When Nothing Remains – In Memoriam

In Memoriam è un bellissimo disco che chi predilige questo genere amerà sicuramente, in virtù di una pulizia sonora invidiabile e di una vis romantica e malinconica che pervade ogni nota, ma per il capolavoro bisogna aspettare il prossimo giro

A poco più di due anni dallo splendido Thy Dark Serenity arriva il terzo full length degli svedesi When Nothing Remains, una della band che nel decennio in corso ha contribuito ad elevare il livello del death doom melodico.

Le aspettative erano perciò molte, visto che il disco precedente sembrava propedeutico alla pubblicazione del capolavoro definitivo, capace di trasportare la creatura fondata da Peter Laustsen e Jan Sallander fino all’empireo del genere, là dove sono assisi i Saturnus.
Purtroppo l’obiettivo, almeno per questa volta, non viene raggiunto: In Memoriam è un gran bel lavoro, sia chiaro, e conferma quanto di buono questi musicisti scandinavi hanno mostrato fin dai primi passi della band, ma il livello emotivo raggiunto con Thy Dark Serenity viene sfiorato solo a tratti.
Questa constatazione è nata da un semplice esperimento: a un certo punto ho interrotto l’ascolto di In Memoriam ed ho programmato, una di seguito all’altra, quelle due gemme intitolate I Forgive You e Like An Angel Funeral e qui, l’infallibile lacrimometro, personalissimo ma attendibile strumento di misura del grado di commozione, ha mostrato quanto il pathos emanato da quelle due superbe canzoni non venisse mai raggiunto nell’ultima raccolta di brani.
Dopo i primi ascolti l’album mi sembrava addirittura anonimo poi, insistendo e cercando di sgombrare la mente da quelle aspettative che, appunto, mi impedivano di fruire in maniera fluida dei contenuti musicali, la bontà della proposta è emersa con chiarezza tanto da spingermi a parlarne in maniera tutt’altro che negativa.
Le varie Drowning in Sorrows, la title track, A Lake of Frozen Tears e While She Sleeps sono a loro volta preziose tracce alle quali manca solo quella drammaticità in grado di lacerare l’anima e ed abbattere le residue difese che la nostra psiche erige di fronte a certe toccanti rappresentazioni del dolore in musica.
Detto ciò, In Memoriam è un bellissimo disco che chi predilige questo genere amerà sicuramente, in virtù di una pulizia sonora invidiabile e di una vis romantica e malinconica che pervade ogni nota, ma per il capolavoro  bisogna aspettare il prossimo giro; io comunque continuo a crederci …

Tracklist:
1. Reunited in the Graves
2. Drowning in Sorrows
3. In Memoriam
4. Ghost Story
5. The Soil in My Hand
6. A Lake of Frozen Tears
7. Eternal Slumber
8. While She Sleeps
9. The Spirits in the Woods

Line-up:
Peter Laustsen – Guitars (lead), Vocals
Jan Sallander – Bass, Vocals
Tobias Leffler – Guitars (rhythm)
Dimitri “Dimman” Jungi – Drums

WHEN NOTHING REMAINS – Facebook

Deprive – Into Oblivion

Una cinquantina di minuti di death/doom nello stile dei primi anni 90

Un’altra one man band, questa volta dalla Spagna: Deprive è la creatura mostruosa del polistrumentista e vocalist Erun-Dagoth, ex di una miriade di band che con questo monumentale Into Oblivion arriva all’esordio su lunga distanza, dopo aver dato alla luce due demo ed una compilation omonima dello scorso anno che li racchiudeva entrambi.

Anche nel nuovo album Erun-Dagoth non manca di farci riassaporare il primo demo come bonus track, arrivando così ad una cinquantina di minuti di death/doom dei primi anni 90: un vero piacere per l’udito riascoltare il putrido sound che fece la fortuna di Asphyx, My Dying Bride e, sul versante death, dei Morbid Angel.
Rallentamenti catacombali, riff mastodontici, atmosfere mortifere, sono il freno a mano per le accelerazioni di stampo death old school, ed offrono per un risultato ottimo, vero solluchero per gli amanti di queste sonorità, ormai orfane di album epocali come l’omonimo “Asphix”, “As The Flower Withers” e “Altars of Madness”.
Il death dei Deprive è cimiteriale, e ci porta a fare un giro all’inferno dal quale, con un po’ di fortuna, si torna, ma senza metterci la mano sul fuoco, travolti da questo maligno incedere di brani oscuri e malati come Catacombs Of Betrayal, Infamous Ossuary Of Tribulation, Immemorial Ritual Beyond Death, inni estremi accompagnati da una componente satanica e occulta, come si addice alla musica contenuta in questo ottimo lavoro.
Qualcuno punterà il dito sulla poca originalità di Into Oblivion: fregatevene e fatelo vostro, assolutamente, specie se siete fan delle band di riferimento del gruppo spagnolo che, come uno zombie, spunta dalla terra sconsacrata di un vecchio cimitero dimenticato, trascinando le ossa annerite e le poche carni in putrefazione verso quella civiltà molto più brutale dell’inferno da cui proviene.

P.S.: L’ultimo brano, Divine Blood Of The Deceased, è un’outro pianistica che ricorda maledettamente “Sear Me”, dal primo bellissimo album dei Bride, e ho detto tutto …

Tracklist:
1. Catacombs of Betrayal
2. Nightsky Revelation
3. Fall of Entropy
4. Infamous Ossuary of Tribulation
5. Dethroned Messiah
6. Apocryphal Mausoleum
7. Immemorial Ritual Beyond Death
8. An Oath of Necrotical Mist
9. Into Oblivion
10. Divine Blood of the Deceased
11. The Arrival
12. Innards of Heaven
13. Below the Screams of the Dying
14. De Vermis Mysteriis

Line-up:
Erun-Dagoth – All Instruments, Vocals

DEPRIVE – Facebook

The Fog – Perpetual Blackness

Essenziale, brutale e scorretto,  il lavoro dei The Fog esercita un suo fascino ancestrale ma difficilmente  il suo scarno incedere potrà  fare troppi proseliti.

Album d’esordio per i tedeschi The Fog, band che ci scaraventa indietro nel tempo, andando a rivangare le forme di death doom più grezze e dirette e  riportando alla memoria gentaglia pericolosa e poco incline a morbidezze come furono gli Winter.

Detto questo, in fondo resta poco altro da aggiungere,  se non che Perpetual Blackness non è affatto indicato a chi predilige  le declinazioni più melodiche del genere.
Essenziale, brutale e scorretto,  il lavoro dei The Fog esercita un suo fascino ancestrale ma difficilmente  il suo scarno incedere potrà  fare troppi proseliti.
Sono effettivamente godibili le improvvise accelerazioni  che, innestate su un tessuto morboso, possiedono l’effetto di provocare un furioso headbanging, però il talento compositivo di Asphyx e Morgoth, tanto per citare altri dei nomi ai quali i nostri vengono accostati in sede di presentazione, risulta tutt’altra cosa.
La varietà compositiva in queste lande è qualcosa di sconosciuto, e una manciata di riff azzeccati non basta a rendere avvincente un disco in cui il piatto rantolo di  V. Lord non contribuisce ad elevarne il livello.
Sentito un pezzo, sentiti tutti: se poi quel pezzo non è neppure indimenticabile traete voi le conclusioni: l’album dei The Fog potrebbe essere comunque apprezzato dai fans del death più  oltranzista, i quali forse troveranno quei motivi d’interesse che un appassionato di doom incline alla malinconia come  il sottoscritto fatica ad intravedere.

Tracklist:
1.Inaneness
2.Crawling Doom
3.Entropy Pillars
4.Creeping Lunacy
5.Gloom Shoals
6.Perpetual Blackness
7.Grievous Scourge

Line-up:
C.C. Defiler – Bass
Avenger – Drums
V. Lord – Vocals, Guitars

THE FOG – Facebook

Mourning Beloveth – Rust & Bone

Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere

Gli irlandesi Mourning Beloveth sono una band dallo stato di servizio lusinghiero nel particolare mondo del doom più oscuro, se pensiamo che la loro storia ha preso avvio oltre vent’anni fa.

Fino all’incisione del precedente full length Formless, nel 2013, tutto sommato il gruppo era noto agli appassionati soprattutto per un eccellente album come A Sullen Sulcus, oltre a diverse buone opere in linea con gli stilemi del genere.
Con lo scorso lavoro, invece, era stata impressa una svolta decisa verso suoni che maggiormente attingevano alla tradizione musicale della propria terra di provenienza, non tanto riferiti al folk quanto ad un peculiare mood epico.
In particolare era emersa in tutto il suo splendore quell’affinità elettiva con i Primordial che ne aveva reso i Mourning Beloveth (citando la mia recensione di Formless) “una versione iper-rallentata”, ma ugualmente affascinante quanto personale.
Rust & Bone costituisce un’ulteriore e forse definitiva evoluzione della band proveniente di Athy: i Mourning Beloveth non sono più, di fatto, una band death/doom nel senso più convenzionale del termine, perché, sebbene la lunga opener Godether evidenzi per buna parte passaggi ascrivibili al genere, è l’atmosfera complessiva che è cambiata: il dolore ottundente viene rimpiazzato ora da un sofferenza dai tratti fieri e solenni, ora da una malinconia propedeutica ad una serenità illusoriamente vicina eppure irraggiungibile.
Quando Godether si apre melodicamente, attorno all’ottavo minuto, le emozioni rompono gli argini e non sarà più possibile contenerle fino all’ultima nota dell’album.
Rispetto a Formless, i Mourning Beloveth hanno optato per una maggiore sintesi, visto che Rust & Bone dura meno della metà del precedente lavoro, ma qui non c’è un solo secondo sprecato: anche i due brevi intermezzi Rust e Bone sono funzionali alla causa, andando ad introdurre le altre due perle The Mantle Tomb e A Terrible Beauty Is Born.
La prima prende avvio come se fosse un outtake di quel capolavoro assoluto intitolato A Nameless God e, allorché entra in scena la voce di Frank Brennan, non ci sono dubbi che questa traccia ci trascinerà in un vortice emotivo dal quale non sarà facile riprendersi. Alternato al robusto growl di Darren Moore, il canto evocativo del chitarrista non lascia scampo, finché la vena “primordiale” del brano non si stempera in una seconda parte strumentale nella quale la chitarra solista va a rovistare in maniera irrimediabile nella nostra anima, annichilita da tanta bellezza oltre che sfregiata dall’urlo disperato di Moore.
A Terrible Beauty is Born arriva achiudere l’album con modalità simili alla lunga Transmission, traccia che occupava interamente il cd bonus di Formless: lo spunto di quell’episodio acustico e dai tratti blueseggianti, qui viene perfezionato e reso in una veste che ne accentua il pathos e la limpidezza: l’interpretazione di Brennan fa tutta la differenza del mondo, donando al brano un’intensità rara e preziosa.
Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere; difficile fare meglio di così, davvero.

Tracklist
1. Godether
2. Rust
3. The Mantle Tomb
4. Bone
5. A Terrible Beauty Is Born

Line-up:
Timmy Johnson – Drums
Frank Brennan – Guitars, Vocals (clean)
Darren Moore – Vocals
Brendan Roche – Bass
Pauric Gallagher – Guitars

MOURNING BELOVETH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=spPn5BlHZVo&feature=youtu.be

Spina Bifida – Iter

L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Gli Spina Bifida sono una band olandese che fu tra le prime a proporre le varianti più oscure del doom nel paese dei mulini a vento.

Nonostante un solo album all’attivo (Ziyadah, datato 1993), il nome è sempre stato citato tra quelli definibili “di culto”, condizione che spesso viene allargata a band che producono solo un buon album per poi cadere nell’oblio.
L’occasione per riparlare degli Spina Bifida ci è stata fornita la scorsa estate con la riedizione proprio di Ziyadah, quell’unico parto su lunga distanza da molti considerato un lavoro di grande spessore. Al riguardo ci eravamo espressi in maniera diversa, ritenendola un’opera non priva di un suo fascino pur non essendo all’altezza delle migliori espressioni del settore, ma l’indiscutibile aspetto positivo dell’operazione era la sua funzione evidentemente propedeutica ad un ritorno con un nuovo disco di inediti, come effettivamente è avvenuto.
Il lavoro in questione è questo Ep intitolato Iter, che ha il pregio/difetto di ripartire esattamente da dove la band di Tilburg aveva terminato: il death doom qui contenuto continua ad essere asciutto e senza fronzoli, ma anche privo di slanci indimenticabili, pur risultando come il suo lontano predecessore a suo modo accattivante.
Rispetto alla formazione originale, l’unica novità è rappresentata dalla sostituzione del vocalist dell’epoca con William Nijhof dei Faal e, tutto sommato l’avvicendamento, se porta sicuramente qualche miglioria, non si rivela decisivo nell’economia dell’Ep.
Le buone Singular God e Silent Fields bastano comunque per giustificare questo ritorno sulle scene contraddistinto da un sound dal sapore vintage, dovuto al binomio songwrinting/produzione che mostra tratti piuttosto spartani.
L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Tracklist
1. Untitled
2. Singular God
3. Awe
4. The Dead Ship
5. Silent Fields
6. The Heretic

Line-up:
Veronika – Bass
Gerard – Drums
Rob – Guitars
Harrie van Erp – Guitars
William Nijhof – Vocals

SPINA BIFIDA – Iter

Primitiv – Immortal & Vile

Candlemass, Black Sabbath, Obituary, Morbid Angel, Cathedral e tanto talento, fanno parte del dna di questo notevole gruppo indiano, ed il loro album un disco da avere assolutamente, specialmente se siete amanti di queste sonorità.

Other bands are old school, we are Primitiv.

Così si definiscono i Primitiv, gruppo heavy/doom/death metal di Mumbai, India, altro gruppo che arriva a noi tramite la Transcending Obscurity, meritevole di molta attenzione da parte dei fans dei suoni old school di matrice estrema.
Composti da membri dei fenomenali Albatross, i Primitiv licenziano questo monolitico esordio, dal titolo Immortal & Vile, massiccio, cadenzato e potentissimo esempio di metal estremo dai rimandi doom classici, con chitarroni ultra heavy, presi in prestito dal metal ottantiano e la maligna e brutale atmosfera death metal che rende il tutto, un molosso di suoni metallici fusi nell’acciaio.
Accompagnato da una copertina old school epicissima, Immortal & Vile non può che conquistare, forte di brani notevoli a livello atmosferico, ottimamente suonati ed originali nel saper amalgamare i generi descritti, costruendo un sound, ruvido, aggressivo, a tratti altalenate tra i suoni hard & heavy dai rimandi settantiani, e l’heavy metal del decennio successivo, dove la band, non contenta, ammanta il tutto con l’elemento estremo, quell’aura death che fa dell’album un gioiellino metallico.
Nei solchi di questo primitivo lavoro, spicca il growl guerresco di Nitin Rajan, leggendario vocalist della scena indiana (Sledge, Morticide), dall’enorme vocione che ricorda un’antica e maligna divinità di qualche imprecisata leggenda epica, accompagnato da una sezione ritmica che non può non essere monolitica (Riju Dasgupta al basso e Pushkar Joshi alle pelli) e le due asce che incendiano, devastano, lanciano fulmini e saette, tra solos heavy, ritmiche dal lento incedere doom e attimi di bombardamenti death, molto più americani di quanto si evince ad un primo ascolto (Rajarshi Bhattacharya e Kiron Kumar).
Clash Of The Gods e World War Zero aprono il lavoro nel segno del doom/death, ma da The Demon Science in poi l’esplosivo sound del combo esce in tutta la sua natura e Lake Rancid regala una song doom classica, dove il riff nasce da qualche montagna settantiana e sfocia in una valle di suoni hard & heavy da stropicciarsi gli occhi.
Bellissima Taurus, doom death psychedelico e lisergico, così come la storica Lords Of Primitiv che chiude il lavoro, ancora metal old school, dall’incedere settantiano e dalla forza di un carro armato death metal.
Candlemass, Black Sabbath, Obituary, Morbid Angel, Cathedral e tanto talento, fanno parte del dna di questo notevole gruppo indiano, ed il loro album un disco da avere assolutamente, specialmente se siete amanti di queste sonorità.

TRACKLIST
1.Clash of the Gods
2.World War Zero
3.The Demon of Science
4.Lake Rancid
5.Dead Man’s Desert
6.Taurus
7.Lords of Primitiv

LINE-UP
Rajarshi Bhattacharya – Guitars
Riju Dasgupta – Bass Guitar
Pushkar Joshi – Drums
Nitin Rajan – Vocals
Kiron Kumar – Guitars

PRIMITIV – Facebook

Intra Spelaeum – Забыто давно (Long Forgotten)

Забыто давно è un album che ogni appassionato di death doom dovrebbe ascoltare: il trio russo esibisce una solida preparazione regalando un’interpretazione del genere sempre varia ed efficace.

Gli Intra Spelaeum sono l’ennesima band, proveniente dalle sterminate lande russe, affascinata dal lato più oscuro del doom.

A fronte dell’oggettiva difficoltà nel proporre in quest’ambito qualcosa che, oltre ad essere coinvolgente dal punto di vista compositivo, contenga qualche elemento di peculiarità, i nostri conferiscono al loro sound un’aura particolare sicuramente caratterizzata dalla loro provenienza, indipendentemente dall’uso della grafica in cirillico e della lingua madre a livello lirico.
Più che in altre occasioni, infatti, una band russa dedita ad un genere dai tratti estremi sembra trarre linfa dall’importante tradizione musicale del proprio paese, e così, sia la solennità di certe orchestrazioni sia l’inserimento di una spiccata componente folk arricchiscono non poco un lavoro che si snoda senza mostrare particolari fasi di stanca.
Come detto, nonostante il monicker latino, gli Intra Spelaeum optano per una scelta autarchica a livello di linguaggio e, inevitabilmente, tutto ciò rende la fruizione più complessa, ma se ci limitiamo a ciò che ci dice la musica, non si può che farsi coinvolgere da quest’ora scarsa ricca di contrasti e di passaggi intrisi del giusto pathos.
Se la base del sound è un robusto death doom melodico di stampo nordeuropeo, l’ottimo lavoro tastieristico ne cuce ed ammorbidisce non poco l’impatto, esaltando lo struggimento di brani come Ветер, Волна e della lunghissima Дом; peraltro il lavoro si chiude con la cover di In A Dream, storico brano dei Tiamat, reso in maniera piuttosto rispettosa della seminale band svedese, pur se leggermente rallentata.
Забыто давно è senz’altro un album che ogni appassionato di death doom dovrebbe ascoltare: il trio russo esibisce una solida preparazione regalando un’interpretazione del genere sempre varia ed efficace.

Tracklist:
1. Сны (Dreams)
2. Забыто давно (Long Forgotten)
3. Ветер (Wind)
4. Дождь из слез (Rain of Tears)
5. Брошенный мир (Fallen World)
6. Волна (Wave)
7. Дом (House)
8.In a Dream (Tiamat cover bonus track)

Line-up:
Kron – vocals, guitars, keyboards
Geralt – bass
Zahaar – drums

INTRA SPELAEUM – Facebook

Paid Charons Fare – Mourn

Altra one man band dedita al death doom, questa volta proveniente dalla Germania con il monicker Paid Charons Fare.

Mourn è il primo full-length per il musicista di Treviri Heiko Borkowski, ed esce dopo il singolo d’assaggio Alone, datato 2014: la prima impressione è stata quella d’essere al cospetto di un progetto nato con le idee chiare e soprattutto volto ad imprimere al sound tutte le caratteristiche che si richiedono al genere.
Inoltre, a differenza di altre one man band, l’utilizzo della chitarra solista si rivela sempre appropriato senza mostrare particolari crepe, consentendo così alle melodie di impadronirsi della scena in maniera convincente; sia la title track, sia The Mourners Anthem sviluppano armonie dolenti che rendono l’ascolto piuttosto scorrevole, fatta eccezione per qualche passaggio in clean nella seconda delle due tracce che merita ancora qualche aggiustatina.
Va detto anche che, proprio in questo brano, si possono osservare le intuizioni più brillanti sotto forma di linee evocative e nel contempo ben memorizzabili.
Dopo la breve When Time Turns Minutes To Days, brano acustico ma ugualmente plumbeo, che può ricordare qualcosa dei primi Novembers Doom, viene riproposto il singolo Alone, anch’esso decisamente di buon livello ed in linea con la traccia di apertura, prima della convincente chiusura con Dead Inside, con la quale si vanno invece a lambire territori funeral.
Mourn è sicuramente un buon debutto, all’insegna di sonorità che talvolta possono riportare ad un ben più noto progetto solista come quello dei Doomed di Pierre Laube, anche se Borkowski tende a levigare quelle asperità che ritroviamo nei lavori del suo connazionale.
Pur senza far gridare al miracolo, questo primo lavoro targato Paid Charons Fare è un disco di buona levatura che merita d’essere preso in considerazione dagli appassionati.

Tracklist
1.Mourn
2.The Mourners Anthem
3.When Time Turns Minutes To Days
4.Alone
5.Dead Inside

Line-up:
Heiko Borkowski – All instruments, Vocals

PAID CHARONS FARE – Facebook

Urania – Hieros Gamos

Gli Urania propongono un interpretazione ortodossa ma non per questo meno stimolante del genere, riuscendo a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore grazie al ricorso ad una scrittura lineare, efficace e talvolta anche piuttosto evocativa.

Buon debutto per questi portoghesi dei quali abbiamo ben poche notizie salvo, appunto, la loro nazionalità.

Hieros Gamos è un assaggio, non essendo particolarmente lungo visto il minutaggio ridotto rispetto agli standard del genere, di un death doom di stampo piuttosto tradizionale ma senz’altro ben eseguito nonché ricco di buoni spunti, disseminati nelle quattro tracce che compongono il lavoro.
Se le prime due di queste, fondamentalmente, sono ascrvibili alla tradizione novantiana, con le loro ritmiche sicuramente rallentate ma non ai limiti dell’asfissia, la terza, A Mantra For A New Found Hope, vede un incremento deciso dell’utilizzo dell’organo che spinge i lusitani talvolta su terreni affini agli Abysmal Grief.
La traccia conclusiva è invece la più lunga ed anche la più rallentata, con il suo incedere ai limiti del funeral ed alcune dolenti aperture melodiche degne delle migliori band del settore.
Gli Urania, indipendentemente da chi e quanti siano, propongono un interpretazione ortodossa ma non per questo meno stimolante del genere, riuscendo a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore grazie al ricorso ad una scrittura lineare, efficace e talvolta anche piuttosto evocativa.
Buona la prima, per ora, in attesa di ulteriori sviluppi.

Tracklist:
1.To Walk And Learn The Path To Endless Bliss
2.Floating Above The Immense Emotional Mountain Of Self Esteem
3.A Mantra For A New Found Hope
4.Upon The Clouds Lays The Strenght Of The Soul

Without Dreams – Rejected by Angel, Betrayed by Demon

L’ascolto di Rejected by Angel, Betrayed by Demon regala diversi attimi di funeral doom magari un po’ ruspante nella forma, ma sicuramente genuino negli intenti e capace di toccare, sia pure a intermittenza, le giuste corde.

Ancora una one man band russa si presenta sulla ormai piuttosto affollata scena funeral death doom.

Il nostro Thanataur, da quanto ci è dato sapere, dovrebbe essere al suo passo d’esordio ufficiale con il monicker Without Dreams, e di certo non si è fatto intimorire dalla cosa, visto che Rejected by Angel, Betrayed by Demon consta di soli due brani ma della durata complessiva ben superiore all’ora.
Questo lavoro può essere preso ad emblema di come, non sempre, far tutto da soli si riveli un vantaggio: l’album dal punto di vista prettamente compositivo è decisamente valido, alla luce delle atmosfere plumbee ma sempre intrise di melodia che il musicista di Ekaterinburg mette sul piatto; purtroppo, tutto ciò non viene sorretto costantemente da una tecnica strumentale all’altezza, specie nei passaggi di chitarra solista che, se affidati a mani più sapienti, avrebbero potuto fare davvero la differenza. Così il disco offre il meglio nei momenti più ruvidi, quando un buon growl sovrasta riff pesanti adeguatamente supportati dalle tastiere, mentre negli altri frangenti, inclusi quelli pianistici, l’esecuzione appare cosi scolastica da rendere il tutto alla stregua di un buon demo e nulla più.
Di positivo c’è sicuramente da rimarcare che, quando il sound si muove su territori affini a Comatose Vigil ed Ea, Thanataur è in grado di produrre con disinvoltura momenti senz’altro evocativi, il che fa rimpiangere davvero altri strutturati in maniera troppo minimale o approssimativa.
Per un appassionato del genere, più propenso per sua natura a passare sopra certe imperfezioni, Rejected by Angel, Betrayed by Demon risulterà comunque un lavoro gradevole, ma lo stesso non potrà verificarsi per chi approda in questi lidi ricercando aspetti più formali che non prettamente emotivi,
In sintesi, se Thanataur riuscisse a reperire un chitarrista capace di riprodurre al meglio le sue buone intuizioni melodiche, oppure se egli stesso facesse un passo avanti in tal senso sfruttando anche in maniera più adeguata il lavoro di produzione, il prossimo album dei Without Dreams potrebbe rivelarsi ben più convincente, anche se alla fin fine l’ascolto di Rejected by Angel, Betrayed by Demon regala diversi attimi di funeral doom magari un po’ ruspante nella forma, ma sicuramente genuino negli intenti e capace di toccare, sia pure a intermittenza, le giuste corde.

Tracklist
1.Demon of Suicide
2.Fallen Angel

Line-up:
Thanataur – Everything

Myridian – We, The Forlorn

La musica di questi ragazzi merita di essere esportata e posta all’attenzione del pubblico dell’emisfero nord, dove potrebbe trovare i meritati riscontri: nel frattempo non facciamo l’errore di ignorare un album come We, The Forlorn.

Nel 2012 gli australiani Myridian si erano fatti notare con un album d’esordio (Under the Fading Light) decisamente riuscito e già maturo.

Dopo qualche aggiustamento di line up e tre anni in più di esperienza, i ragazzi di Melbourne ritornano con una prova su lunga distanza che li conferma a pieno titolo quali autori di un death doom di grande classe ed altrettanta qualità.
We, The Forlorn è un un lavoro privo di punti deboli, prodotto benissimo ed altrettanto perfettamente eseguito, evidenziando un costante equilibrio tra tutte le componenti del sound. Fermo restando il pallino in mano ai due membri fondatori, Scott Brierley (chitarrista ed autore di tutte le musiche) e Felix Lane (vocalist e bassista), i nuovi entrati Ian Mather (chitarra) e Dan Liston /tastiere), entrambi dei Catacombs, e Zebådee Scott (batteria), degli Adamus Exul, portano nuova linfa e allo stesso tempo ulteriore compattezza al sound.
Lo stile dei Myridian attinge alla frangia più melodica del genere e, tutto sommato, si rivela un ideale mix tra i suoni della scuola europea e di quella statunitense, con riferimenti più che normali rinvenibili rispettivamente nei Swallow The Sun e nei Daylight Dies.
Il lavoro è piuttosto lungo, con i suoi quasi settanta minuti di durata, ma riesce a tenere costantemente desta l’attenzione in virtù dell’elevata qualità media dei brani anche se, nel corso dei primi ascolti, sembrerebbe mancare il brano sopra le righe capace di inchiodare l’ascoltatore in un loop ininterrotto. In realtà, insistendo nei passaggi, esplode infine in tutta la sua dolente bellezza una traccia come Snowscape, trasudante malinconia da ogni nota, e non lontano da tali livelli si vano a collocare la title track, A Lone Rose e la conclusiva Mourning Tide. Notevoli anche These Weary Bones, che vede il particolare contributo dell’ospite Nick Magur, (vocalist dei già citati blacksters Adamus Exul, band nella quale peraltro ha suonato lo stesso Lane), con il suo screaming estremo ai limiti del depressive, Silent Death e Desolace, mentre l’episodio più breve, I, the Bereft, è uno strumentale acustico che di fatto divide in due parti il lavoro, introducendone l’ultima mezz’ora, invero splendida.
Felix Lane si rivela un ottimo vocalist, buono nell’alternare, novello Kotamäki, growl, scream e clean vocals senza accusare cedimenti ma, davvero, questi cinque musicisti australiani si sono espressi tutti al loro meglio per regalarci questa ennesima perla partorita da un genere musicale che continua a riservare sorprese provenienti da ogni angolo del pianeta.
Forse i Myridian rischiano di pagare in parte il loro isolamento geografico, muovendosi per di più in un ambito di nicchia per sua definizione, ma se oggi i Swallow The Sun escono per Century Media, non vedo perché la band di Melbourne non possa ambire almeno ad un contratto con qualche label del settore tipo Solitude o Weird Truth, tanto per citarne due tra le più qualitative a livello di roster. La musica di questi ragazzi merita di essere esportata e posta all’attenzione del pubblico dell’emisfero nord, dove potrebbe trovare i meritati riscontri: nel frattempo non facciamo l’errore di ignorare un album come We, The Forlorn.

Tracklist:
1. We, the Forlorn
2. Silent Death
3. These Weary Bones
4. A Lone Rose
5. I, the Bereft
6. Snowscape
7. Desolace
8. Mourning Tide

Line-up:
Felix Lane – Vocals, Bass
Scott Brierley – Guitars
Ian Mather – Guitars
Dan Liston – Keyboards
Zebådee Scott – Drums

MYRIDIAN – Facebook

Cemetery Fog – Towards the Gates

Musica affascinante, almeno per chi è ancora innamorato del sound catacombale dei primi anni novanta.

Un’altra ottima ristampa licenziata dalla nostrana Terror From Hell, label specializzata nei suoni estremi classici, risulta questo quarto lavoro del trio finlandese, abituato a passeggiare tra cimiteri avvolti nella spessa coltre di nebbia che raffredda le ossa e sveglia le anime dei defunti.

Il gruppo attivo dal 2012 aveva precedentemente dato alle stampe un terzetto di demo per la Iron Bonehead Productions, che si era occupata di rilasciare anche questo ep rigorosamente in vinile, ora uscito in versione cd per l’etichetta vicentina.
I Cemetery Fog sono J. Filppu,J. Väyrynen e V. Kettunen e fanno death metal dai richiami doom/dark, un genere che, nei primi anni novanta regalò pietre miliari come i primi album di Katatonia, Paradise Lost e My Dying Bride ed il loro Towards The Gates sembra in tutto per tutto un disco uscito in quel periodo.
Produzione sporca, atmosfere dark e funeree, lunghe parti di lento ed oscuro doom/death che, se non lascia granché in personalità, punta tutto sulle atmosfere, creando musica dall’elevato fascino.
Il cuore di questo lavoro sono tre brani mediamente lunghi, composti da riff lenti e mortiferi, giri pianistici melanconici e il growl sofferto, accompagnato talvolta da clean vocals che sinceramente sono il punto debole della musica del gruppo di Hamina.
Molto meglio quando il growl oscuro si erge sul lento incedere del sound e sembra davvero di perdersi in oscuri cimiteri, dove tra la nebbia, le statue tombali si ergono e richiamano angeli caduti, malinconici altari innalzati per l’altro mondo, un sofferto e drammatico passaggio dalla vita alla morte, che non lascia nessuna speranza e ci avvolge nella più tragica oscurità.
Tra le songs spicca Shadow of Her Tomb, notevole marcia verso l’oblio del purgatorio, brano che nella track list di quel capolavoro che è As The Flower Withers, primo full length della sposa morente, avrebbe fatto la sua figura.
Musica affascinante, almeno per chi è ancora innamorato del sound catacombale dei primi anni novanta, nel frattempo aspettiamo buone nuove, godendoci questo salto nel tempo.

TRACKLIST
1. Intro
2. Withered Dreams of Death
3. Embrace of the Darkness
4. Shadow of Her Tomb
5. Outro – Towards the Gates

LINE-UP
J. Filppu – Guitar, Vocals
J. Väyrynen – Guitar
V. Kettunen – Drums

CEMETERY FOG – Facebook

Ephemeral Ocean – The Efflorescence

La giovane band proveniente da Mosca licenzia un ottimo esempio di death metal dall’incedere doom, oscuro e drammatico, in linea con le produzioni di metà anni novanta, con un particolare gusto per melodie malinconiche e buone digressioni progressive.

Immaginate l’inquietudine che può suscitare la maestosa oscurità dell’oceano in una notte dove solo i lampi di una tempesta in lontananza, lasciano trasparire un poco di luce tra il buio del cielo e del mare, dove noi, nel mezzo galleggiamo, mentre l’oscurità ed il mare profondo aspettano un nostro attimo di debolezza per inghiottirci nel buio più profondo, metafora dell’animo umano, sempre più attratto dalla parte più oscura, drammatica e, molte volte malvagia.

Questo quadro inquietante può trovare la propria espressione in musica tra le note del primo full length dei death doomsters russi Ephemeral Ocean, arrivati al debutto dopo aver dato alle stampe Honour in the Mask, ep dello scorso anno.
La giovane band proveniente da Mosca licenzia un ottimo esempio di death metal dall’incedere doom, oscuro e drammatico, in linea con le produzioni, di metà anni novanta, con un particolare gusto per le melodie malinconiche e buone digressioni progressive.
L’album si sviluppa in sette movimenti dove armonie acustiche, andamenti rallentati e sfuriate estreme, sono ben congegnate ed accompagnate da un growl cavernoso ed una voce pulita all’altezza della situazione, molto espressiva e dai rimandi dark/prog.
I brani sono molto suggestivi, nel genere ben delineati e per nulla scontati, grazie ad una buona varietà di umori che pur mantenendo i colori su tonalità nere, rendono l’ascolto piacevole anche per chi non è propriamente un’anima oscura.
Si entra subito nell’aurea drammatica dell’opera con l’opener The Semblance of Eternal Mist, una death metal songs scritta su di un arcobaleno dai colori di un nero intenso che piano, si attenuano verso un grigio, come quando i lampi di luce schiariscono e ci fanno vedere le ombrose nuvole sopra di noi.
E’ un attimo, un battito di ciglia, in Inanimate Diary torniamo a galleggiare nell’immenso del mare e del cielo, la splendida voce pulita introduce il brano che di colpo vira ancora verso territori estremi, dalle ritmiche pressanti di nuovo aggrediti dal canto estremo di Dmitriy Stempkovskiy, protagonista di un’ottima interpretazione anche con le clean vocals.
Lullaby to Our Grudges risulta il brano più bello e struggente del lotto, insieme alla conclusiva No Will, quasi dieci minuti dove il gruppo russo affronta demoni, tra sfuriate estreme e armonie dark prog, con risultati davvero notevoli per teatralità, atmosfere e l’innato talento per i suoni melanconici e drammatici.
Le influenze si riscontrano nei primi lavori dei gruppi diventati icone del genere come Katatonia e Opeth, con riff e solo che richiamano i Dark Tranquillity, nelle parti più death oriented, anche se la band le inserisce in un contesto proprio, con ottima personalità, così che The Efflorescence risulti un ottimo ascolto per gli amanti del genere.
Gruppo dalle indiscutibili capacità gli Ephemereal Ocean vanno seguiti con attenzione, al prossimo giro potrebbero regalarci grosse soddisfazioni, consigliati.

TRACKLIST
1. The Semblance of Eternal Mist
2. Inanimate Diary
3. One More Carnation
4. Lullaby to Our Grudges
5. Angel That Conducted
6. Black Cobra
7. No Will

LINE-UP
Alexey Kostovitskiy – Guitars/Synths
Dmitriy Stempkovskiy – Vocals
Roman Vedeneev – Bass
Efim Burak – Drums/Percussion
Anton Garm – Guitars

EPHEMEREAL OCEAN – Facebook

Majestic Downfall – …When Dead

Bellissimo disco ed ennesima conferma del valore di un musicista che sarebbe delittuoso sottovalutare.

Ho seguito Jacobo Córdova con il suo progetto Majestic Downfall fin dal full-length d’esordio Temple Of Guilt, risalente al 2009, e già quei primi passi riuscirono a convincermi attraverso la proposta di un death-doom piuttosto aspro ma decisamente bilanciato, ben eseguito e dal livello compositivo sempre al di sopra della media.

Lo split dello scorso anno con The Slow Death, poi, aveva messo in evidenza un’ulteriore maturazione in virtù di una manciata di brani molto efficaci e per certi versi più diretti che in passato, rendendolo così propedeutico alla pubblicazione di un album in grado di elevare il nome Majestic Downfall all’altezza delle migliori band del genere.
… When Dead, quarto full-length per Córdova, centra il bersaglio senza per forza di cose soggiacere ad una ammorbidimento del sound, anzi, il musicista messicano continua a martellare i timpani con un death doom sovente orientato sulla prime delle due componenti, senza tralasciare di inserire pregevoli passaggi chitarristici di stampo heavy, ad infiorettare un album di notevole valore.
Il quarto d’ora di Escape My Thought rappresenta la quintessenza del disco, grazie ad uno sviluppo che va ad abbracciare tutte le sfumature stilistiche compatibili con il genere proposto, contribuendo a collocare i Majestic Downfall su un piano molto vicino ad un altro interessantissimo progetto solista come quello dei Doomed del tedesco Pierre Laube: a differenza del suo collega teutonico, Jacobo Córdova pare possedere una maggiore propensione a repentine aperture melodiche che, per esempio, riescono ad dare respiro magnificamente, nel suo finale, ad un brano a lungo piuttosto tetragono come The Brick, the Concrete.
Se Doors è ottimamente in linea con le tracce precedenti (fa eccezione la breve quanto evocativa intro atmosferica …When Dead), The Rain of the Dead chiude l’album rappresentando il death doom più ortodosso e rallentato. ma senza che si rinunci mai a quelle caratteristiche accelerazioni che impediscono al songwriting di avvitarsi su sé stesso.
Bellissimo disco ed ennesima conferma del valore di un musicista che sarebbe delittuoso sottovalutare.

Tracklist
1. …When Dead
2. Escape My Thought
3. The Brick, the Concrete
4. Doors
5. The Rain of the Dead

Line-up:
Jacobo Córdova – Vocals, Guitar, Bass, Keyboards, Drums
Alfonso Sánchez – Drums

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=NUIU_2lloy0

Fin’amor – Forbidding Mourning

Un primo passo più che positivo, per il prossimo si auspica essenzialmente un graduale distacco dai propri modelli stilistici.

A tre anni dal singolo Memories Of Flesh, gli statunitensi Fin’amor si presentano sulla scena death doom con questo full length d’esordio intitolato Forbidding Mourning.

Al contrario di quanto accade di solito alle band d’oltreoceano, che spesso prendono spunto da quella che è la loro migliore espressione nel settore, ovvero i Daylight Dies, il gruppo newyorchese volge il proprio sguardo verso la vecchia Europa, nello specifico in Finlandia prendendo come punto di riferimento soprattutto i Swallow The Sun.
Non che i nostri siano una fotocopia dei maestri del death doom melodico, tutto sommato i Fin’amor ci mettono del loro per cercare di differenziarsi, a partire da un uso più cospicuo del pianoforte rispetto agli standard del genere, certo è che, quando il sound decolla esprimendo del tutto la sua corposa drammaticità, le somiglianze con Raivio e soci sono evidenti.
Poco male, in fondo, visto che l’offerta dei ragazzi di Brooklyn si attesta su un buon livello medio, compensando la relativa originalità con un’apprezzabile vena compositiva evidenziata in tracce cariche di pathos come Oasis e la lunga Natura, senza dimenticare episodi più rarefatti ma non meno efficaci come Memories Of Flesh o Porcelain Swan.
Da rimarcare la buona prova vocale di Benjamin Meyerson, fondatore dei Fin’amor assieme al chitarrista Julian Chuzhik e al tastierista Nodar Khutortsov, dotato di un growl potente ed una voce pulita profonda ed intonata; inoltre, l’attuale configurazione della band a sei elementi arricchisce non poco il sound, rendendo ancor più efficaci i passaggi più robusti.
In definitiva un primo passo più che positivo, per il prossimo si auspica essenzialmente un graduale distacco dai propri modelli stilistici.

Tracklist:
1.Bleed the Ocean
2.Oasis
3.I Am Winter
4.Memories of Flesh
5.Natura
6.Porcelain Swan
7.Valediction

Line-up:
Julian Chuzhik – Guitars
Nodar Khutortsov – Keyboards
Benjamin Meyerson – Vocals
Slava Morozov – Bass
Eugene Bell – Drums
Raphael Pinsker – Guitars

FIN’AMOR – Facebook

Tyrant’s Kall – Gla’aki

Ancora il maestro Lovecraft in primo piano, fonte d’ispirazione per moltissime band e sul quale i Tyrant’s Kall aggiungono un’altra ottima colonna sonora

Ispirati dai racconti di H.P. Lovecraft, tornano con il secondo lavoro sulla lunga distanza i Tyrant’s Kall, gruppo belga che unisce death metal scandinavo, pesantezza doom e sfuriate thrash per un risultato estremo che, lungi da reminiscenze moderne, crea atmosfere horrorifiche ed epico/fantasy.

La band, che dietro al microfono si avvale di una miss dall’ugola di un orco che parte da Minas Morgul in assetto di guerra (Esmee Tabasco), nasce nel 2007 e l’esordio sulla lunga distanza ( Dagon) viene rilasciato nel 2012.
Come detto i Tyrant’s Kall uniscono in modo sagace il death metal scandinavo dei primi anni novanta, con il doom epico, la Tabasco passa così dal growl alla voce pulita, grintosa ed in alcuni casi declamatoria, mentre i suoi compagni alternano veloci cavalcate estreme, a rallentamenti doom metal classici, rendendo la loro proposta varia e dal piacevole ascolto.
Pesantezza a tratti monolitica, tipica del doom/death ed ottime parti dove le sonorità classiche la fanno da padrone, riempono l’aria di atmosfere horror e sfumature guerresche, l’album ha nel gran lavoro della parte ritmica il suo punto di forza, esaltante quando corre via (Miskatonic Witch), pesantissima nello scorrere lento e inesorabile della musica del destino (Evil Eye) mantenendo alta l’attenzione dell’ascoltatore, con l’indubbia bravura nel saper variare il sound al momento giusto.
Tra i solchi di Gla’aKi non vi sarà difficile scoprire le numerose influenze che il gruppo ingloba nel proprio sound, senza lasciare un retrogusto di già sentito, perché non sono poche le band storiche, famose e non che vengono tirate in ballo dal gruppo belga.
Dismember ed Entombed, Candlemass, Solitude Aeturnus e gli Year Zero tanto per fare dei nomi, si danno il cambio nelle varie tracce, fino alla conclusiva Elixir Of Immortality, il perfetto riassunto del sound del gruppo, partenza doom, intermezzo atmosferico e declamatorio e partenza a razzo per raggiungere il metal più estremo, fino al ritorno a sonorità monolitiche che ci accompagnano alla fine dell’album.
Ancora il maestro Lovecraft in primo piano, fonte d’ispirazione per moltissime band e sul quale i Tyrant’s Kall aggiungono un’altra ottima colonna sonora: per gli amanti dei generi sopracitati un album davvero riuscito.

TRACKLIST
01. The Kraken
02. Medusa
03. Gla’aki
04. Evil Eye
05. Michel Mauvais
06. Miskatonic Witch
07. Fearsome Dreams In The Deep
08. The One That Slumbers
09. Elixir Of Immortality

LINE-UP
Vocals: Esmee Tabasco
Lead Guitar: Ronny Razor
Guitar: H.M. Doom
Bass: UxJx
Drums: M.

TYRANT’S KALL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=yfjL7Wq1yNM

The Crawling – In Light of Dark Days

Attivi da un anno nella scena estrema, i nord irlandesi The Crawling licenziano il primo lavoro, questo ottimo ep di tre brani che farà lacrimare sangue ai deathsters old school

Attivi da un anno nella scena estrema, i nord irlandesi The Crawling licenziano il primo lavoro, questo ottimo ep di tre brani, che farà lacrimare sangue ai deathsters old school, specialmente chi predilige ritmi cadenzati e slow al limite del doom.

Il trio composto da Andy Clarke (chitarra e voce), Stuart Rainey (basso e voce ) e Gary Beattie alle pelli, in una ventina di minuti ci presenta il suo sound, molto coinvolgente e dalle sfumature dark, drammatico ed evocativo, un lento incedere che non disdegna bellissimi intermezzi acustici, monolitiche parti death in un’atmosfera oscura e melanconica molto suggestiva.
L’opener The Right To Crawl entra subito nel vivo della proposta del gruppo, metallo estremo darkeggiante che non disdegna brevi accelerazioni e troncato in due da un bellissimo intermezzo acustico.
Le due voci , un growl cavernoso, ed uno scream abrasivo, ci accompagnano nel paesaggio spettrale disegnato dalla musica del gruppo, mentre End Of The Rope sa tanto di Katatonia, e il freddo inverno ci abbraccia, tra l’incedere elegante dell’inizio semiacustico e la rabbia espressa in attimi di violenta elettricità.
L’ultimo brano è il più vario del terzetto di brani proposti, una lenta marcia funerea scandita dai lenti colpi che Beattie infligge sul drumkit, prima che si torni a metallizzare il tutto con l’entrata in campo della sei corde.
Catatonic è composta da riff monolitici, l’atmosfera si fa funesta e la suggestiva altalena tra momenti intimisti e sfuriate death, imprime al brano un alone tetro reso ancora più oscuro dal sopraggiungere di un temporale.
Katatonia, My Dying Bride e primi Paradise Lost sono le band di riferimento per il sound dei The Crawling che comunque si fa apprezzare per le ottime atmosfere sofferte e la buona personalità, assolutamente da ascoltare se siete amanti di tali sonorità, promossi.

TRACKLIST
1. The Right to Crawl
2. End of the Rope
3. Catatonic

LINE-UP
Andy Clarke – Guitar Vocals
Stuart Rainey – Bass Vocals
Gary Beattie – Drums

THE CRAWLING – Facebook

Ennui – Falsvs Anno Domini

Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del funeral-death doom.

Nuovo album per i georgiani Ennui, da qualche anno alla ribalta nella scena doom con il loro sound di matrice funeral/death doom e dei quali ho avuto il piacere e l’opportunità di seguire il percorso musicale fin dai primi passi corrispondenti con l’album d’esordio Mze Ukunisa del 2012.

A questo punto della loro storia, David Unsaved e Serj Shenghelia non potevano più nascondersi in quanto da loro era lecito attendersi un album che non solo desse continuità a quanto già fatto, ma che garantisse un decisivo e definitivo salto di qualità.
Per fare questo i due musicisti di Tblisi, passati nel frattempo dalla MFL Records di Evander Sinque, che ha avuto il grande merito di sdoganarli, alla Solitude Productions, intanto hanno ritenuto di avvalersi in pianta stabile di un terzo elemento che si dedicasse alla sezione ritmica e individuato, niente meno, che in Daniel Neagoe, sua maestà “il growl” nonché mastermind degli Eye Of Solitude, dei Clouds e coinvolto in mille altri progetti di livello assoluto (peraltro, il musicista di origine rumena ha anche curato personalmente masterizzazione e mixaggio dell’album).
Ma David e Serj non si sono accontentati dell’ingaggio di un nome così pesante, anzi … : scorrendo la lista degli ospiti che hanno fornito il loro contributo alla riuscita del disco troviamo gente come Greg Chandler (Esoteric), Don Zaros (Evoken), Sameli Köykkä (Colosseum) e AKiEzor (Abstract Spirit e Comatose Vigil), quasi a voler chiamare a raccolta, simbolicamente, i nomi storici della scena a fornire una sorta di imprimatur all’opera.
Questo spiegamento di forze ha prodotto il risultato sperato: Falsvs Anno Domini è l’album definitivo degli Ennui, quello che consentirà loro di passare dallo status di ottima band futuribile a quello di realtà consolidata in grado di riscrivere la storia del genere negli anni a venire.
Rispetto all’ultimo lavoro il sound si è spostato maggiormente verso un death dooom dai toni aspri ma non privo di aperture melodiche e atmosferiche: l’aura che avvolge il sound degli Ennui appare però molto più cupa e minacciosa che in passato, in ossequio ad un contenuto lirico che non lascia soverchie speranze riguardo alle redenzione di un’umanità avviata all’ineluttabile autodistruzione, ancor più morale che materiale.
Forbidden Life apre l’album in maniera invero piuttosto anomala, con un suono di chitarra che ricorda maledettamente quello di The Figurhead dell’immortale capolavoro Pornography targato Cure: un caso ? Forse, ma non c’è dubbio che nessuno meglio di Smith ha preconizzato, all’inizio degli anni ottanta, l’inizio del decadimento dell’umanità, raccontando il disagio di chi a vent’anni si sentiva un centenario precoce.
Il brano poi si apre in maniera più canonica, mantenendo un andamento piuttosto malinconico , ma è con la successiva The Apostasy che Falsvs Anno Domini prende definitivamente quota, grazie a sonorità molto vicine a quelle dei Colosseum dell’indimenticato Juhani Palomaaki: momenti più aspri si alternano a funerei rallentamenti e ad ampie aperture nelle quali la chitarra tesse magnifiche e dolenti melodie.
Con TheStones Of The Timeless arriviamo al fulcro dell’intero album, laddove viene espresso oltre un quarto d’ora di pura disperazione, con uno screaming che prende il posto del più canonico growl ed una parte finale in cui, inconsciamente o meno, l’ingresso di Daniel negli Ennui si fa sentire tramite un crescendo melodico che è tipico marchio di fabbrica degli Eye Of Solitude: in definitiva, una meraviglia …
Dopo questi quaranta minuti di doom ai suoi massimi livelli, ce ne attendono circa altrettanti certamente non da meno per intensità e capacità evocative, con in particolare altre due tracce splendide come No Home Beneath the Stars, sedici minuti che volano via tra ricami chitarristici in un’atmosfera, almeno inizialmente, un po’ meno da tregenda ed un altro finale da brividi, e la title track, più vicina per sonorità alla scuola ex sovietica con i suoi toni cupi e solenni allo stesso tempo: la chiusura ossessiva sta a simboleggiare l’annientamento di ogni vana speranza, una sorta di reiterazione all’ennesima potenza della rabbia che assale chi si trova al cospetto di un degrado apparentemente senza limiti.
Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del genere: Falsvs Anno Domini è un altro grandissimo album in un settore musicale che, pur trattando prevalentemente della morte, è paradossalmente più vivo che mai, in un “anno domini” che ha visto il ritorno, dopo anni di silenzio, di giganti quali Shape Of Despair e Skepticism, oltre che dei meno noti Tyranny; la band georgiana dimostra che le nuove leve sono già all’altezza della situazione e in grado di alimentare nel migliore dei modi un genere capace di fornire emozioni uniche.

Tracklist:
1. Forbidden Life
2. The Apostasy
3. The Stones of the Timeless
4. When our Light Dies Forever
5. No Home Beneath the Stars
6. Falvs Anno Domini

Line-up:
David Unsaved – guitars, vocals, keyboards.
Serge Shengelia – guitars, vocals.
Daniel Neagoe – drums, bass.

ENNUI – Facebook