Swallow The Sun – Songs from the North I, II & III

Quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione

Cosa può spingere un band dedita ad un genere di nicchia come il doom ad uscire con un triplo album nell’anno domini 2015, in un periodo storico di vacche più scheletriche che magre dal punto di vista commerciale?

È vero, i SwallowThe Sun sono forse oggi, tra tutte le band di riferimento del genere, quella che possiede comunque un minimo di appeal commerciale, viste le aperture a sonorità più gotiche e melodiche evidenziatesi magnificamente nel precedente Emerald Forest and the Blackbird; in più, aggiungiamo che i finnici escono oggi sotto l’egida della Century Media, a suggellare l’impressione di un’operazione comunque pianificata con cura e ben lungi da rappresentare l’espressione di un’insana bulimia creativa ma, detto ciò, la fruizione di quasi tre ore di musica di tale fatta resta comunque affare per pochi.
Se nutrire qualche dubbio sulla resa finale complessiva di una simile mole di lavoro appare più che lecito, la sua strutturazione finisce per provocare qualche rimpianto a causa di alcune scelte non del tutto condivisibili di Raivio e soci.
Il contenuto dei tre cd, infatti, è suddiviso in maniera netta in base allo stile musicale proposto, per cui troviamo un disco 1 (intitolato Gloom) che ricalca le orme dell’ultimo full length, con le sue ampie aperture melodiche ed atmosferiche, un disco 2 (Beauty) completamente acustico ed un disco 3 (Despair) che porta i Swallow The Sun a battere un terreno ostico ed esplorato solo in parte nei primi due album, come quello rappresentato dal funeral-death/doom.
Per fortuna la montagna creativa dei nostri non ha partorito un topolino, nel senso che Songs from the North I, II & III è un’opera che resterà sicuramente impressa nella memoria degli appassionati come una delle migliori dell’anno, ma non si può sorvolare sul fatto che il disco acustico si rivela il classico vaso di coccio racchiuso in mezzo a due monumentali espressioni artistiche quali Gloom e Despair.
Bastano i 9 muniti di With You Came the Whole of the World’s Tears per capire che i Swallow The Sun sono tornati senza alcuna traccia di appannamento dovuta ai tre anni trascorsi da Emerald… : l’impronta compositiva di Raivio è un marchio di fabbrica in grado di amplificare la portata emotiva delle digressioni melodiche, mentre Kotamäki è ormai una certezza assoluta anche con le clean vocals, facendo sì che l’alternanza con il growl ed uno screaming usato con maggiore parsimonia non appaia mai forzata.
Almeno fino a Heartstrings Shattering il primo disco è di livelli irraggiungibili per molti, mentre la seconda metà è lievemente meno coinvolgente, pur risultando ugualmente di altissimo spessore.
Dopo un’ora di emozioni a profusione, Beauty rappresenta un inevitabile calo di tensione: impeccabile dal punto di vista esecutivo, il secondo cd difetta proprio in quell’afflato evocativo che dovrebbe essere insito in musica prevalentemente acustica, per evitare di renderla alla lunga inoffensiva; purtroppo la sola Songs from the North si rivela all’altezza della situazione, grazie anche al contributo in lingua madre della brava Kais Vala, mentre il resto scorre in maniera anche piacevole ma senza lasciare un segno davvero tangibile.
Con le prime note di The Gathering of Black Moths, che inaugura il disco conclusivo denominato Despair, veniamo scaraventati in atmosfere plumbee, in cui solo dosati spunti melodici rappresentano una fievole fiammella di speranza.
L’interpretazione del funeral da parte dei Swallow The Sun risente comunque dell’anima gotica connaturata al loro stile musicale, per cui l’andamento è sì dolente ma mai troppo claustrofobico, e la disperazione evocata dal titolo fornito al cd appare tangibile proprio nella sua malinconica ineluttabilità.
I finnici scendono così sul terreno preferito dei campioni del genere in questi ultimi anni, sto parlando degli Eye Of Solitude, e la battaglia è tutt’altro che impari, visto che Raivio tira fuori dal cilindro un pacchetto di brani magnifici, che si sublima nella straordinaria Abandoned by the Light: qui chitarra e tastiera (sempre ad opera del bravissimo Aleksi Munter) si alternano nel proporre partiture dolenti e capace di far rabbrividire le anime che si abbeverano di queste note.

Alla fine di questa sorta di prova di resistenza all’ascolto, ciò che resta di Songs From The North è molto e non sarà facile cancellare dalla memoria la bellezza di diversi brani contenuti nella trilogia.
Volendo fare gli incontentabili, come è giusto che sia al cospetto di quella che io considero una delle band migliori in assoluto del panorama, un disco doppio sarebbe stato il giusto mezzo che ci consentirebbe di parlare di quest’opera come di un qualcosa prossimo al capolavoro: così non è perché purtroppo, anche se lo si vorrebbe ignorare, il cd acustico c’è e non lo si può omettere ai fini della valutazione complessiva.
Però, sia chiaro, quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione da parte degli estimatori di questa splendida realtà musicale chiamata Swallow The Sun.

Disc 1 – Gloom
1. With You Came the Whole of the World’s Tears
2. 10 Silver Bullets
3. Rooms and Shadows
4. Heartstrings Shattering
5. Silhouettes
6. The Memory of Light
7. Lost & Catatonic
8. From Happiness to Dust

Disc 2 – Beauty
1. The Womb of Winter
2. The Heart of a Cold White Land
3. Away
4. Pray for the Winds to Come
5. Songs from the North
6. 66°50’N, 28°40’E
7. Autumn Fire
8. Before the Summer Dies

Disc 3 – Despair
1. The Gathering of Black Moths
2. 7 Hours Late
3. Empires of Loneliness
4. Abandoned by the Light
5. The Clouds Prepare for Battle

Line-up:
Juha Raivio – Guitars
Matti Honkonen – Bass
Markus Jämsen – Guitars
Aleksi Munter – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals
Juuso Raatikainen – Drums

SWALLOW THE SUN – Facebook

Halter – For The Abandoned

Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla band russa è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.

Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla gruppo russo è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.

Giunta al secondo album dopo Omnipresence of Rat Race del 2013, la band, se non muta sostanzialmente il proprio atteggiamento nei confronti dell’umanità e delle sue miserie, compie un deciso balzo in avanti dal punto di vista prettamente musicale, giacché il death doom scarno ed asciutto ma anche privo di particolari slanci, del precedente album, lascia posto ad una forma più elaborata con diverse aperture melodiche o riff relativamente fruibili, in grado di attrarre l’attenzione più agevolmente.
Nulla di nuovo, va sottolineato, ma con For The Abandoned gli Halter si allineano al livello medio delle produzioni del genere nel loro paese, che è decisamente elevato.
Dei 6 brani che compongono l’album due in particolare spiccano sugli altri: First Snow, che stempera la durezza di base del sound con passaggi più ariosi ed evocativi, e Keepers of Persistent War, che gode invece di una struttura per certi versi accattivante e che è la riprova di quanto sia in grado di fare la band russa nel momento in cui decide di aprirsi parzialmente a sonorità meno claustrofobiche.
Ma è tutto l‘album che si dimostra decisamente di un altro livello rispetto al predecessore (niente male anche l’incipit della conclusiva Ode To Abandoned); tutto sommato gli Halter riescono a differenziarsi dalle altre realtà del genere almeno a livello concettuale, laddove un atteggiamento complessivo in cui traspare una certa “pietas” nei confronti di chi è oggetto di un ineluttabile destino, viene in questo caso sopraffatto da un sorta di cinico disgusto nei confronti di un’umanità allo sbando.

Tracklist:
1. …of the Part of Nature
2. Hunters’ Brotherhood
3. First Snow
4. Pain Which Never Sleeps
5. Keepers of Persistent War
6. Ode to the Abandoned

Line-up:
Wad – Bass
VanesS – Drums
Igor – Guitars
Mid – Guitars
Alex – Vocals

Eye Of Solitude – Lugubrious Valedictory (Charity Single)

Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi attivata dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre.

Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi, promossa dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records, per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre; infatti, durante il concerto dei Goodbye to Gravity in programma al Colectiv Club, 32 persone hanno perso la vita e 179 sono rimaste ferite a causa di un incendio provocato da alcuni fuochi artificiali e propagatosi rapidamente all’interno del locale.

Le sostanze tossiche rilasciate dai rivestimenti in poliuretano e l’impossibilità per gran parte dei convenuti (circa 400 persone, visto che l’evento era oltretutto gratuito) di abbandonare rapidamente la sala a causa della presenza di una sola uscita di sicurezza, hanno provocato questa terribile tragedia che ha scosso tutti gli appassionati di metal in ogni parte del mondo.
Ha colpito e commosso, inoltre, la sorte di questi due autentici eroi, Adrian Rugina (batterista dei Bucium) e Claudiu Petre (fotografo e blogger), che hanno perso la loro vita dopo averne salvate molte altre; non a caso il Presidente della Repubblica li ha insigniti alla memoria del grado di Cavalieri dell’Ordine Nazionale (messaggio ai benpensanti: quando pensate con disprezzo ai “metallari”, accomunandoli per comodità o ignoranza a quelle masse di decerebrati che si autodistruggono ogni fine settimana a forza di droghe sintetiche, tenete ben impressa l’immagine di questi magnifici ragazzi …)

Claudiu Petre e Adrian Rugina
Claudiu Petre e Adrian Rugina


La mobilitazione da parte della label di Lille e della doom band inglese, guidata dal musicista rumeno Daniel Neagoe, è stata immediata e ha fornito come frutto questo (manco a dirlo) splendido brano inedito che è disponibile per il download sul bandcamp della Kaotoxin (http://listen.kaotoxin.com/album/lugubrious-valedictory-charity-single): i proventi ottenuti tramite le offerte libere, rilasciate per l’acquisto, verranno interamente devoluti alle famiglie delle vittime della tragedia.
Per quel che vale, garantisco personalmente sulla trasparenza e sulla sincerità dell’operazione, avendo avuto la possibilità di apprezzare in questi anni la serietà e la sensibilità di ottime persone quali Nicolas Williart e Daniel Neagoe.
Di seguito trovate il comunicato della Kaotoxin e degli Eye Of Solitude: appassionati di doom, e non solo, fate la vostra parte !

Non è un segreto che sia Kaotoxin che Eye Of Solitude abbiano forti legami con la Romania: un membro dello staff Kaotoxin, Radu C., è nato in Romania e abbiamo avuto modo di visitare il paese con lui due volte, e stringere nuove amicizie ogni volta, mentre l’anima musicale degli Eye Of Solitude, Daniel N., anche se vive da tempo nel Regno Unito, è nato anch’egli in Romania e ha forti legami con la scena locale, avendo fatto parte di diverse band del suo paese d’origine, e cerca di suonarvi il più spesso possibile , come accaduto nel 2013 al Ghost Gathering con gli Eye OF Solitude o, più recentemente, la scorsa estate come session drummer dei Shape of Despair al Dark Bombastic Evening.

Subito dopo la tragedia, Daniel N. ha deciso che gli Eye Of Solitude avrebbero rilasciato un singolo in formato solo digitale per raccogliere fondi per le famiglie di quelli che, purtroppo, sono morti in questo tragico evento.

Ecco un messaggio da Daniel N.:
“A tutti gli appassionati di metal in circolazione: noi, come Eye Of Solitude, vogliamo mostrare il nostro sostegno e la solidarietà alle vittime dell’incendio al Colectiv Club e alle loro famiglie. Tra di loro vi erano vecchi amici, tra i quali le persone che hanno lottato per salvare quelli intrappolati dentro quell’inferno ardente, eroi che ora hanno lasciato nello sgomento famiglie, mogli, mariti, figli e figlie.
Questo non è un supporto da prendere alla leggera, si tratta di una sveglia e di un invito alla solidarietà. Questo è un momento in cui tutti dovrebbero fare mente locale cercando di immaginare l’inferno che questi eroi hanno attraversato per salvare gli altri. Vorremmo fare appello a tutti voi per contribuire ad aiutare le famiglie e chi ne ha bisogno in questo momento.

Con questa operazione benefica speriamo di raccogliere il più possibile ed inviare il denaro direttamente alle famiglie di coloro che perirono nella notte di venerdì 30 Ottobre 2015. Ricordatevi, fratelli e sorelle, siamo tutti nella stessa comunità, ed abbiamo il dovere di essere uniti e solidali. Ricordatevi di queste persone, che sono state mogli, mariti, padri, madri, figli, figlie; amici … per favore, facciamo qualcosa!
Grazie.”

La totalità dei fondi raccolti da Kaotoxin attraverso le vendite digitali del singolo Lugubrious Valedictory, un brano inedito di oltre 13 minuti appositamente composto e registrato per questa iniziativa di beneficenza, andrà direttamente agli Eye Of Solitude i quali rassicurano i fan sul fatto che il denaro verrà consegnato direttamente a quelli che ne hanno bisogno.

1. Lugubrious Valedictory

Music & lyrics by EYE OF SOLITUDE
Produced by EYE OF SOLITUDE
Executive Producer: Nicolas Williart for Kaotoxin Records
Reproduced with kind permission of Kaotoxin Publishing

EYE OF SOLITUDE
Daniel N. – vocals
Mark A. – guitars
Steffan G. – guitars
Chris D. – bass
Adriano F. – drums

www.eyeofsolitude.com

Enshine – Singularity

A Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Avviso importante per gli appassionati del death doom melodico: se aspettavate con ansia il nuovo (e monumentale, non fosse altro che per le sue dimensioni, trattandosi di un triplo album) lavoro dei Swallow The Sun, Singularity degli Enshine si rivela ben più di un estemporaneo palliativo, trattandosi di uno dei dischi migliori del genere ascoltati non solo in tempi recenti ma in assoluto.

Una sorpresa? Non proprio, considerando che già il precedente Origin (2013) aveva convinto non poco e che lo stesso Jari Lindholm, solo qualche mese fa, aveva dato alle stampe un altro album superbo come Aphotic Veil, questa volta con l’insegna Exgenesis in compagnia del vocalist colombianoAlejandro Lotero (senza dimenticare il suo contributo all’unico parto su lunga distanza dei misconosciuti Slumber, l’eccellente Fallout del 2004)
Negli Enshine il polistrumentista svedese si avvale invece dell’ugola di una vecchia conoscenza della scena doom europea, Sebastien Pierre, già noto per il suo operato nei purtroppo disciolti Inborn Suffering e nella prima incarnazione dei Lethian Dreams; anche questa volta la spettacolare combinazione tra le partiture sonore di Lindholm e la voce del cantante transalpino si rivela irresistibile, rendendo Singularity l’ennesima preziosa gemma regalata da un genere musicale che continua ad estrarre emozioni a profusione dalla sua ideale cornucopia.
Rispetto agli Exgenesis il sound è più atmosferico, anche se i riferimenti ai più noti vicini di casa finlandesi sono sempre percepibili: quello che fa la differenza è un gusto melodico sorprendente, che si amalgama in maniera superba con i riff rocciosi ed il growl di Pierre; di certo il tocco chitarristico di Lindholm funge da ideale trait d’union tra le sue band, che si rivelano alla fine complementari nell’esibizione delle rispettive sfumature stilistiche.
Tracce eccezionali quali Dual Existence, In Our Mind e Dreamtide sono quelle in cui vengono raggiunti i picchi melodici garantiti dagli struggenti assoli di chitarra, mentre in altri brani la durezza del death opprime la componente doom senza soffocarne il melanconico incedere (Resurgence, The Final Trance).
Non vengono meno, infine, elementi che si ricollegano alla ben radicata tradizione del death melodico scandinavo, specie per quanto riguarda i suoni di band di seconda generazione tipo Insomnium, e diversi sconfinamenti in territori post metal, in particolare nel magnifico strumentale di chiusura Aphex.
Insomma, a Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. Dual Existence
2. Adrift
3. Resurgence
4. In Our Mind
5. Astarium Pt. II
6. Echoes
7. Dreamtide
8. The Final Trance
9. Apex

Line-up:
Jari Lindholm Guitars (2009-present)
See also: Exgenesis, ex-Slumber, Seas of Years, ex-Brugden, ex-Atoma, ex-Needlerust
Sebastien Pierre Vocals (2009-present)

ENSHINE – Facebook

Gateway – Gateway

Un album sorprendente ed efficacenella sua cruda essenzialità.

C’è doom e doom: specialmente quando ci si addentra nei meandri più estremi del genere si possono rinvenire espressioni consolatorie e malinconiche, capaci di indurre alla commozione, ed altre che invece cercano senza alcuna mediazione di sprofondare definitivamente l’ascoltatore in un abisso putrescente.

Questo è appunto il caso dell’album d’esordio dei Gateway, one man band belga appannaggio del musicista di Bruges Robin Van Oyen: per approcciarsi a questo lavoro bisogna essenzialmente dimenticarsi cosa sia un suono limpido e perfettino, perché qui, per una quarantina di minuti, riff densi e riverberati conducono le macabre danze accompagnati da un growl inumano (magari reso tale da qualche aiuto tecnologico, ma chi se ne importa) per un risultato che fotografa perfettamente le tematiche orrorifiche inerenti il medioevo e, come anticipato dalla copertina, le efferate pratiche di tortura alle quali venivano sottoposti diversi sventurati.
Un difetto dell’album? La sensazione di ascoltare dall’inizio alla fine lo stesso brano; un suo pregio? Esattamente lo stesso, proprio perché per tutta la sua lunghezza si è sottoposti ad una sorta di apnea musicale dalla quale sembra di non poter mai uscire.
A livello di influenze dichiarate dal musicista fiammingo vengono citati nomi come Winter ed Autopsy, e fin qui ci siamo, mentre mi trova un po‘ meno d’accordo l’accostamento agli Evoken, in quanto la band di John Paradiso è portatrice di un sound molto più ortodosso e raffinato, al confronto; semmai l’andamento ritmico, le connotazioni horror e lo stesso ossessivo approccio, mi spingono audacemente a pensare ad una versione priva di tastiere dei nostri Abysmal Grief.
Vox Occultus, Impaled e Vile Tempress e la pietra miliare The Shores Of Daruk, nella quale affiora qualche accenno di melodia, sono i picchi di un album sorprendente ed efficace nella sua cruda essenzialità, da ascoltare preferibilmente a volume esagerato, pur sapendo che i vicini invocheranno molto probabilmente l’intervento di un esorcista …

Tracklist:
1. Prolegomenon (Intro)
2. Vox Occultus
3. Kha’laam
4. Impaled
5. Corrumpert Interludium
6. Vile Temptress
7. Hollow
8. The Shores of Daruk
9. Portaclus (CD bonus track)

Line-up:
Robin van Oyen – Everything

GATEWAY – Facebook

Arrant Saudade – The Peace Of Solitude

Prodotto comunque superiore alla media, questo primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

Arrant Saudade è l’ennesimo progetto che vede coinvolto Riccardo Veronese, uno dei principali protagonisti della scena Doom londinese.

Aphonic Threnody, Dea Marica e Gallow God sono band che abbiamo già trattato su queste pagine, tutte accomunate dalla presenza del chitarrista dalle chiare origini italiane.
La prima di queste, una delle migliori espressioni attuale del death doom continetale, annovera nella sua line-up anche il cileno Juan Escobar (Astorvoltaire, ma soprattutto vocalist dei magnifici e purtroppo non più attivi Mar De Grises), il quale anche qui accompagna Veronese occuoandosi di tutti gli strumenti ad eccezione della chitarra, assieme al vocalist francese Hangsvart, solitario protagonista di interessanti progetti quali Abysmal Growls Of Despair e Plagueprayer.
Questo stimolante mix di scuole e stili, pur sempre circostritto all’ambito doom, offre un frutto decisamente intrigante anche se non così prelibato come sarebbe stato lecito attendersi.
Nel lavoro, infatti, viene parzialmente meno quella linea continua di dolore ed oppressione che lo stesso Veronese era riuscito così bene ad evocare negli ultimi lavori degli Aphonic Threnody: una traccia magnifica come la lunga Drifting Reality non sempre trova il suo corrispettivo nel corso di un album che presenta più di un passaggio interlocutorio.
Forse è il mio pensiero di appassionato del genere ad essere troppo schematico, ma il brano appena citato contiene tutte le corrdinate ideali di ciò che dovrebbe scaturire dal funeral-death doom : una linea melodica, dolente e soffocante nel contempo, rotta solo da un growl impietoso e da improvvisi squarci di luce tremolante rappresentato dalle malinconiche pennellate della chitarra solista (a cura dell’ospite Josh Moran dei validi Vacant Eyes).
Decisamente meglio nella sua seconda metà (ottima anche la conclusiva No Dream Left in Me), The Peace of Solitude impiega un po’ troppo a decollare ma va detto che, quando ciò avviene, il palato degli intenditori viene decisamente appagato.
Prodotto comunque superiore alla media, il primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

TRACKLIST
1. Only the Dead
2. Feel Like Your Shadow
3. The Peace of Solitude
4. Drifting Reality
5. No Dream Left in Me

LINE-UP
Juan Escobar – Bass, Drums, Keyboards, Vocals (backing)
Riccardo Veronese – Guitars
Hangsvart – Vocals

ARRANT SAUDADE – Facebook

Soijl – Endless Elysian Fields

Promozione piena al primo tentativo per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl.

Mattias Svensson è un musicista svedese il cui nome è indissolubilmente legato alla sua presenza in veste di chitarrista ritmico nella line-up dei Saturnus che ha inciso il capolavoro “Saturn In Ascension”; tanto basta, forse, per rendere appetibile l’album d’esordio di questo suo progetto solista denominato Soijl che, volenti o nolenti, prende le mosse dal sound dei maestri danesi.

Ma il pedigree da solo non basta, servono anche le canzoni e quindi doti compositive non comuni ed è proprio grazie a questo che il buon Mattias, dopo aver arruolato il vocalist Henrik Kindvall, centra il bersaglio con Endless Elysian Fields.
Inevitabilmente, non appena la chitarra solista entra in scena, la mente corre al tocco di quello che è stato per qualche anno il suo compagno di avventura nei Saturnus, Rune Stiassny, ma non bisogna commettere l’errore di pensare ad un bieco lavoro di scimmiottamento (che, detto per inciso, a chi ama queste sonorità non può comunque dispiacere): i Soijl riescono spesso a fondere la dolente malinconia evocata dalla sei corde con tratti più minacciosi ed oscuri che rimandano oltreoceano ai magnifici Daylight Dies.
Questo connubio funziona perfettamente nel corso di un lavoro compatto nella sua ora scarsa di durata e capace di regalare i due brani migliori nei suoi estremi: la title track, posta in apertura, nella quale il vocalist sorprende con il suo growl davvero eccellente che solo a tratti riconduce a quello di Thomas Jensen (è più vicino, semmai, al ringhio di Paul Kuhr dei Novembers Doom), e la stupenda The Shattering, che chiude l’opera con la chitarra a tessere struggenti melodie.
Ma anche tutto ciò che sta nel mezzo è assolutamente degno di nota (ottime Dying Kinship, Drifter, Trickster e The Cosmic Cold), grazie ad umori che si avvicinano anche a due espressioni death doom di valore assoluto della scena svedese quali When Nothing Remains e Doom Vs.
Promozione piena al primo tentativo, quindi, per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl, e noi appassionati non possiamo che godere dei frutti prelibati che il rigoglioso albero dei Saturnus continua ad offrire …

Tracklist:
1. Endless Elysian Fields
2. Dying Kinship
3. Swan Song
4. The Formation of a Black Nightsky
5. Drifter, Trickster
6. The Cosmic Cold
7. The Shattering

Line-up:
Mattias Svensson – Guitars, Bass, Drums, Keyboards
Henrik Kindvall – Vocals

SOIJL – Facebook

SATURNUS + HELEVORN – 20/9/15 Collegno, Padiglione 14

Tre ore di musica magnifica; peccato per chi non c’era …

Nel raccontare una giornata di questo tipo la cosa più complessa è scegliere da che parte iniziare: quindi, seguendo un po’ l’istinto, un po’ le convenzioni, darò prima la notizia cattiva rispetto a quella buona.

La cattiva notizia è che organizzare concerti doom in Italia si sta rivelando un cimento per temerari (rappresentati nello specifico da Alex e Simone della House Of Ashes) che antepongono la passione al mero interesse economico, e se la cosa può valere in senso lato per molti di coloro che ci provano con buona parte del metal underground, lo è a maggior ragione con un genere che, in particolare dalle nostre parti, riscuote l’interesse di un numero davvero limitato di persone.
Josep Brunet, vocalist degli splendidi Helevorn, nonché ennesima bella persona che ho avuto la ventura di conoscere tra coloro che calcano i palchi metal, mi confidava d’essere più stupito che amareggiato non tanto per la propria band quanto per il fatto che ad assistere ad un concerto dei Saturnus (cosa che per chi ama il doom dovrebbe costituire un appuntamento imperdibile) ci fossero circa 30 persone, che erano ancora meno durante l’esibizione della band maiorchina.
Non è un dogma assoluto, sia chiaro, ma il fatto che per ascoltare doom, specialmente quello più estremo pur se dai connotati melodici, sia necessario possedere una buona dose di sensibilità, mi porta a pensare, alla luce delle scarse presenze (peraltro confermate in qualche modo nella precedente data bresciana), che la deriva del nostro paese verso un protervo ed edonista menefreghismo sia del tutto inarrestabile.
Del resto, in una nazione in cui nessuno pare abbia voglia di muovere il proprio culo per andare ai concerti e, anzi, da più parti si invoca persino la chiusura degli spazi all’aperto dedicati alla musica rock e metal (successo a Genova quest’estate), folle oceaniche si spostano solo quando il tutto viene insignito del marchio dell’evento epocale, al quale non si può mancare pena l’oblio eterno sui social network, che pare essere la peggiore delle condanne; aggiungiamo poi che, per organizzare l’ultimo di questi (il campovolo ligabuesco), pare addirittura che un intero quartiere di Reggio Emilia sia stato di fatto messo sotto sequestro, impedendo ai residenti di uscire o ancor peggio di entrare a casa propria: cosa dobbiamo pensare od aspettarci ancora ? Non lo so, fatto sta che, al netto di queste tristi ma dovute considerazioni, la serata al Padiglione 14 di Collegno (ecco la notizia positiva) resterà a lungo impressa nella mia memoria.
Diciamoci la verità, se da una parte constatare la sordità della maggior parte delle persone fa rabbia, dall’altra, egoisticamente, si trasforma in un vantaggio non da poco potersi godere una delle proprie band preferite (i Saturnus) ed un’altra che è sulla buonissima strada per diventarla (gli Helevorn) come se si fosse nel salotto di casa propria, a stretto contatto con i musicisti e con quelle altre poche anime unite dalla comune passione per sonorità inimitabili sotto l’aspetto evocativo.
Tre ore di musica magnifica, quindi, resa tale anche da suoni tarati ottimamente, che i pochi ma buoni della famiglia doom (come ha simpaticamente detto Josep all’inizio dell’esibizione degli Helevorn di fronte allo sparuto gruppo di spettatori) si sono goduti alla faccia di chi, nel contempo, altrove stava partecipando ad un rituale di massa con il solo scopo di poter dire “io c’ero …”, probabilmente osservando il proprio intoccabile idolo a centinaia di metri di distanza.
Gli Helevorn provenivano da un album entusiasmante come Compassion Forlorn e sul palco hanno confermato ampiamente il loro valore come musicisti e performer: Josep Brunet ha padroneggiato con disinvoltura le clean vocals che forniscono un tocco decisamente più gothic al sound degli spagnoli, mantenendo peraltro inalterato il proprio eccellente growl, Samuel Morales ha offerto una fondamentale impronta melodica con la chitarra solista, il tutto sopra il tappeto atmosferico creato dalle tastiere di Enrique Sierra; non da meno sono stati il simpaticissimo Sandro Vizcaino alla chitarra ritmica, Xavi Gil alla batteria e Guillem Calderon al basso.
I nostri hanno proposto, in un set purtroppo breve ma intenso, alcune delle perle tratte dall’ultimo album (su tutte il singolo Burden Me ed il capolavoro Delusive Eyes) oltre alla ben nota From Our Glorious Days, uno dei picchi assoluti della loro precedente discografia.
Dopo una breve pausa, l’incipit di Litany Of Rain ha annunciato la salita sul palco dei Saturnus, band per la quale ho già sprecato in passato tutti gli elogi e gli aggettivi a disposizione del mio limitato vocabolario. Posso solo aggiungere che poter ascoltare dal vivo brani capaci già di indurre alle lacrime quando si sta comodamente seduti sul divano di casa, può avere un impatto emotivo davvero devastante, ovviamente in senso positivo.
Credo che l’assunzione di nessuna droga al mondo possa esser capace di farmi provare lo stesso livello di estasi raggiunta quando i Saturnus, a circa 5 metri da me, hanno suonato quello che è il brano più bello mai composto, il cui titolo, inutile dirlo, è I Long
Devo trovare un difetto ai grandi danesi ? Eccolo: I Long meriterebbe il posizionamento come ultimo brano in scaletta, magari come bis, perché il climax che si raggiunge al termine di quelle note non può più essere ricreato successivamente dagli altri brani, per quanto ugualmente magnifici.
Altro da aggiungere ? Thomas Jensen aveva la solita aria di chi è capitato lì per caso, poi quando si è palesato il suo growl dal timbro unico si è capito che, invece, è stato lì collocato per qualche disegno superiore, e lo stesso è accaduto con i passaggi in recitato (come nella coinvolgente All Alone); i lungocriniti Gert Lund (chitarra ritmica) e Brian Hansen (basso), oltre al preciso contributo musicale hanno fornito anche una notevole presenza scenica, Henrik Glass ha picchiato il giusto senza esagerare, come il genere richiede, ed il giovane Mika Filborne si è rivelato il tastierista che fino a qualche anno fa mancava on stage ai Saturnus.
Ma il protagonista, non me ne vogliano gli altri, è stato come sempre Rune Stiassny, chitarrista che senza tecnicismi circensi, sa far parlare al cuore il proprio strumento (“You make me cry too much” gli ho confidato scherzando, ma non troppo, al termine del concerto): le linee melodiche del musicista nordico sono realmente indimenticabili, dal vivo come su disco, e sono capaci di far sprofondare la mente in un pozzo di malinconia dal quale, solo al termine, se ne verrà fuori depurati finalmente dalle brutture di un’attualità allarmante e dalle nequizie di un’umanità dai tratti ripugnanti.
Litany Of Rain, Wind Torn, I Love Thee, Christ Goodbye, ovviamente I Long e il gradito bis A Father’s Providence, sono state solo alcune delle gemme che i Saturnus hanno regalato ai pochi ma davvero fortunati presenti.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito, anche se non è certo una novità in simili occasioni, è la convinzione ed il piacere di suonare che ogni musicista ha dimostrato, nonostante un’audience così risicata: non uso volutamente il termine “professionali” perché preferisco associarlo a persone che svolgono con impegno un compito loro malgrado: nulla a che vedere con volti che apparivano rapiti dalla loro stessa musica, un atteggiamento che ha accomunato Helevorn e Saturnus con la trentina di appassionati che, immagino, mai come questa volta abbiano avuto la percezione di sentirsi un tutt’uno con chi si trovava sul palco.
A proposito di professionalità, un’avvertenza: quando parlo dei Saturnus la mia obiettività è uguale a zero, ma se chi legge queste righe ama come me tali sonorità non faticherà a ritenermi del tutto attendibile ….

P.S. Un ringraziamento speciale ai “temerari” della House Of Ashes, ai miei compagni di viaggio e a chi ha ripreso con mano ferma le immagini che potete vedere sotto.

Helllight – Journey Through Endless Storm

Journey Through Endless Storm è l’album che saluta il definitivo ingresso degli Helllight nel gotha del funeral/death doom melodico

I brasiliani Helllight giungono, con Journey Through Endless Storm, alla quinta tappa su lunga distanza in una carriera che ha preso l’avvio nel secolo scorso ma che, di fatto, ha assunto forma e consistenza a partire dall’album d’ersordio “In Memory of the Old Spirits”, datato 2005.

La band, guidata dal cantante e chitarrista Fabio De Paula, ha avuto un processo evolutivo piuttosto lento ma costante, passando dalle ingenuità non prive di momenti brillanti dei primi due dischi (specie nel programmatico “Funeral Doom”) fino all’odierna forma compiuta e pressoché perfetta dal punto di vista della costruzione di un sound evocativo e nel contempo compatto ed elegante.
Rispetto ai già buonissimi “…and Then, the Light of Consciousness Became Hell…” e “No God Above, No Devil Below”, la nuova opera non mostra debolezze (se non vogliamo considerare tale una durata che sfiora gli ottanta minuti) in virtù di una tracklist uniforme per il valore dei singoli brani e per un netto miglioramento delle clean vocals di De Paula, un elemento importante nell’economia del suono degli Helllight che, nei precedenti lavori, veniva proprosto in maniera stentorea ma un po’ troppo forzata.
Sempre rispetto alla passata produzione, non si può fare a meno di notare quanto si sia concretizzata una “saturnizzazione” del suono, che viene così disseminato costantemente di melodie chitarristiche capaci di evocare atmosfere cariche di brumosa malinconia.
La quadratura nel cerchio trovata dagli Helllight viene ampiamente dimostrata da una tracklist priva di punti deboli: uniforme, certamente, con una pioggia battente a fare da sfondo al susseguirsi dei vari brani tra i quali, però, non ce n’è uno che non meriti di essere assaporato in tutto il suo lento incedere, con punte di toccante lirismo raggiunte nelle meravigliose Time e Shapeless Forms of Emptiness.
Tastiere avvolgenti, una chitarra solista che regala a profusione assoli dolenti ed un growl efficace, sono le componenti che ci fanno amare a dismisura una band come i Saturnus e di conseguenza tutte quelle, come gli Helllight, che dai maestri danesi hanno preso spunto, consapevolmente o meno.
Volendo proprio trovare un termine di paragone ancor più preciso, però, la band paulista oggi si muove parallelamente ai Doom Vs. di Johan Ericson, sia per un impronta maggiormente drammatica, con più di un elemento funeral conferito al sound, sia per il già citato ricorso alle clean vocals che, solo quando sono appropriate come avviene in questo lavoro, si rivelano un valore aggiunto e non un elemento di rottura del pathos creato dallo sviluppo strumentale.
Journey Through Endless Storm è l’album che saluta il definitivo ingresso degli Helllight nel gotha del funeral/death doom melodico, grazie a un sound inspirato e di matrice chiaramente europea ma che racchiude al suo interno, sebbene non venga esibito mai in maniera particolarmente esplicita, un senso di nostalgico abbandono tipicamente latino.

Tracklist:
1. Journey Through Endless Storm
2. Dive in the Dark
3. Distant Light that Fades
4. Time
5. Cemetherapy
6. Beyond Stars
7. Shapeless Forms of Emptiness
8. End of Pain

Line-up:
Alexandre Vida – Bass
Fabio de Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums

HELLLIGHT – Facebook

My Dying Bride – Feel The Misery

“Feel the Misery” ricolloca i My Dying Bride al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.

L’ennesimo album (il tredicesimo, per l’esattezza) di una delle band che, in un modo o nell’altro, ti ha accompagnato per oltre un ventennio lungo i tortuosi sentieri dell’esistenza, è sempre un appuntamento al quale si giunge tra speranze e timori equamente suddivisi.

Dover parlare dei My Dying Bride cercando di restare obiettivo diventa così per me piuttosto difficile: sembra ieri quando, con una video camera in super 8, riprendevo le prime espressioni e la beata inconsapevolezza di mia figlia appena nata, con quel capolavoro di “The Angel And The Dak River” come sottofondo musicale.
Dopo vent’anni e tanta vita e troppa strada alle spalle, ritrovare Stainthorpe e soci nuovamente all’altezza dei fasti raggiunti in quei tempi è stata una gioia che va ben oltre il mero aspetto musicale.
Non posso negare che, ormai da circa un decennio, i My Dying Bride erano diventati più un caro ricordo di gioventù piuttosto che una band capace di accompagnarmi quotidianamente: altri erano i nomi che in ambito doom li avevano soppiantati nelle mie preferenze, riuscendo a comunicarmi le dolorose emozioni che i maestri di Halifax parevano non essere più in grado di riproporre con la stessa forza evocativa.
Feel The Misery ricolloca i nostri al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.
Sarà probabilmente un caso, ma il ritrovamento di una configurazione più o meno simile a quella dei tempi d’oro pare aver concorso non poco alla riuscita dell’album: il ritorno in formazione di uno dei fondatori, il chitarrista Calvin Robertshaw, unito al consolidamento di uno Shaun Macgowan splendido protagonista con il suo violino (e sorta di reincarnazione del Martin Powell che fu …), contribuiscono a ricreare quelle atmosfere che rimandano direttamente all’ultimo decennio del secolo scorso, quando la gotica decadenza dei MDB era un marchio di fabbrica magnifico ed indelebile.
And My Father Left Forever, posta in apertura e in tutti i sensi traccia apripista dell’album, fuga subito ogni residua perplessità relativa all’ispirazione dei nostri: l’incedere dolente e melanconico del sound e il tipico timbro vocale di Aaron equivalgono ad una sorta di agognato ritorno a casa dopo una prolungata assenza, al riappropriarsi di un qualcosa che si è sempre sentito proprio ed oggi tirato a lucido dopo essere stato ricoperto per diverso tempo da un velo di polvere.
La differenza, in Feel The Misery, la fa la ritrovata capacità dei My Dying Bride (già parzialmente esibita in “A Map of All Our Failures”) di proporre un lotto di brani relativamente fruibili, pur nel consueto ambito plumbeo.
Il vocalist alterna la sua consueta, ma unica, voce sofferente ad un growl sempre convincente, ergendosi a protagonista nel contesto di un lavoro comunque d’insieme, nel quale ogni musicista pare davvero offrire il meglio di sé senza il bisogno di dover strafare.
Se l’opener è un brano magnifico, non si può che dire altrettanto della successiva To Shiver in Empty Halls grazie ad una linea melodica portante di grande impatto, mentre A Cold New Curse e Feel the Misery appaiono quasi complementari nel loro incedere coinvolgente ma, invero, piuttosto simile, specie nelle parti iniziali.
La seconda metà dell’album è, a mio avviso, ancora superiore a quella che l’ha preceduta: A Thorn of Wisdom è una traccia emozionante, atmosferica e melodica che non può lasciare indifferenti, I Celebrate Your Skin cambia volto in più frangenti, mantenendo quale tratto comune un’esasperante ed inebriante lentezza; I Almost Loved You equivale alla perla “For My Fallen Angel” (da “Like Gods Of The Sun”), con Stainthorpe ed il violino di Macgowan ad edificare muri di lacrime su un toccante tappeto pianistico, mentre Within a Sleeping Forest non è solo l’unica traccia che valica i dieci minuti di durata ma costituisce davvero la chiusura di un cerchio, con il suo forte ed ispirato richiamo alle sonorità dei primi seminali album dei My Dying Bride.
Sinceramente, fatico a smettere di ascoltare Feel The Misery, pur essendo consapevole che per un’altra ora lo smarrimento e lo sgomento di un’anima tormentata saranno la mia sola compagnia.
Ma gli appassionati di doom questo chiedono, nient’altro, e farsi avvolgere nuovamente dal velo della sposa morente sarà un piacere esclusivo riservato a questi fortunati …

Tracklist:
1. And My Father Left Forever
2. To Shiver in Empty Halls
3. A Cold New Curse
4. Feel the Misery
5. A Thorn of Wisdom
6. I Celebrate Your Skin
7. I Almost Loved You
8. Within a Sleeping Forest

Line-up:
Calvin Robertshaw – Guitars
Andrew Craighan – Guitars
Aaron Stainthorpe – Vocals
Lena Abé – Bass
Shaun Macgowan – Keyboards, Violin

MY DYING BRIDE – Facebook

Eye Of Solitude & Faal / Eye Of Solitude & Faal

Magnifico questo split album pubblicato dalla solita Kaotoxin, che riunisce due delle migliori band europee dedite al funeral death doom, ovvero gli olandesi Faal e gli inglesi Eye Of Solitude.

Magnifico questo split album pubblicato dalla solita Kaotoxin, che riunisce due delle migliori band europee dedite al funeral death doom, ovvero gli olandesi Faal e gli inglesi Eye Of Solitude.

Oddio, per questi ultimi dovrei correggere il tiro visto che non sono una delle migliori, bensì la migliore in assoluto oggi: uno status, questo, conquistato con due capolavori come “Canto III” e “Dear Insanity” e che, per chi non ne fosse ancora del tutto convinto, viene rafforzato grazie a questa decina di minuti drammaticamente intensi, capaci di far piombare chiunque nella più cupa disperazione prima che l’effetto catartico e terapeutico del doom lasci in dote solo un senso di benefico stupore.
Obsequies, fin dal titolo, non lascia spazio ad equivoci di sorta, trattandosi della trasposizione musicale di un rito funebre, con tanto di dolenti e stonate sonorità bandistiche ad introdurre quello che è ormai un marchio di fabbrica vincente: melodie struggenti violentate dal terrificante growl di Daniel Neagoe. Un solo piccolo appunto rispetto alle uscite precedenti va fatto ad una produzione che non valorizza come al solito proprio la prestazione del vocalist rumeno.
Dopo una simile esibizione di dolore, il compito degli olandesi Faal si rivela, sulla carta, piuttosto arduo: la band di Breda è attiva da circa un decennio nel corso del quale ha rilasciato due ottimi album. Questa uscita giunge molto gradita a tre anni di distanza da “The Clouds Are Burning” e un brano come Shattered Hope ci dimostra che l’ispirazione è sempre al massimo, consentendo ai nostri di non sfigurare affatto dinnanzi ai propri compagni di split (con i quali peraltro hanno condiviso il palco più di una volta in tempi recenti).
Certo, i picchi emotivi toccati dagli Eye Of Solitude non sono facilmente raggiungibili, ma il funeral death doom dei Faal è di ottima qualità e rischia di non risplendere come meriterebbe esclusivamente  a causa del confronto ravvicinato con una band che, più di ogni altra oggi (ad esclusione dei Saturnus che si muovono però su un piano meno estremo), è capace di di provocare emozioni a profusione con la propria musica.
Detto ciò, lo split album in questione per gli amanti del funeral death doom è senz’altro un oggetto da accaparrarsi senza alcun indugio.

Tracklist:
1. Eye of Solitude – Obsequies
2. Faal – Shattered Hope

Line-up:
Eye of Solitude
Daniel Neagoe – Vocals
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Steffan Gough – Guitars

Faal
Gerben van der Aa – Guitars
Marcelo – Synthesizer
Pascal – Guitars
William – Vocals
Sarban Grimminck – Drums
Vic van der Steen – Bass

EYE OF SOLITUDE – Facebook

FAAL – Facebook

Indesinence – III

Un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno in ambito doom per la sua grande intensità.

I londinesi Indesinence tornano a proporre il loro oscuro death doom a tre anni di distanza dall’ottimo “Vessels of Light and Decay”.

III è, come si intuisce facilmente, il terzo full length della band, nata all’inizio del secolo ma non troppo prolifica in quanto ad uscite discografiche, in linea del resto con la gran parte di chi si dedica al genere; peraltro, a tale proposito, non va dimenticato che spesso queste uscite superano di gran lunga l’ora di durata e questa non fa eccezione.
È molta, quindi, la carne al fuoco per gli appassionati, i quali hanno la possibilità di ascoltare una delle band migliori quanto sottovalutate dell’intera scena.
La peculiarità degli Indesinence risiede fondamentalmente nell’esibire una versione minacciosa ed irrequieta del death doom, nel senso che l’aspetto consolatorio del genere viene sovente rimpiazzato da violente accelerazioni, quasi uno strappo volto a reagire al destino ineluttabile.
Le sfuriate in doppia cassa si manifestano senza preavviso e contribuiscono a tenere sempre sul chi vive l’ascoltatore, quasi con la funzione di impedirgli di essere sopraffatto dalla malinconia abbandonandosi all’illanguidimento.
Il sound della band è in linea con quello della scuola britannica, quindi con gli Esoteric quale parziale riferimento ma, ovviamente, con un’anima estrema ben più evidenziata ed un impatto senz’altro maggiormente diretto, in un ambito stilistico pertanto più vicino al death che non al funeral .
Nostalgia, primo vero brano dopo l’intro Seashore Eternal, fotografa al meglio il sound degli Indesinence : in questa traccia troviamo tutto ciò che il trio londinese immette nel proprio sound: rallentamenti, sfuriate, evocative melodie ed l’efficace growl di Ilia Rodriguez.
Embryo Limbo si muove sulla falsariga del brano precedente, mentre Desert Trail  si ammanta di un’oscurità annichilente, sia nelle sue sembianze funeral sia in quelle quasi brutal che l’ottimo assolo chitarristico finisce per unire idealmente.
Strana, e non poco, Mountains of Mind / Five Years Ahead che, già dal titolo parrebbe essere costituita da due tracce diverse, e così è di fatto, con lo stacco non da poco tra le atmosfere mortifere che si dipanano per oltre dieci minuti  ed il più orecchiabile gothic doom alla Paradise Lost degli ultimi tre giri d’orologio; scelta bizzarra ma dal risultato finale comunque convincente.
L’impronta disperata della voce in Strange Meridian si staglia su tastiere dolenti lungo i suoi diciassette minuti senz’altro difficili da digerire ma invero magnifici, nei quali la luce lasciata filtrare dalla chitarra solista nella seconda parte è qualcosa in più di un semplice barlume.
La title track, infine, altro non è che una lunghissima traccia di matrice ambient drone, di buona fattura ma che nulla aggiunge o toglie al valore di un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno nel settore per la sua grande intensità.

Tracklist:
1. Seashore Eternal
2. Nostalgia
3. Embryo Limbo
4. Desert Trail
5. Mountains of Mind / Five Years Ahead
6. Strange Meridian
7. III

Line-up:
Andy McIvor – Bass, Lead Guitar
Ilia Rodriguez – Lead & Rhythm Guitars, Vocals, Keyboard
Paul Westwood – Drums

INDESINENCE – Facebook

Mythological Cold Towers – Monvmenta Antiqva

“Monvmenta Antiqva” è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità.

I Mythological Cold Towers sono una delle realtà brasiliane più importanti in ambito doom, benché la loro notorietà sia di fatto confinata a pochi addetti ai lavori.

Autrice di pochi album diluiti in un arco temporale piuttosto vasto, la band paulista si è progressivamente spostata da una forma epica di black doom, grezza quanto di rara efficacia, espressa specialmente nel magnifico “The Vanished Pantheon”, per approdare ad un death doom dalle sfumature gotiche e dalle connotazioni sempre molto evocative.
I Mythological Cold Towers riescono così a trasmettere in maniera compiuta gli umori cupi e decadenti del genere senza però smarrire quell’aura epica che da sempre è nel loro dna.
Monvmenta Antiqva riesce piuttosto bene in tale intento grazie anche ad uno splendido operato della chitarra solista, capace di rendere al meglio, sia pure in maniera molto essenziale, quelli che sono gli umori di un lavoro che conferma l’elevato standard qualitativo messo in mostra anche nel precedente “Immemorial”.
Beyond the Frontispiece apre splendidamente un album che tocca vette emotive altissime in un brano come Of Ruins and Tragedies, che ha il solo difetto di perdersi in una parte finale interlocutoria andando ad intaccare parzialmente un crescendo emotivo che meritava un migliore epilogo.
Sand Relics riparte nuovamente con il marchio dell’opener, con tastiera e chitarra a costruire partiture solenni sulle quali Samej recita le sue malsane litanie, utilizzando un growl semi recitato assolutamente funzionale al contesto in cui si va ad inserire.
Lo spirito dei Septic Flesh di “Esoptron” aleggia invece nella prima parte di Baalbeck, dove un tocco pianistico apparentemente elementare eleva a dismisura il pathos del brano nella sua fase discendente.
Anche Strange Artifacts segue lo schema vincente di Beyond the Frontispiece, mentre Vestiges è la degna chiusura di un album davvero molto bello, con il quale i Mythological Cold Towers riescono a toccare le corde più recondita dell’animo senza ricorrere a particolari artifici, bensì esibendo un sound fruibile e decisamente poco propenso ad accelerazioni o sfuriate di matrice death o black.
Monvmenta Antiqva è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità, peraltro all’interno di un genere che già di suo si colloca orgogliosamente agli antipodi del mainstream musicale.

Tracklist:
1. Beyond the Frontispiece
2. Vetustus
3. Votive Stele
4. Of Ruins and Tragedies
5. Sand Relics
6. Baalbeck
7. Strange Artifacts
8. Vestiges

Line-up:
Samej – Vocals
Shammash – Guitars
Nechron – Guitars, Keyboards, Vocals
Hamon – Drums

MYTHOLOGICAL COLD TOWERS – Facebook

Sorrowful – In The Rainfall

Un disco rivolto soprattutto a chi apprezza maggiormente le partiture dolenti del doom quando sono sommerse da gragnuole di colpi inferti dalla furia del death.

Esordio all’insegna di un death doom molto tradizionale per questa band di stanza a Göteborg, della quale attraverso i canali ufficiali non è che si sappia molto dei musicisti coinvolti.

Bisogna, quindi, attingere alla sempre utile Encyclopaedia Metallum per scoprire che i Sorrowful sono un duo messicano trasferitosi da tempo in Scandinavia composto da I.Ishtar e Jorge Vergara, con il primo, soprattutto, già molto attivo nella scena nordeuropea (facendosi valere in particolare con gli ottimi Dødsfall).
Si diceva di un lavoro devoto ai suoni tradizionali in voga negli anni ’90, quando My Dying Bride ed Anathema, soprattutto, tracciarono le linee guida di un genere che nel corso degli anni, come sempre accade, avrebbe assunto diverse ulteriori ramificazioni.
Il sound dei Sorrowful è sicuramente efficace in quanto completamente spogliato di qualsiasi orpello gotico e decadente, e questo alla fine costituisce un pregio, per l’indubbia coerenza ad uno stile che oggi non si può certo definite alla moda, ma anche un difetto in quanto, basando il tutto su un impatto piuttosto brutale, In The Rainfall mantiene una linearità apprezzabile ma che non sfocia mai in momenti davvero memorabili.
Il disco è comunque valido, ma mi sentirei di consigliarlo più agli estimatori del death caliginoso e rallentato (in stile Asphyx, direi) che non a chi, all’inizio degli anni ’90, si è beato di pietre miliari quali “As The Flower Withers” e “Serenades”.
Un buon growl, sorretto da riff pesantissimi e da qualche raro ma riuscito passaggio in chiave solista, sono il trademark di questi tre quarti d’ora di buona musica estrema, che ripropone in maniera appropriata quanto onesta quei suoni che ogni tanto è bene che vengano rispolverati.
I nostri dimostrano, pur se con parsimonia, di avere nelle corde anche quelle aperture melodiche capaci di rendere memorizzabili tracce altrimenti monolitiche nel loro incedere: a tale proposito si rivela emblematica l’ottima The Machine Of Desolation e in parte anche la successiva The Flight of Mind, mentre Gray People si staglia sul resto della tracklist con i suoi ritmi mortiferi che riportano, volendo restare in un ambito attuale, ai Vallenfyre di Greg Mackintosh.
Da rimarcare anche l’opener The Last Journey e Oceans of Darkness, brani nei quali i Sorrowful riescono a trovare un buonissimo equlibrio tra le diverse componenti del loro sound.
In definitiva, un disco interessante, soprattutto per chi apprezza maggiormente le partiture dolenti del doom quando sono sommerse da gragnuole di colpi inferti dalla furia del death.

Tracklist:
1. The Last Journey
2. Nothingness
3. Gray People
4. Oceans of Darkness
5. Utopian Existence
6. Frozen Sun
7. The Machine of Desolation
8. The Flight of Mind
9. Eager of Death

Line-up:
I. Ishtar – Guitars, Drums
Jorge Vergara – Vocals, Bass

SORROWFUL – Facebook

Ataraxie – Slow Transcending Agony

Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

A dieci anni esatti dalla sua pubblicazione, Slow Transcending Agony, album d’esordio dei francesi Ataraxie, viene nuovamente immesso sul mercato in una veste rinnovata e con l’aggiunta di una bonus track come The Tree of Life and Death, cover dei seminali Disembowelment.

La band normanna è senza ombra di dubbio uno dei nomi di punta della scena funeral death doom europea, benché la sua produzione non sia ricchissima a livello di full length pubblicati, ma qui a fare la differenza è la qualità immensa di ognuna delle tre uscite (oltre al disco in oggetto, “Anhedonie” del 2008 e “L’être et la Nausée” del 2013).
Proprio parlando di quest’ultimo lavoro, circa due anni fa, mi spinsi ad affermare che gli Ataraxie avevano finalmente raggiunto il gotha della scena, e tale sensazione viene ampiamente suffragata da quest’esame retrospettivo che ci consente di vericare l’evoluzione della band e, nel contempo, di constatare quanto il sound fosse evoluto e di un livello abbondantemente al sopra della media già allora.
Dopo la lunga introduzione affidata al mortifero strumentale Astep Into The Gloom, Funeral Hymn scaraventa l’ascoltatore negli abissi più reconditi, lo immerge in una cupa disperazione rivelandosi una vera e propria marcia funebre che accompagna l’interminabile percorso lastricato di un dolore senza fine.
L’Ataraxie, se possibile, aumenta ancor di più il pathos drammatico del lavoro; se il brano precedente risentiva ancora, parzialmente, dell’inevitabile influsso della “sposa morente”, il pezzo autointitolato è invece un magnifico e monolitico esempio di funeral doom che non ammette dubbi né repliche: lo si ama, e basta.
La title track si snoderebbe nel buio più totale se non intervenisse qualche accenno acustico ad illuminare di luce fioca uno scenario non dissimile a quelli consoni ai Mournful Congregation (che nello stesso anno, è bene ricordarlo, diedero alla luce quel capolavoro intitolato “The Monad Of Creation”).
Another Day Of Despondency lascia sfogare una controllata furia death prima che i rallentamenti mozzafiato vadano a lambire, nelle rare aperture melodiche, gli umori seminali della scuola albionica dei primi anni novanta.
The Tree of Life and Death, infine, è l’omaggio doverso agli australiani Disembowelment, band di culto che con un solo album, pubblicato nel 1993, è stata comunque capace di lasciare il segno nella scena death doom; da rimarcare che il brano in questione è stato registrato dagli Ataraxie con la nuova formazione che vede la presenza di ben tre chitarristi.
Senza nulla togliere ai suoi compagni , Jonathan Thery domina Slow Transcending Agony grazie alla sua capacità di unire un growl dalla timbrica inumana, eguagliato oggi dal solo Daniel Neagoe, a sfuriate in uno screaming di matrice quasi depressive, senza che il potenziale evocativo dei brani venga minimamente scalfito.
Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

Tracklist:
1. Astep Into The Gloom
2. Funeral Hymn
3. L’Ataraxie
4. Slow Transcending Agony
5. Another Day Of Despondency
6. The Tree of Life and Death

Line-up:
Jonathan – Vocals, Bass
Fred – Guitars
Sylvain – Guitars
Pierre – Drums

ATARAXIE – Facebook

Doomed – Wrath Monolith

Continua il percorso sulle vie lastricate di dolore del death-doom da parte di Pierre Laube con il suo solo project Doomed.

Continua il percorso sulle vie lastricate di dolore del death-doom da parte di Pierre Laube con il suo solo project Doomed; questo Wrath Monolith è il quarto album in soli tre anni e conferma il costante progresso del musicista tedesco dal punto di vista compositivo.

L’interpretazione del genere da parte di Laube continua ad essere caratterizzata da un impatto aspro e talvolta dissonante, ma gli sprazzi melodici oggi appaiono meglio integrati e più funzionali alla resa complessiva.
Come sempre spicca un lavoro chitarristico dai tratti piuttosto personali che, in un brano come Euphoria’s End, va a lambire territori technical-death.
Wrath Monolith evoca, come gran parte dei dischi del genere, un doloroso disagio ma lo fa in maniera meno immediata ed evocativa rispetto ad altre band e questo finisce per essere un pregio, in quanto denota la volontà di Pierre di non adagiarsi su soluzioni scontate ma, d’altro canto, rende oltremodo complessa la memorizzazione dei singoli brani.
Se, per gusto personale, preferirei ovviamente una maggiore presenza di aperture melodiche, anche perché quando ciò avviene il sound ne beneficia in virtù di capacità compositive comunque ben superiori alla media, non posso fare a meno di constatare quanto ogni uscita targata Doomed sia ormai divenuta garanzia di qualità, accentuata proprio dai tratti piuttosto personali e riconoscibili, nonostante l’ancora relativamente breve vita artistica del progetto.
La stessa consolidata appartenenza al roster della Solitude ci suggerisce, in qualche modo, una certa affinità alla frangia meno accessibile della scena russa, costituita da band quali Abstract Spirit e Who Dies In Siberian Slush, tanto per citare due tra le più note, proprio per il suo ricorrere a sonorità che si concedono con parsimonia a facili soluzioni meloduche.
Ennesimo buonissimo disco, quindi, ma volendo fare per una volta la parte dell’incontentabile mi piacerebbe che Laube ricorresse con maggior frequenza a soluzioni come il malinconico assolo di Our Ruin Silhouette (a proposito, oltre alla copertina a sfondo verde, viene mantenuta anche l’abitudine di dare ad un brano lo stesso titolo dell’album precedente), visto che una simile forza evocativa non può e non deve restare un caso pressoché isolato all’interno di una singola traccia, piuttosto che di un intera tracklist.
Detto questo, chi ha apprezzato i precedenti lavori non resterà affatto deluso da questa ultima fatica dei Doomed, mentre io continuo ad attendere con fiducia il lavoro definitivo, quello capace di farne assurgere il nome ai massimi livelli, dai quali non siamo invero troppo lontani.

Tracklist:
1. Paradoxon
2. Our Ruin Silhouettes
3. Euphoria’s End
4. The Triumph – Spit
5. Looking Back
6. I’m Climbing

Line-up:
Pierre Laube – All instruments, Vocals

DOOMED – Facebook

Mare Infinitum – Alien Monolith God

Alien Monolith God è un lavoro davvero eccellente nel suo districarsi tra i mortiferi e cadenzati riff e le improvvise quanto ariose aperture melodiche.

Secondo album per i russi Mare Infinitum che danno, così, un seguito al riuscito esordio del 2012, “Sea Of Infinity”.

Già dall’opener The Nightmare Corpse-City of R’lyeh si può constatare che qualcosa è cambiato nel sound della band moscovita: infatti l’ortodosso death doom dell’esordi viene qui arricchito da una stentorea voce pulita, ad opera di Ivan Guskov, che fa il paio con il consueto ed ottimo growl di Andrey Karpukhin (A.K. iEzor – Abstract Spirit e Comatose Vigil, uscito dalla band dopo la registrazione dell’album), mentre le atmosfere, proprio in concomitanza con le aperture vocali si fanno anch’esse più terse, assumendo sembianze quasi epiche.
Il progetto è come sempre condotto da Georgiy Bykov (Homer), il quali si occupa di tutta la parte strumentale e, indubbiamente, la maggiore varietà conferita alle sonorità death doom denota una crescita esponenziale delle doti compositive di questo musicista.
I tre anni intercorsi tra un album e l’altro sono stati quindi ben spesi, a giudicare dai risultati ottenuti: Alien Monolith God è, infatti, un lavoro davvero eccellente nel suo districarsi tra i mortiferi e cadenzati riff e le improvvise quanto ariose aperture melodiche.
Il disco risulta così avvincente in ogni suo passaggio senza sacrificare nulla dal punto di vista dell’impatto emotivo e neppure risentendo di una durata che va a sfiorare l’ora.
Nessuno dei cinque brani mostra la corda, andando a comporre un monolite sonoro inattaccabile sotto l’aspetto qualitativo; chiaramente l’impronta tipica della scena doom moscovita è sempre ben presente, come è normale che sia quando ci si muove in un ambito nel quale le band ed i musicisti sono piuttosto coesi e portati quindi alla reciproca collaborazione.
Una menzione particolare la meritano comunque la lunghissima e cangiante title-track e l’evocativa traccia di chiusura The Sun That Harasses My Solitude, conclusione degna di un disco impeccabile che darà sicura soddisfazione agli amanti del genere.

Tracklist:
1. The Nightmare Corpse-City of R’lyeh
2. Prothetic Consciousness
3. Alien Monolith God
4. Beholding the Unseen Chapter 2
5. The Sun That Harasses My Solitude

Line-up:
Homer – Guitars, Bass, Programming
Ivan Guskov – Vocals

MARE INFINITUM – Facebook

Endlesshade – Wolf Will Swallow the Sun

L’ennesima nuova stimolante scoperta proveniente dalla scena death-doom ucraina sulla quale focalizzare l’attenzione anche in prospettiva futura.

Album d’esordio per gli Endlesshade i quali contribuiscono ad arricchire, con questo Wolf Will Swallow the Sun, una scena death-doom ucraina già piuttosto vivace.

Il fatto di inserire nel titolo il nome di una delle band guida del genere equivale ad una dichiarazione di intenti ma può apparire anche fuorviante, visto che i riferimenti ai maestri finlandesi ci sono, eccome, ma non nella misura in cui ci si sarebbe potuti attendere. Tutto sommato, infatti, è soprattutto la title track che vede maggiormente omaggiati Kotamäki e soci, mentre nel resto del disco predomina soprattutto un’aura drammatica, nella quale vengono alternati tratti sognanti ad altri piuttosto aspri.
Il gruppo di Kiev non reinventa la ruota ma propone nel migliore dei modi ciò che ogni appassionato del genere vorrebbe ascoltare: partiture dolenti, riff robusti, melodie decadenti disegnate dalla chitarra solista sulle quali si staglia l’impressionante growl di una Natalia Androsova che, almeno da quanto ci è dato ascoltare su disco, appare per distacco il migliore growl femminile mai udito.
Tra le splendide Post Mortem e Truth Untold viene racchiusa quasi un’ora di death-doom, assolutamente in linea stilisticamente con le migliori espressioni dell’area ex- sovietica, che ci consegna gli Endlesshade come l’ennesima nuova stimolante scoperta sulla quale focalizzare l’attenzione anche in prospettiva futura.

Tracklist:
1. Post Mortem
2. 7
3. Wolf Will Swallow the Sun
4. Noctambulism
5. Edge
6. Truth Untold

Line-up:
Artem Ivanov – Drums
Mikhail Chuga – Guitars
Yuriy Politko – Guitars
Olga Bedash – Keyboards
Natalia Androsova – Vocals
Angelus – Bass

ENDLESSHADE – Facebook

FamishGod – Devourers of Light

Un disco tutt’altro che di impatto immediato, ma allo stesso tempo pericolosamente avvolgente pur nelle sue atmosfere cupe ed asfissianti.

Dalla sempre attiva etichetta spagnola Xtreem Music arriva il disco d’esordio dei connazionali Famishgod.

A differenza di molte delle ultime uscite provenienti dalla penisola iberica in ambito doom negli ultimi tempi, la band propende decisamente verso il funeral o quanto meno verso un death doom dai tratti scarni e morbosi, sulla scia di nomi quali Encoffinaton e Disembowlement o, restando su un piano leggermente più ascoltabile, Evoken.
Appare ovvio, quindi, quanto tutto ciò renda il disco tutt’altro che di impatto immediato, ma allo stesso tempo pericolosamente avvolgente, pur nelle sue atmosfere cupe ed asfissianti.
I Famishgod sono in realtà il progetto di Pako Deimler, che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione della batteria, che è affidata ad una macchina, mentre alla voce troviamo il ben noto Dave Rotten dei grandi Avulsed.
Una produzione scarna, il rantolo inumano di Dave, un’assenza quasi totale di qualsiasi spiraglio di luce, fatte salve le sporadiche concessioni acustiche da parte di Pako, sono i fattori che rendono Devourers of Light un lavoro per iniziati, ovvero per appassionati che hanno dimestichezza con sonorità di questo tipo.
Costoro potranno trarre sicuramente la giusta dose di piacere dalle trame ossessive proposte dal mefitico duo nel corso di un’ora di musica di rara pesantezza, ma indubbiamente dotata di una profondità che rende l’ascolto un’esperienza particolare.
Minimale e ottundente, il sound dei Famishgod possiede un effetto realmente soffocante e ancor più risaltano, pertanto, quei rari momenti in cui la chitarra traccia qualche linea melodica che, mai come in questo caso, equivale a nulla più di una cura palliativa per un moribondo.
In tal senso i brani migliori sono rappresentati dalla coppia centrale Black Eye / Premature Grave, proprio perché sono gli unici che possono essere assimilati senza ricorrere necessariamente al boccaglio dell’ossigeno, in virtù di un asciutto ma efficace lavoro chitarristico.
Come detto, consiglierei di lasciar perdere a priori a chi, al solo sentir pronunciare la parola doom, si mette sulla difensiva, mentre a quelli che si beano di questa velenosa dipendenza, Devourers of Light potrebbe riservare non poche soddisfazioni.

Tracklist:
1. Chapter 1: Devourer of Light
2. Chapter 2: Famish
3. Chapter 3: Black Eye
4. Chapter 4: Premature Grave
5. Chapter 5: The Monarch
6. Chapter 6: Two Last Stairs
7. Chapter 7: Brightless

Line-up:
Pako Deimler – All instruments, Drum programming
Dave Rotten – Vocals

FAMISHGOD – Facebook

Autumnia – Two Faces Of Autumn

Interessante riedizione dei due primi lavori degli Autumnia

Dopo aver parlato nei giorni scorsi dell’ultimo album degli Apostate restiamo in Ucraina per vedere cosa ci offre quest’uscita degli Autumnia.

Intanto, se nel caso citato in precedenza, si trattava del nuovo disco di una band riformatasi di recente, in questo caso ci troviamo di fronte ad un lavoro retrospettivo che unisce in una sola confezione, nel formato del doppio CD, i primi due dischi di un combo dalla storia più recente ma anche più noto.
È interessante, infatti, poter seguire, tramite l’ascolto di una coppia di album di buon valore, l’evoluzione della band di Alexander Glavniy nel corso degli anni.
Il musicista, avvalendosi di una delle migliori voci del settore come quella di Vladislav Shahin dei Mournful Gust, pubblicò nel 2004 un disco d’esordio davvero eccellente, probabilmente un po’ troppo devoto a tratti ai primissimi Anathema e My Dying Bride, ma anche per questo capace di rievocare in maniera competente e con la dovuta intensità le sonorità seminali che, qualche anno dopo averle tenute a battesimo, quelle stesse storiche band avrebbero abbandonato.
Drammatico e melodico nelle giuste dosi, In Loneliness of Two Souls introdusse così nel migliore dei modi il nome degli Autumnia al proscenio del doom europeo.
In By the Candles Obsequial, due anni dopo, fecero il loro ingresso nel sound pesanti influssi gothic accentuati dall’uso massiccio delle tastiere e dal contributo di una voce femminile in un brano che, se da un lato arricchirono e resero più accattivante la proposta, dall’altra fece apparire meno genuino e più artefatto l’operato del duo ucraino. Tecnicamente di livello superiore al predecessore, l’album destava una migliore impressione di primo acchito per poi mostrarsi non sempre troppo profondo: sicuramente un lavoro di buon livello, in ogni caso, in qualche modo propedeutico all’ulteriore passo verso sonorità ancor più eleganti che sarebbe avvenuto con “O Funeralia”, ultimo parto discografico degli Autumnia datato 2009.
Questa raccolta edita dalla Solitude, arrivata dopo un lungo periodo di silenzio, potrebbe far presagire un ritorno della band con materiale inedito. La perdita di Shahin, che nel 2010 scelse di dedicarsi esclusivamente ai suoi Mournful Gust, non è sicuramente da poco, visto il valore del soggetto, ma al di là di tutto sono piuttosto curioso di vedere che scelte potrebbe compiere oggi Glavniy, un musicista che, a mio modesto parere, ha nelle proprie corde il potenziale per comporre quell’album di grandissimo spessore che finora ha solo sfiorato in occasione del pur ottimo album di debutto.

Tracklist:
CD1
1….By Your Hand
2.Before Leave for Ever
3.In Sorrow and Solitude
4.At Eternal Parting
5.Pray for Me
6.Into the Grave
CD2
1.Increasing the Grief Terrestrial
2.With Wailing and Lament
3.Bitterness of Loss
4….And the Life Dies Away…
5.In Loneliness of Two Souls

Line-up:
Alexander Glavniy – All Instruments
Vladislav Shahin – Vocals