Doom Architect – Sententia Prima

A fronte di una relativa personalità esibita nell’interpetazione del genere, va detto che i quaranta minuti regalati dai Doom Architect scorrono via in maniera molto piacevole.

Secondo album per i russi Doom Architect, duo composto da Alexandr Mikhaylov e Marina Kuznetsova, attivi anche nella band heavy metal Волновой Фронт.

Come da ragione sociale, è il doom a predominare nel sound di questo Sententia Prima, offerto nella sua veste connessa al death ma con un’impronta molto melodica: a fronte di una relativa personalità esibita nell’interpretazione del genere, va detto che i quaranta minuti regalati dalla coppia scorrono via in maniera molto piacevole, grazie ad una buona capacità di scrittura e alla rinuncia a soluzioni cervellotiche, favorendo una fluidità ed ascoltabilità non sempre scontata.
Il growl di Alexandr è apprezzabile, così come il suo lavoro chitarristico, vario ed incisivo, mentre Marina tesse atmosfere efficacemente lineari con le sue tastiere.
Tra i sei brani presentati segnalerei Embracing the Void e, soprattutto, la conclusiva Light of Inner Flame, caratterizzata da pregevoli linee chitarristiche dai tratti melodici e dolenti.
Sententia Prima è decisamente un buon lavoro, magari non di primissima fila, ma ugualmente degno di qualcosa in più rispetto ad un ascolto distratto.

Tracklist:
1. At the Bound of Death
2. Leaving the Shadows
3. Detachment
4. Embracing the Void
5. Astral Wind
6. Light of Inner Flame

Line-up:
Alexandr Mikhaylov – Guitars, Vocals
Marina Kuznetsova – Keyboards

Camel Of Doom – Terrestrial

Gli inglesi Camel of Doom sono una band attiva ormai dagli inizi del nuovo millennio e Terrestrial è la loro quarta prova su lunga distanza.

Come da ragione sociale, il genere trattato è ovviamente il doom, ma questo viene maneggiato con sperimentale padronanza ed un’aura cosmica che in certi momenti avvicina il suono a quello dei Monolithe.
La proposta dei britannici è, però, molto più inquieta, sfuggendo più di una volta all’orbita del genere per poi rientrarvi repentinamente con rallentamenti mortiferi.
Terrestrial , con queste premesse, non può essere quindi un album di agevole fruizione ma è decisamente un’opera di grande spessore; qui il sentimento prevalente che scaturisce è l’inquietudine piuttosto che il dolore o la commozione e, a differenza di questi ultimi due stati d’animo, tende a stabilizzarsi senza trovare alcuno sfogo.
Una sorta di implosione che si protrae per oltre un’ora senza provocare stanchezza, grazie a un livello di tensione costantemente alta e ad un sempre eccellente lavoro del leader Kris Clayton (con un passato negli Imindain e, come chitarrista dal vivo, negli Esoteric), il quale si occupa di tutti gli aspetti ad esclusione della base ritmica. A livello vocale, Clayton opta per uno screaming/growl di matrice sludge, mentre gli altri strumenti vengono utilizzati per un risultato d’insieme che è antitetico a protagonismi di matrice solista.
Anche se soggiace ad una suddivisione per brani, di fatto Terrestrial va inteso come un flusso sonoro continuo, in cui la malinconia lascia spazio ad uno sgomento ora rabbioso, ora rassegnato: i Camel Of Doom non mollano mai la presa, un malessere cosmico aleggia in ogni passaggio rendendo persino difficile una catalogazione certa del sound proposto; dovendo scegliere un momento dell’album, direi che Pyroclastic Flow svetta grazie anche al terrificante contributo del basso di Simon Whittle e al misurato gusto elettronico conferito alla traccia dalle tastiere di Clayton.
Un grande disco che mi lascia in eredità un senso di straniamento che, solo di rado, la musica mi provoca (per esempio con gli album più sperimentali dei Blut Aus Nord, anche se potrebbe sembrare una accostamento ardito vista la diversità dei generi trattati): dannatamente pericoloso ed altrettanto efficace.

Tracklist:
1. Cycles (The Anguish of Anger)
2. A Circle Has No End
3. Pyroclastic Flow
4. Singularity
5. Nine Eternities
6. Euphoric Slumber
7. Sleeper Must Awaken
8. Extending Life, Expanding Consciousness

Line-up:
Simon Whittle – Bass
Ben Nield – Drums
Kris Clayton – Guitars, Vocals, Keyboards

CAMEL OF DOOM – Facebook

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Mourning Sun – Último Exhalario

Último Exhalario è un disco che travalica i generi e lascia inermi al cospetto delle sua bellezza, facendo apparire inadeguato od enfatico ogni aggettivo usato per descriverlo.

Sfolgorante esordio su lunga distanza dei cileni Mourning Sun, i quali hanno il merito di riportarci con la mente alla metà degli anni ’90, quando il  doom melodico con voce femminile era in realtà una mera trasposizione della poesia in musica, resa unica da interpreti divine quali Kari Rueslåtten e Anneke Van Giersbergen.

Ana Carolina, la talentuosa ragazza che presta la propria voce alla riuscita dell’album della band di Santiago, ne è degna e legittima erede, con la sua voce eterea, cristallina, tanto da apparire talvolta acerba, tale è la purezza che riesce ad emanare in ogni passaggio.
Último Exhalario è un lavoro di una bellezza straniante: qui l’enfasi metallica si manifesta in quantità omeopatica ed il doom costituisce solo un approdo spirituale, nel quale i Mourning Sun vengono collocati più per affinità elettive che non per stile musicale vero e proprio.
Allo spegnersi dell’ultima nota di Anguish vi ritroverete a volerne ancora, di questa musica che nutre l’anima prima che il corpo, e trentacinque minuti rischiano di non essere del tutto sufficienti a saziarvi, specie dopo averne assaporato i sublimi aromi.
Vena Cava è una canzone dal fascino quasi insostenibile, con la chitarra a mantenere un tono costantemente minaccioso quanto soffuso, prima di aprirsi in un finale che avrebbe avuto ampio diritto di cittadinanza in quel capolavoro intitolato Mandylion.
Spirals Unseen regala i principali passaggi contraddistinti da quella robustezza assimilabile ad un gothic doom più canonico, ma il sax che entra in scena attorno al quarto minuto spariglia definitivamente le carte, e non vanno certo ignorati altri due gioielli come la title track, rarefatta inizialmente per poi farsi drammatica nella sua parte conclusiva, e Cabo De Hornos, dove la sirena Ana attira a sé, senza alcuna possibilità di resistere al suo canto, i marinai alle prese con una dei tratti di mare più perigliosi del pianeta.
Sebastián Castillo ed Eduardo Poblete si rivelano musicisti eccellenti: il primo con la sua chitarra accompagna senza mai prevaricare la carezzevole voce di Ana, mentre il secondo lega il suono con rara raffinatezza ed altrettanta sobrietà tastieristica.
Último Exhalario è un disco che, semplicemente, travalica i generi e lascia inermi al cospetto delle sua bellezza, facendo apparire inadeguato od enfatico ogni aggettivo usato per descriverlo.
Resta solo da aggiungere una cosa, molto banale: ascoltatelo, più e più volte, senza farvi distrarre da qualche passaggio apparentemente interlocutorio, che è in realtà propedeutico agli abbacinanti lampi emotivi regalati da questa stupenda band.

Tracklist:
1. Último exhalario
2. Vena Cava
3. Hoowin (Mythic Ancestors)
4. Spirals Unseen
5. Cabo de hornos (Cape Horn)
6. Anguish (Prelusion)

Line-up:
Claudio Hernández – Drums
Sebastián Castillo – Guitars
Eduardo Poblete – Keyboards
Ana Carolina – Vocals, Lyrics

MOURNING SUN – Facebook

Asphodelus – Dying Beauty & The Silent Sky

Le tre tracce più l’intro sono un esordio notevole, per un gruppo che si sta evolvendo nella tensione di fare sempre meglio, riuscendo in pieno nell’intento.

I finlandesi Cemetery Fog passano da duo a trio, cambiano nome diventando Asphodelus ed esordiscono su Iron Bonehead con questo dodici pollici.

L’evoluzione musicale dal precedente periodo è evidente, dato che si passa dal doom death puro a qualcosa di ora più vicino alla scena inglese dei primi anni novanta, che è un po’ la colonna del genere. C’è molto classicismo goticheggiante nelle loro canzoni, che sono ben composte e di ampio respiro, drammatiche ed immanenti. Le tre tracce più l’intro sono un esordio notevole, per un gruppo che si sta evolvendo nella tensione di fare sempre meglio, riuscendo in pieno nell’intento.In questo disco ci sono molti echi, soprattutto di una cultura metallara estesa e competente, che si sublima in questa splendida musica triste.

TRACKLIST
1.Intro
2.Illusion Of Life
3.Dying Beauty And The Silent Sky
4.Nemo Ante Mortem Beatus

LINE-UP
J. Filppu – Guitar, Vocals.
J. Väyrynen – Guitar.
V. Kettunen – Drums.

ASPHODELUS – Facebook

The Temple – Forevermourn

Forevermourn è un album affascinante, con le sue sonorità senza tempo volte e perpetuare la tradizione di un genere che continua a sfornare band e dischi di ottimo livello, in barba al suo poco o nullo appeal commerciale.

I greci The Temple, dopo una lunghissima pausa successiva alla loro nascita risalente al 2005, arrivano al full length d’esordio con il loro doom dai tratti epici, come si conviene a chi proviene dalla terra ellenica, intrisa di storia come forse nessun’altra.

La matrice mediterranea dei musicisti si rifà quindi alla tradizione del genere così come viene suonato sulle sponde del Mare Nostrum (vedi gli italiani Doomsword e i maltesi Forsaken, anche se con sfumature differenti) pur mantenendo ben salde le proprie radici che affondano in band seminali come Solstice e Candlemass.
L’album così si snoda in maniera molto essenziale ma non di meno efficace: da ogni sua nota trasuda sincerità ed autentica passione per un genere che, del resto, solo un visionario potrebbe pensare di suonare oggi per un mero interesse economico (tanto più se lo si fa a Salonicco, ma non è che a New York o a Londra le cose cambino poi molto).
Dopo un inizio piuttosto convenzionale, con la discreta The Blessing, Forevermourn cresce gradualmente e già la successiva Qualms In Regret si segnala come uno dei picchi del lavoro, grazie a melodie lineari, forse già sentite, ma ugualmente coinvolgenti. Attenzione, però, semplicità non è sinonimo di banalità: i The Temple sono buoni musicisti e non disdegnano passaggi più elaborati e fraseggi riflessivi, come avviene nell’ottima Death The Only Mourner, ma è evidente che il meglio arriva quando il pathos si compenetra in maniera naturale con la struttura metallica.
In tal senso si rivela esemplare la monumentale Until Grief Reaps Us Apart, brano di oltre dieci minuti posto in chiusura, che fonde in maniera mirabile il mood epico e malinconico con la pesantezza di un sound che regala riff pachidermici più ancora che nel resto del lavoro.
Forevermourn è un album affascinante, con le sue sonorità senza tempo (che forse qualcuno definirà anacronistiche, ma non è un problema nostro) volte e perpetuare la tradizione di un sottogenere che continua a sfornare band e dischi di ottimo livello, in barba al suo pressochè inesistente appeal commerciale.

Tracklist:
1. The Blessing
2. Qualms in Regret
3. Remnants
4. Death the Only Mourner
5. Mirror of Souls
6. Beyond the Stars
7. Until Grief Reaps Us Apart

Line-up:
Father Alex – Bass, Lyrics, Songwriting, Vocals
Paul – Drums
Stefanos – Guitars
Phelipe – Guitars

THE TEMPLE – Facebook

When Nothing Remains – In Memoriam

In Memoriam è un bellissimo disco che chi predilige questo genere amerà sicuramente, in virtù di una pulizia sonora invidiabile e di una vis romantica e malinconica che pervade ogni nota, ma per il capolavoro bisogna aspettare il prossimo giro

A poco più di due anni dallo splendido Thy Dark Serenity arriva il terzo full length degli svedesi When Nothing Remains, una della band che nel decennio in corso ha contribuito ad elevare il livello del death doom melodico.

Le aspettative erano perciò molte, visto che il disco precedente sembrava propedeutico alla pubblicazione del capolavoro definitivo, capace di trasportare la creatura fondata da Peter Laustsen e Jan Sallander fino all’empireo del genere, là dove sono assisi i Saturnus.
Purtroppo l’obiettivo, almeno per questa volta, non viene raggiunto: In Memoriam è un gran bel lavoro, sia chiaro, e conferma quanto di buono questi musicisti scandinavi hanno mostrato fin dai primi passi della band, ma il livello emotivo raggiunto con Thy Dark Serenity viene sfiorato solo a tratti.
Questa constatazione è nata da un semplice esperimento: a un certo punto ho interrotto l’ascolto di In Memoriam ed ho programmato, una di seguito all’altra, quelle due gemme intitolate I Forgive You e Like An Angel Funeral e qui, l’infallibile lacrimometro, personalissimo ma attendibile strumento di misura del grado di commozione, ha mostrato quanto il pathos emanato da quelle due superbe canzoni non venisse mai raggiunto nell’ultima raccolta di brani.
Dopo i primi ascolti l’album mi sembrava addirittura anonimo poi, insistendo e cercando di sgombrare la mente da quelle aspettative che, appunto, mi impedivano di fruire in maniera fluida dei contenuti musicali, la bontà della proposta è emersa con chiarezza tanto da spingermi a parlarne in maniera tutt’altro che negativa.
Le varie Drowning in Sorrows, la title track, A Lake of Frozen Tears e While She Sleeps sono a loro volta preziose tracce alle quali manca solo quella drammaticità in grado di lacerare l’anima e ed abbattere le residue difese che la nostra psiche erige di fronte a certe toccanti rappresentazioni del dolore in musica.
Detto ciò, In Memoriam è un bellissimo disco che chi predilige questo genere amerà sicuramente, in virtù di una pulizia sonora invidiabile e di una vis romantica e malinconica che pervade ogni nota, ma per il capolavoro  bisogna aspettare il prossimo giro; io comunque continuo a crederci …

Tracklist:
1. Reunited in the Graves
2. Drowning in Sorrows
3. In Memoriam
4. Ghost Story
5. The Soil in My Hand
6. A Lake of Frozen Tears
7. Eternal Slumber
8. While She Sleeps
9. The Spirits in the Woods

Line-up:
Peter Laustsen – Guitars (lead), Vocals
Jan Sallander – Bass, Vocals
Tobias Leffler – Guitars (rhythm)
Dimitri “Dimman” Jungi – Drums

WHEN NOTHING REMAINS – Facebook

Deprive – Into Oblivion

Una cinquantina di minuti di death/doom nello stile dei primi anni 90

Un’altra one man band, questa volta dalla Spagna: Deprive è la creatura mostruosa del polistrumentista e vocalist Erun-Dagoth, ex di una miriade di band che con questo monumentale Into Oblivion arriva all’esordio su lunga distanza, dopo aver dato alla luce due demo ed una compilation omonima dello scorso anno che li racchiudeva entrambi.

Anche nel nuovo album Erun-Dagoth non manca di farci riassaporare il primo demo come bonus track, arrivando così ad una cinquantina di minuti di death/doom dei primi anni 90: un vero piacere per l’udito riascoltare il putrido sound che fece la fortuna di Asphyx, My Dying Bride e, sul versante death, dei Morbid Angel.
Rallentamenti catacombali, riff mastodontici, atmosfere mortifere, sono il freno a mano per le accelerazioni di stampo death old school, ed offrono per un risultato ottimo, vero solluchero per gli amanti di queste sonorità, ormai orfane di album epocali come l’omonimo “Asphix”, “As The Flower Withers” e “Altars of Madness”.
Il death dei Deprive è cimiteriale, e ci porta a fare un giro all’inferno dal quale, con un po’ di fortuna, si torna, ma senza metterci la mano sul fuoco, travolti da questo maligno incedere di brani oscuri e malati come Catacombs Of Betrayal, Infamous Ossuary Of Tribulation, Immemorial Ritual Beyond Death, inni estremi accompagnati da una componente satanica e occulta, come si addice alla musica contenuta in questo ottimo lavoro.
Qualcuno punterà il dito sulla poca originalità di Into Oblivion: fregatevene e fatelo vostro, assolutamente, specie se siete fan delle band di riferimento del gruppo spagnolo che, come uno zombie, spunta dalla terra sconsacrata di un vecchio cimitero dimenticato, trascinando le ossa annerite e le poche carni in putrefazione verso quella civiltà molto più brutale dell’inferno da cui proviene.

P.S.: L’ultimo brano, Divine Blood Of The Deceased, è un’outro pianistica che ricorda maledettamente “Sear Me”, dal primo bellissimo album dei Bride, e ho detto tutto …

Tracklist:
1. Catacombs of Betrayal
2. Nightsky Revelation
3. Fall of Entropy
4. Infamous Ossuary of Tribulation
5. Dethroned Messiah
6. Apocryphal Mausoleum
7. Immemorial Ritual Beyond Death
8. An Oath of Necrotical Mist
9. Into Oblivion
10. Divine Blood of the Deceased
11. The Arrival
12. Innards of Heaven
13. Below the Screams of the Dying
14. De Vermis Mysteriis

Line-up:
Erun-Dagoth – All Instruments, Vocals

DEPRIVE – Facebook

The Fog – Perpetual Blackness

Essenziale, brutale e scorretto,  il lavoro dei The Fog esercita un suo fascino ancestrale ma difficilmente  il suo scarno incedere potrà  fare troppi proseliti.

Album d’esordio per i tedeschi The Fog, band che ci scaraventa indietro nel tempo, andando a rivangare le forme di death doom più grezze e dirette e  riportando alla memoria gentaglia pericolosa e poco incline a morbidezze come furono gli Winter.

Detto questo, in fondo resta poco altro da aggiungere,  se non che Perpetual Blackness non è affatto indicato a chi predilige  le declinazioni più melodiche del genere.
Essenziale, brutale e scorretto,  il lavoro dei The Fog esercita un suo fascino ancestrale ma difficilmente  il suo scarno incedere potrà  fare troppi proseliti.
Sono effettivamente godibili le improvvise accelerazioni  che, innestate su un tessuto morboso, possiedono l’effetto di provocare un furioso headbanging, però il talento compositivo di Asphyx e Morgoth, tanto per citare altri dei nomi ai quali i nostri vengono accostati in sede di presentazione, risulta tutt’altra cosa.
La varietà compositiva in queste lande è qualcosa di sconosciuto, e una manciata di riff azzeccati non basta a rendere avvincente un disco in cui il piatto rantolo di  V. Lord non contribuisce ad elevarne il livello.
Sentito un pezzo, sentiti tutti: se poi quel pezzo non è neppure indimenticabile traete voi le conclusioni: l’album dei The Fog potrebbe essere comunque apprezzato dai fans del death più  oltranzista, i quali forse troveranno quei motivi d’interesse che un appassionato di doom incline alla malinconia come  il sottoscritto fatica ad intravedere.

Tracklist:
1.Inaneness
2.Crawling Doom
3.Entropy Pillars
4.Creeping Lunacy
5.Gloom Shoals
6.Perpetual Blackness
7.Grievous Scourge

Line-up:
C.C. Defiler – Bass
Avenger – Drums
V. Lord – Vocals, Guitars

THE FOG – Facebook

Clouds Taste Satanic – Your Doom Has Come

Il secondo album dei Clouds Taste Satanic è una gustosa pietanza alla quale manda l’ingrediente decisivo che la renda irrinunciabile e, soprattutto, l’ennesimo buon lavoro che corre il rischio d’essere ignorato

I newyorchesi Clouds Taste Satanic sono una band di formazione recente che, con Your Doom Has Come arrivano al secondo album dopo quello d’esordio (To Sleep Beyond the Earth) uscito lo scorso anno.

Il quartetto statunitense propone un doom del tutto strumentale e a questo punto, da parte di chi si è imbattuto in qualche mia recensione in passato, ci si aspetterà la solita tirata sull’opportunità o meno di questo tipo di scelta: non intendo deludere tale attesa e quindi lo farò nuovamente, a maggior ragione in questo caso, visto che la propsta dei Clouds Taste Satanic possiede tutti i crismi qualitativi richiesti, salvo appunto la voce.
Con la presenza di un cantante all’altezza, Your Doom Has Come potrebbe collocarsi tranquillamente all’altezza delle migliori cose ascoltate di recente, anche se a volte può apparire forzato pensare d’inserire delle linee vocali laddove, a livello compositivo, si è operato a priori con la consapevolezza di farne a meno.
Detto questo, l’album consta di una mezza dozzina di brani incisivi, intesi e davvero ben suonati: la competenza e la passione del quartetto statunitense è fuori discussione e chi è avvezzo a questo modus operandi non potrà che goderne; peraltro va sottolineato come l’opener Ten Kings sia un brano solido, in grado convogliare in maniera eccellente le diverse sfumature del doom nel corso dei suoi otto minuti, resta il fatto che tutto ciò che segue finisce per brillare di luce riflessa, venendo meno quella variabile decisiva di cui si è ampiamente detto.
Il secondo album dei Clouds Taste Satanic è una gustosa pietanza alla quale manca l’ingrediente decisivo che la renda irrinunciabile e, soprattutto, l’ennesimo buon lavoro che corre il rischio d’essere ignorato; cominciano ad essere troppo le band che praticano questo tipo di soluzione quando, invece, sono pochi quelli che possiedono il talento smisurato necessario per emergere …

Tracklist
1. Ten Kings
2. One Third of the Sun
3. Beast from the Sea
4. Out of the Abyss
5. Dark Army
6. Sudden…Fallen

Line-up:
Sean Bay Bass
Christy Davis Drums
Steven Scavuzzo Guitar
David Weintraub Guitar

CLOUDS TASTE SATANIC – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=JqiJWrIuTQw

Mourning Beloveth – Rust & Bone

Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere

Gli irlandesi Mourning Beloveth sono una band dallo stato di servizio lusinghiero nel particolare mondo del doom più oscuro, se pensiamo che la loro storia ha preso avvio oltre vent’anni fa.

Fino all’incisione del precedente full length Formless, nel 2013, tutto sommato il gruppo era noto agli appassionati soprattutto per un eccellente album come A Sullen Sulcus, oltre a diverse buone opere in linea con gli stilemi del genere.
Con lo scorso lavoro, invece, era stata impressa una svolta decisa verso suoni che maggiormente attingevano alla tradizione musicale della propria terra di provenienza, non tanto riferiti al folk quanto ad un peculiare mood epico.
In particolare era emersa in tutto il suo splendore quell’affinità elettiva con i Primordial che ne aveva reso i Mourning Beloveth (citando la mia recensione di Formless) “una versione iper-rallentata”, ma ugualmente affascinante quanto personale.
Rust & Bone costituisce un’ulteriore e forse definitiva evoluzione della band proveniente di Athy: i Mourning Beloveth non sono più, di fatto, una band death/doom nel senso più convenzionale del termine, perché, sebbene la lunga opener Godether evidenzi per buna parte passaggi ascrivibili al genere, è l’atmosfera complessiva che è cambiata: il dolore ottundente viene rimpiazzato ora da un sofferenza dai tratti fieri e solenni, ora da una malinconia propedeutica ad una serenità illusoriamente vicina eppure irraggiungibile.
Quando Godether si apre melodicamente, attorno all’ottavo minuto, le emozioni rompono gli argini e non sarà più possibile contenerle fino all’ultima nota dell’album.
Rispetto a Formless, i Mourning Beloveth hanno optato per una maggiore sintesi, visto che Rust & Bone dura meno della metà del precedente lavoro, ma qui non c’è un solo secondo sprecato: anche i due brevi intermezzi Rust e Bone sono funzionali alla causa, andando ad introdurre le altre due perle The Mantle Tomb e A Terrible Beauty Is Born.
La prima prende avvio come se fosse un outtake di quel capolavoro assoluto intitolato A Nameless God e, allorché entra in scena la voce di Frank Brennan, non ci sono dubbi che questa traccia ci trascinerà in un vortice emotivo dal quale non sarà facile riprendersi. Alternato al robusto growl di Darren Moore, il canto evocativo del chitarrista non lascia scampo, finché la vena “primordiale” del brano non si stempera in una seconda parte strumentale nella quale la chitarra solista va a rovistare in maniera irrimediabile nella nostra anima, annichilita da tanta bellezza oltre che sfregiata dall’urlo disperato di Moore.
A Terrible Beauty is Born arriva achiudere l’album con modalità simili alla lunga Transmission, traccia che occupava interamente il cd bonus di Formless: lo spunto di quell’episodio acustico e dai tratti blueseggianti, qui viene perfezionato e reso in una veste che ne accentua il pathos e la limpidezza: l’interpretazione di Brennan fa tutta la differenza del mondo, donando al brano un’intensità rara e preziosa.
Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere; difficile fare meglio di così, davvero.

Tracklist
1. Godether
2. Rust
3. The Mantle Tomb
4. Bone
5. A Terrible Beauty Is Born

Line-up:
Timmy Johnson – Drums
Frank Brennan – Guitars, Vocals (clean)
Darren Moore – Vocals
Brendan Roche – Bass
Pauric Gallagher – Guitars

MOURNING BELOVETH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=spPn5BlHZVo&feature=youtu.be

Spina Bifida – Iter

L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Gli Spina Bifida sono una band olandese che fu tra le prime a proporre le varianti più oscure del doom nel paese dei mulini a vento.

Nonostante un solo album all’attivo (Ziyadah, datato 1993), il nome è sempre stato citato tra quelli definibili “di culto”, condizione che spesso viene allargata a band che producono solo un buon album per poi cadere nell’oblio.
L’occasione per riparlare degli Spina Bifida ci è stata fornita la scorsa estate con la riedizione proprio di Ziyadah, quell’unico parto su lunga distanza da molti considerato un lavoro di grande spessore. Al riguardo ci eravamo espressi in maniera diversa, ritenendola un’opera non priva di un suo fascino pur non essendo all’altezza delle migliori espressioni del settore, ma l’indiscutibile aspetto positivo dell’operazione era la sua funzione evidentemente propedeutica ad un ritorno con un nuovo disco di inediti, come effettivamente è avvenuto.
Il lavoro in questione è questo Ep intitolato Iter, che ha il pregio/difetto di ripartire esattamente da dove la band di Tilburg aveva terminato: il death doom qui contenuto continua ad essere asciutto e senza fronzoli, ma anche privo di slanci indimenticabili, pur risultando come il suo lontano predecessore a suo modo accattivante.
Rispetto alla formazione originale, l’unica novità è rappresentata dalla sostituzione del vocalist dell’epoca con William Nijhof dei Faal e, tutto sommato l’avvicendamento, se porta sicuramente qualche miglioria, non si rivela decisivo nell’economia dell’Ep.
Le buone Singular God e Silent Fields bastano comunque per giustificare questo ritorno sulle scene contraddistinto da un sound dal sapore vintage, dovuto al binomio songwrinting/produzione che mostra tratti piuttosto spartani.
L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Tracklist
1. Untitled
2. Singular God
3. Awe
4. The Dead Ship
5. Silent Fields
6. The Heretic

Line-up:
Veronika – Bass
Gerard – Drums
Rob – Guitars
Harrie van Erp – Guitars
William Nijhof – Vocals

SPINA BIFIDA – Iter

Funeral Mantra – Afterglow

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.

Avevamo parlato molto bene un paio di anni fa di questa band romana, in occasione del loro primo demo autoprodotto, un esordio composto da quattro brani inediti, dopo qualche anno di gavetta come cover band.

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.
Prodotto da Luciano Chessa, già al lavoro con i fenomenali Helligators, La Menade e i Graal, l’album conferma le ottime impressioni avute all’ascolto del passato demo, ora la band risulta davvero una pericolosa macchina da guerra doom/stoner, migliorando molto in personalità e lanciando sul mercato un potentissimo esempio di musica sabbatica, desertica e stonata.
Che il genere sia questo, prendere o lasciare, non fa una piega, è come lo si suona che fa la differenza e la band romana, senza tanti giri di parole spacca che è un piacere, limitando di molto divagazioni psichedeliche e jam acide care a molti gruppi di stoner classico, ed elargendo potentissime bordate di doom settantiano, hard rock e groove come se piovesse.
La prova sopra le righe del vocalist Dude, una via di mezzo tra un orso ferito e Zakk Wylde e l’ottimo songwriting, confermano che siamo davanti ad un gruppo notevole, nel genere uno dei migliori dell’underground dello stivale.
Riff che potrebbero essere usati per demolire palazzi in disuso, solos giunti fino a noi dai lontani anni settanta, ritmiche colme di sano groove stoner, fanno di Afterglow un lavoro annichilente per impatto ed affascinante nelle atmosfere, che mantengono inalterata la coltre di nebbia portata dal vento, che si insinua nella nostra stanza direttamente da cerimonie sabbatiche dove viene rievocato il gotha del genere mondiale, gruppi in cui ci siamo imbattuti negli ultimi quarant’anni di musica rock.
Detto che le quattro tracce presenti sul demo fanno bella mostra di se anche su Afterglow ( arrembante Parsec, monolitica Funeral Mantra, varia e dal gusto alternative Gravestones Reveries, una botta alla Black Label Society, Drifting) le altre sei composizioni arricchiscono il mondo Funeral Mantra di songs trascinanti, irresistibili nel loro coniugare un genere tosto e senza compromessi, come quello suonato, ad un immediato appeal tra i brani e con l’ascoltatore, grazie alla fruibilità e alla freschezza di brani dal notevole carisma come Dimensions Onward, l’irresistibile e ritmata In These Day, la muscolosa Brainlost, tranciata a metà da una frenata e da un assolo creato per sconvolgere, e la titletrack, chiusura psichedelica di un album debordante.
Per chi non conoscesse il gruppo capitolino e vuole i soliti nomi di riferimento, allora avvicinatevi senza indugi a questo lavoro, perché al suo interno ci troverete Black Label Society, Black Sabbath, dirigibili zeppeliniani, Grand Magus, Cathedral, Kyuss e Pentagram; mi fermo qui e vi invito a far vostro questo Afterglow, non lo toglierete dal lettore per tanto, tanto tempo.

TRACKLIST
1. Soulstice
2. Dimension Onward
3. Gravestone Reveries
4. Brainlost
5. In These Eyes
6. Funeral Mantra
7. Parsec
8. Counterfeit Soul
9. Drifting
10. Afterglow

LINE-UP
Vikk- Bass
Richard- Guitars
Randy- Guitars
Simone “Dude”- Vocals
Marco “Karonte”- Drums

FUNERAL MANTRA – facebook

Lumen Oceani – Errabundus Eram Regno Tenebrarum

Errabundus Eram Regno Tenebrarum è un ottimo disco che, come detto, spinge all’estremo la componente liturgica del funeral senza apparire mai stucchevole, andando a toccare i tasti giusti dell’emotività con un sound più consolatorio che minaccioso

La costante ricerca di novità in campo funeral doom oggi ci porta a conoscere i Lumen Oceani.

Abbiamo già visto quanto un sottogenere, che già di per sé è assolutamente peculiare, possa mostrare a sua volta tante sfaccettature. Così, pure nella sua frangia più melodica, il sound può essere condotto da linee chitarristiche strappalacrime oppure da tastiere solenni e dai toni liturgici.
Proprio in quest’ultima sfumatura stilistica sono collocabili gli svedesi Lumen Oceani, band che come da copione non offre altri appigli descrittivi se non la propria musica, non essendo reperibile alcun accenno biografico sia su Facebook sia sul Bandcamp.
Poco male, come sempre, quando sono appunto le note ad occupare tutti gli spazi, riempiendo gli spazi di suoni lugubri e solenni e trasportando l’ascoltatore al’interno di un virtuale luogo sacro dove l’organo, parti corali e tutto ciò che è strettamente connesso alla ritualità ecclesiastica, ammantano l’aere con linee melodiche ineluttabilmente oscure.
Dei tre lunghi brani sono soprattutto il primo e l’ultimo a spiccare per qualità ed intensità: Die clamavi et nocte coram te prende avvio mostrando le profonde stimmate dei maestri Skepticism, e non può che esser un bell’incedere quello proposto dai Lumen Oceani, visto che l’altro influsso stilistico evidente sono gli Ea, specie quando nelle composizioni scema la solennità a favore della melodia.
Caratteristica, questa, che è appunto più evidente nella conclusiva Panis Vitae, altra traccia notevole a suggello della bellezza di un lavoro che nei suoi cinquanta minuti brilla un po’ meno solo in occasione del brano centrale Caverna, più cupo ma meno evocativo rispetto al resto.
Errabundus Eram Regno Tenebrarum è un ottimo disco che, come detto, spinge all’estremo la componente liturgica del funeral senza apparire mai stucchevole, andando a toccare i tasti giusti dell’emotività con un sound più consolatorio che minaccioso.

Tracklist
I. Die clamavi et nocte coram te
II. Caverna
III. Panis vitae

LUMEN OCEANI – Facebook

Sleepy Hollow – Tales Of Gods And Monsters

Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, ottimo esempio di US metal old school amalgamato a sonorità classic doom, epico, fiero e declamatorio

Tornano i veterani Sleepy Hollow con questo nuovo album a distanza di quattro anni dal ritorno sulle scene del 2012 con Skull 13, lavoro che spezzava un silenzio lungo più di vent’anni dall’esordio omonimo datato 1991, interrotto solo da una compilation nel 2002.

Attiva dalla fine del decennio ottantiano la band del New Jersey, purtroppo poco prolifica, ha trovato in questi anni un minimo di costanza nelle proprie uscite e Tales Of Gods And Monsters, licenziato dalla Pure Steel, può così infiammare i true metallers dall’anima epic doom.
Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, un ottimo esempio di US metal old school, amalgamato a sonorità classic doom, epico e declamatorio, fiero, drammatico e molto coinvolgente.
Una cinquantina di minuti persi nelle atmosfere epiche di brani, che dall’opener Black Horse Named Death non cedono un’oncia in tensione, pressanti nel loro andamento cadenzato, valorizzati da un’ottima prova del vocalist Chapel Stormcrow e da linee melodiche perfettamente incastonate nel sound nato nella vorace bocca di un vulcano in eruzione.
Le tastiere, specialmente nei primi brani, più orientati al metal classico, fungono da tappeto sonoro, su cui il gruppo costruisce il suo pesantissimo sound (Sons Of Osiris), mentre nella seconda parte, l’aria si fa ancora più pressante, i ritmi rallentano ed esce, pesante ed epico lo spirito doom del gruppo, valorizzato da songs tragiche e declamatorie che alzano non poco la qualità dell’opera.
On Blackened Seas, Baphomet e la conclusiva Shadowlands, sono perle di musica del destino dai rimandi classici, il gruppo è maestro nel far convivere US metal con il sound monolitico e pesante delle band doom europee come i Candlemass ed i Count Raven, ricamate dalle ottime melodie create dalla sei corde di Steve Stegg.
Animato da una sezione ritmica compatta e, a tratti, debordante (Rich Fuester al basso e Allan Smith alle pelli), Tales Of Gods And Monsters risulta un album riuscito in toto ed un ottimo ritorno per gli Sleepy Hollow, unauna band ritrovata per gli amanti del genere.

TRACKLIST
1. Black Horse Named Death
2. Sons Of Osiris
3. Alone In the Dark
4. Bound By Blood
5. Goddess Of Fire
6. On Blackened Seas
7. Baphomet
8. Creation Abomination
9. Shapeshifter
10. Time Traveller
11. Shadowlands

LINE-UP
Chapel Stormcrow – vocals
Rich Fuester – bass
Allan Smith – drums
Steve Stegg – guitars

SLEEPY HOLLOW – Facebook

Imber Luminis – Veiled

Ennesimo progetto del multiforme Déhà, Imber luminis è quello che per caratteristiche maggiormente si avvicina al depressive metal.

Ennesimo progetto del multiforme Déhà, Imber Luminis è quello che per caratteristiche maggiormente si avvicina al depressive metal.

Questo anche perché, in aggiunta a sonorità melodiche e mai spinte all’estremo, troviamo una prestazione vocale contraddistinta dallo screaming disperato tipico del genere, prestato per l’occasione da Daniel Neagoe, storico sodale del nostro,.
Il breve EP in questione consta di due brani in cui confluiscono diversi influssi che l’eclettico musicista belga riesce a modellare, come sempre, a suo piacimento e il risultato, manco a dirlo, è poco più di un quarto d’ora di splendida e dolorosa musica.
Se Veiled Part I, talvolta, appare una sorta di versione DSBM dei Cure di Disintegration, Veiled Part II va a lambire, a modo suo, il tipico andamento indolente dei Type 0 Negative di October Rust. In quest’ultima traccia l’urlo disperato trova, poi, un suo contraltare sia in un profondo growl, sia in suadenti clean vocals.
Déhà non finisce mai di sorprendere anche chi, come me, ne segue da tempo le diverse incarnazioni, e convince ancora una volte rifuggendo soluzioni arzigogolate, andando invece dritto al cuore dell’ascoltatore.
Non resta che ringraziarlo per questo supportandone l’intero operato con la massima convinzione.

Tracklist
1. Veiled – Part I
2. Veiled – Part II

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals
Daniel Neagoe – Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Arcana 13 – Danza Macabra

Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

Ambizioso e riuscito tentativo di coniugare l’horror di Fulci ed Argento alla musica occulta degli anni settanta. Otto tracce ispirate da otto film diversi per portarci in uno spazio ed in un tempo diversi.

Gli Arcana 13 sono al debutto ma i componenti del gruppo sono dei capitani di lunga ventura, Simone Bertozzi ha suonato e scritto per i Mnemic, Andrea Burdisso è il cantante dei grandissimi Void Of Sleep, Filippo Petrini ha suonato con gli Stoned Machine e Luigi Tarone è un batterista da più di venti anni e si sente. Il suono degli Arcana 13 è molto piacevole e variegato, anche se si muove principalmente nell’ambito del rock anni settanta, lato doom in quota Pentagram e, ovviamente, con riferimenti sabbatiani. Questi musicisti sanno suonare, ma soprattutto hanno gusto e riescono nella difficile missione di musicare un certo immaginario horror, che negli ultimi anni è stato in parte dimenticato. Tutto funziona, a partire dalla copertina di Enzo Sciotti che ha dipinto locandine di Fulci, Argento e Bava, ovvero la triade ispiratrice degli Arcana 13.
Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

TRACKLIST
1. Dread Ritual
2. ArcaneXIII
3. Land of Revenge
4. Oblivion Mushroom
5. Suspiria (Goblin cover)
6. Blackmaster
7. The Holy Cult of Suicide
8. Hell Behind You

LINE-UP
S.Bertozzi – Vocals, Guitar
A.Burdisso – Vocals, Guitar
F.Petrini – Bass
L.Taroni – Drums

ARCANA XIII – Facebook

Draconian – Sovran

Prendiamo in esame l’ultimo album dei Draconian a qualche mese dalla sua uscita, il tempo necessario per elaborare una valutazione meno istintiva e più ragionata, come va fatto per nomi di questo spessore.

La band svedese è stata, ed è ancora, la virtuale portabandiera del gothic doom, titolo conquistato grazie ad una manciata di album magnifici pubblicati nello scorso decennio.
Ma, se già Turning Season Within, ultimo di questi e risalente al 2008, mostrava i primi segni di appannamento, A Rose for the Apocalypse esibiva suoni un po’ troppo leccati ed inoffensivi per pensare di eguagliare quanto fatto in passato.
Dopo diversi anni, la band di Johan Ericson si ripresenta con questo Sovran, disco nel quale la prima cosa che salta all’occhio è l’avvicendamento alla voce femminile, affidata oggi alla sudafricana Heike Langhans in sostituzione della storica Lisa Johansson; nonostante il timbro della nuova vocalist abbia un impronta meno lirica e più ordinaria, a livello di sound i Draconian paiono aver fatto un gradito passo indietro, tornando a sciorinare un gothic doom melodico sì, ma altrettanto cupo e recuperando almeno in parte il proprio trademark romantico e malinconico.
Se non si può che salutare con soddisfazione questa sorta di retromarcia, va anche detto che il livello di intensità che caratterizzava i brani contenuti in Arcane Rain Fell e The Burning Halo non viene comunque eguagliato: i Draconian odierni sono una band che propone in maniera impeccabile il genere musicale che ha contribuito ad elevare ai massimi livelli, ma la perfezione formale finisce alla lunga per sovrastare l’impatto emotivo.
A sprazzi riaffiorano momenti dal grande potenziale evocativo (Dusk Mariner su tutte) ma, nel complesso, sembra proprio che le proprie pulsioni più oscure e drammatiche Ericson le abbia convogliate principalmente nel suo splendido progetto funeral/death doom Doom:Vs.
Intendiamoci, Sovran è un album di buonissimo livello che non potrà deludere chi ama questo tipo di sonorità, rafforzato da una tracklist che non presenta momenti deboli ma neppure picchi degni di farsi ricordare negli anni a venire e, alla fine, proprio quest’ultimo aspetto costituisce la vera pecca, tanto più quando la band che ne è protagonista si chiama Draconian.

Tracklist
1. Heavy Lies the Crown
2. The Wretched Tide
3. Pale Tortured Blue
4. Stellar Tombs
5. No Lonelier Star
6. Dusk Mariner
7. Dishearten
8. Rivers Between Us
9. The Marriage of Attaris
10. With Love and Defiance

Line-up:
Johan Ericson – Guitars
Anders Jacobsson – Vocals
Jerry Torstensson – Drums
Daniel Arvidsson – Guitars
Fredrik Johansson – Bass
Heike Langhans – Vocals

DRACONIAN – Facebook

Ego Depths – Dyrtangle

Il funeral targato Ego Depths non possiede pulsioni melodiche ma è un corpo estraneo conficcato in qualche parte del corpo, volto a provocare un dolore diffuso, non lancinante ma costante.

Con cadenza ormai annuale arriva il nuovo lavoro degli Ego Depths, progetto solista di Stigmatheist, musicista ucraino che da diversi anni ormai si è stabilito vive a Montreal.

Negli anni scorsi abbiamo trattati i due precedenti album e, parlando di Dyrtangle, resta poco da aggiungere rispetto a quanto detto in quei frangenti.
Il funeral targato Ego Depths non possiede pulsioni melodiche ma è un corpo estraneo conficcato in qualche parte del corpo, volto a provocare un dolore diffuso, non lancinante ma costante.
Ovviamente ciò è sintomo di una fruibilità minima e questi, se vogliamo, è il solo difetto di un opera condivisibile nel suo porsi coerentemente su un piano non accessibile a chiunque, ma che in virtù di una durata ai limiti della capienza di un cd si rivela di digestione laboriosa anche per i più avvezzi al genere.
È’ chiaro che tutto ciò deriva da una scelta ben precisa di Stigmatheist: l’album è espressione di un musicista ben conscio di ciò che sta facendo e, più di una volta, quando ci si attende l’apertura derivante da una logica progressione questa viene negata, quasi a rimarcare l’intento di non fornire alcun appiglio empatico all’ascoltatore.
Dyrtangle però è un lavoro molto curato, anche a livello di scelte strumentali, spesso non convenzionali e talvolta ammantate da un’aura mistica e, peraltro, l’ultima traccia Vitrification, Ineludible Meditation è davvero notevole, in virtù di un incedere più intenso e relativamente meno ostico.
Anche grazie a questo il quarto full length degli Ego Depths possiede un suo indubbio fascino, ma non è certo l’album che estrai dal mazzo con decisione se vuoi ascoltare del funeral in grado di offrire emozioni a profusione.

Tracklist
1. The Angleshifter
2. Wheel of Transmigration
3. The Onward Tide
4. Awakening of Gshin-Rje, the Lord of Death
5. Vitrification, Ineludible Meditation

Line-up:
Stigmatheist – Everything

EGO DEPTHS – Facebook