Thy Art Is Murder – Dear Desolation

Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Ormai, con l’uscita di questo ultimo lavoro, la definizione deathcore per descrivere la musica degli australiani Thy Art Is Murder risulta sicuramente forzata, ma andiamo con ordine.

La band di Sydney torna con Dear Desolation quarto album in studio licenziato in Europa dalla Nuclear Blast che segna il ritorno dell’orco CJ McMahon, allontanatosi all’indomani dell’uscita di The Depression Session, split album in compagnia di The Acacia Strain e Fit for an Autopsy, ma rientrato dopo pochi mesi.
Accompagnato da un’inquietante copertina che vede ritratto un famelico lupo allattare un agnellino con l’intenzione di sbranarlo subito dopo, Dear Desolation è un buon esempio di brutal death metal ispirato da soluzioni moderne, efferato e terribile come le fauci del grande predatore.
A tratti l’oscurità pressante ed il continuo massacro vengono stemperate da soluzioni melodiche che rimangono tragiche ed infauste, mentre il vorace lupo prende le sembianze del singer, animalesco e cattivo come pochi.
Nella sua interezza l’album risulta un macigno estremo di death metal brutale e moderno, accentuato da devastanti sfuriate e mid tempo che sono muri di arrembante metallo oscuro, mentre le sei corde questa volta risultano più varie e melodiche nel gestire il proprio lavoro e l’elemento elettronico/atmosferico è presente, senza però mettere in discussione la natura brutal dell’opera.
L’ultimo lavoro dei deathsters australiani non è sicuramente di facile assimilazione, anche se la durata è nella media (una quarantina di minuti), grazie ad una tragica ed oscura anima che aleggia sui brani così da soffocare la title track, Death Dealer, Into Chaos We Climb e le altre tracce in un buio perenne di dannazione e violenza.
Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Tracklist
1. Slaves Beyond Death
2. The Son Of Misery
3. Puppet Master
4. Dear Desolation
5. Death Dealer
6. Man Is The Enemy
7. The Skin Of The Serpent
8. Fire In The Sky
9. Into Chaos We Climb
10. The Final Curtain

Line-up
CJ McMahon – vocals
Andy Marsh –
Sean Delander – guitars
Kevin Butler – bass
Lee Stanton – drums

THY ART IS MURDER – Facebook

Inanimate Existence – Underneath A Melting Sky

Dopo le ultime prove deludenti da parte di gruppi anche più conosciuti della band californiana, Underneath A Melting Sky risulta una piccola ventata di aria fresca in un genere che ultimamente appariva sempre più asfittico.

Finalmente una band di technical death metal che, oltre a sfoggiare una tecnica invidiabile, ci riserva un concentrato di digressioni progressive ricamate da melodie sufficienti quanto basta, almeno, per non far perdere l’attenzione a chi ascolta.

Attivi dal 2010 nella zona della famosa Bay Area californiana, giungono al quarto album i deathsters Inanimate Existence, addirittura a meno di un anno dal precedente lavoro intitolato Calling For A Dream.
Archiviata la copertina fantasy che poco ha a che fare con la musica del quartetto, ma più utile forse al nuovo album di una qualsiasi band power metal, Underneath A Melting Sky ci investe con la sua intricata forza estrema, valorizzata da buone melodie ed un gusto progressivo evidenziato dalle sfumature orchestrali che attraversano molti dei brani che compongono l’album.
Niente di nuovo o clamoroso, ormai il genere non fa più notizia e i gruppi formati da talentuosi musicisti estremi spuntano come funghi, ma alla base dell’ultimo disco del gruppo statunitense c’è la voglia di non andare oltre le regole di uno spartito completamente avulso da tecnicismi fine a sé stessi di molti loro colleghi.
In Moonlight I Am Reborn, Blood of the Beggar o The Djinn, gli Inanimate Existence valorizzano l’ottima tecnica strumentale con un songwriting ben calibrato, offrendo un prodotto estremo comunque assimilabile anche da chi preferisce il death metal classico e tenendo nel dovuto conto l’essenziale forma canzone.
Dopo le ultime prove deludenti da parte di gruppi anche più conosciuti della band californiana, Underneath A Melting Sky risulta una piccola ventata di aria fresca in un genere che ultimamente appariva sempre più asfittico.

Tracklist
1.Forever to Burn
2.Underneath a Melting Sky
3.In Moonlight I Am Reborn
4.Blood of the Beggar
5.The Old Man in the Meadow
6.The Djinn
7.The Unseen Self
8.Formula of Spores

Line-up
Cameron Porras – Guitar, Vocals
Scott Bradley – Bass, Vocals
Ron Casey – Drums

INANIMATE EXISTENCE – Facebook

Incantation – Profane Nexus

Un’apoteosi di scorribande in doppia cassa, lentissimi e claustrofobici passaggi doom ed atmosfere malvagie: Profane Nexus ribadisce l’assoluta qualità della proposta degli Incantation, band che risulta una garanzia ed una delle poche dal sound personale.

Il 2017 verrà sicuramente ricordato dai fans del metal estremo per il ritorno di molte bands storiche del panorama death metal mondiale, con album che non andranno sicuramente ad intaccare la loro reputazione, degni successori delle opere uscite negli anni di maggior fama per il genere.

Si aggiungono a questa invasione di vecchie glorie gli statunitensi Incantation, gruppo proveniente dalla Pensylvania che John McEntee ha tenuto attivo dal 1989 con undici album licenziati ed una marea di lavori minori, sempre all’insegna di un blasfemo death metal dalla forte componente doom.
Anche in questo nuovo lavoro intitolato Profane Nexus la formula non cambia, con il gruppo che continua imperterrito ad alternare, amalgamare e modellare death metal old school e doom funereo, come da tradizione.
Niente di nuovo direte voi, vero è che anche questo oscuro e diabolico album non mancherà di crogiolare le anime possedute dal verbo Incantation, tra devastanti ripartenze e lunghe cadute nell’abisso dove le anime soffrono di una infinita e tragica disperazione, seviziate e torturate dalla lava che lenta scorre ai loro piedi.
McEntee, con il suo satanico growl, detta i tempi di questa macchina infernale, assecondato da Sonny Lombardozzi alla sei corde, Chuck Sherwood al basso e Kyle Severn alle pelli, con il valore aggiunto del lavoro in studio di Dan Swanö e la “benedizione” della Relapse.
E’ un’apoteosi di scorribande in doppia cassa, lentissimi e claustrofobici passaggi doom ed atmosfere malvagie: Profane Nexus ribadisce l’assoluta qualità della proposta di una band che risulta una garanzia ed una delle poche dal sound personale.
Gli Incantation da anni suonano come … gli Incantation, se sia difetto o virtù dipende dai punti di vista, l’importante è che brani come Visceral Hexahedron, Incorporeal Despair, Lus Sepulcri continuino a dispensare metal estremo oscuro e blasfemo suonato da uno schiacciasassi.

Tracklist
01. Muse
02. Rites of the Locust
03. Visceral Hexahedron
04. The Horns of Gefrin
05. Incorporeal Despair
06. Xipe Totec
07. Lus Sepulcri
08. Stormgate Convulsions from the Thunderous Shores of Infernal Realms Beyond the Grace of God
09. Messiah Nostrum
10. Omens to the Altar of Onyx
11. Ancients Arise

Line-up
John McEntee – Guitar, Vocals
Sonny Lombardozzi- Lead Guitar
Chuck Sherwood – Bass
Kyle Severn – Drums

INCANTATION – Facebook

Zurvan – Gorge Of Blood

Molto lineare per esecuzione e produzione, Gorge Of Blood incuriosisce inizialmente per la provenienza dei musicisti coinvolti, ma poi all’atto pratico si rivela un lavoro sufficiente ma nulla più.

Zurvan è un nome che appare nel zoroastrismo, religione preislamica originaria della Persia: questo è anche il monicker  che vuole rimarcare con forza il rimpianto l’attaccamento a tradizioni e culti azzerati dall’abbruttimento fondamentalista, adottato da questo progetto musicale fondato dal musicista iraniano Nâghēs e che ha oggi la sua base in Germania, nazione nella quale naturalmente è più semplice suonare metal.

Gorge Of Blood segue di tre anni l’esordio Hichestan e vede il mastermind occuparsi di tuti gli strumenti ad eccezione della batteria affidata a Tarōmad; il sound proposto è un black death molto aspro e ritmato, che presenta quale particolarità un’interpretazione vocale che esula dal canonico stile del genere esibendo una sorta di growl sincopato: ad ogni buon conto, tanto per fornire un’idea di massim,a il territorio sul quale ci si muove è quello degli Al Namrood, anche se l’interpretazione del genere da parte degli Zurvan appare ancor più ortodossa.
I tredici brani proposti prevedono quindi poche variazioni sul tema, se non un assalto sonoro piuttosto compatto e raramente caratterizzato di aperture melodiche, così come di accenni di stampo etnico: da questo ne deriva un lavoro di notevole impatto ma nel contempo monotematico, dal discreto livello medio ma con pochi picchi, corrispondenti alle tracce meno esasperate ritmicamente ed in possesso di un andamento più ragionato, come Kiss of Death o Hallucination.
Molto lineare per esecuzione e produzione, Gorge Of Blood incuriosisce inizialmente per la provenienza dei musicisti coinvolti, ma poi all’atto pratico si rivela un lavoro sufficiente ma nulla più: aspetti sui quali limare qualcosa per raggiungere un livello superiore ce ne sono diversi, vedremo in futuro se, effettivamente, Nâghēs avrà la forza e la capacità di imprimere una maggiore varietà alla propria proposta musicale.

Tracklist:
01. Gorge Of Blood
02. Convulsion
03. Kiss Of Death
04. Isolation Of Sense
05. Self-Mutilation
06. Kafir
07. Zurvancide
08. Agression
09. Hallucination
10. Swamp
11. Filthy Calendar Of The Time
12. Freezing
13. Massacre

Line up:
Nâghēs – Guitars, Vocals
Tarōmad – Drums

ZURVAN – Facebook

Antipathic – Autonomous Mechanical Extermination

La ridotta durata complessiva di Autonomous Mechanical Extermination (circa sei minuti) impedisce di trarre conclusioni definitive, anche se quanto ascoltato fornisce comunque indicazioni sufficienti per inserire gli Antipathic tra le band da tenere sotto osservazione.

Breve ep di presentazione per gli Antipathic, progetto italo americano che vede la presenza di Tat0, bassista cantante che abbiamo già avuto modo di apprezzare all’opera nei validi calabresi Zora, assieme al chitarrista e batterista d’oltreoceano Chris.

Il genere proposto è, secondo le attese, un brutal death piuttosto circoscritto nel perimetro del genere, ma ben eseguito e curato nei particolari, e i tre brevi brani proposti tengono fede alle premesse, nel bene e nel male: infatti il brutal, quando è suonato con tutti i crismi, almeno per me è sempre un bel sentire, ma allo stesso tempo capita raramente di rinvenire spunti capaci di rendere sufficientemente peculiari tali sonorità.
Ovviamente la ridotta durata complessiva di Autonomous Mechanical Extermination (circa sei minuti) impedisce di trarre conclusioni definitive, anche se quanto ascoltato fornisce comunque indicazioni sufficienti per inserire gli Antipathic tra le band da tenere sotto osservazione, in attesa di una prova quantitativamente più cospicua.

Tracklist:
1. Apparatus
2. Molecular Deviations
3. Autonomous Mechanical Extermination

Line-up:
Chris – chitarra e batteria
Tat0 – voce e basso

ANTIPATHIC – Facebook

In Human Form – Opening of the Eye by the Death of the I

Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista.

Gli americani In Human Form appartengono a quella categoria di band che, indubbiamente, non hanno tra le loro priorità quella di suonare musica accattivante allo scopo di ricevere consensi immediati.

Il progressive black offerto dal gruppo del Massachusetts è quanto di più ostico e dissonante sia possibile immaginare e non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che sia finito nell’orbita di un’etichetta come la I,Voidhanger.
Patrick Dupras, con il suo screaming aspro, strepita le proprie liriche su un’impalcatura musicale nella quale solo apparentemente ogni strumento sembra andare per proprio conto ma, in realtà, appare evidente che cosi non è, anche se in più di un passaggio sembra di cogliere le stimmate di un’improvvisazione che tale resta a livello di fruibilità, per quanto evoluta.
La stessa struttura dell’album, con tre tracce della durata media attorno al quarto d’ora, inframmezzate da altrettanti brevi iintermezzi strumentali, conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, la volontà di lasciar fluire senza alcun limite un’ispirazione obliqua che, oggettivamente, se respinge al mittente ogni tentativo di approccio benevolo all’opera, pare aprirsi leggermente non dico ad una forma canzone, che resta un idea lontana anni luce dall’immaginario degli In Human Form, almeno a passaggi che vengono resi meno criptici da lampi melodici.
Sia Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis che Through an Obstructionist’s Eye, infatti, sono ampie dimostrazioni di quanto i nostri abbiano la capacità di rendere meno ostica la loro proposta in ogni frangente, ma facendolo perfidamente in maniera ben più che sporadica: nel primo troviamo passaggi meditati assieme a sfuriate di stampo black più canoniche, ma è chiaro che, comunque, il sound resta inquieto e cangiante anche se in questo frangente sembra aprirsi più di un varco nelle spesse recinzioni sonore erette dalla band, mentre nel secondo, posto in chiusura dell’album, trova posto persino un bell’assolo di chitarra, strumento che nell’arco del lavoro viene offerto con un’impronta per lo più jazzistica.
Per quanto mi riguarda, nel lavoro ho riscontrato in eguale misura passaggi davvero eccellenti assieme altri eccessivamente cervellotici e, contrariamente a quanto affermo solitamente, qui la voce appare sovente un elemento di disturbo piuttosto che un completamento del lavoro strumentale.
Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista, caratteristiche che certo non fanno difetto a Opening of the Eye by the Death of the I.

Tracklist:
1. Le Délire des Négations
2. All is Occulted by Swathes of Ego
3. Apollyon Synopsis
4. Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis
5. Ghosts Alike
6. Through an Obstructionist’s Eye

Line up:
Nicholas Clark – Guitars, bass guitar, alto saxophone, keyes, backup vocals
Rich Dixon – Drums, percussion, guitars
Patrick Dupras – Vocals, lyrics

IN HUMAN FORM – Facebook

Hitwood – Detriti

Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.

A distanza di un mese circa , torniamo a parlarvi di una nuova uscita targata Hitwood, la creatura musicale creata dalla mente del polistrumentista Antonio Boccellari.

Archiviato il primo full length When Youngness … Fly Away … uscito lo scorso anno ed il precedente ep di cui ci siamo occupati (As A Season Bloom), Hitwood torna a descrivere in musica i suoi sogni che prima di Detriti erano lasciati alla sola musica.
Questa volta l’influenza melodic death di estrazione scandinava è ancora più marcata rispetto ai suoi predecessori, soprattutto per l’ausilio delle voci che sono le protagoniste della musica creata per l’occasione dal bravissimo musicista lombardo.
Dietro al microfono troviamo dunque due ottimi singer. Carlos Timaure al growl ed Eveline Schmidiger, protagonista con growl e clean vocals.
Inutile negare che, con l’inserimento delle voci la musica di Hitwood lascia il mondo della musica strumentale, bellissima ma molto limitata nelle preferenze degli ascoltatori, per raggiungere sicuramente un’audience più ampia.
Rimane un death metal melodico sui generis quello di Boccellari, sempre molto intimista ed atmosferico, ma indubbiamente più completo ed estremo ora che il growl fa il bello e cattivo tempo sulla maggioranza dei brani.
A parte l’intro As Far As I Can Remember e lo strumentale More Winters To Face…, vicino al precedente lavoro come atmosfere e sound, i brani di Detriti risultano sempre molto melodici ma anche più diretti, come la splendida My Path To Nowhere, canzone che ci riporta in pieni anni novanta ed ai lavori di In Flames (padrini del sound Hitwood), Dark Tranquillity ed ai paladini del suono melodico nel metal estremo.
Years Of Sadness conferma l’ottima scelta di Boccellari, dall’alto di un brano robusto valorizzato da un tappeto di cori, che enfatizza la componente sognante del concept degli Hitwood, mentre Chromatic lascia campo al lato più estremo del sound e Venus Of My Dreams ci porta alla fine di questo ottimo lavoro, lasciandoci con le trame epico melodiche classiche dei gruppi provenienti dal profondo nord.
Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.

Tracklist
1.As Far As I Can Remember
2.My Path To Nowhere
3.Years Of Sadness
4.More Winters To Face…
5.Chromatic
6.Venus Of My Dreams

Line-up
Antonio Boccellari – guitars, bass, drums

Guest :
Carlos Timaure – growl vocals
Eveline Schmidiger – growl/clean vocals

HITWOOD – Facebook

Execration – Return to the Void

Un riuscito blend tra innovazione e tradizione in ambito Death da parte di una band con capacità non comuni.

Quarto full length per quest’ottimo quartetto norvegese attivo dal 2007 con il demo “Language of the dead”: ora, dopo aver portato a compimento pieno il loro stile, gli Execration escono per la prima volta con la Metal Blade.

Il suono, attraverso una lenta evoluzione in tre album usciti con cadenza triennale, è pienamente death nella forma ma con strutture particolarmente elaborate, lavorate su un suono di chitarra che inserisce dissonanze e crea atmosfere molto particolari; niente di ostico e sperimentale, ma un’opera di qualità dove il mix tra tradizione e innovazione crea brani dall’andamento sempre stimolante ed imprevedibile.
Il songwriting è di alto livello, i brani sono trascinanti ergendo un muro sonoro che ha la capacità di variare grazie all’incessante incrociarsi delle due chitarre; fino dall’opener Eternal Recurrence l’energia non manca, il growl intenso e intellegibile da quel “quid” in più che cerca di differenziare con coraggio il suono di questi artisti, le strutture elaborate sono ben studiate (Hammers of Vulcan) e i due chitarristi si lanciano in digressioni che mantengono sempre alto il livello di attenzione, senza annoiare mai, lambendo territori trash senza mai creare tecnicismi fini a sé stessi. Non ci sono filler e anche i due brevi intermezzi (Blood Moon Eclipse e Through the Oculus) sono piacevoli e fanno tirare il fiato prima dei successivi massacri; le atmosfere sinistre e dissonanti di Cephalic Transmissions danno un ulteriore tocco di imprevedibilità e personalità ai norvegesi.
La splendida title track suggella un disco pienamente riuscito e come al solito sta a noi, con ripetuti ascolti, dargli la giusta attenzione sperando di poter ascoltare live nelle nostre terre gli Execration.

Tracklist
1. Eternal Recurrence
2. Hammers of Vulcan 3. Nekrocosm
4. Cephalic Transmissions
5. Blood Moon Eclipse
6. Unicursal Horrorscope
7. Through the Oculus
8. Return to the Void
9. Det uransakelige dyp

Line-up
Cato Syversrud Drums
Jørgen Maristuen Guitars, Vocals
Chris Johansen Guitars, Vocals
Jonas Helgemo Bass

EXECRATION – Facebook

The Lurking Fear – Out Of The Voiceless Grave

Out Of The Voiceless Grave è un gradito ritorno, che si spera possa diventare una nuova partenza, per i musicisti riuniti sotto il monicker The Lurking Fear.

Un’icona del metal estremo scandinavo come Tomas Lindberg, che torna sul mercato insieme ad altri musicisti storici della scena, cosa ci può presentare se non l’ennesima devastante realtà dedita a quelle sonorità che ne hanno decretato la fama?

Ed infatti il buon Tompa, insieme a Adrian Erlandsson, Fredrik Wallenberg, Andreas Axelsson e Jonas Stalhammar, licenzia questo devastante album di death metal crudo ed essenziale sotto il monicker The Lurking Fear, titolo di uno dei più noti racconti di H.P. Lovercraft.
Chi si aspettava un lavoro melodico e più orientato su sonorità gotiche rimarrà deluso perché Out Of The Voiceless Grave non è altro che assalto sonoro di scuola classicamente nordica, turbolento e aggressivo, dove la bravura e l’esperienza dei protagonisti è messa al servizio di un lotto di brani a tratti esaltanti.
La storia del genere passa inequivocabilmente dalle cavalcate estreme di cui l’album è composto, sfuriate death/thrash dove tutto funziona come un orologio, zeppe di ritmiche inossidabili, solos perfetti e chorus che staccano la materia cerebrale dal cranio, mentre il tempo passa per tutti ma non per Lindberg, ancora all’altezza di procurare violenti spasmi ai propri fans.
Vortex Spawn, The Starving Gods Of Old e Winged Death equivalgono ad un vento cimiteriale, un olezzo fetido di morte che aleggia tra la carta ormai putrida sulla quale i The Lurking Fear hanno fermato con l’inchiostro le note di questo lavoro, ispirato dal passato dei musicisti coinvolti, con un passato in band come At The Gates, The Crown, Marduk, Edge Of Sanity, God Macabre e compagnia di zombie.
Prodotto perfettamente e licenziato dalla Century Media, Out Of The Voiceless Grave è un gradito ritorno, che si spera possa diventare una nuova partenza per i The Lurking Fear.

Tracklist
01. Out Of The Voiceless Grave
02. Vortex Spawn
03. The Starving Gods Of Old
04. The Infernal Dread
05. With Death Engraved In Their Bones
06. Upon Black Winds
07. Teeth Of The Dark Plains
08. The Cold Jaws Of Death
09. Tongued With Foul Flames
10. Winged Death
11. Tentacles Of Blackened Horror
12. Beneath Menacing Sands

Line-up
Tomas Lindberg – vocals
Jonas Stålhammar – guitar
Fredrik Wallenberg – guitar
Andreas Axelson – bass
Adrian Erlandsson – drums

THE LURKING FEAR – Facebook

Ingurgitating Oblivion – Vision Wallows in Symphonies of Light

Terzo lavoro su lunga distanza per questa band tedesca che innesta su una solida base di brutal death estremamente tecnico dissonanze sperimentali che spingono il sound su territori vicini al free jazz.

Terzo lavoro su lunga distanza per questa band tedesca che innesta su una solida base di brutal death estremamente tecnico dissonanze sperimentali che spingono il sound su territori vicini al free jazz.

Indubbiamente, da questo quadro iniziale non ci si può che attendere un album complesso, dall’ascolto tutt’altro che semplice anche per chi ha familiarità con band tipo Gorguts o Suffocation, e il buon Florian Engelke, fondatore del gruppo agli albori del secolo, non fa nulla per agevolare il tutto, strutturando Vision Wallows in Symphonies of Light su quattro brani per un totale di circa cinquanta minuti, con il secondo delirante A Mote Constitutes What to Me Is Not All, and Eternally All, Is Nothing che da solo supera addirittura i venti.
Ovviamente parliamo di musica offerta a chi ha orecchie ed apertura mentale per intendere, ma questo non significa affatto che bisogna puntare il dito versi chi non dovesse trovarsi in sintonia con l’operato degli Ingurgitating Oblivion: non e affatto banale assorbire le trame contorte e sature dei berlinesi quando sfogano le proprie pulsioni estreme, così come non lo è quando divengono trame liquide condotte da xilofoni o fughe pianistiche riconducibili al jazz più sperimentale.
Tale aspetto inevitabilmente costituisce un carattere di preponderante peculiarità, finendo per spostare l’asticella della difficoltà di fruizione molto più in alto, aprendo però un fronte interessante per chi, magari, ha sempre ritenuto il death una forma musicale appannaggio di bruti privi di tecnica e talento.
Detto della prima traccia, che non deroga più di tanto dalla ferocia espositiva del metal estremo, e della già citata monumentale seconda, che si pone come ideale spartiacque tra chi continuerà ad ascoltare con interesse il lavoro e chi invece deporrà anzitempo le armi, appare senz’altro più indicato a scopo esemplificativo l’ascolto della title track proprio perché, in alcuni frangenti, le due anime vanno ancor più ad intrecciarsi dando vita ad un ibrido a tratti irresistibile.
Ottima anche A Devourer of Flitting Shades Who Dwells in Rays of Light, dallo sviluppo pressoché invertito rispetto alle altre tracce, dato che le eleganti evoluzioni strumentali occupano la parte iniziale del brano fin quasi al suo epilogo, prima di riconsegnarsi alla furia del death che va a porre, in maniera coerentemente brutale, la pietra tombale sull’opera.
Vision Wallows in Symphonies of Light è un lavoro di grande spessore tecnico e compositivo che non può e non deve finire nel calderone dei dischi in cui la sperimentazione assume una stucchevole preponderanza, e immagino che, oltre agli estimatori delle band già citate nelle prime righe, anche chi ha i Nile tra i propri gruppi di riferimento possa trovare la giusta soddisfazione nell’ascolto.

Tracklist:
1. Amid the Offal, Abide with Me
2. A Mote Constitutes What to Me Is Not All, and Eternally All, Is Nothing
3. Vision Wallows in Symphonies of Light
4. A Devourer of Flitting Shades Who Dwells in Rays of Light

Line up:
Florian Engelke – Guitars, Vocals
Adrian Bojarowski – Bass, Vocals, Synths
Paul Wielan – Drums

INGURGITATING OBLIVION – Facebook

Widowmaker – Widowmaker

La cifra stilistica del disco è quella del migliore deathcore in circolazione, e al momento pochi hanno la compattezza e la potenza di questi ragazzi, che devono essere ascoltatori attenti ed onnivori perché dietro questo suono c’è moltissimo lavoro ed altrettanta cultura metallica.

Nella scena deathcore o metalcore qualsivoglia, è molto difficile riuscire a farsi notare per qualcosa che sia più del mero compitino, e i Widowmaker si fanno notare molto.

I ragazzi provengono dall’Alabama, sono molto giovani, e questa loro freschezza fa la differenza insieme ad una potenza di fuoco fuori dal comune. I Widowmaker confezionano un disco di debutto con un suono saturato al massimo, molto claustrofobico in molti passaggi, che ricorda quelle sensazioni che si ebbero ai tempi degli inizi del deathcore, quando c’erano in giro ottime band, delle quali il loro suono è certamente debitore, ma con un contributo originale è assai elevato. Ascoltando il disco ci si trova immersi nel fuoco e nelle fiamme, poiché qui tutto brucia, e la melodia si palesa andandosi a congiungere carnalmente con un suono durissimo. La produzione mette in risalto i punti forti, senza seppellire il loro suono dietro una cortina fumogena di tecnologia. I Widowmaker sfociano tranquillamente anche nel death metal tout court e anche in momenti grindcore notevoli; la cifra stilistica del disco è quella del migliore deathcore in circolazione, e al momento pochi hanno la compattezza e la potenza di questi ragazzi, che devono essere ascoltatori attenti ed onnivori perché dietro questo suono c’è moltissimo lavoro ed altrettanta cultura metallica. Inoltre questo non è un disco che vuole per forza piacere al pubblico deathcore, ma anzi è un’apertura a tutti quelli che amano un suono potente e cattivo: ascoltate senza pregiudizi, Widowmaker (che uscirà per Sharptone Records, una sussidiaria della Nuclear Blast che sta reclutando un ottimo vivaio di musica cattiva) merita molto e vi lascerà alquanto soddisfatti.

Tracklist
1. The Nihilist
2. Paragon
3. Spineless
4. Regression
5. Dissonance
6. Quarantine
7. The Illusionist

Line-up
Matt Childers : Vocals
Tyler Stansell : Guitar
Hagan Dickerson : Guitar
Sean Landman : Bass
Kurtis Stoneking : Drums

WIDOWMAKER – Facebook

Necrophobic – Pesta

Dieci minuti di pura malvagità che valgono come e più di tanti full length, preparando il ritorno in pompa magna di questa seminale creatura malefica.

Una delle band storiche del death metal scandinavo torna dopo quattro anni dall’ultimo devastante lavoro Womb Of Lilithu.

Loro sono i Necrophobic, fondamentale band svedese attiva dal 1989, con sette full length ed una serie di lavori minori incentrati su un death metal pregno di attitudine black.
Una storia lunga, tormentata da continui cambi nella line up, tenuta insieme da Joakim Sterner, batterista ed unico superstite della formazione originale, con i primi album licenziati dalla storica Black Mark, label fondata da Quorthon che divenne un punto di riferimento per il genere nei primi anni novanta (Edge Of Sanity, Lake Of Tears, Cemetery), che hanno consegnato il gruppo di Stoccolma alla storia del genere.
I Necrophobic ritornano dunque con questo ep di sole due tracce, licenziato dalla Century Media in digitale e in formato 7″, composto dalla title track e da una nuova versione del brano Slow Asphyxiation, tratto dal demo omonimo datato 1990: un anticipazione di quello che dovrebbe essere il nuovo full length previsto per il prossimo anno, ma intanto godiamoci Pesta, brano ispirato e maligno, oscuro e come da tradizione dalla forte connotazione black, su una struttura che dal death metal scandinavo prende forza.
Sei minuti di perfezione assoluta, un muro di death metal melodico e maligno, mentre la storica traccia rifatta per l’occasione trova in questa veste una nuova vita, pur rimanendo fedele all’originale.
Dieci minuti di pura malvagità che valgono come e più di tanti full length, preparando il ritorno in pompa magna di questa seminale creatura malefica.

Tracklist
1.Pesta
2.Slow Asphyxiation

Line-up
Joakim Sterner – Drums
Anders Stokirk – Vocals
Sebastian Ramstedt – Guitars
Johan Bergeback – Guitars
Alex Friberg – Bass

NECROPHOBIC – Facebook

Bloodphemy – Bloodline

Una quarantina di minuti immersi nel death metal, ignorante quanto si vuole, scolastico in certi frangenti, ma che ha nella sua anima maligna un’onestà intrinseca che valorizza questo assalto sonoro senza compromessi.

Sulle pagine di In Your Eyes erano apparsi lo scorso anno, quando vi parlammo dell’ep Blood Will Teel, licenziato dalla Sleaszy Rider, che di fatto fu un ritorno per il gruppo olandese dopo quattordici anni dallo storico demo.

La firma per la label greca ha portato continuità e costanza in casa Bloodphemy, così siamo a presentarvi il nuovo e primo full length intitolato Bloodline.
Il gruppo è formato da musicisti navigati della scena estrema underground, militanti tra le file di Devious, Altar, Bleeding Gods, Pleurisy e Beyond Belief,  impegnati nel portare lo storico monicker in cima alle preferenze dei deathsters attenti a cosa si muove nel sottosuolo metallico.
Bloodline, come il predecessore, è un pezzo di granito brutal death metal, old school e dalle influenze che guardano alla storica scena europea (God Dethroned, Gorefest) .
Si viaggia veloci e senza compromessi sui binari tracciati dai gruppi di riferimento: Arnold Oudemiddendorp , brutale orco proveniente dalla terra dei tulipani, ed i suoi compari ci prendono per il collo, sballottandoci con nove esplosioni di adrenalinico e potentissimo death metal, ordinario nel suo sviluppo ma tremendamente efficace nel far crollare dighe a suon di esplosioni estreme.
Una quarantina di minuti immersi nel death metal, ignorante quanto si vuole, scolastico in certi frangenti ma che ha nella sua anima maligna un’onestà intrinseca che valorizza questo assalto sonoro senza compromessi.
Un piacere non esserci sbagliati un anno fa, un dovere farvi conoscere questo nuovo lavoro, lasciate che la bestia che è in voi esca prepotentemente e sfoghi la sua ira grazie alle devastanti Void, Madness ed Annihilation.

TRACKLIST
1. Void
2. Blood Will Tell
3. Sides
4. Infanity
5. Madness
6. Soulmate
7. Obsessed
8. Annihilation
9. Contravene

LINE-UP
Arnold Oudemiddendorp – Vocals
Edwin Nederkoorn – Drums
Rutger van Noordenburg – Guitars
Wicliff Wolda – Bass
Winfred Koster – Guitars

BLOODPHEMY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=fHLC3aay3F4

Father Befouled – Desolate Gods

Un riffing profondo come un pozzo collegato con l’inferno, una catacomba sonora dove il death metal old school sguazza tra i cadaveri e le accelerazioni, così come i rallentamenti infrangono ogni resistenza umana.

Tempo di grandi album in campo death metal!

Che arrivino dal Nordeuropa o dall’America, i nuovi lavori di una serie di gruppi più o meno famosi ed importanti stanno letteralmente conquistando la scena underground estrema.
E’ arrivato il momento anche per i Father Befouled di tornare sul mercato con un nuovo album, il quarto di una prolifica discografia iniziata nel 2008 e che non manca di una marea di lavori minori tra split ed ep.
Il quartetto di deathsters americani torna al lavoro sulla lunga distanza che mancava da cinque anni e Desolate Gods riapre la ferita alla gola dell’umanità, sanguinando in zampilli di spesso liquido che da rosso diventa nero sotto i colpi inferti da questa mezzora di assalto, oscuro, abissale ed estremo.
Un riffing profondo come un pozzo collegato con l’inferno, una catacomba sonora dove il death metal old school sguazza tra i cadaveri e le accelerazioni, così come i rallentamenti infrangono ogni resistenza umana, una conferma per il gruppo statunitense, ormai da considerare come veterano di una scena che non vive dei soliti nomi ma si rigenera ciclicamente con nuove e maligne realtà.
Desolate Gods è bello che descritto, oscuro, violento e senza compromessi come vogliono i fans del death metal tradizionale, diretto come una mitragliata sparata su un gruppo di zombie, spettacolare nelle parti doom/death in odore di decomposizone come la terra di un cimitero abbandonato (Ungodly Rest) e devastante, distruttivo e brutale (Offering Revulsion).
Per chi ama il death metal di matrice statunitense (Incantation, Morbid Angel, Immolation) un album da non perdere.

TRACKLIST
1. Exsurge Domine (Intro)
2. Offering Revulsion
3. Mortal Awakening
4. Exalted Offal
5. Ungodly Rest
6. Divine Parallels
7. Vestigial Remains of… (Instrumental)
8. Desolate Gods

LINE-UP
Justin Stubbs – Vocals/Guitar
Derrik Goulding – Guitar
Wayne Sarantopoulos – Drums
Rhys Spencer – Bass

FATHER BEFOULED – Facebook

Lo-Ruhamah – Anointing

E’ un sound estremo, atmosfericamente angosciante, quello che compone Anointing e i suoi nove capitoli, un black metal che non rinuncia alla debordante potenza del death, ma la modella a suo piacimento.

Nata negli Stati Uniti nel lontano 2002, ma oggi di base in Estonia, torna tramite la I,Voidhanger la band death/black dei Lo-Ruhamah, a dieci anni esatti dal debutto The Glory Of God.

Poche notizie per questa realtà che, come tradizione della label, risulta fuori dai canoni dei generi da cui prende ispirazione, per poi viaggiare per conto proprio, tra post rock, un’anima disperatamente progressiva, ed un’ aura mistica ed occulta che rende la proposta misteriosamente matura.
E’ un sound estremo, angosciante, quello che compone Anointing e i suoi nove capitoli, un black metal che non rinuncia alla debordante potenza del death, ma la modella a suo piacimento, tra ritmiche fantasiose e mai statiche, urla di lacerante disperazione e terrificanti interventi in screaming, come se il protagonista avesse una diatriba con un demone, maligno ed ingordo di anime.
Ecco allora che bordate di metallo estremo di stampo death annichiliscono atmosfere post rock per tornare al black metal primigenio, mentre l’opener Mouth, le parti intimiste e dark progressive della seguente Sibilant Chorus, il lento incedere doom/black di Vision And Delirium, il caos ragionato di The Corridor, portano l’ascoltatore in uno stato quasi ipnotico, mentre Aeon conclude questa mezzora abbondante di suoni ed emozioni estreme.
I Lo-Ruhamah hanno dato voce alle anime oscure che si celano in un mondo dove non si conoscono le paranoie insite nell’uomo moderno, troppo impegnato a rincorrere un benessere effimero, accorgendosi troppo tardi di come il filo tra dolore, sofferenza e dannazione sia sottile.

Tracklist
1. Mouth
2. Sibilant Chorus
3. Rending
4. Charisma
5. Vision And Delirium
6. The Corridor
7. Lidless Eye
8. Coronation
9. Aeon

Line-up
Harry Pearson – Drums
Matthew Mustain – Guitars
J. Griffin – Bass, Vocals

LO-RUHAMAH – Facebook

The Shadeless Emperor – Ashbled Shores

Non manca davvero niente ad un’opera del genere, completa sotto tutti gli aspetti, oscura ed animata da un approccio versatile che valorizza brani come la title track, un susseguirsi di cambi repentini tra death metal ed aperture acustiche in una tempesta di suoni estremi.

Attivi dal 2010, arrivano al debutto i greci The Shadeless Emperor, dopo un demo licenziato nel 2013, ed una carriera che fino ad oggi ha stentato per vari motivi a decollare.

Sotto l’ala della Wormholedeath che ne cura la distribuzione, Ashbled Shores andrà sicuramente a rimpinguare la discografia dei melodic death metallers dal palato fino e i muscoli d’acciaio.
In effetti la proposta della band ellenica, pur con le dovute ispirazioni ed influenze, appare da subito personale, un buon mix tra death metal melodico scandinavo, bellissime parti acustiche dalle reminiscenze epic/folk e qualche spunto leggermente più moderno e progressivo, insomma un’ottima proposta per chi dal metal estremo gradisce un sound vario, adulto, ma pressante ed aggressivo.
Prendendo spunto dall’immaginario fantasy, così come dalla letteratura classica, i The Shadeless Emperor vestono il loro sound di nera stoffa epica e la elaborano secondo i canoni dell’ala melodica del death metal, non rinunciando a devastare padiglioni auricolari con fughe ritmiche ed intricate parti chitarristiche, che passano da soluzioni heavy a più intricate parti progressive, mentre strumenti acustici e fiati ricamano partiture folk come nella parte centrale della superba Shades Over The Empire.
Non manca davvero niente ad un’opera del genere, completa sotto tutti gli aspetti, oscura ed animata da un approccio versatile che valorizza brani come la title track, un susseguirsi di cambi repentini tra death metal ed aperture acustiche in una tempesta di suoni estremi.
I Dark Tranquillity fanno da padrini alle parti metalliche, poi lasciate in mano al progressivo aumento delle atmosfere folk, mentre note di piano provenienti dalla folta boscaglia ci introducono ad Helios The Dark con il suo riff scolpito sulla roccia dai primi Amorphis, seguita dal singolo Too Far Gone, estrema e diretta, mentre An Ember Gale conclude alla grande l’album, trattandosi di un brano che racchiude l’anima più estrema e progressiva dei The Shadeless Emperor.
Album perfetto per tornare a godere delle trame oscure ma pregne di melodie del melodic death metal, non fatevelo sfuggire.

Tracklist
1.Oaths
2.Ashbled Shores
3.Sullen Guard
4.Homeland
5.Shades Over The Empire
6.Duskfall
7.Some Rotten Words
8.Helios The Dark
9.Olethros
10.Too Far Gone
11.An Ember Gale

Line-up
Ethan Tziokas – Vocals, Recorder
Christos Mitros – Guitars, Backing Vocals
Tasos Bebes – Guitars, Backing Vocals
Fil Salapatas – Bass, Backing Vocals
Thanasis Posonidis – Drums

THE SHADELESS EMPEROR -. Facebook

Wraith Rite – Awaken

La strada per ritagliarsi un po’ di spazio, anche a livello underground, è ancora  molto lunga e dagli esiti incerti, ma la voglia di provarci di sicuro non fa difetto ai Wraith Rite.

Demo d’esordio per gli spagnoli Wraith Rite, giovane band spagnola che riversa su questi cinque brani una carica incontenibile di entusiasmo ed esuberanza metallica.

D’accordo, da qui a riscrivere la storia dei generi estremi che i nostri cercano di fondere con foga e convinzione ce ne corre, anche perché il demo, in quanto tale, suona esattamente come ce lo si aspetta, ovvero sporco, molto diretto e pieno di approssimazioni quanto di irresistibile vitalità.
In fondo, quando si parla di musica, dipende sempre da quale punto di vista la si vuole approcciare: se dovessimo basarci su tecnica, produzione e sobrietà nell’espressione musicale e visiva, i Wraith Rite non avrebbero speranze; per fortuna c’è sempre un qualcosa di istintivo ed irrazionale che spinge uno naturalmente propenso alla lacrima ascoltando il proprio genere d’elezione (il doom) a prendere in simpatia questo manipolo di giovani madrileni, dei quali potrei (a anche vorrei, tutto sommato) essere il padre, perché intuisco in loro, oltre a una grande passione, delle potenzialità che per ora sono ancora sommerse da un suono ovattato e da scelte stilistiche opinabili.
Partiamo dalla voce della vocalist Dirge Inferno, che alterna uno screaming insufficiente ad un growl in stile brutal senz’altro più accettabile come resa ma che, comunque, c’entra poco con il thrash/black/death esibito con sufficiente proprietà e qualche buona idea nel corso delle prime quattro tracce, con nota di merito per la trascinante Eternal Hunt, mentre fa eccezione lo pseudo doom della conclusiva Hurt Yourself.
Qualche buono spunto chitarristico e sprazzi di di virulento killing instict fanno ritenere tutt’altro che superflua questa uscita, a patto che nelle prossime occasioni i Wraith Rite trovino un giusto compromesso nell’uso della voce e spingano in maniera più decisa sul versante death/black’n’roll che mi pare essere più naturalmente nelle loro corde.
La strada per ritagliarsi un po’ di spazio, anche a livello underground, è ancora  molto lunga e dagli esiti incerti, ma la voglia di provarci di sicuro non manca alla band e, per quanto mi riguarda, questo è sicuramente un dato sufficiente per incoraggiare questi giovani affinché realizzino le proprie aspirazioni.

Tracklist:
1.Eternal Hunt
2.Werewolf’s Moon
3.Beheaded Rider
4.Crown of Bones
5.Hurt Yourself

Line-up:
Vocals: Dirge Inferno
Guitars: Yandros and Soulbutcher
Bass: Schizo
Drums: Morgul

WRAITH RITE – Facebook

Arallu – Six

Gli israeliani Arallu proseguono la loro opera di distruzione a base di un black/death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.

Etichetta : Transcending Obscurity Records
Anno : 2017
Titolo (autore + titolo) :

Quando arrivano proposte di matrice estrema dal Medio Oriente si tende spesso a pensare a band di nuovo conio, visto che, a parte Orphaned Land e Melechesh non è che siano poi molte altre le realtà capaci di guadagnarsi nel recente passato una certa notorietà.

Molte volte, però, il fatto di appartenere ad una scena lontana da quelle canoniche finisce per trarre in inganno come avviene per gli Arallu,  la cui genesi musicale risale addirittura alla fine del secolo scorso.
Six, come è facile intuire, rappresenta appunto il sesto full length del gruppo guidato dal bassista/cantante Butchered (con un passato da live session nei già citati Melechesh), che prosegue così la propria opera di distruzione a base di un black death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.
Degli Arallu si apprezzano senz’altro la padronanza della materia ed un approccio abbastanza ruvido e diretto, anche se ogni tanto, quest’ultimo aspetto rende il lavoro un po’ caotico.
In ogni caso diversi brani si rivelano piacevoli mazzate intrise di umori mediorientali che, anche se non sorprendono più come un tempo, si rivelano pur sempre un valore aggiunto in opere di questo tipo, andando a spezzare opportunamente un incedere che, altrimenti, risulterebbe piuttosto monolitico.
Avviene così che episodi come Adonay e Victims of Despair rendano al meglio il potenziale di una band di sicuro spessore,  nei confronti della quale, per chi apprezza la commistione tra metal estremo e musica etnica orientale, potrebbe rivelarsi quanto mai opportuno rivisitare anche la ricca produzione del passato.

Tracklist:
1. Desert Moonlight Spells
2. Only One Truth
3. Adonay
4. Possessed by the Sleep
5. Subordinate of the Devil
6. The Universe Secrets (Six)
7. Victims of Despair
8. Oiled Machine of Hate
9. Philosophers view
10. Soulless Soldier

Line up:
Butchered (Genie King) – Vocals, Bass
Gal Pixel – Guitar and Backing Vocals
Omri Yagen – Guitar and Backing Vocals
Assaf Kasimov – Drums
Eylon Bart – Saz, Darbuka and Backing Vocals

ARALLU – Facebook

Dusius – Memory Of A Man

Un disco potente sia nella musica che nell’immaginario che suscita, dando l’impressione che il viking folk metal sia il genere preferito dei Dusius, che con queste doti avrebbero fatto bene comunque in qualsiasi ambito.

I Dusius approdano al loro primo disco sulla lunga distanza dopo il demo Slainte del 2013.

I Dusius fanno un folk metal molto veloce e tirato, prepotentemente in zona viking, ben composto e prodotto finemente. Memory Of A Man è un album con un’elaborata storia al suo interno, narrando le avventure di un uomo in epoca antica, che fa molti errori e viene maledetto dagli dei, ma non vi anticipiamo altro perché è molto interessante scoprire l’intera storia. Tutto ciò viene narrato attraverso il potente viking metal dei Dusius, con una doppia voce che funziona molto bene e riesce a dare tonalità diverse a momenti che necessitano di narrazioni diverse. Quello che colpisce è la compattezza del gruppo, la forza collettiva che riesce a scatenare, e anche la brillantezza del suono che, pur essendo cupo, riesce ad elevarsi e ad elevare l’ascoltatore. Notevole anche la visione d’insieme del disco e della missione che si pone il gruppo: i parmigiani hanno un notevole tasso di epicità nella loro musica, e riescono a coniugare molto bene durezza ed aulicità, intessendo una storia classica ma molto attuale, sulla dannazione dell’uomo e sul libero arbitrio, che a volte può essere pesantemente influenzato da potenti fattori esterni. Il lavoro entra di diritto nelle miglior opere del folk viking italiano, e merita diversi ascolti per riuscirne a cogliere tutti gli aspetti e le diverse sfaccettature. Un disco potente sia nella musica che nell’immaginario che suscita, dando l’impressione che il viking folk metal sia il genere preferito dei Dusius, che con queste doti avrebbero fatto bene comunque in qualsiasi ambito.

Tracklist
1. Funeral March
2. Siante
3. Desecrate
4. The Rage of the Gods
5. Worried
6. One More Pain
7. Dear Elle
8. Dead-End Cave
9. Hope
10. The Betrayal
11. Coldsong
12. Funeral March II
13. Hierogamy (Hidden Track)

Line-up
Manuel Greco – Vocals
Rocco Tridici – Guitar
Manuele Quintiero – Guitar
Erik Pasini – Bass
Alessandro Vecchio – Keyboards
Davide Migliari – Flute / Bagpipes
Fabien Squarza – Drums

DUSIUS – Facebook

Urn – The Burning

The Burning è un disco che riassume i motivi per cui siamo metallari, poiché la velocità, la cattiveria e l’adrenalina che possiede sono in gran parte i motivi per cui ascoltiamo la musica del caprone.

I finlandesi Urn pubblicano il loro quarto album ed è subito massacro, ossa che volano, sangue ovunque e tutto ciò è bellissimo.

Il loro stile musicale è pressoché unico, ma se si devono dare delle coordinate, allora siamo nei pressi black e death, comunque morte e distruzione. Nati nel 1994, gli Urn sono uno dei gruppi da scoprire, perché i loro dischi sono molto belli, ma non se ne parla granché, anche se la risposta per The Burning è già buona, nonostante sia uscito da pochi giorni. Il suono è il frutto della libera rielaborazione di cose già sentite nel metal, ma il loro speed black death è veramente qualcosa di unico. Nel loro maelstorm si posso ascoltare echi dei connazionali Impaled Nazarene, soprattutto per le parti più veloci e furiose, anche per quel retrogusto punk hardcore che accomuna le due realtà finniche. The Burning è un disco che riassume i motivi per cui siamo metallari, poiché la velocità, la cattiveria e l’adrenalina che ha questo disco sono in gran parte i motivi per cui ascoltiamo la musica del caprone. Gli Urn vanno a mille, ma sanno anche fare stop and go, con quella cadenza vocale che ricorda il metal anni ottanta e novanta. La produzione è accurata ma non troppo, perché un’alta fedeltà troppo elevata pregiudicherebbe il tutto. L’ascolto di The Burning diventa compulsivo, come una dipendenza da crack, e anche in questa era di fruizione molto veloce di ogni prodotto fonografico si può sentire e risentire un disco con avidità. Consiglio l’ascolto del disco abbinato al fumetto Lobo della Dc Comics, massacri galattici e metal ovunque.

Tracklist
01 INTRO – RESURRECTION
02 CELESTIAL LIGHT
03 HAIL THE KING
04 MORBID BLACK SORROW
05 SONS OF THE NORTHERN STAR
06 NOCTURNAL DEMONS
07 WOLVES OF RADIATION
08 ALL WILL END IN FIRE
09 FALLING PARADISE
10 THE BURNING

Line-up:
Sulphur Bass, Vocals
Axeleratörr- Lead Guitar
Tooloud- Guitar
Revenant- Drums

URN – Facebook