DGM – Momentum

Dopo uno, cinque, dieci ascolti di “Momentum”, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”.

Dopo uno, cinque, dieci ascolti di Momentum, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”.

Considerate le prove non sempre esaltanti messe in scena negli ultimi anni da alcune delle band citate, non sarebbe male che, almeno gli appassionati italiani, volgessero con maggiore attenzione lo sguardo alla più vicina “città eterna” invece che oltreoceano o verso le fredde lande nordeuropee.
Se è vero che il suono della band laziale è oggettivamente accostabile ai Symphony X , va anche rimarcato il fatto che qui non si sta parlando di epigoni dell’ultima ora dato che entrambi i gruppi si sono formati attorno alla metà degli anni novanta.
La presenza di Russell Allen nella traccia d’apertura Reason è una dimostrazione della comunione d’intenti tra le due band e, nel caso specifico, il contributo dell’illustre ospite è senz’altro pregevole, ma il fatto stesso che non spicchi più di tanto dimostra anche l’enorme qualità della prestazione vocale offerta da Mark Basile in quest’album.
In Momentum viene messo in scena il repertorio ideale di una band che suona prog metal: un caleidoscopio di fughe tastieristiche e delicati passaggi pianistici (Emanuele Casali), riff rocciosi e assoli dal grande impatto melodico (Simone Mularoni, noto ai più anche come rinomato producer), con il valore aggiunto di una base ritmica perfetta (Andrea Arcangeli e Fabio Costantino) e, come detto, un cantante che non mostra un solo attimo di cedimento.
Non resta che godersi senza alcuna remora questo magnifico disco, che si snoda tra accelerazioni irreali (per la tecnica esibita) e passaggi più orecchiabili che, solo in occasione di Repay sfociano in un formato simil-ballad; forzando un pò la mano con i paragoni, si potrebbe affermare che i DGM si collocano in perfetto equilibrio, a metà strada tra le spigolosità metalliche dei Symphony X ed il gusto melodico della prima prova solista di Allen in coppia con l’altro “mostro” Jorn Lande (“The Battle”), insediandosi in un territorio nel quale la band romana mostra d’avere ben pochi rivali.
Considerando che l’uscita di Momentum coincide con un altro eccellente esempio di prog metal, come l’album degli Odd Dimension, la Scarlet esibisce in un colpo solo un’invidiabile coppia d’assi; speriamo solo che la crisi economica che continua a mortificare i nostri portafogli non costringa qualcuno a dover fare una scelta dolorosa, sacrificando in ogni caso dei lavori che, per la qualità esibita, non meritano davvero d’essere accantonati, fosse anche solo momentaneamente.

Track-list :
1. Reason
2. Trust
3. Universe
4. Numb
5. Pages
6. Repay
7. Chaos
8. Remembrance
9. Overload
10. Void
11. Blame

Line-up :
Mark Basile – Vocals
Fabio Constantino – Drums
Andrea Arcangeli – Bass
Simone Mularoni – Guitars
Emanuele Casali – Keyboards

DGM – Facebook

Worstenemy – Revelation

I Worstenemy, in questa prima uscita su lunga distanza, hanno sicuramente sfruttato al meglio l’esperienza e le influenze accumulate in oltre un decennio di attività, anche per questo è lecito attendersi in tempi più brevi una conferma della bontà della loro proposta.

I sardi Worstenemy hanno alle spalle una storia piuttosto lunga, iniziata addirittura nel secolo scorso sia pure con un diverso monicker, ma solo dopo oltre quindici anni giungono finalmente alla realizzazione del loro primo full-length.

Se i tempi necessari per arrivare a questo fatidico passo sono stati oggettivamente un po’ lunghi, bisogna anche dire che il risultato vale in tutto e per tutto l’attesa: Revelation è un disco di death metal di grande valore, radicato nel solco della tradizione estrema del genere e, quindi, più orientato al versante brutal che non a quello melodico. Il trio proveniente da Oristano ci regala un lavoro di grande sostanza, nel quale ogni nota ha una sua precisa funzione e nessuno spazio viene concesso ad inutili orpelli stilistici. Mario Pulisci è il motore della band, essendo autore sia del growl efferato volto a dilaniare le viscere dell’ascoltatore, sia dei macigni che vengono rovesciati sul suddetto malcapitato sotto forma di riff densi e distruttivi come una colata lavica; la base ritmica, precisa d essenziale è ad opera del batterista Andrea Fodde e della bassista Elena Zoccheddu. Senza voler scomodare i grandi nomi, Revelation ha tutte le carte in regola per divenire anche un prodotto da esportazione, non avendo, appunto, alcunché da invidiare a produzioni straniere ben più reclamizzate; va sottolineato che qui non si ci si limita ad una semplice e monolitica aggressione sonora, la band sarda quando vuole alzare il piede dall’acceleratore lo fa sempre con cognizione di causa mostrando una tecnica di prim’ordine, come accade in Karnak (nome della prima incarnazione del band) ed in War Of Hate . I Worstenemy, in questa prima uscita su lunga distanza, hanno sicuramente sfruttato l’esperienza e le influenze accumulate in oltre un decennio di attività, anche per questo è lecito attendersi in tempi più brevi una conferma della bontà della loro proposta; per ora godiamoci questo splendido lavoro che ogni vero appassionato del death più genuino non può e non deve ignorare.

Tracklist :
1. V.I.T.R.I.O.L.
2. Revelation
3. Arms of Kali
4. Strange Life
5. The Fallen
6. Karnak
7. The Redeemer Is a Liar
8. War of Hate
9. Black Storm
10. New Enemy

Line-up :
Elena Zoccheddu – Bass
Andrea Fodde – Drums
Mario Pulisci – Vocals, Guitars

WORSTENEMY – Facebook

 

Who Dies In Siberian Slush – We Have Been Dead Since Long Ago

Secondo uscita su lunga distanza per i moscoviti Who Dies In Siberian Slush, dopo il buon esordio “Bitterness Of The Years That Are Lost” datato 2010.

Il nuovo parto della band guidata da E.S. (Evander Sinque) si colloca nella scia del suo predecessore senza rappresentarne, di fatto, un’evoluzione vera e propria: We Have Been Dead Since Long Ago è il classico nero monolite dalle sembianze funeral death doom che, volendo fornire un indirizzo di massima a chi intenda approcciarlo, si colloca più sulla scia dei tedeschi Worship che non su quelle dei concittadini Comatose Vigil o Abstract Spirit.

Infatti, non aspettatevi le dolenti aperture melodiche caratteristiche del funeral doom russo, visto che i WDISS badano maggiormente ad un impatto di matrice death, accentuato dalla rinuncia all’uso delle tastiere. Non per questo il lavoro è trascurabile, brani lunghi e avvolgenti come, per esempio, In A Jar e The Spring possiedono più di un momento degno di nota, ma ciò avviene, guarda caso, proprio quanto le chitarre tracciano linee melodiche che spiccano proprio perché normalmente sacrificate all’interno del disco a favore di riff più rocciosi. Come detto, We Have Been Dead Since Long Ago paga forse il confronto con il suo predecessore che, senza dubbio, aveva dalla sua una superiore freschezza compositiva, oltre a una maggiore linearità di fondo. Discorso a parte lo merita un brano come Funeral March n°14, sicuramente affascinante pure nel suo incedere grottesco, ma oggettivamente un pò fuori contesto a livello stilistico; provate a immaginare una banda che, nell’accompagnare il defunto nel corso del suo ultimo viaggio, suoni una marcia funebre come se fosse un brano funeral doom: esperimento apprezzabile ma solo parzialmente riuscito Complessivamente questo lavoro merita senz’altro l’attenzione da parte degli appassionati delle frange più estreme del doom, ma la sensazione che resta è quella di un’opera incompiuta, dove passaggi di grande impatto emotivo si confondono con altri più manieristici. L’impressione finale è quindi, quella di un disco di passaggio: gli Who Dies In Siberian Slush hanno le potenzialità per fare molto meglio e non ho dubbi che ci riusciranno in futuro; per ora solo una sufficienza piena, ma con la certezza che si può fare senz’altro meglio di così.

Tracklist:
1. The Day of Marvin Heemeyer
2. Refinement of the Mould
3. In a Jar
4. The Spring
5. Funeral March №14
6. Of Immortality

Line-up:
E.S. – Guitars, Vocals
Flint – Guitars (lead)
A.S. – Drums
Tragisk – Bass

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Aylwin / Zinvmm – Aylwin / Zinvmm

Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.

Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.

Gli Aylwin sono un duo californiano dedito ad un post-black atmosferico che si colloca sulla scia degli Wolves in The Throne Room: dopo un intro ambientale, Hymns mostra subito sonorità interessanti e avvolgenti, con un bel tema melodico violentato dalla doppia cassa e dal consueto screaming sgraziato ma efficace, mentre Hymns II esordisce sconfinando in territori depressive per poi riacquistare un ritmo parossistico nella sua fase centrale e sfumare in un finale di stampo ambientale. Hymns III non modifica in maniera sensibile le coordinate sonore e chiude in maniera positiva la parte dedicata alla band statunitense che, seppure parzialmente penalizzata da una registrazione rivedibile, mostra potenzialità assolutamente da non sottovalutare.
La one-man band spagnola Zinvmm occupa gli ultimi tredici minuti dello split album con una sola traccia, Beith, che ci trasporta verso sonorità di tipo ambient folk dal sapore ancestrale. Nonostante venga naturale il riferimento a realtà quali Burzum et similia, la componente mediterranea del sound prende piacevolmente il sopravvento anche grazie all’uso di una strumentazione non convenzionale ma sempre appropriata.
Split interessante, dunque, e due nomi da tenere senz’altro sotto osservazione.

Tracklist:
1. Aylwin – The imaged engraved (intro)
2. Aylwin – Hymns
3. Aylwin – Hymns II
4. Aylwin – Remain in trance (Evening Ritual)
5. Aylwin – Hymns III
6. Zinvmm – Beith

AYLWIN – Facebook
ZINVUMM – Facebook

Infinite Translation – Masked Reality

Quaranta minuti di rara intensità che spiccano decisamente in un panorama nel quale la recente riscoperta e rivalutazione del thrash fornisce talvolta risultati asfittici e oggettivamente sopravvalutati.

Scrivere una recensione per dischi come quello degli Infinite Translation è un compito dannatamente facile e tremendamente complesso allo stesso tempo: facile, quando la musica che si sta ascoltando piace e le parole sgorgano dalla penna (o per meglio dire dalla tastiera) in maniera spontanea; complesso, se è praticamente impossibile non ribadire considerazioni esposte inevitabilmente in precedenza già da qualcun altro.

Perchè, diciamoci chiaramente come stanno le cose, un album come Masked Reality l’abbiamo già sentito decine di volte in passato, con titolo e monicker diversi stampati sulla copertina, ma inspiegabilmente (o forse no …) continua a piacerci in ogni occasione come se fosse la prima.
Il thrash metal dei francesi Infinite Translation è saldamente ancorato alla tradizione, ma ciò non impedisce alla band di Lille di risultare ugualmente fresca e attuale; se si evita di cercare a tutti i costi l’originalità dove, oggettivamente, non se ne sente neppure la necessità e si prova, invece, a concentrare l’attenzione in maniera oggettiva sul risultato finale, non si possono che trarre giudizi esclusivamente positivi.
Fin dall’opener Malicious Mental Oppression il treno impazzito guidato da Max Maniac travolge tutto e tutti senza lesinare una stilla di energia; brani dall’impatto devastante si susseguono senza soluzione di continuità nel solco tracciato da Exodus, Nuclear Assault, Destruction e co., mettendo a serio repentaglio l’ormai usurato rachide cervicale di chi scrive.
Nel solco della tradizione del genere troviamo anche la denuncia contro le storture della società contemporanea, ben rappresentata da una classica copertina raffigurante in primo piano un volto che, per quanto reso ancor più grottesco nelle sue fattezze, assomiglia in maniera evidente al ben noto Joseph Ratzinger, mentre le pecore dalle fattezze umane collocate sullo sfondo non è difficile immaginare a chi si riferiscano …
Quaranta minuti di rara intensità che spiccano decisamente in un panorama nel quale la recente riscoperta e rivalutazione del thrash fornisce talvolta risultati asfittici e oggettivamente sopravvalutati.

Tracklist :
1. Malicious Mental Oppression
2. Destined to Death
3. Join the Masses
4. Killing Sollution
5. I’ll Love You Dead
6. Lead to Madness
7. Life of Submission
8. The Boat Can Leave Now
9. Masked Reality

Line-up :
Jon Whiplash – Bass, Backing Vocals
Fish Killer – Drums
Max Maniac – Lead Guitars, Vocals
Guillautine – Rhythm Guitars, Backing Vocals

INFINITE TRANSLATION – Facebook

Mental Torment – Mental Torment

Un growl efficace e un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di “On The Verge …” un disco riuscito e convincente.

Un’altra band ucraina si affaccia alla ribalta della scena doom-death sotto l’egida della Solitude e, come avvenuto di recente per i connazionali quali Embrace Of Silence e Narrow House, la cosa non può che essere salutata con piacere.

Purtroppo non è stato possibile raccogliere informazioni più dettagliate sui Mental Torment, lasciamo quindi che sia la musica contenuta in On The Verge … a descriverne le caratteristiche salienti.
Maelstrom e My Torment, i primi due veri brani dopo la breve intro, mostrano un songwriting creativo, sempre alla ricerca di atmosfere oscure e malinconiche senza indugiare troppo in passaggi interlocutori che, spesso, chi ha poco o nulla da dire tende ad aggiungere con l’unico intento di allungare a dismisura il brodo.
Un growl efficace ed un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di On The Verge … un disco riuscito e convincente.
Sento già qualche vocina sullo sfondo lamentarsi della poca originalità della proposta della band di Kiev, ma l’unica risposta possibile è questa: se qualcuno dimostra la capacità di creare composizioni in grado di emozionare e soddisfare chi ama questo genere non va certamente stigmatizzato perché altri sono riusciti prima in questo intento, piuttosto andrebbe solo incoraggiato e ringraziato per questo.
Cold Rusted Flame e Tragedy sono altri due episodi splendidi che si inseriscono nel solco tracciato dagli Officium Triste (come giustamente suggerisce la scarna bio in mio possesso), mentre sono meno d’accordo sull’accostamento con Mourning Beloveth e, soprattutto, Saturnus ma citerei invece, come ulteriore e più probabile affinità, i Frailty dello splendido “Melpomene”.
On The Verge … è un altro buonissimo esempio di death-doom, eseguito con gusto e competenza, proveniente dalle fredde ma prolifiche lande dell’estremo est europeo.

Tracklist :
1. The Path To Shining (intro)
2. Maelstrom
3. My Torment
4. Unspoken Word
5. Cold Rusted Flame
6. I See This End
7. Tragedy
8. The Drowned Man

Xenosis – Of Chaos And Turmoil

Se da una parte è lecito apprezzare dischi che traggono la loro forza dall’integrità stilistica, dall’altra non si può fare a meno di lodare ed incoraggiare chi non si pone troppi limiti compositivi, provando ad abbattere i confini, spesso eretti in maniera artificiosa, tra i diversi generi musicali.

Notevole prova di forza da parte degli esordienti Xenosis, giovane band britannica in forza alla label nostrana Wormholedeath, tramite la proposta di un progressive death che tiene fede all’etichetta in virtù di continui cambi di tempo e di atmosfera nel corso di tutta la durata di Of Chaos And Turmoil, senza perdere mai di vista la componente estrema del sound.

La title-track e la successiva Building Seven, poste in apertura, delineano in maniera chiara quali siano le caratteristiche del combo della Cornovaglia: innumerevoli variazioni sul tema, quasi mai fine a se stesse, inserite in maniera appropriata all’interno di un tessuto sonoro costruito su un riffing violento ma cangiante e contrassegnato dall’ottimo growl di Ryan Denning, il quale si lascia andare di rado a passaggi puliti, per lo più recitati.
In diversi frangenti emergono alcune assonanze con il lato più aggressivo e sperimentale dei Mudvayne del terremotante disco d’esordio, per l’uso decisamente fuori dagli schemi consueti del basso e della base ritmica, oltre che per la timbrica vocale di Ryan talvolta molto simile a quella di Chad Gray; in altri momenti vengono esibite le naturali influenze provenienti sia dalla scuola death d’oltremanica, sia dalla componente più tecnica del genere, con i Death quale inevitabile punto di riferimento.
Si potrebbe pensare, quindi, che il tentativo di convogliare tutti questi aspetti abbia dato come frutto un prodotto difficilmente digeribile ma, per fortuna, non è così: i quattro dimostrano d’avere le idee molto chiare in ogni frangente, supportati da un tecnica individuale all’altezza del compito; la varietà stilistica diventa così un valore aggiunto, piuttosto che un ostacolo, nel favorire l’accessibilità di un disco solo apparentemente ostico.
Chiaramente, il rischio per i Xenosis è quello di risultare troppo cervellotici per gli appassionati del death più canonico e troppo brutali per chi ama le atmosfere più soffuse e raffinate del prog ma, del resto, se da una parte è lecito apprezzare dischi che traggono la loro forza dall’integrità stilistica, dall’altra non si può fare a meno di lodare ed incoraggiare chi non si pone troppi limiti compositivi, provando ad abbattere i confini, spesso eretti in maniera artificiosa, tra i diversi generi musicali.
Un ottimo lavoro che, come è intuibile, si renderà ancora più apprezzabile dopo ripetuti ascolti.

Tracklist :
1. Of Chaos & Turmoil
2. Building Seven
3. Homeland Insanity
4. Soulless Army
5. All Seeing Eye
6. Bromance
7. I Am Caesar
8. Abyssuss
9. Nature Erased
10. Bilderberger King

Line-up :
Ryan Denning – Bass & Vocals
Dean Slaney – Guitars
Jules Maas-Palmer – Guitars
Ross Mitchell – Drums

XENOSIS – pagina Facebook

Dreariness – My Mind Is Too Weak To Forget

Il “depressive-blackgaze” proposto dai Dreariness si dipana in maniera naturale mantenendo sempre viva la tensione emotiva.

A pochi mesi dall’uscita dell’ottimo “Fade Away Gradually, My Hope …” dei Misere Nobis, ritroviamo Gris e Torpr alle prese con un nuovo progetto denominato Dreariness.

I nostri non si appiattiscono sulle posizioni della band madre ma presentano, con Mind Is Too Weak To Forget, un intrigante mix tra sonorità depressive, post-rock e shoegaze; provate a sottrarre agli Alcest le loro atmosfere più sognanti facendoli piombare in una sorta di incubo senza possibilità di risveglio, sostituendo la voce cantilenante di Neige con lo screaming disperato e lancinante della vocalist Tenebra: questa, approssimativamente, è la descrizione di ciò che ci si deve attendere da questo lavoro dei Dreariness.
Sicuramente l’uso della voce in questo disco costituirà per alcuni una sorta di linea di confine: ci sarà chi apprezzerà il contenuto musicale ma non riuscirà probabilmente ad accettare un’interpretazione dello screaming di matrice depressive ancor più estremo del solito; al contrario, chi proverà a superare questa barriera troverà come meritato premio la possibilità di assaporare pienamente le atmosfere emozionanti di Mind Is Too Weak To Forget.
Essendo quest’ultimo il mio caso, posso confermare che la prestazione di Tenebra è davvero eccellente per la sua efficacia nel veicolare in maniera adeguata il dolore e il senso di disagio esistenziale racchiuso nei testi e nei suoni condivisi con i propri compagni d’avventura.
Come detto il connubio di atmosfere, al quale si può attribuire l’etichetta di “depressive-blackgaze”, avviene in maniera naturale, tanto che l’intero lavoro pare non risentire neppure di una durata considerevole (oltre un’ora), mantenendo sempre viva la tensione emotiva che trova, peraltro, una delle sue massime espressioni proprio nella lunga title-track posta in chiusura.
Insomma, benché l’ascolto di Mind Is Too Weak To Forget si riveli tutt’altro che una passeggiata, con l’esaurirsi delle sue ultime note, il primo impulso che giunge è quello di immergersi nuovamente in queste atmosfere affascinanti e disturbanti allo stesso tempo, dimostrando l’indubbio valore di questo ottimo album.

Track-list :
1. Reminiscences
2. Coming Home
3. My Last Goodbye
4. Madness
5. Dysmorphophobia
6. Lost
7. One Last Wish
8. My Mind Is Too Weak To Forget

Line-up :
Tenebra – Vocals
Gris – Guitars, Bass, Keys
Torpor – Drums

DREARINESS – Facebook

Inner Sanctvm – Christi Testamenta

Nel complesso questo è un disco che, oltre a non deludere chi ama questo tipo di sonorità, si rivela di gran lunga superiore a certi lavori pretenziosi ma di relativa qualità e di ancor più dubbia genuinità pubblicati ultimamente.

Gli uruguayani Inner Sanctvm hanno una storia quantomeno particolare: intanto per la provenienza geografica, considerando che la “Republica Oriental” non è certo uno dei paesi sudamericani maggiormente prolifici in campo metal, poi il fatto piuttosto inusuale che Christi Testamenta, il loro secondo full-length, arriva dopo “soli” diciotto anni dall’esordio intitolato “Frozen Souls”.

Nonostante gli ottimi responsi ottenuti dal disco e la conseguente acquisizione di una buona popolarità nel proprio continente, gli Inner Sanctvm non sopravvissero alle tensioni interne che portarono il fondatore Heber W.Hammer ad abbandonare la band decretandone, di fatto, quella che pareva esserne la fine.
Lo stesso Heber, dopo un altro tentativo fallito di riportare in auge la propria creatura, pare aver trovato la quadratura del cerchio andando a pescare altri musicisti sudamericani sparsi un pò ovunque nel mondo, a partire dal batterista originario Alvaro Garcia, che oggi vive a Perugia, per arrivare ai cileni Francisco Martin, bassista in forza agli svedesi The Gardnerz e Anton Reisegger, qui alle prese dietro il microfono ma attivo come chitarrista nel supergruppo estremo Lock Up.
La tenacia di Heber è stata senz’altro premiata, a giudicare dal risultato che ne è scaturito: infatti, anche se paradossalmente il sound dei nostri sembra essere rimasto fedele ai dettami stilistici di quel lontano 1994, la genuinità e l’ intensità sprigionata dal quartetto scongiura il pericolo di derubricare Christi Testamenta come un banale riciclaggio di idee.
Questo disco si rivela un perfetto esempio di come si possano omaggiare in maniera competente le proprie radici musicali, che sono rinvenibili in maniera piuttosto evidente nei primi Celtic Frost e gli stessi Venom; la voce ruvida, sgraziata, eppure dannatamente efficace di Anton declama testi di argomento religioso su un tappeto sonoro che miscela con encomiabile misura death, thrash e doom, regalandoci tre quarti d’ora di musica trascinante.
Una serie di brani ottimi, che sicuramente non spiccheranno per la loro originalità, ma in grado comunque di tenere inchiodato l’ascoltatore in virtù di un songwriting lineare e con un Heber capace di inanellare con continuità riff davvero coinvolgenti; la ciliegina sulla torta sono le due cover, una decisamente più canonica come Return To The Eve (Celtic Frost), l’altra invece più inusuale, anche se strettamente connessa alle tematiche trattate nel disco, ovvero Heaven On Their Minds tratta da “Jesus Christ Superstar”.
Qui Giuda non possiede la voce “nera” ed elegante del compianto Carl Anderson ma, tramite il ringhio di Anton, esprime se possibile ancora meglio la rabbia e il risentimento del personaggio nella rappresentazione scenica; per quanto mi riguarda ciò è quello che si dovrebbe intendere per cover: non una riproposizione fedele ma, per quanto ben eseguita, piuttosto sterile, quanto penetrare l’anima del brano originale piegandola al proprio stile e alle proprie peculiarità.
Nel complesso questo è un disco che, oltre a non deludere chi ama questo tipo di sonorità, si rivela di gran lunga superiore a certi lavori pretenziosi ma di relativa qualità e di ancor più dubbia genuinità pubblicati ultimamente.

Tracklist :
1. Machines
2. Hemoglobin
3. Waking the Dead
4. The Emperor Wears No Clothes
5. Trial by Fire
6. The Good Shepherd
7. Myths of Creation
8. Wisdom’s Call
9. Dark Frozen Mud
10. And the Truth Shall Make You Free
11. Return to the Eve (Celtic Frost cover)
12. Heaven on Their Minds (From the OST Jesus Christ Superstar)

Line-up :
Francisco Martin – Bass
Anton Reisenegger – Vocals
Heber Hammer – Guitars
Alvaro Garcia – Drums

INNER SANCTVM – pagina Facebook

The Magik Way – Materia Occulta (1997-1999)

Materia Occulta si rivela una riscoperta non solo utile ma fondamentale per completare il quadro del versante più occulto e spirituale della musica, sviluppato in maniera particolare all’interno dei nostri confini.

Alla fine degli anni ’90 alcuni componenti dei Mortuary Drape decisero di dare vita a un progetto denominato The Magik Way, tramite il quale poter esplorare ancora più a fondo, se possibile, il lato rituale ed esoterico della musica.

A tredici anni dall’interruzione dell’attività, la Sad Sun Music pubblica questo disco che raccoglie due promo, l’omonimo del 1997 e Cosmocaos di due anni dopo, operazione, questa, che merita un sentito plauso per aver sottratto a un probabile oblio il materiale contenuto in questa raccolta. I primi quattro brani , tratti da The Magik Way, mostrano un sound ancora debitore degli stilemi black della band di provenienza facendo però intravedere, attraverso l’inserimento di samples e passaggi di stampo ambient, la voglia di sperimentare nuove vie stilistiche che troverà il suo compimento in Cosmocaos, le cui tredici tracce sono intrise di atmosfere di difficile assimilazione ma non per questo meno affascinanti. I Signori del Caos introduce questa sorta di lungo rituale nel quale vengono convogliati in maniera competente e personale gli influssi di tutti quegli artisti che hanno dato sfogo alla propria creatività nel segno della sperimentazione musicale e concettuale; se questa traccia, infatti, con le sue atmosfere malinconiche accompagnate da vocalizzi femminili richiama alla mente l’opera di Malleus, nella successiva Le Maschere di Pietra aleggia inquietante il fantasma di Mr.Doctor e dei suoi Devil Doll, avvicinabili per l’uso del pianoforte e per la teatralità della voce maschile utilizzata. In effetti l’intero lavoro assorbe e rielabora influenze nobili seppure non sempre così vicine tra loro, ne è esempio la schizofrenica Lupenare, con una chitarra di stampo progressive che ne marchia la prima parte nel segno di realtà seminali quali Antonius Rex/Jacula per poi esplodere in un finale di stampo sinfonico/apocalittico degno dei primi Elend. Il valore intrinseco di questa raccolta risiede indubbiamente nella freschezza della proposta che, forse anche in virtù della sua carica evocativa, non fa apparire affatto datati i brani in essa contenuti. Chiaramente qualche imperfezione affiora ugualmente nel corso dell’ascolto, per esempio la voce femminile mostra qualche pecca in tracce come La Quiete o Mantramime dove, in un contesto riconducibile a un nome pesante come i Dead Can Dance, l’ipotetico confronto con una Lisa Gerrard potrebbe apparire impietoso. Ma al di là di sporadici peccati veniali, Materia Occulta si rivela una riscoperta non solo utile ma fondamentale per completare il quadro del versante più occulto e spirituale della musica, sviluppato in maniera particolare all’interno dei nostri confini.

Track-list :
The Magik Way 1997
1. The Doubt (Il Dubbio)
2. The Dizziness (La Folgorazione)
3. The Sacrifice (Il Sacrificio)
4. The Knowledge (La Conoscenza)
Cosmocaos 1999
5. I Signori del Caos
6. Le Maschere di Pietra
7. L’Icona
8. Gloria
9. Lupenare ( La Luna Crescente – Il Caotico Divenire – L’Uomo con la Falce)
10. Le Prigioni di Corda
11. La Quiete
12. Trasposizione
13. Mantramime
14. La Caduta
15. Danza degli Elementi
16. Pianto ed Estasi
17. Il Tempo si è Fermato

Line-up :
Nequam – vocals, keyboards, guitars, percussions
Diabolical Obsession – bass, textures, backing vocals
Old Necromancer – guitars, noises, backing vocals
Azach – drums and percussions, backing vocals
Berkana – female vocals

Mechina – Empyrean

E’ sempre una piacevole sorpresa scoprire perle che giacciono sepolte nel sottobosco underground un po’ in tutto il mondo: l’ascolto di Empyrean dei Mechina in questo senso è stato un vero fulmine a ciel sereno.

Immaginate di imbattervi in qualcuno che riesca ad amalgamare in maniera perfetta alcuni aspetti del migliore death-black metal sinfonico con le sonorità industriali dei primi Fear Factory, inclusa una voce pulita affine a quella di Burton C.Bell, integrata nell’occasione da female vocals appropriate: questi sono i Mechina, from Batavia, Illinois.

Questo gioiello della durata di cinquanta minuti si abbatte sui nostri padiglioni auricolari con la chirurgica precisione dei suoi riff che, fondendosi con le futuristiche orchestrazioni di stampo cinematografico, formano un quadro francamente inattaccabile, se non forse per la registrazione che sacrifica in parte i toni bassi (ma ricordiamo sempre che qui si parla di un’autoproduzione).
La prestazione vocale di David Holch, come già accennato, è assolutamente impeccabile: ad un growl incisivo si affiancano in maniera naturale le clean vocals “belliane”, mentre la coppia Steve Amarantos e David Gavin si dimostra una metronomica e implacabile base ritmica volta a suportare il riffing e il creativo programming di Joe Tiberi.
Di questo disco è sufficiente ascoltare un solo brano, Anathema, per rendersi conto dello spessore qualitativo dell’intero lavoro: questo è il classico pezzo che il buon Dino Cazares non riesce più a comporre da oltre 15 anni e mai come in questo caso appare superfluo il tentativo di descriverne a parole i contenuti, pertanto l’unica possibilità è quella di farsi avvolgere dalle sue le atmosfere maestose .
Violento, intenso, emozionate, Empyrium non possiede momenti di debolezza e, oltre all’episodio appena citato, Catechism, Elephteria, la title-track ed Infineon sono altri brani che marchiano a fuoco un disco che, paradossalmente, è emblematico dello stato di crisi del mercato discografico: infatti, se una band di questa levatura (autrice anche di altre due magnifiche autoproduzioni su lunga distanza assolutamente da riscoprire, “The Assembly of Tyrants” del 2005 e il più recente Conqueror del 2011) non ha mai trovato il supporto di un’etichetta intenzionata a puntarvi in maniera decisa, significa davvero che in questo mondo succedono ancora troppe cose che sfuggono alla logica di noi comuni mortali …
Supportate questa grande band, non ve ne pentirete !

Tracklist :
1. Aporia
2. Asterion
3. Interregnum
4. Imperialus
5. Anathema
6. Catechism
7. [Cryostasis_simulation__2632_01]
8. Elephtheria
9. Empyrean
10. Infineon
11. Terminus

Line-up :
Joe Tiberi – Guitars, Programming
David Holch – Vocals
Steve Amarantos – Bass
David Gavin – Drums

MECHINA – pagina Facebook

Straight On Target – Pharmakos

Deathcore monolitico e privo di compromessi per gli Straight On Target; diritti all’obiettivo, come vuole il monicker prescelto, i nostri abbattono sull’ascoltatore la loro furia iconoclasta, fatta di riff chirurgici, di una base ritmica metronomica e di un growl efficace.

Sporadiche ma appropriate aperture melodiche, poche variazioni sul tema ma un groove complessivo sufficiente per consentire a un disco come questo di risultare abbastanza digeribile nonostante la sua compattezza di fondo.
Nulla che non si sia mai sentito, certo, ma la convinzione e la grinta che traspaiono da ogni nota dei nostri riescono ampiamente a compensare la relativa originalità di Pharmakos; brani killer come Ostrakon e Demonized spiccano sul resto del lotto, ma la tranvata inferta dai cinque piacentini va assorbita in blocco affinchè ottenga effetti ancor più devastanti; solo la traccia di chiusura Palm Leaves Readers, con i suoi rallentamenti e gli effetti piazzati nel finale, si discosta parzialmente dal canovaccio seguito nel resto del disco.
In ogni caso, ascolto vivamente consigliato con volume a 11 nelle giornate no: sapere che in giro ci può essere in quel momento qualcuno molto più incazzato di voi avrà sicuramente un effetto catartico …

Tracklist :
1. Theta
2. Ostrakon
3. Demonized
4. Wake The Apathetic
5. Dreadful Eyes
6. Initiation
7. He Spreads Hypocrisy
8. Synesthesia
9. Palm Leaves Readers

Line-up :
Andrea Scaglia – Voice
Federico Buzzetti – Drums
Giulio Castruccio – Guitar
Daniele Molinari – Guitar
Nicolò Rossi – Bass

STRAIGHT ON TARGET – pagina Facebook

Caronte – Ascension

La band proveniente da Parma con questo disco s’impone con prepotenza all’interno della scena doom, in Italia e non solo, creando un disco capace di trovare un feedback immediato nell’ascoltatore.

Quando ho cominciato ad ascoltare Ascension un brivido mi è corso lungo la schiena: puro doom fatto come si deve, proprio di quello che fa tremare il pavimento sotto ai propri piedi.

Bisogna immaginarsi di essere in una stanza piena di esalazioni sulfuree, con percussioni penetranti, un basso che fa vibrare ogni cosa, una chitarra pronta a demolire qualsiasi essere si stagli lungo il suo cammino ed insieme a tutto questo una voce proveniente dai luoghi più abietti che si possano immaginare (stupenda quindi); forse ora potreste avere una vaga idea dei Caronte, ma non basta comunque a farvi intuire la ferocia di cui sto parlando. Sette tracce intrise di esoterismo ed occultismo, come nella migliore tradizione doom, per una durata totale di quasi un’ora, alla fine della quale si entra in uno stato di estasi e tristezza, una bomba pronta ad esplodervi fra le mani senza che voi possiate fare niente; da notare che gli argomenti affrontati vengono trattati con cognizione di causa, tra riferimenti a tradizioni sciamaniche, ad Aleister Crowley e alla teosofia: ci piace. Oltre a tutto questo, come se già non bastasse, uno stupendo booklet e una custodia che meritano un plauso. La band proveniente da Parma con questo disco s’impone con prepotenza all’interno della scena doom, in Italia e non solo, creando un disco capace di trovare un feedback immediato nell’ascoltatore. Gran band, gran disco, nient’altro da dire, se non buon ascolto.

Tracklist:
1. Leviathan
2. Ode To Lucifer
3. Sons Of Thelema
4. Horus Eye
5. Black Gold
6. Solstice Of Blood
7. Navajo Calling

Line-up:
Dorian Bones – Voce
Tony Bones – Chitarra e cori
Henry Bones – Basso
Mike De Chirico – Batteria

CARONTE – Facebook

Myridian – Under The Fading Light

Pregevole esordio autoprodotto degli australiani Myridian, autori di un gothic-doom di rimarchevole spessore; collocabili in un ipotetico punto d’incontro tra Novembers Doom, Daylight Dies e Type 0 Negative, i cinque ragazzi di Melbourne mettono sul piatto un disco privo di sbavature e di grande intensità, grazie anche al contributo alla consolle di un nume tutelare della scena aussie come Mark Kelson (The Eternal, ma soprattutto ex Cryptal Darkness, la migliore gothic-doom band mai apparsa sul suolo oceanico).

In Under The Fading Light brani dal consueto mood malinconico si susseguono senza mostrare affanni nè accenni di ripetitività e il disco, nonostante una durata ragguardevole, fila via che è un piacere, graziato da un songwriting impeccabile pur se non originalissimo, con la sola eccezione di Starless che viene appesantita inizialmente da qualche barocchismo pianistico di troppo.
Impeccabile il quintetto ai propri strumenti e bravissimo Felix Lane alle prese con il growl mentre le clean vocals, credo a cura di Josh Spivak, evocano piacevolmente la timbrica del grande Peter Steele.
To the Dying Sun, Veil of Sorrow, la title-track e il brano di chiusura Ethereal Storm sono gli episodi migliori di un disco che ci mostra una band giovane ma già sufficientemente matura; come spesso avviene in questi casi, l’auspicio è che i Myridian possano avvalersi al più presto di una label in grado di promuoverli e supportarli in maniera adeguata.

Tracklist :
1. Passage
2. To the Dying Sun
3. Veil of Sorrow
4. No Dawn
5. Solitude’s Embrace
6. Under the Fading Light
7. Starless
8. Ethereal Storm

Line-up :
Alex Hutchinson – Drums
Scott Brierley – Guitars
Josh Spivak – Guitars, Vocals
Julian Wheeler – Keyboards
Felix Lane – Vocals, Bass

MYRIDIAN – pagina Facebook

Tystnaden – Anima

Dopo quasi un decennio di attività, i friulani Tystnaden al terzo disco fanno centro con un lavoro che, con molta approssimazione, si potrebbe inserire nel calderone informe del gothic metal con voce femminile ma che, in realtà, si dimostra essenzialmente un pregevolissimo metal dai tratti moderni ed eclettici.

Partendo dall’assunto che, in fondo, non ci sono più molti spazi di manovra per proporre qualcosa di realmente innovativo, ciò che si chiede alle band che si cimentano in questo filone stilistico sono, in ordine sparso, un’ottima cantante, musicisti impeccabili e una raccolta di belle canzoni: i Tystnaden possiedono tutte queste caratteristiche, a partire da una vocalist dotata ma, soprattutto, sobria ed essenziale come Laura De Luca, la quale esibisce uno stile che rifugge gli insopportabili gorgheggi pseudo-operistici mettendo in mostra ciò che alla fine è quel che serve, ovvero una voce bella, versatile e al servizio del gran lavoro agli strumenti dei propri compagni d’avventura.
Rispetto al precedente disco, risalente a quattro anni fa, è probabile che i cambiamenti avvenuti nella line-up abbiano contribuito a sfrondare la proposta dei nostri di un growl oggettivamente ingombrante (da parte dell’allora tastierista), focalizzandola invece sulla voce femminile e limitando all’indispensabile gli interventi di quella maschile, spostando naturalmente il sound verso una connotazione più melodica.
Ogni brano, infatti, possiede passaggi che non si lasciano dimenticare facilmente ed è proprio la capacità di resistere alla prova di ascolti ripetuti, nonostante la sua immediatezza, che fa di Anima un disco riuscito con poco o nulla da invidiare a band ben più reclamizzate, italiane e non, operanti nello stesso segmento stilistico.
Lust introduce al meglio le caratteristiche del combo udinese, riff corposi alternati a grandi aperture melodiche, mentre la successiva Struggling In The Mirror, dai tratti marcatamente alternative, è il primo singolo estratto (con relativo video). Egonist è invece, a mio avviso, uno dei picchi dell’album, grazie al suo gusto maggiormente prog esaltato da uno splendido assolo di chitarra.
Da rimarcare anche la coinvolgente prestazione di Laura in Father Mother e l’azzeccata alternanza in War tra la sua voce e quella ruvida del tastierista Giancarlo Guarrera, autore nell’occasione anche di incisivi passaggi sinfonici.
The Journey chiude nel migliore di modi un disco che, al netto di qualche ridondanza di stampo orchestrale (l’incipit arabo-spagnoleggiante di Against Windmills non appare molto adeguato al contesto), è davvero una piacevole sorpresa e mostra un’altra realtà nostrana in grado di produrre un lavoro di indiscutibile qualità che potrebbe e dovrebbe ritagliarsi uno spazio importante nel panorama musicale nazionale (e non solo).

Tracklist :
1. Lust
2. Struggling at the Mirror
3. Egonist
4. Days and Lies
5. Against Windmills
6. Father Mother
7. Mindrama
8. War
9. The Life Before
10. Innerenemy
11. The Journey

Line-up :
Cesare Codispoti – Guitars
Laura De Luca – Vocals
Alberto Iezzi – Drums
Arthur Sahakjan – Bass
Marco Cardona – Guitars
Giancarlo Guarrera – Keyboards, Vocals

TYSTNADEN – pagina Facebook

Doomed – In My Own Abyss

Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.

La recensione del disco d’esordio dei Doomed, uscita su Iyezine qualche mese fa, si era chiusa con l’auspicio che qualche etichetta lungimirante si accorgesse del valore di questo progetto doom-death del musicista tedesco Pierre Laube.

Evidentemente la Solitude ha avuto l’occhio più lungo o, se non altro, è stata più rapida nell’arricchire il proprio roster con quella che è stata una delle più piacevoli novità del 2012 in ambito doom.
Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.
Per quanto possibile, la proposta appare ancor meglio focalizzata su un death-doom basato più sull’impatto che sulla melodia; infatti, il pregio dei Doomed è proprio la compattezza del suono che si manifesta con riff granitici e un growl impietoso, il tutto sapientemente alternato a frequenti rallentamenti e a squarci chitarristici volti a incrinare il muro di incomunicabilità eretto da un sound sempre minaccioso, anche nei momenti di calma apparente. Inoltre, nonostante chi si cimenti in questo genere finisca spesso per assomigliare in maniera più o meno pronunciata alle band che ne hanno segnato la storia, Laube riesce nell’intento di proporre un proprio trademark evitando di cadere in rimandi eccessivi rispetto a quanto già composto da altri in passato.
Come il suo predecessore, In My Own Abyss tende progressivamente ad “ammorbidirsi” nella sua parte terminale; in questo senso la differenza tra l’opener Downward e la traccia di chiusura Ah Ty Stiep Schirokaja è evidente, ma ciò avviene in maniera graduale attraverso brani in cui la componente death lascia spazio ad atmosfere maggiormente evocative, tra i quali spiccano le mirabili Alone We Stand, The Ancient Path e Leave.
Una conferma quindi, a distanza ravvicinata, per il musicista tedesco e un 2013 che si preannuncia ricco di novità e di impegni, tra la riedizione dell’esordio “The Ancient Path”, la costituzione di una line-up funzionale alle esibizioni dal vivo, oltre alla composizione di nuovo materiale per un futuro terzo lavoro che, viste le premesse, potrebbe consacrare i Doomed come una delle realtà più fulgide del death-doom europeo.

Tracklist :
1. Downward
2. Alone We Stand
3. The Ancient Path
4. A Wall of Your Thrones
5. Restless
6. Leave
7. Ah Ty Stiep Schirokaja – Loss

Line-up :
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

DOOMED – Facebook

Ennui – Mze Ukunisa

Un esordio che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Ennui è un progetto funeral doom dalla recente genesi proveniente da Tbilisi; David Unsaved e Serj Shengelia, a pochi mesi dall’inizio della loro collaborazione, hanno dato alle stampe questo Mze Ukunisa che si rivela un prodotto piacevolmente sorprendente per il livello compositivo raggiunto dai nostri.

Non è infrequente, del resto, imbattersi in esordi dai tratti approssimativi, sia dal punto di vista compositivo sia da quello esecutivo, ma ciò non avviene fortunatamente in questo caso: il lavoro dei due musicisti georgiani si rivela all’altezza della situazione in ogni frangente, pur nel suo sviluppo dalla durata ben superiore all’ora, potendosi avvalere peraltro di una produzione del tutto adeguata.
Il funeral degli Ennui è prevalentemente di stampo atmosferico, anche se la tastiera svolge essenzialmente una sapiente opera di raccordo, lasciando alla chitarra il compito di tratteggiare le malinconiche melodie che caratterizzano ogni brano del disco.
Le sei lunghe tracce possiedono un andamento piuttosto lineare, con una prima fase spesso dalle tonalità più cupe che lentamente conducono alle ampie ed azzeccate aperture melodiche collocate nella parte finale.
Così Dead Desires, Maybe The Time Will Come e Frozen Candle si rivelano ottimi esempi di songwriting di stampo funereo, anche se il picco viene raggiunto dal duo nella splendida The Way Of My Life’s End, con le sue dolenti note di chitarra screziate dal cavernoso growl di David.
Un esordio quindi, che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Track list :
1. Flowers Of Silence
2. Dead Desires
3. Maybe The Time Will Come
4. The Way Of My Life’s End
5. Frozen Candle
6. Memento Mori

Line-up :
Serj Shengelia – Bass, Drums, Guitars, Keyboards
David Unsaved – Guitars, Keyboards, Vocals

ENNUI – Facebook

Book Of Job – Hamartia

Un album che brilla per la sua compattezza e che merita l’attenzione anche di chi è meno avvezzo a queste sonorità.

Uno degli errori peggiori da commettere, parlando di questo esordio dei Book Of Job, potrebbe essere quello di accomunarli all’informe e inflazionato carrozzone del metalcore senza arte né parte che ormai da troppo tempo deturpa i nostri poveri padiglioni auricolari.

Nella proposta della band di Leeds c’è molto di più della scontata alternanza tra mielosi momenti melodici e passaggi violenti intrisi di una rabbia autentica come una banconota da 8 euro … : i Book Of Job fin dalla prima nota offrono la sensazione d’essere “veri” e fanno capire chiaramente che la loro urgenza espressiva è realmente frutto dell’ispirazione che li anima piuttosto che figlia di un progetto costruito a tavolino.
Lo screaming a tratti ossessivo di Kaya non smarrisce mai, salvo ben centellinate parentesi “clean”, il proprio rabbioso impeto, mentre i suoi degni compari continuano instancabili nel tessere trame, ora cruente ora più melodiche, sempre accomunate da un tiro pazzesco e da quella spontaneità che in un contesto musicale così diretto fa inevitabilmente la differenza.
3 Hours, Father Cult, Feeding The Universe sono i picchi qualitativi di un album che brilla per la sua compattezza e che merita l’attenzione anche di chi è meno avvezzo a queste sonorità.
Il fatto che anche un magazine autorevole (per quanto sempre da prendere con le pinze quando tratta band inglesi) come Kerrang! abbia dato ampio risalto ai Book Of Job, rende ulteriore merito all’intuizione della Wormholedeath, capace di accaparrarsi i servizi di questa realtà musicale dall’enorme potenziale, probabilmente ancora solo in parte espresso con un album pur ottimo come Hamartia.

Track list :
1. Hamartia
2. 3 Hours
3. Of Libra and Scorpio
4, Pursuing the Cosmos
5, Lost in Utopia
6. Father Cult
7. Madness is Murder
8. Feeding The Universe
9. Anagnorisis

Line-up :
Kaya Tarsus – Vocals
Mike Liburd – Guitar
Luke Nelson – Drums

BOOK OF JOB – Facebook

Vlgw

Indesinence – Vessels Of Light And Decay

Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.

Anche gli Indesinence appartengono al novero delle doom band che tornano sulle scene dopo un lungo silenzio e, come accaduto in altri frangenti, ciò avviene con un lavoro che ripaga ampiamente le attese.

Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.
Vessels Of Light And Decay, dopo la breve intro Flux, inizia ad esibire le sembianze mostruose della creatura Indesinence con Paradigms, prima di una serie di lunghe e maestose tracce: riff granitici si abbattono come un maglio sui timpani dell’ascoltatore, ora con la lentezza esasperante del doom più canonico ora con le accelerazioni tipiche del death; in questo avvio dell’album, nei passaggi più rallentati sorgono spontanei accostamenti con i seminali Cathedral di “Forest Of Equilibrium” e non c’è dubbio che questa sia la perfetta rampa di lancio per un lavoro che non avrà momenti di cedimento per tutta la sua durata.
Vanished si palesa con le temibili sembianze dei Morbid Angel epoca “Blessed / Covenant”, per il suo sound “morboso” e avvolgente e per un growl degno del miglior Vincent ad opera di Ilia Rodriguez, mentre Communion accelera ulteriormente l’andatura, segnalandosi come l’episodio più violento del disco.
La Madrugada Eterna spezza ad arte la tensione con le sue sonorità di stampo ambient, preparando il terreno alla deragliante Fade dove gli Indesinence macinano instancabilmente, per quasi un quarto d’ora, i loro riff densi e distruttivi come una colata lavica.
Unveiled chiude questa splendida prova di compattezza e competenza musicale mostrando un volto più riflessivo del quartetto londinese, grazie alle sue frequenti aperture a sonorità acustiche dissonanti: il brano finisce spesso per lambire territori post-metal, lasciando spazio nella sua parte conclusiva a un crescendo entusiasmante che è il commiato ideale per l’ennesimo album imperdibile partorito dalla scena death-doom in questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. 1. Flux
2. Paradigms
3. Vanished Is the Haze
4. Communion
5. La Madrugada Eterna
6. Fade (Further Beyond)
7. Unveiled

Line-up :
Andy McIvor – Bass
Dani Ben-Haim – Drums
John Wright – Guitars, Bass
Ilia Rodriguez – Guitars, Vocals

Monolithe – Monolithe III

Monolithe III è un unico brano che pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento e progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.

I francesi Monolithe sono da diversi anni un nome piuttosto apprezzato, in ambito funeral doom, grazie ai due omonimi dischi pubblicati nella prima parte dello scorso decennio; dopo l’ uscita dell’ Ep “Interlude Premier” e un silenzio durato cinque anni, interrotto da un nuovo Ep, questo terzo episodio su lunga distanza ci offre una band animata da una ritrovata ispirazione, che la spinge ben oltre i confini del genere pur non smarrendone le caratteristiche peculiari.

Chiaramente le coordinate sonore legate a un sound poderoso e rallentato sono sempre ben evidenti, ma l’elemento innovativo è riscontrabile nella varietà stilistica e ritmica che contrassegna il lavoro in tutti i suoi abbondanti cinquanta muniti, peraltro concentrati in un solo brano.
A tale proposito sorge spontaneo fare un parallelismo con un’altra band funeral che quest’anno ha pubblicato un disco contraddistinto da una sola lunga traccia, ovvero gli Ea, ma appare subito evidente che le due interpretazioni della materia sono piuttosto distanti.
Se da una parte i misteriosi russi continuano imperterriti nello srotolare con la massima lentezza il loro sound incentrato su tastiere maestose e chitarre soliste sempre pronte a tratteggiare stupefacenti passaggi intrisi di malinconia, dall’altra i quattro transalpini donano alla loro lunga composizione una dinamismo che si va a contrapporre a quell’uniformità che, pur costituendone un aspetto positivo, è tratto caratteristico del genere.
Monolithe III racchiude in sé momenti psichedelici e sinfonici che, amalgamati con la pesantezza classica del doom e il perfetto growl di Richard Loudin (autore una decina d’anni fa col suo progetto solista Despond dello splendido “Supreme Funeral Oration”), consentono all’ascoltatore di fruire senza particolare fatica di un monolite sonoro di tale portata; l’intero brano pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento ma progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
Un’evoluzione per certi versi inattesa ma evidenziata nel migliore dei modi da Sylvain Begot e soci, grazie a un album che si va a collocare di diritto tra le migliori uscite di questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. Monolithe III

Line-up :
Benoit Blin – Bass, Guitars
Sebastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Begot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

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