Majestic Downfall / The Slow Death – Split

Uno split album da accaparrarsi senza indugi vista la qualità e la quantità del materiale presente.

Anche se gli ultimi split album nei quali mi sono imbattuto mi hanno fatto in gran parte rivedere il mio parere iniziale, che vedeva questo formato utile per band ai primi passi e invece motivo di dispersione d’energia e talento per quelle già avviate, quest’operazione della Chaos Records che abbina due realtà death-doom quali i messicani Majestic Downfall e gli australiani The Slow Death, mi ha riaperto qualche dubbio.

Premetto che delle due band conoscevo solo la prima, che di fatto è sempre stata un progetto esclusivo di Jacobo Cordova, soprattutto per il bellissimo disco d’esordio “Temple Of Guilt”; in quest’occasione il musicista messicano mette sul piatto una mezz’ora di musica eccellente, grazie a tre brani capaci di attingere ciascuno alle diverse sfumature del genere, a partire dal black-death doom di The Dark Lullaby, passando per le atmosfere drammatiche di Renata e finendo con Obsidian, che si spinge su versanti gothic doom andando ad evocare talvolta i sempre graditi fantasmi di Paradise Lost e Fields of The Nephilim. Jacobo non si dimostra solo un bravissimo chitarrista ma anche e soprattutto un ottimo interprete con il suo growl sempre espressivo, capace di passare dai toni profondi dell’opener ai tratti più aspri e pregni quasi di disperazione di Renata. Insomma, con altri 10-15 minuti all’altezza ne sarebbe venuto fuori un full-length coi fiocchi ma, anche così, un Ep a nome dei soli Majestic Downfall ci sarebbe stato ampiamente. Tutto questo non è volto a sminuire in alcun modo l’operato degli inquilini della seconda metà dello split, i bravi The Slow Death: semplicemente, vista anche la durata complessiva dei tre brani che ciascuna band aveva a disposizione, c’erano tutti i presupposti per due uscite separate anche se è evidente che in periodi di vacche magre per chi produce e distribuisce musica, mai come oggi vale il famoso detto per cui l’unione fa la forza. I The Slow Death sono una band australiana che ha due full-length all’attivo e che propende per il versante più introspettivo e cupo del genere, cosa che fanno ottimamente con la splendida Criticality Incident I, traccia pregna di melodie dai tratti dolenti. Il problema della band del Nuovo Galles del Sud è, a mio avviso, nella prestazione vocale: qui l’abusato ricorso alla doppia voce femminile-maschile non funziona come dovrebbe, essenzialmente perché i due timbri sono in un caso eccessivo (il growl di Gregg Williamson è di fatto un vero e proprio grugnito privo di un minimo di espressività) e nell’altro inadatto (Mandy Andresen opta per uno stile vagamente sciamanico che mostra la corda particolarmente in una traccia più rarefatta come People Like You). I The Slow Death dimostrano grandi qualità a livello compositivo e il loro sound è tutt’altro che scontato, peccato che questi particolari ne offuschino la proposta invece di esaltarne le caratteristiche. Con tutto ciò, questo resta comunque uno split album da accaparrarsi senza indugi vista la qualità e la quantità del materiale presente, anche se al termine dell’ascolto rimarrà sicuramente la voglia di riascoltare subito i brani dei Majestic Downfall e magari un po’ meno quelli dei pur validi The Slow Death.

Tracklist:
1.MD – The Dark Lullaby
2.MD – Renata
3.MD – Obsidian
4.TSD – Criticality Incident I
5.TSD – Criticality Incident II
6.TSD – People Like You

Line-up:
MAJESTIC DOWNFALL
Jacobo Córdova – All Instruments, Vocals.

THE SLOW DEATH
Stuart Prickett – Guitars, Keyboards, Vocals
Mandy Andresen – Vocals, Keyboards
Gregg Williamson – Vocals
Yonn McLaughlin – Drums
Brett Campbell – Lead Guitar
Dan Garcia – Bass

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

Sonus Mortis – Propaganda Dream Sequence

Sonus Mortis è l’ennesima entusiasmante scoperta all’interno di un underground metal che sforna a getto continuo autoproduzioni di livello assoluto.

Se il monicker catacombale ed alcuni riferimenti biografici parrebberro indirizzare i Sonus Mortis verso territori death-doom, è sufficiente, dopo aver dato una rapida occhiata alla copertina dai tratti futuristici, ascoltare le prime note dell’opener The Cyber Construct per capire che verremo immersi a viva forza in un symphonic industrial doom sorprendente e, a tratti, addirittura entusiasmante.

Kevin Byrne, conosciuto (si fa per dire … non me ne voglia) fino ad oggi per essere il bassista dei melodic deathsters irlandesi Valediction, si dimostra un musicista dallo spessore inatteso e, facendo tutto da solo, spara oltre un’ora di musica capace di innestare su un mood tendente al malinconico gli influssi di band seminali quali ultimi Samael (soprattutto), Nine Inch Nails e Fear Factory, aggiungendoci quel pizzico di (in)sana follia alla Devin Townsend, la vis creativa dei magnifici americani Mechina e orchestrazioni che rimandano ai più recenti lavori dei Septicflesh.
Il death-doom, se vogliamo, lo possiamo rinvenire nella cappa di oscurità che tutto sommato aleggia costantemente su un lavoro che, a voler cercare il pelo nell’uovo, è forse un po’ troppo lungo per un genere che, con le sue ritmiche squadrate, un growl spesso filtrato e le frequenti incursioni sinfoniche mette talvolta a dura prova i padiglioni auricolari dell’ascoltatore.
Difetto minimo, se comparato all’abilità di Kevin nel costruire brani ricchi di spunti melodici mai banali, che raggiungono le vette dell’eccellenza nella già citata The Cyber Construct, nella doppietta centrale composta dall’allucinata The Flock Obscenity e dalla solenne Automated Future, nel sinfonico crescendo della title-track ma, soprattutto nel coinvolgente lirismo di Decompression Countdown, dove i ritmi rallentano e i suoni vengono avvolti da un’aura drammatica, e nella caleidoscopica Scolecophagous, traccia che riesce mirabilmente a fondere tutte le fonti alle quali il musicista ha attinto per comporre la propria opera.
The Ephemeral Sempiternity of Time chiude nel migliore dei modi un lavoro che nella sua fase discendente assume sicuramente tonalità più cupe ma che non perde mai di vista l’equilibrio tra la parti aggressive e quelle più melodiche.
La versione in cd prevede anche due bonus track, l’ultima delle quali è la cover di Valentines Day di Marlyn Manson: entrambi i brani sono senz’altro riusciti ma, alla fine, nulla aggiungono al valore di Propaganda Dream Sequence, anzi, per certi versi rischiano di risultare controproducenti allungando ulteriormente la durata di un lavoro che, come detto, già di suo sia attesta sui sessanta munti.
Poco male, però, quando un album riesce ad essere così intenso, ricco e tutt’altro che scontato, attentandosi a cavallo di stili musicali differenti ma amalgamati con naturalezza disarmante da un musicista nuovo per questi palcoscenici come Kevin Byrne.
Sonus Mortis è l’ennesima entusiasmante scoperta all’interno di un underground metal che sforna a getto continuo autoproduzioni di livello assoluto come questa che, se finisse, nelle sapienti mani delle maggiori label di settore, potrebbe anche ottenere un insperato successo a livello commerciale.

Tracklist:
1. The Cyber Construct
2. Propaganda Dream Sequence
3. To Lament, Mourn and Regret
4. Enter Oblivion
5. The Flock Obscenity
6. Automated Future
7. A Doctrine for the End Times
8. Decompression Countdown
9. And the Foundations Start to Decay
10. Scolecophagous
11. The Ephemeral Sempiternity of Time
12. Children of Dune
13. Valentines Day

Line-up:
Kevin Byrne – All instruments, Vocals

SONUS MORTIS – Facebook

Luna – Ashes to Ashes

Sicuramente valido dal punto di vista musicale, “Ashes to Ashes” lascia qualche perplessità per la sua adesione pressochè totale ai canoni stilistici già esibiti da Ea e Monolithe

Parlare di questo disco presenta diversi trabocchetti, non ultimo quello di rischiare di contraddirsi più volte nel corso della stessa recensione.

Il problema è che questo Ashes to Ashes, album d’esordio della one-man band ucraina Luna, in pratica fonde senza mezzi termini gli ultimi lavori di Ea e Monolithe, attingendo a piene mani dalla formula che ha reso peculiari queste due grandi realtà del funeral-death doom, a partire dalla presenza nella tracklist di una sola, lunghissima, traccia. Le affinità non finiscono certamente qui, infatti lo stile compositivo esibito da DeMort, il musicista che sta dietro quest’operazione, non si discosta di un millimetro da quello espresso dalle due band citate, grazie alla sovrabbondanza di atmosfere evocative guidate per lo più da un solenne lavoro di tastiera, sovente dal tocco orchestrale, oppure da un uso minimale del pianoforte che va a tracciare linee melodiche semplici ma coinvolgenti, appoggiate su uno schema basato su un’alternanza quasi matematica tra riff e interventi delle batteria. Insomma, messa così ce ne sarebbe abbastanza per scagliare indignati le cuffie urlando al plagio (o giù di lì), se non fosse che Ashes to Ashes, nonostante la lunghezza e un’innegabile ripetitività di fondo, si rivela un ascolto assolutamente gradevole, in particolare per chi ama sia i misteriosi figuri privi di un nome ed un volto, sia i più riconoscibili ma altrettanto schivi transalpini. L’unica differenza, non da poco ai fini delle sua resa finale, è la matrice strumentale dell’album, il che ne rende inevitabilmente più faticoso l’ascolto, oltre a farlo sembrare, di fatto, un sorta di disco ambient sul quale siano stati innestati abilmente pesanti riff di chitarra e le percussioni. Per il resto nulla da dire sull’abilità di DeMort nel costruire quasi un’ora di musica credibile, riuscendo nel contempo a tenersi sufficientemente alla larga da quella stucchevolezza che, in simili circostanze, rischia di prendere in ogni attimo il sopravvento; positivo anche il fatto che, tutto sommato, Ashes To Ashes prenda quota nel suo quarto d’ora finale, quando però gli Ea diventano decisamente qualcosa in più di una semplice influenza. Insomma, prendendo questo lavoro così com’è, fingendo d’aver perso temporaneamente la memoria, potremmo godercelo senza alcuna remora; purtroppo non è così e, pur non essendo un maniaco dell’originalità a tutti i costi, non posso fare a meno di proporre un paragone alpinistico: c’è colui che apre una nuova via e c’è invece quello che, successivamente, la utilizza faticando indubbiamente molto meno; poi si potrà dire che entrambi sono arrivati comunque in vetta, ma nessuno dovrà mai dimenticare che ciò è avvenuto con tempi e modalità ben differenti.

Tracklist:
1. Ashes to Ashes

Line-up:
DeMort – Everything

Decembre Noir – A Discouraged Believer

Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati.

Il disco d’esordio dei Decembre Noir ci consegna una band death-doom decisamente di buon livello da un paese come la Germania invero non particolarmente prolifico rispetto al genere in questione.

Il gruppo proveniente da Erfurt cita diverse influenze che vanno a scomodare gran parte dei nomi di punta del settore, tra i quali ne mancano curiosamente due che verrebbero istintivamente in mente nell’ascoltare il disco: Daylight Dies e Novembers Doom, in quest’ultimo caso soprattutto per il growl di Lars piuttosto vicino quello di Paul Kuhr In effetti il death-doom dei Decembre Noir possiede una matrice più statunitense che non europea, in virtù della rinuncia sostanziale alle melodie tastieristiche per lasciare spazio ad un impatto più ruvido dove a fare la differenza sono fondamentalmente le armonie create dalla chitarra. Emblematica in tal senso la traccia autointitolata, forse quello più immediata nonché riuscita della tracklist, con i ragazzi tedeschi a mantenere per il resto del lavoro, ad eccezione del finale evocativo e struggente di Stowaway, una certa uniformità stilistica dall’inizio alla fine, laddove l’unica variabile è la velocità impressa ai diversi brani, . Tutt’altro che un male, questo, considerando che il livello medio è decisamente elevato e ciò rimuove qualsiasi dubbio sulla bontà di un lavoro come A Discourage Believer. Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati. Una band che può crescere ulteriormente e non poco.

Tracklist:
1. A Discouraged Believer
2. Thorns
3. The Forsaken Earth
4. Decembre Noir
5. Stowaway
6. Resurrection
7. Escape to the Sun

Line-up:
Mike – Bass
Kevin – Drums
Martin – Guitars
Lars – Vocals
Sebastian – Guitars

DECEMBRE NOIR – Facebook

Doomed – Our Ruin Silhouettes

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Attestatosi ormai stabilmente bel prestigioso roster della Solitude, Pierre non tradisce le coordinate di base che hanno caratterizzato il suo death-doom sia nell’esordio “The Ancient Path” sia nel successivo “My Own Abyss” ma, in quest’occasione, il sound si concede in diverse occasioni aperture melodiche capaci di attenuare l’effetto claustrofobico che fino a ieri ne era contemporaneamente trademark e parziale limite.
La chitarra infatti si lascia andare a passaggi capaci di segnare i singoli brani, proprio ciò che veniva meno nei lavori precedenti dove invece veniva privilegiato un impatto di matrice death, senza dubbio efficace ma alla lunga privo del necessario cambio di marcia.
Non che i Doomed siano diventati di punto in bianco dei discepoli dei Saturnus, intendiamoci, il doom della one-man band teutonica è sempre piuttosto corrosivo e scevro di soluzioni di facile presa, ma la rabbiosa aggressività del recente passato lascia maggiormente spazio a una chitarra che trasmette più amarezza che malinconia, in ogni caso.
La scelta di aprire il disco ospitando alla voce uno dei cantanti simbolo del death-doom melodico europeo, ovvero Pim Blankenstein degli Officium Triste, denota anche a livello di intenti un maggiore ammorbidimento del sound, aspetto che a mio avviso permette ai Doomed di compiere un decisivo salto di qualità.
When Hope Disappears è infatti forse il brano migliore scritto da Pierre in questo biennio, non solo grazie al contributo vocale dell’ospite (del resto il musicista tedesco dispone egli stesso di un growl ben più che adeguato) ma, soprattutto, per la presenza di una chitarra capace di disegnare melodie sufficientemente dolenti; lo stesso accade anche in fondo anche in The Last Meal, dove in questo caso l’ospite è il meno noto Andreas Kaufmann, e nella conclusiva What Remains, per un trittico di brani che mostra il lato più melodico dei Doomed.
Il resto di Our Ruin Silhouettes si assesta sui livelli e sulle coordinate dei precedenti lavori, ma è indubbia la percezione di un lavoro di scrittura più definito e in qualche modo più aperto e non è da escludere che, essendo divenuti i Doomed, almeno dal vivo, una band a tutti gli effetti, Pierre ne abbia risentito positivamente anche in fase di composizione.
Ancora una volta, quindi, non si può che accogliere con soddisfazione una nuova uscita del musicista tedesco che, senza fare troppi proclami, prosegue con teutonica regolarità la sua marcia d’avvicinamento ai vertici del death-doom.

Tracklist:
1. When Hope Disappears
2. In My Own Abyss
3. A Reccurent Dream
4. The Last Meal
5. My Hand in Yours
6. Revolt
7. What Remains

Line-up:
Pierre Laube – All Instruments, Vocals

DOOMED – Facebook‎‎

Kaunis Kuolematon – Kylmä Kaunis Maailma

“Kylmä Kaunis Maailma” è un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.

Dopo aver recensito per ben due volte i Kuolemanlaakso eccoci alle prese con un monicker piuttosto simile come quello dei Kaunis Kuolematon; inutile dire che anche qui ci troviamo immersi mani e piedi nella magnifica terra dei mille laghi alle prese con un’altra band che potrebbe rivelarsi tra le scoperte più eccitanti dell’anno.

L’uso del condizionale non è riferito a dubbi sul contenuto musicale di Kylmä Kaunis Maailma bensì proprio alla difficoltà che avrete avuto (almeno che non abbiate ascendenze finniche) nel pronunciare correttamente il titolo; il ricorso integrale alla lingua madre rischia, infatti, di rivelarsi un ostacolo per quelle fasce di ascoltatori meno forniti di pazienza e di apertura mentale.
Superato questo relativo scoglio risulta però facile innamorarsi perdutamente dei Kaunis Kuolematon, capaci di comporre un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.
Lo spettro nobile quanto ingombrante dei Swallow The Sun aleggia inevitabilmente sul disco, e non è escluso che l’artificio linguistico sia anche un modo per rendere meno automatici certi accostamenti, ma va detto che, al di là di similitudini più o meno evidenti, i nostri mantengono quale tratto comune con i loro maestri soprattutto la stupefacente capacità di comporre melodie difficilmente accantonabili, inserendole in un contesto sonoro robusto ma sempre dotato del giusto equilibrio.
La prestazione vocale di Olli Saakeli Suvanto è eccellente, priva com’è di sbavature nelle parti in growl e in screming (sulla falsariga quindi del miglior Kotamaki), così come quella di Mikko Heikkilä, il quale in aggiunta alle sei corde si occupa anche delle evocative clean vocals, utilizzate a profusione nei brani più rilassati e in quelli dai tratti epicheggianti.
Il livello complessivo ben oltre la media non impedisce a qualche traccia di spiccare sulle altre, in particolare la splendida En ole mitään, dal tasso emotivo irresistibile e abbinata anche ad un video strappalacrime, o la successiva Sieluni sirpaleet, senza dimenticare la superlativa Aamu.
Anche se i Kaunis Kuolematon si fanno preferire nei frangenti più emozionali, pure quando spingono sull’acceleratore risultano coinvolgenti spostandosi decisamente sul versante death melodico, ma in ogni singolo momento dell’album la band finnica dimostra una spiccata personalità che riesce a farle superare con disinvoltura i limiti imposti dal genere e le inevitabili comparazioni con i nomi più pesanti del settore.
Come detto in avvio, la scelta di cantare in lingua madre temo che possa comportare la chiusura di diverse porte nei confronti dei Kaunis Kuolematon, almeno al di fuori dei confini patri, mentre, per loro fortuna, sul fronte interno si trovano ad avere a che fare con una popolazione numericamente esigua ma incredibilmente ricettiva verso generi musicali che altrove (qualcuno ha detto Italia ?) non vengono minimamente presi in considerazione a livello mediatico (ci tengo a ricordare che nel 2006 la Finlandia trionfò all’Eurofestival mandando in propria rappresentanza nientemeno che i Lordi)
Ma, al di là di tutte queste considerazioni, Kylmä Kaunis Maailma resta a mio avviso uno dei migliori dischi usciti in questo primo terzo del 2014 e tanto deve bastare per spingervi a fare una piacevole full-immersion di finlandese.

Tracklist:
1. Pimeyden valtakunta
2. Itsestään kuollut
3. Kivisydän
4. Kuolematon
5. En ole mitään
6. Sieluni sirpaleet
7. Pahan kasvot
8. Aamu
9. Haudasta hautaan

Line-up:
Jarno Uski – Bass
Miika Hostikka – Drums
Olli Saakeli Suvanto – Vocals
Ville Mussalo – Guitars
Mikko Heikkilä – Guitars, Vocals (clean)

KAUNIS KUOLEMATON – Facebook

Ordog – Trail For The Broken

Probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà apprezzabile quest’album, ma chi volesse capire da dove nasce la mia parziale delusione vada a riascoltarsi “Remorse”.

I finlandesi Ordog solo tre anni fa si erano rivelati con un disco straordinario come “Remorse”, nel quale fornivano un interpretazione del funeral doom del tutto personale, sia per i suoni prescelti sia per l’approccio decisamente naif alla materia.

Pertanto mi sono avvicinato speranzoso a questo nuovo Trail for the Broken, quarto full-length della loro discografia, ricevendone in cambio una parziale delusione.
Intendiamoci, il disco di per sé non è affatto disprezzabile e contiene, anzi, diversi episodi di ottima fattura; il fatto è, però, che delle sonorità plumbee e sofferte del suo predecessore non è rimasto quasi più nulla visto che quello che potremo ascoltare in questo frangente è un gothic-prog-doom dai tratti sempre piuttosto anticonvenzionali ma ben lontano dall’evocare le atmosfere malate o dal riprodurre gli spunti geniali del suo predecessore.
Se gli Ordog, finchè erano alle prese con il funeral sghembo di “Remorse”, riuscivano a sopperire ad alcune lacune di stampo esecutivo grazie alla loro particolare sensibilità compositiva, con l’approdo a sonorità più fruibili si spingono in territori nei quali non sempre si trovano a proprio agio, specie per l’uso di clean vocals non all’altezza che affossa in più parti il disco anche quando vengono espressi spunti strumentali di indubbio spessore.
La voce di Aleksi Martikainen è infatti troppo piatta e talvolta neppure sufficientemente intonata per fare presa su un pubblico più ampio, come si presume sia stato l’intento dei finnici con questo evidente salto stilistico, ed il virtuale accantonamento del più consono growl non si rivela una scelta azzeccata.
L’album vive così di sprazzi di buona musica nei quali l’abilità dei nostri nell’imbastire melodie struggenti non viene meno, il tutto però è caratterizzato da un’eccessiva discontinuità e, laddove si centra il bersaglio con due brani segnati da un bel lavoro di tastiera come Devoted to Loss e Enter The Void, oppure come con I Ceased to Dream, che si risolleva dopo un avvio poco incisivo grazie a un finale decisamente riuscito, bisogna fare i conti anche con un episodio invero sconcertante per la sua piattezza come Abandoned.
Ma forse io sono severo per troppo amore nei loro confronti e, probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà comunque apprezzabile quest’album che, come già detto, non sarebbe corretto liquidare come un qualcosa di negativo; se vogliamo tracciare un parallelismo, il loro percorso rassomiglia non poco, anche come esito, a quello dei Pantheist, partiti come i finnici da una base funeral-death doom, poi abiurata per approdare a sonorità più marcatamente gotiche e progressive.
Semplicemente, chi ne avesse voglia, vada a riascoltarsi la title track di “Remorse” quando, dopo tredici minuti di autentica agonia basati su passaggi pianistici minimali

ed un riff distorto all’inverosimile, il brano esplode in un delirio psichedelico degno dei migliori Bigelf: l’esperienza di questo ascolto varrà più di mille parole per spiegare in maniera chiara e netta chi erano gli Ordog nel 2011, una band in grado di raggiungere magari pochi intimi ma capace di regalare loro momenti indimenticabili, e quello che sono oggi, un gruppo che piacerà senz’altro a molte più persone senza riuscire probabilmente a lasciare una traccia tangibile nel cuore di alcuno.

Tracklist:
1. The Trail
2. Scythe
3. The Swarm of Abhorrence
4. Devoted to Loss
5. Enter the Void
6. I Ceased to Dream
7. Abandoned
8. The Crows of Towerpath

Line-up :
Valtteri Isometsä – Guitars, Drums, Vocals (backing)
Aleksi Martikainen – Vocals
Jussi Harju – Keyboards
Ilkka Kalliainen – Bass

ORDOG – Facebook

Crypt Of Silence – Beyond Shades

Esordio soddisfacente ma non eccezionale, difficilmente però la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Gli ucraini Crypt Of Silence si presentano al passo d’esordio per la Solitude con un solido album di death doom piuttosto ossequioso alla tradizione ma non per questo da sottovalutare a priori.

Indubbiamente la band di Mikhael Graver non si va a collocare sui livelli di eccellenza raggiunti da diversi loro compagni di scuderia negli ultimi tempi, difettando rispetto a questi sia in drammaticità che in gusto melodico, ma resta il fatto che ogni appassionato che si rispetti non dovrebbe ignorare questo buonissimo disco, all’insegna di un sound molto essenziale, nel quale spicca soprattutto l’assenza delle tastiere e quindi, di quelle armonie capaci spesso di fare la differenza in un genere dai tratti monolitici come quello in questione.
In sede di presentazione da parte della label viene citato curiosamente un singolo album come principale fonte di ispirazione, ovvero quel “The Sullen Sulcus” che è sicuramente stato il migliore degli album prodotti dai Mourning Beloveth fino all’uscita dello splendido Formless, ma non parliamo certo di un lavoro capace di segnare la storia del genere; sicuramente tali riferimenti non sono campati per aria (in particolare nelle conclusiva End of Imaginary Line ) ma qui siamo di fronte, soprattutto, ad una band relativamente giovane che intende proporre un death doom scarno ma dall’immutato impatto malinconico senza cercare facili scorciatoie.
Le quattro lunghe tracce portano Beyond Shades a sfiorare i cinquanta minuti, snodandosi in maniera sofferta ma sufficientemente coinvolgente, con qualche assolo di chitarra e diversi passaggi acustici ad incrinare il muro sonoro eretto dai quattro ragazzi ucraini.
E’ da considerare quindi più che sufficiente questo lavoro dei Crypt Of Silence, considerando appunto che si tratta pur sempre di un esordio, in particolare per l’integrità dimostrata e per il coraggio nel proporre con efficacia un modello stilistico leggermente superato; difficilmente la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Tracklist:
1. Walk with My Sorrow
2. Bleeding Her Eyes
3. The Wrath Song
4. End of Imaginary Line

Line-up :
Andriy Buchinskiy – Drums
Roman Kharandyuk – Guitars (rhythm), Vocals
Roman Komyati – Guitars (lead)
Mikhael Graver – Vocals, Bass, Lyrics

CRYPT OF SILENCE – Facebook

Kuolemanlaakso – Tulijoutsen

Viene confermata l’impressione di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere.

Il secondo album dei finnici Kuolemanlaakso arriva dopo un ep di recente uscita (Musta Aurinko Nousee) del quale abbiamo parlato qualche mese fa su queste pagine .

Il lavoro su lunga distanza conferma l’impressione ricavata in tale circostanza, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere, e questo pur potendo annoverare in formazione uno come Mika Kotamaki, vocalist dei Swallow The Sun, il che farebbe presupporre sonorità in qualche modo ricondicibili a quella band.
In realtà croce e delizia del disco è la relativa disomogeneità della proposta che, se da un parte ha il pregio di mostrare diverse sfaccettature stilistiche, dall’altra tenta con qualche difficoltà di far convivere all’interno del lavoro brani tra di loro agli antipodi come per esempio la rocciosa opener Aarnivalkea e la discutibile “swing-doom” Glastonburyn Lehto.
La stessa Me vaellamme yössä, che avevamo già trovato in apertura di “Musta Aurinko Nousee” in versione “edit”, in questa sua veste integrale si conferma canzone di sicuro impatto e dal buon potenziale commerciale, ma inserita tra la pesantezza dei riff delle ottime Verihaaksi e Arpeni finisce per apparire persino come un brano troppo “leggero”.
Ma, a conti fatti, se escludiamo la sola Glastonburyn Lehto, eccessivamente fuori dagli schemi per poter essere realmente apprezzata, Tulijoutsen è decisamente un buon disco che oltre ad avvalersi delle sempre efficaci vocals di Kotamaki mette in luce le eccellenti doti compositive di Laakso, in grado di produrre brani convincenti sia quando calca la mano sul versante più cupo e intimista (Arpeni) sia quando riesce a trovare un equilibrio ideale tra la robustezza del sound e le aperture melodiche, come avviene nella conclusiva Tuonen Tähtivyö, impreziosita anche da una gradevole voce femminile.
Kuolemanlaakso si rivela quindi un disco meritevole di attenzione, per quanto non troppo accessibile in tempi brevi in particolare per il ricorso alla lingua madre in sede di stesura dei testi; la sensazione è però quella che Laakso stia ancora testando sul campo la resa effettiva del suo progetto, come farebbe pensare l’elevata frequenza delle uscite (due full-length e un Ep) in un lasso di tempo relativamente breve.

Tracklist:
1. Aarnivalkea
2. Verihaaksi
3. Me vaellamme yössä
4. Arpeni
5. Musta
6. Glastonburyn lehto
7. Tuonen tähtivyö

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Aphonic Threnody & Ennui – Immortal In Death

Per entrambe le band ci troviamo probabilmente di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Chi pensa che gli split album siano tutto sommato operazioni trascurabili nel complesso della discografia di una band, pur non avendo del tutto torto a livello di principio, viene nell’occasione smentito da questo Immortal In Death, che vede alle prese, con un brano ciascuno, una sorta di internazionale del doom come gli Aphonic Threnody e gli emergenti georgiani Ennui.

Del resto, tre quarti d’ora di musica racchiusa in sole due tracce testimoniano quanta carne al fuoco ci sia all’interno di questo ottimo lavoro all’insegna del funeral-death doom più cupo e malinconico.
Lo split si apre con i venti minuti di Ruins, ad opera degli Aphonic Threnody, band che racchiude musicisti piuttosto noti nella scena quali l’inglese Riccardo V. (Dea Marica, Gallow God), gli italiani Roberto M. e Marco Z. (Dea Marica, Urna), il belga Kostas P. (Pantheist, Wijlen Wij) e l’ungherese Abel L..
Mai come in questo caso, l’unione di queste ottime individualità produce una somma di valori adeguata alle attese, regalando un brano eccellente che va a collocarsi oltre il livello standard raggiunto con le già quotate band di provenienza: Ruins risulta una vera e propria summa di tali esperienze con la quale, aderendo in toto ai dettami della scuola britannica, gli Aphonic Threnody fanno propria la lezione intrisa di decadente lirismo impartita un ventennio fa dai My Dying Bride, rielaborandola con la necessaria competenza ed ottenendo un risultato per certi versi inatteso, tale è il coinvolgimento prodotto da questo brano, capace di crescere in maniera esponenziale fino ad esaltare le caratteristiche peculiari del genere in un finale magnifico.
La traccia proposto dagli Ennui, Hopeless, ci consente di mettere a confronto una scuola più consolidata con quella di recente tradizione dell’area ex-sovietica: il duo georgiano composto da David Unsaved e Serj Shengelia ha all’attivo due album di recente uscita, “Mze Ukunisa” del 2012 e “The Last Way” del 2013, entrambi di ottima fattura e capaci di imporli immediatamente all’attenzione degli appassionati.
Rispetto ai compagni di avventura gli Ennui accentuano maggiormente l’aspetto malinconico della composizione, lasciando che il costante connubio tra la chitarra solista ed il growl profondo di David dipinga uno scenario di immane disperazione; il risultato è brano lungo quanto intenso e in grado di sprigionare emozioni a getto continuo, ale quale è pressoché impossibile restare indifferenti.
Ecco spiegato il motivo per il quale vale la pena di attribuire a questo split, pubblicato dall’etichetta russa GS Production, la stessa dignità di un full-length, non solo per la sua ragguardevole durata complessiva ma soprattutto per la qualità immessa da Aphonic Threnody e Ennui nei due brani spingendomi ad affermare che, per entrambe le band, ci troviamo di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Ruins
2. Ennui – Hopeless

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals, Lyrics
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards

Ennui
Serj Shengelia – Guitars, Bass, Drums
David Unsaved – Guitars, Vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

ENNUI – Facebook

Fuoco Fatuo – The Viper Slithers in the Ashes of What Remains

I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.

L’album d’esordio dei varesini Fuoco Fatuo si presenta all’insegna del death-doom più rigoroso e incontaminato, una scelta stilistica invero non troppo diffusa dalle nostre parti.

The Viper Slithers in the Ashes of What Remains infatti, riesce nell’impresa di amplificare nel contempo sia l’esasperante lentezza del doom sia la sorda violenza del death: il risultato è uno spaventoso monolite sonoro di oltre cinquanta minuti, capace di afferrare alla gola i malcapitati ascoltatori trascinandoli nei suoi gorghi e spingendoli sempre più in basso, fino a quegli abissi mai lambiti da un barlume di luce e popolati da creature mostruose, simili a quelle che popolavano i visionari racconti di Lovecratf.
Avevamo lasciato il trio lombardo alle prese con un ep, “33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero”, che ne aveva messo in luce le indubbie potenzialità, vedendoli spaziare da una base solidamente doom, ora verso sfumature sludge ora di matrice dark ambient, senza disdegnare l’uso di un hammond capace di imprimere al sound un indubbio fascino; poco più di un anno dopo la direzione musicale appare molto più chiara e, mai come in questo caso, la compattezza stilistica a scapito di una certa versatilità si rivela paradossalmente essere più un vantaggio che non un limite.
I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.
Le rare accelerazioni, dai rimandi black, non vanno ad intaccare un quadro d’insieme che, per esemplificare al massimo, potrebbe ricordare sia una versione a 16 giri degli opprimenti Morbid Angel di “Covenant” sia, soprattutto, un’ulteriore estremizzazione del già pesante death-doom dei maestri statunitensi Evoken; una nera colata di note che non lascia speranze di salvezza alle anime dannate, pervicacemente percosse da una tale ottundente violenza.
Ascoltate The Viper Slithers in the Ashes of What Remains come se fosse composto da un’unica traccia, ad un volume confacente ai biechi intenti dei Fuoco Fatuo, lasciandovi definitivamente seppellire da una lavoro dannatamente coinvolgente pur nella sua apparente linearità.

Tracklist:
1. Ancestral Devouring Anxiety
2. Junipers of Black Iridescence
3. Inner Isolation in a Sea of Mist
4. Eternal Transcendence into Nothingness
5. Requiem for Nulun

Line-up :
Giovanni “Ken” Piazza – Bass
Fabrizio Moalli – Drums
Milo Angeloni – Vocals, Guitars

FUOCO FATUO – Facebook

Shattered Hope – Waters Of Lethe

Quattro anni rispetto alla precedente uscita non sono passati invano portando al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.

Quando, nel 2010, i greci Shattered Hope pubblicarono il loro album d’esordio intitolato “Absence”, non tutta la critica fu concorde nel riconoscervi i prodromi di un’esplosione definitiva di quel potenziale, allora solo parzialmente dimostrato, convogliato in questo magnifico Waters Of Lethe.

In effetti, il lavoro d’esordio mostrava una band dal songwriting piuttosto lineare e, tutto sommato, orientato ad un death-doom pesante il giusto ma contenente pur sempre ampi squarci melodici, decisamente apprezzabile quindi, per quanto non ancora sufficiente a collocare il combo ateniese ai vertici del doom estremo.
Waters Of Lethe dimostra, invece, quella crescita che appariva ineluttabile quasi si trattasse di un disegno delle divinità dell’Olimpo: gli ottanta minuti di opprimente e plumbeo dolore tradotto in musica spostano in maniera netta le coordinate sonore sul versante funeral, senza che per questo motivo la componente melodica venga messa in secondo piano.
Visti dal vivo lo scorso anno in quel di Romagnano nella loro unica apparizione italiana di fronte a pochi e fortunati intimi, gli Shattered Hope erano chiaramente quelli che, tra le band presenti, esibivano il suono meno immediato, più profondo eppure ricco di fascino, capace di lasciare allo spettatore il piacere di trovare la giusta chiave di lettura per assaporarne pienamente l’amaro calice musicale .
Con queste premesse l’attesa per il nuovo album era sicuramente giustificata e fortunatamente non è stata tradita, a conferma del fatto che questi quattro anni sono stati un periodo senz’altro lungo ma necessario per portare al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.
Waters Of Lethe prende l’avvio con Convulsion, brano caratterizzato da una struggente parte finale che mostra però, a tratti, un sound leggermente più aggressivo rispetto a quello che verrà proposto nel resto del lavoro; ma appare evidente che, dopo questa eccellente prova di forza di oltre dodici minuti, quello che ci attende è un viaggio agli inferi lento, terribile, opprimente e pregno di disperazione, ovvero tutto ciò che chi ama il funeral desidera ascoltare.
La successiva For the Night Has Fallen è, infatti, un classico brano nel quale le armonie chitarristiche si snodano in maniera ottimale su una struttura più tradizionalmente devota ai maestri My Dying Bride, mentre My Cure Is Your Disease va a rievocare le partiture bradicardiche degli Worship del brano capolavoro “All I Ever Knew Lie Dead” arricchendole di un relativo dinamismo e di un più spiccato gusto melodico, per un risultato finale splendido.
La bellezza di questo disco è riscontrabile anche nella sua costante progressione qualitativa che trova il suo apice in Obsessive Dilemma, traccia nella quale la chitarra dipinge desolanti affreschi sonori che vanno ad intrecciarsi con un growl cangiante ed espressivo.
Un lavoro già ampiamente al di sopra della media va a chiudersi con due tracce dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora che risultano nel contempo le più complesse del lotto, ma capaci di svelare sempre più il loro fascino dopo ogni ascolto: certo, i cinque minuti di funeral integralista collocati nella coda di Aletheia contribuiscono ad appesantire di molto l’ascolto, quasi a voler controbattere la relativa orecchiabilità della sua parte centrale, ma costituiscono pure un ideale viatico alle atmosfere sublimi poste ad introduzione della conclusiva Here’s To Death, lunghissima litania dai tratti delicati quanto funesti capace di uguagliare i miglior Esoteric e Mournful Congregation.
Come già ripetuto più volte in frangenti analoghi, il recente Canto III degli Eye Of Solitude, spostando ulteriormente in alto lo standard qualitativo del genere, si pone nel presente come ingombrante termine di paragone per chi voglia cimentarsi in questo medesimo terreno: ebbene, al riguardo si può dire che nessuno come gli Shattered Hope sia riuscito finora ad avvicinarsi alla magnificenza della band londinese, rispetto alla quale il sestetto greco risulta appena inferiore solo per l’impatto drammatico, essenzialmente a causa di una minore enfasi, conferita in quel caso dall’imponente lavoro delle tastiere che, invece, in Waters Of Lethe, svolgono un elegante quanto discreto lavoro di accompagnamento lasciando principalmente alle chitarre il compito di sviluppare armonie splendide quanto malinconiche.
Ma non c’è dubbio sul fatto che questo lavoro rappresenti un’ideale summa di quanto prodotto dal pantheon del funeral death-doom negli ultimi vent’anni, andando non solo a rimodellare con una rilettura del tutto personale quanto già fatto da chi ha scritto la storia del genere, ma riuscendo persino ad eguagliarne l’intensità e il pathos.

Tracklist:
1. Convulsion
2. For the Night Has Fallen
3. My Cure Is Your Disease
4. Obsessive Dilemma
5. Aletheia
6. Here’s to Death

Line-up :
Nick – Vocals
George – Drums, Percussion
Sakis – Guitars
Thanos – Guitars
Eugenia – Keyboards
Thanasis – Bass

SHATTERED HOPE – Facebook

Wraithmaze – Fields Of Nihilism

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
Il sound della band, infatti, appare incentrato sull’ottimo lavoro alle tastiere del leader Janne Kielinen, ma va detto che lo strumento non finisce per debordare come sovente avviene in simili frangenti, lasciando invece il giusto spazio anche al resto della strumentazione.
Proprio l’accentuato gusto melodico è ciò che più piace in Fields Of Nihilism: i quattro brani sono decisamente scorrevoli e, in fondo, se non ci fosse il growl di Jarko Rintee ad incattivire e conferire morbosità al songwriting, l’Ep resterebbe stabilmente ancorato ad atmosfere potenzialmente fruibili anche per ascoltatori non necessariamente avvezzi al genere.
Molto azzeccato tra gli altri, il tema portante di Homeless, ma un pò tutti i brani sono disseminati di passaggi emozionanti, avvincenti, spesso accostabili alla solennità di certe colonne sonore (Battle with the Bottle ) ed eseguiti in maniera eccellente dal punto di vista tecnico.
Peccato solo che il tutto si esaurisca in poco più di venti minuti, ma chi volesse, in attesa di un nuovo album, può andarsi tranquillamente a riscoprire il precedente full-length “Adagio in Self-Destruction” senza correre il rischio di restarne deluso.
Davvero bravi i Wraithmaze, i quali, pur senza reinventare la ruota, mettono sul piatto un lavoro affascinante e di grande sostanza, ideale viatico ad un auspicabile prossimo album.

Tracklist:
1. Shrine of the Unwanted
2. Homeless
3. Battle with the Bottle
4. Funeral Autumn

Line-up :
Janne Kielinen – Guitars, Keyboards
Jarkko Rintee – Vocals
Jan Siekkinen – Guitars
Lord Angelslayer – Bass

WRAITHMAZE – Facebook

Wijlen Wij – Coronachs of the Ω

Il secondo album della band belga alterna momenti eccellenti ad altri piuttosto opachi, per un risultato complessivo soddisfacente ma non esaltante.

A sette anni dal disco d’esordio ritornano i doomsters belgi Wijlen Wij, progetto che vede coinvolto Kostas Panagiotou, conosciuto anche come leader dei più noti Pantheist.

Coronachs of the Ω esce per la Solitude, autentico marchio di garanzia per il funeral death doom e tutto sommato, anche in questo caso, tale assunto non viene smentito nonostante l’operato del trio belga sia caratterizzato da diversi alti e bassi.
L’opener … boreas apre le danze invero come meglio non si potrebbe, grazie alle sue sonorità devote ai migliori Skepticism, in virtù soprattutto del timbro tastieristico scelto da Kostas: il brano è decisamente evocativo, trascinante, dotato anche di un relativo dinamismo, con uno splendido break pianistico centrale, insomma possiede tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un disco del genere; la seguente Die Verwandlung rallenta di molto l’andatura alternando a buoni spunti chitarristici quella staticità del sound che la sua notevole lunghezza non contribuisce certo a migliorare, caratteristica, questa, che si accentua in maniera ancor più evidente in Laying Waste to the City of Jerusalem, autentica mattonata priva di qualsiasi sbocco melodico che rischia pericolosamente di affossare un lavoro nato invece sotto i miglior auspici.
Fortunatamente A Solemn Ode to Ruin…, accostabile per sonorità ai vicini di casa olandesi Officium Triste, pur essendo anch’essa un pò troppo dilatata, rimette le cose a posto mostrando atmosfere sufficientemente cariche di pathos, e la conclusiva From the Periphery è un’altra traccia decisamente riuscita con il proprio andamento dolente e malinconico.
Coronachs of the Ω è in assoluto un buon disco, che gli amanti del genere apprezzeranno senz’altro anche se, al termine dell’ascolto, resta il rammarico di non aver potuto ascoltare un lavoro nel complesso qualitativamente all’altezza della traccia di apertura, e il motivo può dipendere da vari fattori: il growl del volenteroso Lawrence Van Haecke si rivela adeguato solo al’interno delle tracce migliori, mentre appare troppo piatto per risultare incisivo quando deve assumere suo malgrado un ruolo di primo piano come in Laying Waste to the City of Jerusalem (non male invece, nel complesso, le clean vocals); la produzione non fa molto per smussare qualche imperfezione che affiora qua è là e, in particolare, non viene valorizzato al meglio il suono della chitarra solista, capace sovente di brillanti intuizioni melodiche.
In fin dei conti la sensazione che si trae dall’ascolto di Coronachs of the Ω è che i Wijlen Wij siano l’altra faccia della medaglia dei Pantheist: tanto resta radicato nella tradizione il sound dei primi, conservando quell’alone vintage che può avere un suo fascino ma pure apparire irrimediabilmente datato, quanto è stata spinta forse all’eccesso dal buon Kostas l’evoluzione stilistica dei secondi finendo per spingerli ben oltre i confini riconosciuti del doom più canonico.
In mezzo resta un territorio sufficientemente vasto per essere ulteriormente esplorato con successo da diverse band e non ci sono dubbi sul fatto che tra queste possano esserci in futuro anche i Wijlen Wij.

Tracklist:
1. …boreas
2. Die Verwandlung
3. Laying Waste to the City of Jerusalem
4. A Solemn Ode to Ruin…
5. From the Periphery

Line-up :
Kris Villez – Drums
Kostas Panagiotou – Guitars, Keyboards
Lawrence van Haecke – Vocals

WIJLEN WIJ – Facebook

Descend Into Despair – The Bearer of All Storms

La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.

Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.

Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth

Line-up :
Denis Ungurean – Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars (lead), Programming, Drums, Keyboards
Iulia Bulancea – Bass
Orza Radu – Drums
Cosmin Farcău – Guitars (rhythm)
Florentin Popa – Keyboards

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Woe Unto Me – A Step into the Waters of Forgetfulness

Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.

Altro ottimo prodotto sfornato dalla sempre prolifica, anche dal punto di vista qualitativo, Solitude Prod.

Stavolta tocca ai bielorussi Woe Unto Me ad essere portati alla ribalta della scena doom europea: la band, condotta dall’eccellente Artyom Serdyuk, viene descritta come dedita al funeral doom ma è evidente, sin dalle prime note, quanto l’approccio sia decisamente più intimista, quasi soffuso a tratti, senza che il senso di palpabile malinconia che contraddistingue il genere venga comunque in qualche modo scalfito.
A Step into the Waters of Forgetfulness è in effetti un lavoro che si discosta, pur senza snaturarsi, dalla coordinate classiche del funeral, proprio perché gli Woe Unto Me optano per composizioni lunghe come da copione che mettono però in risalto particolarmente il riuscito connubio tra le clean vocals dell’ottimo Sergey Puchok e le partitura acustiche, sempre contraddistinte da una certa eleganza di fondo.
L’uso delle voci è davvero il valore aggiunto del lavoro : il growl di Artyom è centellinato il giusto ritagliandosi il ruolo di adeguata spalla alla timbrica evocativa di Sergey (in certi frangenti accostabile ad un Eric Clayton meno enfatico), e lo stesso avviene con il controcanto femminile che ha per lo più un compito di supporto. Tutto ciò si realizza nel migliore dei modi nella traccia finale, la lunga e drammatica Angels To Die, che rappresenta, tra tutti, l’episodio più rispondente all’etichetta associata alla band, mentre i primi tre brani vivono ancor più invece sull’apporto decisivo di suggestioni acustiche, specie l’iniziale Slough Of Despond, che prende avvio con tonalità cristalline prima di abbandonarsi alle più consuete ritmiche funeree.
Il valore indiscutibile di un lavoro come A Step into the Waters of Forgetfulness risiede proprio nella volontà dei ragazzi bielorussi nel cercare con continuità una via maggiormente personale per esprimere il proprio mood malinconico senza cadere con entrambi i piedi nei, comunque graditi, clichè del genere.
Un’operazione che riesce pienamente grazie alle indubbie doti tecniche esibite dal combo di Grodno: evidentemente, nonostante questo disco sia di fatto un esordio su lunga distanza, denota sicuramente un percorso musicale tutt’altro che banale compiuto dai singoli musicisti prima di cimentarsi in quest’opera.
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Gran bel lavoro e altra graditissima sorpresa, è sempre un piacere rischiare di apparire ripetitivi ogni qual volta ci si trovi a lodare sperticatamente le doom band provenienti dal nordest europeo …

Tracklist:
1. Slough of Despond
2. The Gospel Reading
3. Stillborn Hope
4. 4
5. Angels to Die

Line-up :
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Sergey Puchok – male clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
Julia Shimanovskaya – female clean vocals

WOE UNTO ME – Facebook

Dom – Dom Vampyr

Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al funeral come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Belial (Ivan Manzano) è un musicista spagnolo che, con il monicker Dom, ha già all’attivo due full-length di realizzazione piuttosto recente.

Questa sua nuova uscita avviene invece nel formato dell’Ep, di lunghezza comunque considerevole visto che la sua durata sfiora la mezz’ora.
Dom, non solo per l’assonanza, viene considerato un progetto funeral doom, anche se tale etichetta può apparire parzialmente fuorviante: le composizioni di Belial, integralmente strumentali, sono basate essenzialmente sulle note del pianoforte che, grazie ad un indubbio gusto melodico, guida la musica per lo più su lidi ambient, e della chitarra che sovente si lascia andare in progressioni non del tutto scontate.
Nulla a che vedere quindi, sia con la versione più claustrofobica sia con quella più avvolgente e malinconica del genere: Dom Vampyr, pur mantenendo le connotazioni cupe del funeral, non ne possiede né la ritmica bradicardica nè la pulsione drammatica.
Detto questo, i tre brani si rivelano piuttosto validi e per certi versi differenti tra loro: la lunga opener A Modern Prometheus mostra il lato più sperimentale di Belial il quale, partendo da umori quasi jazzistici si lancia in una fase centrale piuttosto vivace per approdare infine ad una chiusura all’insegna di ritmiche asfissianti.
Les Avaleuses prende vita con una forte impronta Skepticism, dovuta ad un timbro simile delle tastiere, per poi lasciare spazio al consueto contenuto pianistico poggiato su spunti compostivi accostabili agli Ea.
L’episodio senza dubbio migliore e più caratterizzante è, però, The Tomb Of Ethelind Fionguala, traccia che, paradossalmente, tra tutte è proprio quella che meno ha a che vedere con il funeral: una bel giro di piano viene ripetuto per l’intero brano prima da solo, poi con l’ingresso delle tastiere finchè, attorno alla metà del brano, la chitarra solista si prende il proscenio liberandosi in uno splendido assolo di stampo classico.
Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al genere come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Tracklist:
1. A Modern Prometheus
2. Les Avaleuses
3. The Tomb Of Ethelind Fionguala

Line-up :
Iván “Belial” Manzano – Everything

A Young Man’s Funeral – Thanatic Unlife

Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.

A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.

Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica.
Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.

Tracklist:
1. Curse
2. Remorse
3. Salvation

Line-up :
A.S. All instruments
E.S. Vocals

Ea – A Etilla

Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.

Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.

Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere  certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla

Eye Of Solitude – Canto III

Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.

La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.

Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora.
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.

Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast

Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards

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