sia possibile, anche dopo anni di attività, continuare a progredire e a migliorarsi quando la passione rende l’incisione di un nuovo disco la finalizzazione di un processo creativo e non la periodica timbratura di un cartellino.

I Kaledon sono sulle scene ormai da diversi anni proponendo un power sinfonico dalle forti sfumature epiche; Altor: The King’s Blacksmith è già il loro settimo full-length ma è il primo dopo la conclusione della saga strutturata sui sei capitoli che hanno contrassegnato la passata produzione, anche se rimane collegato alle tematiche passate visto che il concept è incentrato sul fabbro del re, uno dei personaggi (pur se minori) presenti nella loro “Legend Of The Forgotten Reign”.

Al di là dell’aspetto concettuale, ciò che preme evidenziare è la notevole caratura di quest’ultimo lavoro, che appare come un riuscitissimo tributo ad un genere che, troppo spesso invece, è afflitto da un’asfittica ridondanza; a detta della stessa band, l’essere stati in tour per gran parte del periodo successivo alla pubblicazione di “Chapter VI”, ha portato ad una naturale evoluzione sia dal punto di vista tecnico sia da quello compositivo. Dopo una canonica intro, Childhood apre alla grande grazie a uno splendido incipit chitarristico in grado di restare impresso a lungo nella memoria; la successiva Between The Hammer And The Anvil è un classico brano power che unisce con buon equilibrio ritmo e melodia. My Personal Hero è un altro brano dal buon impatto mentre Lilibeth è una ballad invero un pò zuccherosa; A New Beginning apre la parte finale del disco che d’ora in poi mostra il volto migliore dei Kaledon: questo è un altro brano davvero riuscito nel quale va evidenziato l’ottimo lavoro delle tastiere. Kephren è un esempio calzante di come il songwriting si sia attestato su livelli ragguardevoli, mentre Screams In The Wound possiede una certa drammaticità di fondo che lo rende l’ideale antipasto del botto finale costituito da A Dark Prison, autentico gioiello impreziosito dalla presenza di un nome che non ha bisogno di presentazioni come quello di Fabio Lione. Un evidente progresso rispetto al precedente full-length, unito al ritorno a sonorità più dirette e maggiormente votate ad un più classico power melodico, fa di Altor: The King’s Blacksmith un lavoro che, pur non essendo epocale, rappresenta la migliore risposta a chi pensa che questo genere abbia ormai poco o nulla da dire. I Kaledon, al contrario, dimostrano come sia possibile, anche dopo anni di attività, continuare a progredire e a migliorarsi quando la passione rende l’incisione di un nuovo disco la finalizzazione di un processo creativo e non la periodica timbratura di un cartellino.

Tracklist:
1. Innocence
2. Childhood
3. Between the Hammer and the Anvil
4. My Personal Hero
5. Lilibeth
6. A New Beginning
7. Kephren
8. Screams in the Wind
9. A Dark Prison

Line-Up:
Paolo Lezziroli – Bass, Vocals
Alex Mele – Guitars (lead)
Tommaso Nemesio – Guitars (rhythm)
Daniel Fuligni – Keyboards
Marco Palazzi – Vocals
Luca Marini – Drums

KALEDON – Facebook

Nocte Obducta – Umbriel (Das Schweigen Zwischen Den Sternen)

I Nocte Obducta del 2013 hanno poco a che vedere con quelli dello scorso decennio ma la loro trasformazione in una band dalle sonorità più intimistiche ed eleganti, non significa necessariamente un sensibile abbassamento del livello qualitativo della proposta

Nella scorsa decade i Nocte Obducta sono stati tra i massimi rappresentanti di quel black metal avanguardistico e atmosferico che, in Germania, ha sempre trovato terreno fertile.

Dopo il presunto scioglimento del 2006, successivamente alla registrazione di “Sequenzen Einer Wanderung” (pubblicato poi nel 2008), parte della band diede vita ad un nuovo progetto denominato Dinner Auf Uranos e il risultato fu un ottimo lavoro come “50 Sommer – 50 Winter”, nel quale la componente estrema del sound presente nella band madre veniva messa del tutto da pate.
Quella che pareva essere la fine della storia per il combo di Mainz, come sovente accade, si è trasformato invece in un periodo di stand-by interrotto nel 2011 dall’uscita di “Verderbnis – Der Schnitter Kratzt An Jeder Tür”, seguito infine dal recente Umbriel (Das Schweigen Zwischen Den Sternen), oggetto di questa recensione.
Dopo diversi ascolti si può affermare con certezza che l’unica cosa sbagliata in questa operazione è stato l’utilizzo della vecchia identità: infatti, Umbriel ha pochi tratti comuni sia con il primo lavoro post-reunion sia con i vecchi capolavori, apparendo piuttosto come il logico successore proprio di “50 Sommer – 50 Winter” (collegamento suffragato anche dalla presenza, non casuale, di una lunga traccia intitolata proprio Dinner Auf Uranos).
Ovviamente il confronto con i due “Teil …” e con lo stesso “Sequenzen …” sarebbe poco corretto e persino impietoso: qui stiamo parlando, in sostanza, di una band differente per scelte stilistiche e, in parte, anche per attitudine; pertanto, l’unico modo per effettuare una disamina obiettiva di Umbriel è quello di dimenticarsi del monicker stampato sulla copertina.
Gli elementi black, che tutto sommato appaiono come un effimero collegamento al passato della band, sono confinati fondamentalmente alla sola Mehr Hass, ma è nel resto del disco che i Nocte Obducta mostrano il loro (nuovo) volto migliore, all’insegna di un dark ombroso ed evocativo, che spesso va a intrecciarsi con passaggi di stampo post-metal
Piaccia o meno tale svolta, un brano come Leere è indiscutibilmente un autentico gioiello intriso di un lirismo decadente che non può lasciare indifferenti; anche l’opener Kerkerwelten – Teil I, lo strumentale 01-86 Umbriel e Ein Nachmittag Mit Edgar seguono, sia pure con qualche variazione sul tema, questo andamento malinconico e decisamente introspettivo .
Piuttosto contraddittorie, invece, la già citata Dinner Auf Uranos e la relativa “reprise” strumentale, che si perdono in qualche superfluo passaggio ambient , con il solo risultato di appesantire un disco che, sia per la lunghezza sia per i contenuti, proprio scorrevolissimo non è.
Nulla da eccepire, invece, sulla bella chiusura affidata a Kerkerwelten – Teil II , che si lascia andare nei suo ultimi minuti a dolenti melodie di matrice doom.
I Nocte Obducta del 2013, quindi, hanno poco a che vedere con quelli dello scorso decennio ma la loro trasformazione in una band dalle sonorità più intimistiche ed eleganti, non significa necessariamente un sensibile abbassamento del livello qualitativo della proposta e, al tirare delle somme, gli aspetti positivi superano di gran lunga quelli negativi; si tratta, semplicemente, di recepirne i contenuti musicali con un differente approccio mentale: solo così sarà possibile apprezzare senza porre alcuna pregiudiziale l’operato di quella che resta, sempre e comunque, una band di grande valore.

Tracklist :
1. Kerkerwelten – Teil I
2. Gottverreckte Finsternis
3. 01-86 Umbriel
4. Dinner auf Uranos
5. Mehr Hass
6. Leere
7. Ein Nachmittag mit Edgar
8. Reprise Dinner auf Uranos
9. Kerkerwelten – Teil II

Line-up :
Heidig
Marcel
Matze
Stefan
Flange
Torsten

NOCTE OBDUCTA – pagina Facebook

Right To The Void – Kingdom Of Vanity

I Right To The Void sono una giovane band francese che esordisce su lunga distanza con questo disco di prossima uscita intitolato Kingdom Of Vanity.

I ragazzi della Linguadoca ci regalano quaranta muniti di aggressione sonora a base di un death-core-thrash sicuramente ben eseguito e ben prodotto ma con il difetto d’essere piuttosto ripetitivo: la ricetta viene riproposta, di fatto, in ogni brano, con partenza a razzo, triggerate a manetta, alternanza tra screaming e growl per un risultato che potrebbe ricordare i primi In Flames, privati però di gran parte della componente melodica del loro sound. La forza d’impatto dei Right To The Void è comunque rimarchevole e Kingdom Of Vanity è un lavoro tutt’altro che disprezzabile, ciò che colpisce in negativo è essenzialmente la scarsa identità dei singoli brani all’interno della tracklist. Il chitarrista Gauthier sembra quasi voler centellinare i propri assoli ed è un vero peccato, vista l’incisività che mostra in tali frangenti; la base ritmica svolge in maniera competente il proprio lavoro mentre Guillame si sgola alternando costantemente i due stili vocali, facendosi preferire comunque quando opta per il growl. Il finale del disco riserva le cose migliori rappresentate dalla titletrack, dotata di un bel tiro e decisamente coinvolgente e, soprattutto, dal brano di chiusura, We Have Failed, un titolo che per fortuna non corrisponde all’esito finale di Kingdom Of Vanity. In quest’ultima occasione i ragazzi transalpini mostrano cosa potrebbero fare se solo provassero ad uscire con maggiore frequenza dal proprio canovaccio sonoro, sia con qualche sapiente rallentamento sia con un occhio di riguardo all’aspetto melodico del songwriting. Quindi, parafrasando l’ultimo titolo, è lecito affermare che i Right To The Void non hanno affatto fallito, lo dimostra l’encomiabile intensità che pervade l’intero lavoro, d’altra parte, però, possono e devono variare maggiormente la loro proposta per ritagliarsi uno spazio adeguato nella scena metal europea.

Tracklist:
1.Like A Disease
2.Phoenix
3.World Decay
4.A Black Conclusion
5.War Of Glory
6.In Oblivion
7.Reborn From Ashes
8.Again And Again … Until The End
9.Kingdom Of Vanity
10.Stay
11.We Have Failed

Line-up :
Guillaume – Vocals, Bass
Paul – Guitars
Gauthier – Guitars
Hugo – Drums

RIGHT TO THE VOID – Facebook

Aosoth – IV : An Arrow In Heart

Gli Aosoth hanno raggiunto uno status invidiabile grazie a una discografia costellata di album convincenti all’insegna di un black avanguardistico di non facile fruizione ma di grande profondità e consistenza.

E’ difficile, nel parlare di questo lavoro, potersi sottrarre all’obbligo di fare un cenno alla scena black francese, che di certo è, tra tutte, quella che nel complesso appare maggiormente proiettata verso il lato avanguardistico del genere.

Bastino nomi come Blut Aus Nord (anche se negli ultimi lavori la componente estrema è stata sensibilmente ridotta), Deathspell Omega, Merrimack, senza dimenticare Decline Of The I e Spektr, per intuire quali siano i contenuti all’interno di questo quarto full-length effettivo degli Aosoth. Rispetto ad alcune delle band citate, sicuramente la componente black appare predominante (la sperimentazione a pieno regime si trova solo nei due Broken Dialogue) ma è evidente, fin dalla notevole title-track posta in apertura, che di melodia nell’ora di musica proposta dai parigini se ne troverà poca ed spesso sopraffatta da un involucro sonoro non convenzionale. Il brano in questione mostra una band oggettivamente dalle grandi capacità e dalle idee molto chiare, nonostante un songwriting che tende più ad alienare l’ascoltatore che non a scuoterlo o a cullarlo; la difficoltà per chi si approccia a questa particolare variante del black è quella di mantenere alto il livello di attenzione perché i nostri, quando rallentano ingannevolmente l’andatura, lo fanno tramite partiture ossessive che paiono essere il preludio della fine salvo poi riesplodere repentinamente. Confesso che questo tipo di proposte inizialmente tendono a respingermi e, dopo qualche ascolto, parto deciso con l’idea di evidenziarne più i difetti che i pregi, ma qualcosa mi spinge a perpetuarne l’ascolto finché, alla fine, di aspetti realmente negativi da riportare ne restano ben pochi, mentre l’aura maligna che pervade ogni nota finisce per penetrare definitivamente sottopelle. Il disco si chiede così com’era iniziato, ovvero con un altro lungo e ipnotico brano, Ritual Marks Of Penitence in grado di lasciare definitivamente il segno, anche grazie a un bellissimo video che chiarisce, qualora ci fossero stati dubbi, quale sia il rapporto degli Aosoth con la religione tradizionale. IV – An Arrow In Heart è un’opera di sicuro valore per una band che, dopo un decennio di carriera, ha raggiunto uno status invidiabile grazie a una discografia costellata di album convincenti all’insegna di un black avanguardistico di non facile fruizione ma di grande profondità e consistenza.

Tracklist:
1. An Arrow in Heart
2. One With the Prince with a Thousand Enemies
3. Temple of Knowledge
4. Under the Nails and Fingertips
5. Broken Dialogue 1
6. Broken Dialogue 2
7. Ritual Marks of Penitence

Line-up :
MkM – Vocals
BST – All instruments
INRVI – Guitars

AOSOTH – Facebook

Black Capricorn – Born Under The Capricorn

Con i cagliaritani Black Capricorn il doom tricolore trova un’altra grande band, in grado di combattere ad armi pari con i magnifici Doomraiser.

Con i cagliaritani Black Capricorn il doom tricolore trova un’altra grande band, in grado di combattere ad armi pari con i magnifici Doomraiser.

Born Under The Capricorn è un disco dall’intensità sorprendente, nel quale oscurità, esoterismo, sonorità limacciose e incursioni psichedeliche si mescolano creando una perfetta alchimia. Il trittico iniziale, accomunato dalla presenza del Capricorno nel titolo di ogni brano, regala mezz’ora di musica di livello eccelso, fatta di riff potenti, spesso rallentati allo spasimo e atmosfere dall’elevato tasso lisergico, grazie ad un sapiente dosaggio della componente psichedelica. Peraltro, le tracce, pur essendo accomunate da tali caratteristiche, differiscono comunque tra loro: mentre Tropic Capricorn mostra diverse affinità stilistiche con “Erasing The Remenberance” dei già citati doomsters romani (la voce di Matteo, però, è più affine a quella di un Matt Pyke piuttosto che a quella di Nicola Rossi), Born Under The Capricorn si rivela come la vera summa dell’omonimo album racchiudendo nei suoi impressionanti sedici minuti tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un brano doom e, infine, Capricornia, con tanto di intro di launeddas (strumento a fiato tipico della Sardegna) è in grado di frantumare in via definitiva la fievole resistenza dell’usurato rachide cervicale degli appassionati di più antica militanza. Tutt’altro che trascurabili, comunque, anche i due brani di chiusura, Double Star Goatfish e Scream Of Pan, anche se leggermente meno intensi rispetto a quelli che li hanno preceduti: va detto che l‘ultima traccia si muove sorprendentemente su territori tali da trasformare i Black Capricorn in una versione ultradoom degli Alice In Chains, una combinazione ideale per chi, come il sottoscritto, ha vissuto in tempo reale i fasti della formidabile band di Seattle. Born Under The Capricorn è un disco che chiunque si definisca appassionato di doom deve far proprio ascoltandolo fino alla consunzione; c’è da augurarsi, quindi, che la band sarda decida di rimettersi in viaggio (pur con tutte le problematiche logistiche che possiamo ben immaginare) per presentare dal vivo questo magnifico lavoro.

Tracklist:
1. Tropic Capricorn
2. Born Under the Capricorn
3. Capricornia
4. Double Star Goatfish
5. Scream of Pan

Line-up :
Matteo – Vocals, Synths
Andrea – Guitar (lead)
Fabrizio – Guitar (rhythm)
Virginia – Bass
Rachela – Drums

BLACK CAPRICORN – Facebook

The Howling Void – Runa

Dopo tre dischi nel segno di un funeral doom dai tratti atmosferici, i The Howling Void decidono di esplorare nuove strade con il chiaro intento di ritrovare un ulteriore impulso dopo il poco convincente full-length risalente allo scorso autunno.

Nell’esaminare The Womb Beyond the World, infatti, non si poteva fare a meno di notare che la creatività di Ryan (unico titolare del progetto) sembrava essersi progressivamente affievolita e, per assurdo, l’aver pubblicato un esordio di indiscutibile valore come “Megaliths Of The Abyss” pareva aver provocato nel musicista statunitense l’ansia di non riuscire più ad esprimersi a quei livelli. Il recente disco uscito per la Solitude era formalmente impeccabile, ma incapace di trasmettere emozioni all’ascoltatore, difetto tutt’altro che marginale per un genere fondato sul pathos come il funeral doom. Per fortuna, però, quella che era apparsa come un’irreversibile stasi creativa è stata smentita dal contenuto di questo breve Ep, fatto di due sole tracce per poco più di un quarto d’ora di durata, sufficienti però per mostrare la ritrovata vena di Ryan, nonché la sua ammirevole onestà nel rifiutare l’appiattimento su standard compositivi confortevoli ma privi di alcun tipo di sbocco. Certo, il cambio di rotta è netto quanto sorprendente, se pensiamo che, ascoltando Irminsûl e Nine Nights, il primo accostamento che viene in mente è quello con i Moonsorrow: è pacifico, però, che il retaggio doom dei The Howling Void non viene meno e che l’elemento folk inserito in tale contesto possiede, comunque, uno sviluppo diverso rispetto a quello dei maestri finnici, nei quali la base estrema è invece riconducibile al black metal. La scelta di Ryan implica, dunque, la rinuncia totale al growl, rimpiazzato da clean vocals sufficientemente evocative, ma soprattutto il recupero di una vena melodica sacrificata nell’ultima uscita a scapito di interlocutori passaggi di stampo ambient. Tutto questo non può che essere salutato con favore da chi, solo quattro anni fa, aveva individuato The Howling Void come uno dei nomi emergenti della scena doom; infatti, è tutto sommato lecito pensare che questo cambio di rotta non verrà considerato come un’abiura delle proprie radici, visto che le caratteristiche peculiari del sound non vengono del tutto meno, pur se veicolate in maniera differente. Bene così, dunque, per il bravo Ryan; con queste premesse il prossimo full-length potrebbe rilanciare in maniera definitiva le quotazioni del suo progetto.

Tracklist :
1. Irminsûl
2. Nine Nights

Line-up : Ryan – All Instruments, Vocals

THE HOWLING VOID – Facebook

Officium Triste – Mors Viri

La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom

Avevamo lasciato gli Officium Triste qualche mese fa alle prese con “Immersed”, split album condiviso con i tedeschi Ophis, che aveva una volta di più esibito la fedeltà della storica band olandese al death-doom più ortodosso.

Mors Viri conferma pienamente quanto sopra, ma ciò che colpisce favorevolmente è la qualità elevata della proposta, aspetto preponderante in un contesto dove spazio per inventarsi qualcosa, oggettivamente, ce n’è ben poco. La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom: questo è bastato e avanzato per fare degli Officium Triste una delle realtà europee più amate dagli appassionati del genere, e pazienza se talvolta certa critica “avanguardista” si sia mostrata ingenerosa nei loro confronti. Mors Viri dovrebbe far ricredere anche i più scettici, mostrando una band nel pieno della propria maturità e in grado di sciorinare tre quarti d’ora abbondanti di musica priva di cedimenti, che esibisce il meglio in apertura e chiusura del lavoro: infatti, sia Your Fall From Grace che Like Atlas vanno annoverati di diritto tra i migliori brani mai composti dai doomsters di Rotterdam. Non che tutto ciò che sta nel mezzo sia trascurabile: Burning All Boats And Bridges si segnala per un finale dalle dolenti cadenze funeral, To The Gallows si snoda sulle tracce di “My Charcoal Heart”, uno dei brani storici dei nostri, con il quale ha in comune l’efficace ricorso alle clean vocals; Your Heaven, My Underworld costituisce l’unico episodio che esula, almeno in parte, dal consueto canovaccio compositivo, grazie a melodie sicuramente di fruizione più immediata ed un mood neppure troppo oscuro, se raffrontato al resto del disco. The Wounded And The Dying, al contrario, pur essendo comunque un brano più dinamico e ritmato in alcune sue parti, si inserisce nei tipici canoni stilistici della band olandese, mentre One With The Sea è l’immancabile brano che fa leva sull’aspetto emozionale, abbinando il recitato a un tenue tappeto pianistico. Le malinconiche note di Like Atlas chiudono in maniera esemplare un lavoro davvero inattaccabile; del resto dagli Officium Triste costituiscono lo zoccolo duro del death-doom e dimostrano come la coerenza, la competenza e la genuina passione per il genere proposto siano, sempre e comunque, sinonimo di qualità.

Tracklist :
1. Your Fall from Grace
2. Burning All Boats and Bridges
3. Your Heaven, My Underworld
4. Interludium 0
5. To The Gallows
6. The Wounded and the Dying
7. One with the Sea (Part II)
8. Like Atlas

Line-up :
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard de Jong – Guitars
Pim Blankenstein – Vocals
Lawrence Meyer – Bass
Bram Bijlhout – Guitars
Niels Jordaan – Drums

OFFICIUM TRISTE – Facebook

Zgard – Astral Glow

Zgard è un progetto pagan black metal del prolifico musicista ucraino Yaromisl, che con Astral Glow giunge al terzo disco in poco più di un anno.

Ammetto subito di non essere in possesso di elementi sufficienti per poter fare un raffronto attendibile con le opere precedenti, di certo però, Astral Glow si rivela un lavoro sorprendente per maturità compositiva e per la carica evocativa che sprigiona da ogni nota.

La musica degli Zgard si muove su un’ideale di linea di contatto tra i Moonsorrow ed i Negura Bunget/Dordeduh: con questi ultimi il polistrumentista ucraino condivide non solo l’amore per sonorità folk affidate ad un uso particolare del flauto, ma anche per la natura incontaminata dei Carpazi (in un’epoca che disdegna l’insegnamento della geografia, è bene ricordare come, nel suo sviluppo, la catena montuosa attraversi sia l’Ucraina sia la Romania). I ritmi proposti sono impostati su dei mid-tempo nei quali la chitarra ricerca sovente linee malinconiche, talvolta accompagnate da solenni momenti corali (Stars in the Night Sky), ma anche quando la velocità aumenta non viene mai meno la componente bucolica, ottimamente rappresentata, come detto, dal flauto suonato da Hutsul. Il disco offre il suo meglio probabilmente nella parte iniziale, nella quale spiccano due gioielli come l’opener Balance In Universe e l’altrettanto lunga ed emozionante Letargy Dream, ma va detto che una lieve perdita di intensità nel complesso di un lavoro della durata di circa settanta minuti si può considerare un peccato veniale. Intendiamoci, gli Zgard non raggiungono le vette compositive pressoché inarrivabili dei maestri finnici e la loro musica appare meno intrisa dell’alone di spiritualità che contraddistingue le band di Hupogrammos e Sol Faur, ma proprio la sua maggiore immediatezza rende Astral Glow un lavoro piacevole da ascoltare, anche ripetutamente. Promozione a pieni voti, quindi, per la creatura di Yaromisl e, considerando il suo ritmo di un full-length ogni sei mesi, è lecito attendersi in tempi brevi ulteriori e stimolanti novità.

Tracklist :
1. Balance in Universe
2. When Breakin Down All the Ideals
3. Letargy Dream
4. Stars in the Night Sky
5. Old Woods
6. Astral Glow
7. Return to the Void
8. When Time Comes to Go Away

Line-up : Yaromisl – Guitars, Vocals, Keyboards, Mouth Harp, Programming, Lyrics

Hutsul – Flute

ZGARD – pagina Facebook

Carved – Dies Irae

L’interessante uso delle tastiere e la voglia di non appiattirsi su modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che mette a frutto l’intensa attività live svolta dai Carved a supporto di nomi prestigiosi della scena metal italiana.

Interessante il potenziale esibito dagli spezzini Carved con questo loro esordio su lunga distanza.

Il death melodico proposto dai nostri, infatti, differisce senza dubbio dagli schemi consueti e, pur condividendone la catalogazione di sottogenere e la data di pubblicazione del disco, per esempio, non hanno neppure troppi punti in comune con i compagni d’etichetta Kruna.
In effetti, come accade, sia pure con modalità diverse, alla band friulana, tutto sommato anche i Carved aderiscono solo a tratti agli stilemi classici della scuola svedese, prendendo come possibile riferimento, specialmente nei brani più sinfonici, i Dark Lunacy, pur mostrando rispetto a questi una ridotta componente orchestrale; azzarderei anche, per attitudine e varietà compositiva, una certa affinità con i primi due lavori dei tedeschi Pyogenesis, usciti a metà degli anni ’90.
Dies Irae si snoda pertanto in maniera snella alternando, nei suoi quaranta minuti scarsi, brani dalla notevole forza evocativa, quali Echo Of My Cinderella, The Perfect Storm e Black Lily Of Chaos, ad altri episodi più diretti ma non privi di azzeccati inserti melodici (Enter The Silence, Scripta Manent, Ashes Of A Scar).
Un interessante uso delle tastiere e la voglia di non omologarsi più di tanto a modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che, peraltro, mette a frutto l’intensa attività live svolta a supporto di nomi prestigiosi (uno su tutti, i corregionali Necrodeath), anche perché questo pare essere solo il primo passo di un percorso che potrebbe riservare alla band ligure non poche soddisfazioni.

Tracklist :
1. Dies Irae (Praeludium)
2. Echo of My Cinderella (The Final Symphony)
3. Enter the Silence
4. Scripta Manent (Bullshit)
5. The Perfect Storm
6. At the Gates of Ice
7. Ashes of a Scar 0
8. Black Lily of Chaos
9. A New World (Postludium)

Line-up :
Nicola Paganini – Bass
Francesco Daniele – Drums
Alessio Rossano – Guitars
Alessandro Ferrari – Guitars
Mattia Nuti – Keyboards
Cristian Guzzon – Vocals

CARVED – Facebook

childthemewp.com