Myridian – Under The Fading Light

Pregevole esordio autoprodotto degli australiani Myridian, autori di un gothic-doom di rimarchevole spessore; collocabili in un ipotetico punto d’incontro tra Novembers Doom, Daylight Dies e Type 0 Negative, i cinque ragazzi di Melbourne mettono sul piatto un disco privo di sbavature e di grande intensità, grazie anche al contributo alla consolle di un nume tutelare della scena aussie come Mark Kelson (The Eternal, ma soprattutto ex Cryptal Darkness, la migliore gothic-doom band mai apparsa sul suolo oceanico).

In Under The Fading Light brani dal consueto mood malinconico si susseguono senza mostrare affanni nè accenni di ripetitività e il disco, nonostante una durata ragguardevole, fila via che è un piacere, graziato da un songwriting impeccabile pur se non originalissimo, con la sola eccezione di Starless che viene appesantita inizialmente da qualche barocchismo pianistico di troppo.
Impeccabile il quintetto ai propri strumenti e bravissimo Felix Lane alle prese con il growl mentre le clean vocals, credo a cura di Josh Spivak, evocano piacevolmente la timbrica del grande Peter Steele.
To the Dying Sun, Veil of Sorrow, la title-track e il brano di chiusura Ethereal Storm sono gli episodi migliori di un disco che ci mostra una band giovane ma già sufficientemente matura; come spesso avviene in questi casi, l’auspicio è che i Myridian possano avvalersi al più presto di una label in grado di promuoverli e supportarli in maniera adeguata.

Tracklist :
1. Passage
2. To the Dying Sun
3. Veil of Sorrow
4. No Dawn
5. Solitude’s Embrace
6. Under the Fading Light
7. Starless
8. Ethereal Storm

Line-up :
Alex Hutchinson – Drums
Scott Brierley – Guitars
Josh Spivak – Guitars, Vocals
Julian Wheeler – Keyboards
Felix Lane – Vocals, Bass

MYRIDIAN – pagina Facebook

Doomed – In My Own Abyss

Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.

La recensione del disco d’esordio dei Doomed, uscita su Iyezine qualche mese fa, si era chiusa con l’auspicio che qualche etichetta lungimirante si accorgesse del valore di questo progetto doom-death del musicista tedesco Pierre Laube.

Evidentemente la Solitude ha avuto l’occhio più lungo o, se non altro, è stata più rapida nell’arricchire il proprio roster con quella che è stata una delle più piacevoli novità del 2012 in ambito doom.
Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.
Per quanto possibile, la proposta appare ancor meglio focalizzata su un death-doom basato più sull’impatto che sulla melodia; infatti, il pregio dei Doomed è proprio la compattezza del suono che si manifesta con riff granitici e un growl impietoso, il tutto sapientemente alternato a frequenti rallentamenti e a squarci chitarristici volti a incrinare il muro di incomunicabilità eretto da un sound sempre minaccioso, anche nei momenti di calma apparente. Inoltre, nonostante chi si cimenti in questo genere finisca spesso per assomigliare in maniera più o meno pronunciata alle band che ne hanno segnato la storia, Laube riesce nell’intento di proporre un proprio trademark evitando di cadere in rimandi eccessivi rispetto a quanto già composto da altri in passato.
Come il suo predecessore, In My Own Abyss tende progressivamente ad “ammorbidirsi” nella sua parte terminale; in questo senso la differenza tra l’opener Downward e la traccia di chiusura Ah Ty Stiep Schirokaja è evidente, ma ciò avviene in maniera graduale attraverso brani in cui la componente death lascia spazio ad atmosfere maggiormente evocative, tra i quali spiccano le mirabili Alone We Stand, The Ancient Path e Leave.
Una conferma quindi, a distanza ravvicinata, per il musicista tedesco e un 2013 che si preannuncia ricco di novità e di impegni, tra la riedizione dell’esordio “The Ancient Path”, la costituzione di una line-up funzionale alle esibizioni dal vivo, oltre alla composizione di nuovo materiale per un futuro terzo lavoro che, viste le premesse, potrebbe consacrare i Doomed come una delle realtà più fulgide del death-doom europeo.

Tracklist :
1. Downward
2. Alone We Stand
3. The Ancient Path
4. A Wall of Your Thrones
5. Restless
6. Leave
7. Ah Ty Stiep Schirokaja – Loss

Line-up :
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

DOOMED – Facebook

Ennui – Mze Ukunisa

Un esordio che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Ennui è un progetto funeral doom dalla recente genesi proveniente da Tbilisi; David Unsaved e Serj Shengelia, a pochi mesi dall’inizio della loro collaborazione, hanno dato alle stampe questo Mze Ukunisa che si rivela un prodotto piacevolmente sorprendente per il livello compositivo raggiunto dai nostri.

Non è infrequente, del resto, imbattersi in esordi dai tratti approssimativi, sia dal punto di vista compositivo sia da quello esecutivo, ma ciò non avviene fortunatamente in questo caso: il lavoro dei due musicisti georgiani si rivela all’altezza della situazione in ogni frangente, pur nel suo sviluppo dalla durata ben superiore all’ora, potendosi avvalere peraltro di una produzione del tutto adeguata.
Il funeral degli Ennui è prevalentemente di stampo atmosferico, anche se la tastiera svolge essenzialmente una sapiente opera di raccordo, lasciando alla chitarra il compito di tratteggiare le malinconiche melodie che caratterizzano ogni brano del disco.
Le sei lunghe tracce possiedono un andamento piuttosto lineare, con una prima fase spesso dalle tonalità più cupe che lentamente conducono alle ampie ed azzeccate aperture melodiche collocate nella parte finale.
Così Dead Desires, Maybe The Time Will Come e Frozen Candle si rivelano ottimi esempi di songwriting di stampo funereo, anche se il picco viene raggiunto dal duo nella splendida The Way Of My Life’s End, con le sue dolenti note di chitarra screziate dal cavernoso growl di David.
Un esordio quindi, che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Track list :
1. Flowers Of Silence
2. Dead Desires
3. Maybe The Time Will Come
4. The Way Of My Life’s End
5. Frozen Candle
6. Memento Mori

Line-up :
Serj Shengelia – Bass, Drums, Guitars, Keyboards
David Unsaved – Guitars, Keyboards, Vocals

ENNUI – Facebook

Indesinence – Vessels Of Light And Decay

Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.

Anche gli Indesinence appartengono al novero delle doom band che tornano sulle scene dopo un lungo silenzio e, come accaduto in altri frangenti, ciò avviene con un lavoro che ripaga ampiamente le attese.

Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.
Vessels Of Light And Decay, dopo la breve intro Flux, inizia ad esibire le sembianze mostruose della creatura Indesinence con Paradigms, prima di una serie di lunghe e maestose tracce: riff granitici si abbattono come un maglio sui timpani dell’ascoltatore, ora con la lentezza esasperante del doom più canonico ora con le accelerazioni tipiche del death; in questo avvio dell’album, nei passaggi più rallentati sorgono spontanei accostamenti con i seminali Cathedral di “Forest Of Equilibrium” e non c’è dubbio che questa sia la perfetta rampa di lancio per un lavoro che non avrà momenti di cedimento per tutta la sua durata.
Vanished si palesa con le temibili sembianze dei Morbid Angel epoca “Blessed / Covenant”, per il suo sound “morboso” e avvolgente e per un growl degno del miglior Vincent ad opera di Ilia Rodriguez, mentre Communion accelera ulteriormente l’andatura, segnalandosi come l’episodio più violento del disco.
La Madrugada Eterna spezza ad arte la tensione con le sue sonorità di stampo ambient, preparando il terreno alla deragliante Fade dove gli Indesinence macinano instancabilmente, per quasi un quarto d’ora, i loro riff densi e distruttivi come una colata lavica.
Unveiled chiude questa splendida prova di compattezza e competenza musicale mostrando un volto più riflessivo del quartetto londinese, grazie alle sue frequenti aperture a sonorità acustiche dissonanti: il brano finisce spesso per lambire territori post-metal, lasciando spazio nella sua parte conclusiva a un crescendo entusiasmante che è il commiato ideale per l’ennesimo album imperdibile partorito dalla scena death-doom in questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. 1. Flux
2. Paradigms
3. Vanished Is the Haze
4. Communion
5. La Madrugada Eterna
6. Fade (Further Beyond)
7. Unveiled

Line-up :
Andy McIvor – Bass
Dani Ben-Haim – Drums
John Wright – Guitars, Bass
Ilia Rodriguez – Guitars, Vocals

Monolithe – Monolithe III

Monolithe III è un unico brano che pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento e progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.

I francesi Monolithe sono da diversi anni un nome piuttosto apprezzato, in ambito funeral doom, grazie ai due omonimi dischi pubblicati nella prima parte dello scorso decennio; dopo l’ uscita dell’ Ep “Interlude Premier” e un silenzio durato cinque anni, interrotto da un nuovo Ep, questo terzo episodio su lunga distanza ci offre una band animata da una ritrovata ispirazione, che la spinge ben oltre i confini del genere pur non smarrendone le caratteristiche peculiari.

Chiaramente le coordinate sonore legate a un sound poderoso e rallentato sono sempre ben evidenti, ma l’elemento innovativo è riscontrabile nella varietà stilistica e ritmica che contrassegna il lavoro in tutti i suoi abbondanti cinquanta muniti, peraltro concentrati in un solo brano.
A tale proposito sorge spontaneo fare un parallelismo con un’altra band funeral che quest’anno ha pubblicato un disco contraddistinto da una sola lunga traccia, ovvero gli Ea, ma appare subito evidente che le due interpretazioni della materia sono piuttosto distanti.
Se da una parte i misteriosi russi continuano imperterriti nello srotolare con la massima lentezza il loro sound incentrato su tastiere maestose e chitarre soliste sempre pronte a tratteggiare stupefacenti passaggi intrisi di malinconia, dall’altra i quattro transalpini donano alla loro lunga composizione una dinamismo che si va a contrapporre a quell’uniformità che, pur costituendone un aspetto positivo, è tratto caratteristico del genere.
Monolithe III racchiude in sé momenti psichedelici e sinfonici che, amalgamati con la pesantezza classica del doom e il perfetto growl di Richard Loudin (autore una decina d’anni fa col suo progetto solista Despond dello splendido “Supreme Funeral Oration”), consentono all’ascoltatore di fruire senza particolare fatica di un monolite sonoro di tale portata; l’intero brano pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento ma progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
Un’evoluzione per certi versi inattesa ma evidenziata nel migliore dei modi da Sylvain Begot e soci, grazie a un album che si va a collocare di diritto tra le migliori uscite di questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. Monolithe III

Line-up :
Benoit Blin – Bass, Guitars
Sebastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Begot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

Daylight Dies – A Frail Becoming

Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono.

I Daylight Dies sono probabilmente la migliore melodic death-doom band USA e il loro silenzio stava oggettivamente durando da troppo tempo: “Lost To The Living” risale al 2008 ma, lo sappiamo, i tempi delle band dedite alla musica del destino sono lunghi e dilatati come le note sprigionate dai loro dischi.

Così come sta accadendo in quest’autunno, che ha visto ripagate con gli interessi le lunghe attese degli estimatori di Saturnus, Worship e Monolithe, anche la band del North Carolina ritorna con un lavoro superlativo all’insegna di una propensione melodica perfettamente controbilanciata dalle sonorità più robuste.
Ho sempre considerato i Daylight Dies una sorta di risposta d’oltreoceano alla magnificenza degli Swallow The Sun, pur con le dovute differenze derivanti dalla provenienza geografica e quindi da un diverso background musicale: dove però la band finnica, con l’ultimo eccellente lavoro, ha accentuato la propria componente gothic a discapito di quella death, i nostri, salvo un maggiore ricorso a vocals pulite, mantengono intatta la propria coerenza stilistica affidando le costruzioni delle linee melodiche esclusivamente alle chitarre senza fare ricorso alle tastiere o a passaggi particolarmente catchy.
Il devastante growl di Nathan Ellis recita testi che non lasciano spazio alcuno a illusori squarci di serenità e l’opprimente chiusura del disco, affidata al brano più lungo del lotto An Heir To Emptiness, è la pietra tombale depositata sulle speranze disattese, sui sogni mai avveratisi, su una vita forse realmente mai vissuta.
Questo splendido lavoro non conosce momenti di stanca, ogni suo episodio vale da solo l’acquisto del disco, anche se una citazione la meritano autentiche perle quali Sunset, dove il bassista Egan O’Rourke alle clean vocals si contrappone all’asprezza di Nathan, mentre le chitarre pennellano struggenti melodie, A Final Vestige con la sua alternanza tra quiete e tempesta e Hold On To Nothing, contrassegnata da uno spettacolare crescendo culminante in un assolo destinato a restare ben impresso nella memoria.
Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono; consigliato a chi predilige un death-doom dal forte impatto emotivo e ha apprezzato i lavori passati dei già citati Swallow The Sun, ma anche quelli dei nostri Valkiria, con i quali gli ascoltatori più attenti riscontreranno diverse affinità stilistiche.

Tracklist :
1. Infidel
2. The Pale Approach
3. Sunset
4. Dreaming of Breathing
5. A Final Vestige
6. Ghosting
7. Hold on to Nothing
8. Water’s Edge
9. An Heir to Emptiness

Line-up :
Jesse Haff – Drums
Barre Gambling – Guitars
Egan O’Rourke – Bass, Vocals
Charlie Shackelford – Guitars
Nathan Ellis – Vocals

Funeral – Oratorium

I Funeral del 2012 sono una band senz’altro meritevole di attenzione ma difficile da collocare all’interno di un genere come il doom più estremo, nel quale la coerenza stilistica appare più un pregio che non un difetto.

Digitando il monicker Funeral su “metal-archives” spuntano ben undici band di varia estrazione geografica e stilistica, ma i Funeral che trattiamo in questa recensione sono gli originali e probabilmente tra questi gli unici titolati, almeno per il proprio passato, a portare un nome talmente impegnativo, oltre che teoricamente indicativo del genere proposto.

La band norvegese è sulle scene ormai da vent’anni, ma la sua produzione è stata piuttosto diradata nel tempo se consideriamo che Oratorium è solo il quinto full-length effettivo pubblicato in quest’arco temporale. I motivi sono molteplici, ma sicuramente i numerosi cambi di line-up, dovuti anche alla tragica scomparsa di due componenti della band, oltre ad una certa instabilità nel ruolo di vocalist, possono essere individuati come le più probabili cause di questa parsimonia dal punto di vista compositivo. Tenendo fede al proprio monicker, come dicevamo, i nostri sono partiti proponendo partiture funeree nel solco del doom più rallentato e contemporaneamente intriso di riflessi gotici, ma nel corso del tempo la proposta si è progressivamente diversificata, a partire da “From These Wounds” del 2006 fino ad arrivare alla forma attuale, che sicuramente è assai lontana dal funeral doom che conosciamo attraverso gli eccellenti lavori di Mournful Congregation, Evoken o Worship. Il suono del combo condotto da Anders Eek, unico superstite dalla formazione originale, oggi si presenta come un ipotetico e indubbiamente particolare connubio tra il gothic dei The Vision Bleak (in particolare per le orchestrazioni) e il black avanguardistico di scuola norvegese, Borknagar in particolare (soprattutto per le parti vocali), il tutto ovviamente rallentato secondo i tradizionali dettami del doom. Il risultato che ne scaturisce è un sound interessante ma in certi momenti discontinuo nel suo scorrere; ogni brano possiede momenti di alto lirismo, con riff granitici e grondanti disperazione, assoli liquidi e dalle limpide melodie, ma sovente il pathos viene interrotto da passaggi interlocutori nei quali la band, con l’intento di inserire ulteriori elementi nel proprio sound finisce solo per diluire la durata dei brani perdendo così di vista l’aspetto emozionale. Tutto ciò rende piuttosto complesso l’ascolto di Oratorium che in ogni caso resta un buon disco, suonato e prodotto con perizia e con un cantante sufficientemente versatile come Sindre Nedland (già alle prese come tastierista e clean vocalist negli ottimi In Vain, nonché fratello di Lars dei Solefald); inoltre una durata superiore ai settanta minuti tende ancor più a disperdere il livello d’attenzione dell’ascoltatore. Detto che in questo lavoro spiccano, tra le sette lunghe tracce, Hate, Song of the Knell e la traccia di chiusura Will You Have Me?, quelle che maggiormente racchiudono passaggi vicini alla ragione sociale del gruppo, i Funeral del 2012 sono una band senz’altro meritevole di attenzione ma difficile da collocare all’interno di un genere come il doom più estremo, nel quale la coerenza stilistica appare più un pregio che non un difetto. Probabilmente questo disco potrà rivelarsi molto più appetibile per chi apprezza le band che sono state citate come possibili termini di paragone o per chi preferisce l’ascolto di sonorità cupe ma ricercate e sicuramente non dai tratti catacombali.

Tracklist :
1. Burning with Regret
2. Hate
3. Break Me
4. Song of the Knell
5. From the Orchestral Grave
6. Making the World My Tomb
7. Will You Have Me?

Line-up :
Anders Eek – Drums, Guitars, Vocals
Mats Lerberg – Guitars, Vocals
Erlend E. Nybø – Guitars
Rune Gandrud – Bass
Sindre Nedland Vocals

Saturnus – Saturn In Ascension

“Saturn In Ascension” è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic

E’ passato ormai circa un anno e mezzo ma ho ancora negli occhi, nella mente e nel cuore, come fosse ieri, la magnifica esibizione dei Saturnus al Carlito’s Way nella loro prima data italiana di sempre: pur di fronte a pochi ma entusiasti fan, la band danese, rimessasi in pista dopo un lungo silenzio con un line-up rinnovata, sciorinò, oltre a tutti i propri cavalli di battaglia (tra i quali un’epocale versione di “I Long”) anche due nuove tracce il cui valore intrinseco, ravvisabile già ad un primo ascolto, faceva intuire lo spessore di quello che sarebbe stato il sospirato ritorno discografico intitolato Saturn In Ascension.

Risolti i problemi di carattere contrattuale e accasatisi con la Cyclone Empire, i nostri hanno così mantenuto la loro media di un album ogni cinque-sei anni ma, alla luce dei risultati ottenuti nel passato e nel presente, tali lunghe attese sono sempre state ripagate con gli interessi.
Dopo l’uscita di un disco dal livello apparentemente irripetibile come “Veronika Decides To Die”, datato 2006, Thomas Jensen ha fortunatamente deciso di ridare impulso alla sua band, che si trovava in una fase di stand-by, richiamando a sé due musicisti che erano già stati presenti in formazione nel passato, il bassista Brian Hansen e il batterista Henrik Glass, e individuando una nuova coppia di chitarristi in Rune Stiassny e in Mattias Svensson (quest’ultimo ha abbandonato la band poco dopo la fine delle registrazioni). Dopo un lungo tour, che come detto, ha per la prima volta toccato anche il suolo italico, il combo danese quindi pone fine a un lungo silenzio discografico con un album che, come era facile intuire dalle premesse, non delude affatto andandosi a collocare sui livelli del suo predecessore.
Per chi non conoscesse sufficientemente la musica dei Saturnus, si può provare a sintetizzarne le caratteristiche come una sorta di evoluzione in senso melodico dei My Dying Bride epoca “The Angel And The Dark River” e “Like Gods Of The Sun”; infatti, laddove la poetica della band di Aaron Stainthorpe si ammanta di una decadente morbosità, Thomas e co. portano alle estreme conseguenze l’aspetto malinconico arrivando a toccare costantemente i tasti giusti per indurre alla commozione l’ascoltatore.
Non c’è dubbio che, per amare i Saturnus, sia necessario essere dotati di una particolare predisposizione che consenta di assaporare in maniera assoluta le emozioni che vengono evocate da ogni loro brano, ed è proprio grazie a queste peculiarità che l’ascolto di “Saturn In Ascension” si rivelerà un’esperienza irrinunciabile.
Se “Veronika …” disarmava qualsiasi difesa già con l’opener-capolavoro “I Long”, Saturn … non è da meno grazie alla fantastica accoppiata iniziale Litany Of Rain – Wind Torn, venti minuti complessivi che fanno da ideale ponte tra i due lavori tramite le dolenti pennellate chitarristiche di Rune, alternate al massiccio e caratteristico growl di Thomas; A Lonely Passage e Call Of The Raven Moon costituiscono, all’interno del disco, due parentesi intimistiche nelle quali il vocalist recita i propri testi melanconici adagiandoli su un delicato tessuto di arpeggi chitarristici.
A Father’s Providence appartiene alla categoria dei brani più movimentati dei maestri danesi, in questo simile a “Pretend” e “Murky Waters” del precedente disco, mentre Mourning Sun costituisce il picco qualitativo dell’album, con le sue atmosfere leggermente più cupe rispetto al contesto complessivo, graziate da una chitarra solista che ricama melodie di mesta bellezza e con un Thomas che sfodera un’interpretazione di rara intensità.
Forest Of Insomnia e Between chiudono il disco così com’era cominciato e l’ultimo minuto di Saturn In Ascension vede Rune ergersi per l’ultima volta sul proscenio con una linea melodica che commuoverebbe anche il più efferato dei serial killer …
Dopo settanta minuti di poesia allo stato puro, bisogna però dire che appare piuttosto opinabile la scelta di inserire come bonus track “Limbs Of Crystal Clear”, primo brano in ordine temporale pubblicato dai Saturnus e presente sul demo d’esordio datato 1994: un’operazione alla quale possiamo assegnare un significato quasi “archeologico” considerando la distanza, non solo temporale, tra questa vecchia traccia e quelle attuali.
A chi dovesse possedere, quindi, questa versione dell’album, consiglio vivamente di staccare il lettore dopo l’ultima nota di Between per conservare il più a lungo possibile la magia indotta dall’ascolto degli otto brani inediti, riservandosi magari di prestare orecchio in un secondo tempo a questa tangibile testimonianza di quella che è stata l’evoluzione stilistica della band.
Saturn In Ascension è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic; un altro lavoro superbo per una band straordinaria alla quale chiediamo solo, cortesemente, di non farci attendere fino al 2018 per un nuovo disco …

Tracklist :
1. Litany of Rain
2. Wind Torn
3. A Lonely Passage
4. A Father’s Providence
5. Mourning Sun
6. Call of the Raven Moon
7. Forest of Insomnia
8. Between

Line-up :
Brian Hansen – Bass
Thomas Jensen – Vocals
Henrik Glass – Drums
Rune Stiassny – Guitars, Keyboard
Mattias Svensson – Guitars

Worship – Terranean Wake

I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile

I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile; i tedeschi fanno propria la lezione dei padri Thergothon (sentitevi la loro versione di “Evoken” nello splendido album tributo alla seminale band finlandese) portandone alle estreme conseguenze il rallentamento dei suoni, aspetto, questo, che potrebbe apparire paradossale se pensiamo che la caratteristica peculiare del funeral è proprio la dilatazione ossessiva delle note.

In attività ormai da oltre un decennio, i Worship con Terranean Wake sarebbero in teoria solo al loro secondo full-length, dopo l’ormai lontano “Dooom” del 2007, ma di fatto, il demo d’esordio “ Last Tape Before Doomsday” (1999) viene considerato alla stregua di un album vero e proprio, essendo stato unanimemente individuato come l’autentico manifesto musicale del combo bavarese.
Probabilmente la storia di questa magnifica realtà musicale sarebbe stata diversa se nel 2001 uno dei due membri fondatori, Max Varnier, non si fosse tragicamente tolto la vita. Rimasto senza il suo compagno d’avventura, Daniel “The Doommonger” Pharos ha atteso ben sei anni prima di dare alle stampe il magnifico “Dooom”, che presentava anche le versioni ultimate di alcuni brani incompiuti composti da Max. Dopo aver ricostituito una line-up completa, Daniel in questo Terranean Wake propone materiale del tutto inedito e, soprattutto, di produzione recente.
Nonostante questo, il particolare trademark della band tedesca non viene certamente meno e, a mio avviso, voler paragonare questa uscita a quelle precedenti appare un’operazione tutto sommato superflua: del resto il funeral dei Worship resta, come in passato, quanto di più simile possa esistere in campo musicale alla rappresentazione degli ultimi ansiti vitali di un organismo morente. Note dilatate all’inverosimile paiono essere ogni volta il preludio della fine, offrendo un senso di autentico soffocamento salvo poi arrancare anelando l’ultima particella d’ossigeno nel ripartire per l’ennesimo ciclo di questa interminabile agonia. Personalmente ritengo la creatura di Daniel Pharos qualcosa di unico, non solo nel variegato panorama metal, ma anche in quello più ristretto del doom estremo: chi si cimenta nell’ascolto dovrà percorrere una strada lunga, tortuosa e lastricata di sofferenza; ogni volta si proveranno sensazioni diverse rispetto all’occasione precedente, non sempre in senso positivo, giacché la diversa predisposizione d’animo con la quale ci si approccia ai Worship può determinare indifferentemente una dipendenza assoluta o un rifiuto totale e incondizionato.
Resta comunque, come punto fermo, l’elevato valore di un disco suonato e composto da musicisti perfettamente consci di presentare un lavoro dal target quanto mai ristretto e dedicato a pochi ma devoti appassionati.
Tide of Terminus, The Second Coming Apart, Fear Is My Temple e End of an Aeviturne sono solo i diversi titoli che separano in quattro parti un monolite di dolore rappresentato in maniera impietosa, senza alcun intento né effetto catartico: una fine ineluttabile, lenta e spaventosa, attende prima o poi ciascun essere pensante e (apparentemente) vivente su questo pianeta, e i Worship ce lo ricordano utilizzando per i loro testi ben tre lingue diverse (inglese, francese e tedesco) nel corso di Terranean Wake , quasi a voler essere certi che il loro messaggio di desolante rassegnazione giunga più efficacemente a destinazione …

Trackist :
1. Terranean Wake I – Tide of Terminus
2. Terranean Wake II – The Second Coming Apart
3. Terranean Wake III – Fear Is My Temple
4. Terranean Wake IV – End of an Aeviturne

Line-up :
The Doommonger – Guitars (lead), Vocals
Satachrist –  Guitars (rhythm)
Gravedrummer – Drums
Doomnike – Bass

Narrow House – A Key To Panngrieb

“A Key To Panngrieb” si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza

I Narrow House appartengono alla nutrita schiera di band dedite a sonorità funeral doom che, in questi ultimi anni, stanno emergendo dai territori dell’ex-Unione Sovietica.

I nostri, nello specifico, arrivano dalla capitale dell’Ucraina, Kiev, e con A Key To Panngrieb pubblicano il loro esordio assoluto; in casi come questi non è infrequente imbattersi in lavori a dir poco minimali oppure suonati in maniera approssimativa e prodotti ancora peggio.
Per fortuna tutto ciò non accade ai Narrow House, che propongono un buonissimo disco ricco di atmosfere tetre quanto eleganti, andandosi a collocare non troppo lontano dalle quanto già fatto dagli ex-connazionali Comatose Vigil e, quindi, mostrando tutta loro devozione verso gli Skepticism, autentici numi tutelari di questa variante atmosferica del funeral.
Nell’esaminare l’album, si nota che i primi tre brani (i titoli in inglese sono frutto di una libera traduzione dal cirillico, quindi non è detto che siano corretti al 100%), nell’arco di mezz’ora abbondante di musica si mantengono abbondantemente all’interno dei binari tracciati da molte altre band, ma non per questo il lavoro del quartetto ucraino deve essere trascurato, tutt’altro: il suono mantiene costantemente un preciso disegno melodico grazie ad atmosfere struggenti sulle quali troneggia il growl maligno di Yegor.
Un discorso a parte va fatto per il quarto e ultimo brano che, in effetti, mostrerebbe interessanti elementi di discontinuità rispetto al resto delle tracce, se non si trattasse della cover (ben camuffata inizialmente dal solito titolo in cirillico) di “Beneath This Face” degli Esoteric.
Complessivamente A Key To Panngrieb si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza; inoltre, considerando che il contenuto di questo lavoro è frutto di una gestazione durata circa due anni e che, nel frattempo, la band ucraina può e deve essere ulteriormente maturata, mi sento di scommettere qualche euro su un prossimo full-length in grado davvero di lasciare il segno.

Tracklist :
1. The Last Refuge
2. Psevdoryatunok
3. The Glass God
4. Beneath This Face

Line-up :
Atya – Keyboards
Yegor Bewitched – Vocals, Bass
Oleg Merethir – Guitars
Petro Arhe – Drums
Alexander – Cello

NARROW HOUSE – Facebook

Dawn Of Winter – The Skull Of The Sorcerer

Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.

I Dawn Of Winter appartengono alla categoria delle band di culto, ovvero sconosciute ai più ma con uno zoccolo duro di sostenitori, caratteristica accentuata da una produzione piuttosto avara considerando i due soli full-length pubblicati in oltre un ventennio di attività.

Proprio in occasione del ventiduesimo anno di fondazione della band, i doomsters tedeschi hanno dato alle stampe questo Ep che ne conferma lo status offrendo una ventina di minuti di musica del destino di ottima qualità. L’elemento di spicco della band è il vocalist Gerrit Mutz, più conosciuto nell’ambiente per le sue performance con i Sacred Steel, anche se a mio avviso è proprio con i Dawn Of Winter che offre il meglio delle proprie capacità, forse perché un genere come il doom lo costringe in qualche modo a una prestazione più sobria e controllata rispetto a quanto abituato a fare allorchè si trova alle prese con il power metal. Infatti Gerrit riesce a conferire al suo operato, senza strafare, una discreta varietà vocale, passando dalle timbriche evocative e stentoree di stampo Marcolin o Lowe a quelle più rabbiose che gli sono abituali in altri contesti, spesso facendolo all’interno della medesima strofa: l’effetto si rivela davvero interessante e fornisce un piccolo elemento di novità in un lavoro che, al contrario, è perfettamente in linea con i dettami del genere. Candlemass, Solitude Aeturnus e Pentagram sono i termini di paragone più calzanti per il contenuto musicale di questi quattro brani, neppure troppo lunghi per gli standard tipici del doom; mentre le due tracce più brevi Dagon’s Blood e By the Blessing of Death si rivelano maggiormente dinamiche e ritmate, la title track e In Servitude to Destiny mostrano il lato più tormentato e malinconico del quartetto tedesco e ci fanno rimpiangere che questo sia solo un breve Ep e non un album completo. Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.

Tracklist :
1. Dagon’s Blood
2. The Skull of the Sorcerer
3. By the Blessing of Death
4. In Servitude to Destiny

Line-up :
Gerrit P. Mutz – Vocals, Guitars
Joachim “Bolle” Schmalzried – Bass
Jörg M. Knittel – Guitars
Dennis Schediwy – Drums

Forgotten Tomb – And Don’t Deliver Us From Evil

“… And Don’t Deliver Us From Evil” è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore

I Forgotten Tomb del 2012 non sono più quelli di “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground” e, messa giù così, quest’affermazione appare terribilmente scontata, se non corrispondesse al pensiero ricorrente di chi ritiene che lo spirito originario della creatura di Herr Morbid sia andato irrimediabilmente perduto.

La realtà è che quest’ultimo lavoro rappresenta la naturale evoluzione di “Negative Megalomania” e trae il meglio anche da un disco controverso come “Under Saturn Retrograde”, offrendo come risultato un’opera matura e coinvolgente. Se vogliamo trovare un parallelismo, la parabola artistica dei Forgotten Tomb può essere tranquillamente accostata a quella degli Shining: partendo da un depressive black intriso di doloroso rancore verso l’umanità, Marchisio e Kvarforth sono approdati a una forma musicale dall’approccio meno estremo che i fan più intransigenti hanno interpretato come una sorta di tradimento, ma che in realtà è frutto della naturale evoluzione artistica dei due musicisti. Non necessariamente l’approdo a sonorità in apparenza più fruibili equivale a un decadimento qualitativo della proposta, chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo ottimo disco degli Swallow The Sun, tanto per citare un esempio, capirà bene ciò che intendo. … And Don’t Deliver Us From Evil, si apre con Deprived, brano tipico degli ultimi Forgotten Tomb, decisamente piacevole pur senza entusiasmare; ben diversa è la title-track, un prototipo di black metal ammantato di atmosfere oscure e del tutto privo di qualsiasi apertura a sonorità più orecchiabili. Cold Summer è un altro brano nel quale le tenebre prevalgono sulla luce, assecondate da pesanti riff di stampo doom; Let’s Torture Each Other è un altro brano “normale”, sulla falsariga dell’opener, ma con Love Me Like You’d Love The Death e le sue atmosfere cariche di tensione emotiva, con un finale affidato a una chitarra in grado di tessere passaggi ricchi di pathos, la qualità dell’album si impenna nuovamente restando di elevato livello fino alla sua conclusione. Parlando di Adrift è facile pronosticare che si tratterà del brano destinato a destare le maggiori perplessità nei puristi: la voce pulita conduce un ritornello decisamente “catchy”, contrapponendosi alle consuete, ruvide, vocals di Herr Morbid e a un tessuto musicale tutt’altro che rassicurante. Nullifying Tomorrow chiude il lavoro nel suo formato classico (la versione digipack include la cover di Transmission, superfluo dire di quale band, mentre Sore dei Buzzov’en è la bonus track nel vinile) incarnando, di fatto, il trademark del suono attuale dei Forgotten Tomb. … And Don’t Deliver Us From Evil è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore: se ciò consentirà ai Forgotten Tomb di accedere a nuovi fans, pur perdendone per strada qualcuno tra i vecchi, lo vedremo nei prossimi mesi, di sicuro questo è un disco che tende a crescere ad ogni ascolto nonostante un’apparente maggiore fruibilità rispetto alle produzioni più datate.

Tracklist :
1. Deprived
2. …And Don’t Deliver Us from Evil…
3. Cold Summer
4. Let’s Torture Each Other
5. Love Me Like You’d Love the Death
6. Adrift
7. Nullifying Tomorrow

Line-up :
Herr Morbid -Guitars, Vocals
Algol – Bass
A. – Guitars
Asher – Drums

The Howling Void – The Womb Beyond The World

Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto

I The Howling Void, progetto funeral doom del musicista statunitense Ryan, apparvero sulle scene nel 2009 con lo splendido “Megaliths Of The Abyss” sorprendendo per la capacità di amalgamare alla perfezione le sonorità plumbee che il genere richiede con eccellenti aperture melodiche.

Il successivo “Shadows Over the Cosmos” segnò una stagnazione nel processo creativo della one-man band americana, un po’ perché, dopo un esordio di tale livello, le aspettative erano decisamente alte ma, soprattutto, lo sviluppo dei brani denotava una certa staticità, quasi come se la progressione sonora fosse stata inibita dalla volontà di creare un suono affidato ad atmosfere maggiormente oppressive e allo stesso tempo più ponderate.
Nel frattempo Ryan è ulteriormente migliorato nell’esecuzione strumentale e l’attuale produzione rende i suoni decisamente più puliti; questa premessa farebbe presagire, per questo full-length, quel definitivo salto di qualità che ci si attendeva: purtroppo ciò non avviene, nonostante The Womb Beyond The World si riveli comunque di maggior spessore rispetto alla precedente uscita.
La sensazione è che la freschezza dell’esordio sia andata definitivamente perduta, a scapito di una scelta compositiva che ha portato i The Howling Void a focalizzare l’attenzione su partiture di tastiera ripetute in maniera quasi ossessiva, con frequenti sconfinamenti nell’ambient (ne sia prova il brano di chiusura Eleleth).
Le tre lunghe tracce che costituiscono l’ossatura del disco presentano un andamento in fotocopia: un’affascinante parte iniziale, che si protrae per diversi minuti, lasciandoci sospesi fino all’epilogo nella vana attesa della scintilla, di un qualcosa che renda il brano memorabile.
Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto; a conti fatti finisce per collocarsi in una sorta di terra di nessuno privo com’è, da un lato, del dolente senso melodico degli Ea e, dall’altro, troppo atmosferico per avvicinarsi al tetro incedere dei Krief De Soli, tanto per citare due maniere diametralmente opposte di ma ugualmente efficaci di interpretare il funeral doom.
A Ryan sembra essere venuto meno ciò che gli era riuscito con “Megaliths …” ovvero la realizzazione di una comunicazione empatica con l’ascoltatore; è probabile, temo, che la strada intrapresa con The Womb Beyond The World sia quella definitiva ma, il fatto che il musicista texano sia stato capace di produrre un disco intenso e del tutto convincente solo tre anni fa, consente di sperare che quanto mostrato nelle due uscite successive sia riconducibile a un momentaneo calo di ispirazione e che i The Howling Void siano, in futuro, nuovamente in grado di stupire.

Tracklist :
1. The Womb Beyond the World
2. The Silence of Centuries End
3. Lightless Depths
4. Eleleth

Line-up :
Ryan

Obscura Amentia – Ritual

Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Gli Obscura Amentia sono un duo composto da Black Charm (che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione delle percussioni, affidate a una drum-machine) e da Hel (female scream): attivi dal 2010, con “Ritual” giungono al secondo full-length.

La loro musica, tanto per fornire un’idea di massima, ci riporta alle sonorità dei Dark Funeral, quindi si parla di black metal devoto alla tradizione ma senza che, per questo, venga trascurato il senso della melodia, sempre ben presente grazie ad efficaci linee di chitarra.
La band novarese propone un lavoro di buon livello, anche se qualche lieve pecca, per lo più addebitabile alla produzione, finisce per inficiarne parzialmente la resa finale: per esempio la voce di Hel, sia per una registrazione che la relega quasi in secondo piano, sia per una minore incisività che spesso accomuna le cantanti alle prese con scream e growl, non sempre si rivela in tutta la sua possibile efficacia.
Tutto sommato, invece, non ritengo così deprecabile l’uso della drum machine, pur essendo evidente che una batteria “umana” sia pur sempre preferibile, mentre il super lavoro strumentale al quale si sottopone Black Charm si rivela assolutamente appropriato.
Ritual è un disco che non delude, per la sua integrità stilistica e per il suo proporsi monolitico, cosa che a mio avviso più che un difetto ne costituisce la forza: se si eccettua la bellissima title track, che si staglia sul resto dell’album, marchiata a fuoco com’è da un riff ossessivo quanto coinvolgente, gli altri brani si sviluppano su coordinate piuttosto simili, creando però un impatto d’insieme nient’affatto trascurabile.
Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Tracklist :
1. The Citadel Of Beleth
2. Mirror Of Sorrow
3. Ritual
4. Lost In The Reflection Of Moon
5. Mater Hiemalium
6. Descend The Chaos
7. Ominous Herald
8. Silence (A Reminder Of Death)
9. Last Rite

Line-up :
Black Charm – Guitars, Keyboards, Bass
Hel – Vocals

General Lee – Raiders Of The Evil Eye

I General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di “Raiders Of The Evil Eye”

Quando si cita il Generale Lee i più colti penseranno subito al comandante delle forze confederate durante la guerra di secessione, mentre i meno colti e meno giovani (come il sottoscritto) andranno con la mente alla mitica auto usata dai protagonisti del telefilm anni ’80 Hazzard; quale che sia la derivazione del monicker, i General Lee sorprendentemente non arrivano dal profondo sud degli States ma da Bethune, cittadina di provincia situata nel nord della Francia.

Dopo questa amena digressione storico geografica, arriviamo al dunque dicendo subito che questo disco è semplicemente favoloso e il fatto che, nonostante questo, nessuna etichetta si sia presa la briga di produrlo è uno degli ennesimi misteri da affidare a “Kazzenger” …
I sei ragazzi transalpini si muovono nei vasti territori, dai confini piuttosto labili, del post-metal ma il tutto avviene in maniera così fresca, spontanea ed intensa che i brani finiscono per sgorgare con un’immediatezza rara per le abitudini del genere .
Prendendo come termine di paragone un altro dei dischi più riusciti negli ultimi tempi in tale ambito, “Faemin” dei Process Of Guilt, risalta subito la diversa matrice delle due band: mentre i portoghesi affondano le proprie radici nel death doom, i francesi inglobano nella loro proposta evidenti influssi hardcore.
Dato che l’esito finale è eccellente in entrambi i casi, si può tranquillamente affermare che le vie per arrivare all’eccellenza possono essere sì differenti, ma sempre accomunate dal talento e dalla costante voglia di evolversi.
I General Lee esprimono tutto il loro livore nei confronti del mondo che li circonda in sette tracce di media durata tre le quali risplende come una supernova l’anthemica The End Of Bravery, da cantare a squarciagola come del resto fa il bravo Arnaud. Non che il resto del disco sia da meno, basta ascoltare l’opener The Witching Hour dove l’aggressione vocale e sonora viene bilanciata da una chitarra solista che traccia linee melodiche da brividi, Medusa Howls With Wolves prosegue sulle medesime coordinate, mentre sia Alone With Everybody sia la strumentale Overwhelming Truth rallentano decisamente l’andatura, collocandosi su terreni meno abrasivi. Già detto di The End Of Bravery, anche LVCRFT presenta atmosfere più introspettive pur mantenendo sempre elevata l’intensità emotiva, mentre Running With Sharp Scissors, dopo una sparata iniziale chiude l’album con un bel finale intriso di malinconia.
Francamente questo lavoro è una vera sorpresa, oltre che un’autentica ventata d’aria fresca, in un genere che vede troppe band esprimere un sound che implode al proprio interno, senza riuscire a rappresentare in maniera compiuta il malessere che ne costituisce le fondamenta.
Cosa che non succede ai General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di Raiders Of The Evil Eye, confermando che il dono della sintesi è un valore aggiunto in qualsiasi attività, artistica e non.
Da ascoltare e supportare, assolutamente !

Tracklist :
1. The Witching Hour
2. Medusa Howls With Wolves
3. Alone With Everybody
4. Overwhelming Truth
5. The End of Bravery
6. LVCRFT
7. Running With Sharp Scissors

Line-up :
Arnaud – vocals
Vincent – bass
Paul – drums
Fabien – guitar
Martin – guitar
Alex – guitar

Dead Summer Society – My Days Through Silence

A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.

A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.

Per l’occasione Mist recupera e rielabora alcuni dei brani presenti in forma strumentale nel demo del 2010 “The Heart Of Autumnsphere” arricchendoli con la voce di Trismegisto (Cult Of Vampyrism), già ospite nel recente lavoro: il risultato è una piccola gemma di gothic doom che non fa che confermare quanto già recentemente espresso in sede di recensione sulla bontà dell’operato del musicista molisano.
Chiaramente, l’operazione non può discostarsi dal quadro complessivo fornito dalle precedenti uscite, pertanto ci troviamo di fronte a composizioni nelle quali, spesso, ai delicati arpeggi di Mist fanno da contraltare un abrasivo screaming o una profonda voce pulita, il tutto funzionale alla creazione di atmosfere intense ed emozionanti.
The Heart Of Autumnsphere e la title track sono brani emblematici in questo senso e, nonostante la loro natura di brani metal, si rivelano in realtà due preziosi affreschi sonori che non ci si stanca mai di ascoltare; leggermente diversa Army Of Winter (che nell’occasione è oggetto di una terza rielaborazione visto che il brano faceva parte anche di “Visions From A Thousand Lives”) per il suo andamento ritmico che richiama, almeno inizialmente, gli inarrivabili Katatonia di “Brave Murder Day”.
Endless è un breve strumentale, dalle iniziali pulsioni elettroniche, posto in chiusura di un lavoro breve ma che lascia intravvedere le enormi potenzialità dei Dead Summer Society; attendiamo quindi con fiducia la prossima prova su lunga distanza.

Tracklist :
1. The Heart of Autumnsphere
2. My Days through Silence
3. Army of Winter (March of the Thousand Voices)
4. Endless

Line-up :
Mist – All Instuments
Trismegisto – Vocals

Fuoco Fatuo – 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero

Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma

Fuoco Fatuo è un gran bel nome per una band, soprattutto quando questo si addice allo stile musicale prescelto: l’immagine delle fiamme che scaturiscono da terreni paludosi si sposa alla perfezione col sound fangoso del trio varesino; ma anche il senso di precarietà che questo monicker simboleggia, alla fine, costituisce une dei temi portanti del doom metal, con la sua eterna rappresentazione del dolore e della caducità dell’esistenza.

I tre brani contenuti in questo breve Ep costituiscono un efficace esempio del potenziale di questa band di recente formazione: in 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero (anche il titolo non è niente male …) confluiscono diverse influenze, dal black metal, che si evidenza in certe accelerazioni e nell’uso delle voci, al dark e all’heavy di stampo esoterico tipico della scuola italiana (Malombra, Death SS), fino allo sludge, pesante e grumoso come deve essere.
L’abisso ci porta (e non poteva essere diversamente) nei gorghi più oscuri della psiche con le sue chitarre ronzanti e i repentini rallentamenti prima di lasciare spazio in chiusura a un conturbante hammond.
Vuoto Nero è una traccia che, pur essendone l’ideale continuazione, risulta molto più opprimente del brano che la precede, caratterizzata com’è da un doom scarno e quasi primordiale; il viaggio dilaniante e allucinato si chiude con la title track che si mantiene su coordinate devote a un’oscurità totalizzante, squarciata sporadicamente da efficaci parti di tastiera volte a spezzare temporaneamente l’accerchiamento prodotto da sonorità ruvide e minacciose.
Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma; peccato solo che il growl e lo scream del bravo Milo non sempre rendano sufficientemente comprensibili i testi redatti in italiano.
In definitiva questo Ep si rivela un assaggio esaustivo di quella che potrà essere in futuro la proposta dei Fuoco Fatuo, in special modo se, come ci auguriamo, riscuoteranno l’attenzione di qualche etichetta specializzata del settore.

Tracklist :
1. L’Abisso
2. Vuoto Nero
3. 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale

Line-up :
Milo chitarra-voce
Ken basso
Fabrizio batteria

 

Embrace Of Silence – Leaving The Place Forgotten By God

Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.

Positivo esordio su lunga distanza degli ucraini Embrace Of Silence, alle prese con un death doom di matrice classica, dagli ovvi rimandi ai capiscuola del genere.

Il fatto che il precedente Ep fosse una raccolta di cover che iniziava proprio con due brani dei My Dying Bride fa intuire senza difficoltà il tipo di sound contenuto all’interno di Leaving The Place Forgotten By God.
Però, a differenza di quanto fatto recentemente dai compagni di etichetta Graveflower, la band originaria di Izmail non riproduce in maniera così fedele il sound dei maestri britannici bensì segue una linea leggermente più personale, sia per il ricorso alternato di growling e screaming, evitando quindi le sofferte clean vocals in stile Stainthorpe, sia soprattutto per le sonorità meno introspettive e malinconiche e senz’altro più dirette.
Non che qui l’allegria regni sovrana, ovviamente: il mood è appropriato al genere proposto ma, piuttosto che utilizzare note dolenti di violino o pianoforte, i ragazzi ucraini costruiscono i loro brani su efficaci linee di chitarra.
La condivisibile scelta di proporre un lavoro dalla durata inferiore ai tre quarti d’ora rende meno complesso l’ascolto di Leaving …, facendo sì che la musica scorra in maniera fluida e sempre godibile.
Tutti i brani si collocano ampiamente al di sopra di un’ampia sufficienza ma, tra questi, vanno segnalati gli ottimi Way To Salvation, con la sua sapiente alternanza tra accelerazioni e rallentamenti, sempre contraddistinti da ficcanti melodie, e la traccia di chiusura I’m Your Jesus, nella quale le chitarre si ergono ancora ad assolute protagoniste.
Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.
Embrace Of Silence: un nome da tenere d’occhio nel prossimo futuro.

Trackist :
1. In Gloom of Somnolent Night
2. The Slave of Forgotten Graves
3. The Gates of Remembrance
4. Silent Voice, Empty Words
5. Way to Salvation
6. In Angel’s Hand
7. I’m Your Jesus

Line-up :
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Eugenia Krapivina – Violin, Keyboards
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Andrey Lyhorod – Drums

Officium Triste / Ophis – Immersed

L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.

L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.

La prima coppia di brani è ad opera degli olandesi Officium Triste, con i quali viene esplorato il versante più melodico del genere; avendo a che fare con una band formatasi a metà degli anni ’90, ascoltando tracce come Repent e Bittersweet Memories non si può certo relegare i nostri al semplice ruolo di epigoni, in considerazione di un percorso musicale pressoché parallelo a quello dei Saturnus, tanto per citare un nome a caso ….
Il secondo dei due brani, in particolare, appare senza dubbio il migliore, grazie alle atmosfere malinconiche e decadenti che la band guidata da Pim Blankenstein riesce a proporre con buon gusto e grande perizia tecnica.
Si potrebbe obiettare che nulla è cambiato rispetto all’ultimo full-length, risalente ormai a cinque anni fa, ma in ambito doom questo non sempre è un difetto, anzi; è lecito affermare, quindi, che gli olandesi consolidano il loro status di band equilibrata, affidabile e mossa da una genuina passione per questo genere musicale.
Diverso, invece, il discorso per i più giovani tedeschi Ophis, i quali hanno all’attivo due ottimi dischi pubblicati in epoca relativamente recente che mostrano una lenta ma costante evoluzione stilistica.
Qui le melodie evocative dei loro compagni d’avventura lasciano il posto a partiture più massicce, contraddistinte da riff granitici e dall’uso costante di vocals ruvide, con l’alternanza di growl e screaming: Storm of Shards si spinge talvolta su territori post-metal analogamente a quanto fatto qualche mese fa dai Process Of Guilt, pur conservando in maniera più marcata rispetto ai portoghesi la propria matrice death-doom, mentre The Mirthless presenta rallentamenti più canonici ma non meno claustrofobici, senza disdegnare l’inserimento di funerei passaggi di chitarra solista.
Ottima prova, quindi, peccato solo per la resa sonora differente dei brani degli Ophis rispetto a quelli degli Officium Triste, aspetto che si percepisce maggiormente proprio potendo fare un confronto immediato nel passaggio dalla seconda alla terza traccia.
Traendo le conclusioni ci troviamo di fronte a un interessante esempio di come si possa produrre musica di uguale valore affrontando un genere simile ma con un diverso approccio. Non ci resta che attendere le due band a una nuova prova su lunga distanza per ricevere un’ennesima conferma delle buone impressioni fornite da questo split album.

Tracklist :
1. OFFICIUM TRISTE – Repent
2. OFFICIUM TRISTE – Bittersweet Memories
3. OPHIS – Storm of Shards
4. OPHIS – The Mirthless

Line-up :
OFFICIUM TRISTE
Lawrence Meyer – Bass
Niels Jordaan – Drums
Pim Blankenstein – Vocals
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard – Guitars
Bram Bijlhout – Guitars

OPHIS
Philipp Kruppa – Vocals, Guitars, All instruments
Nils Groth – Drums
Oliver Kröplin – Bass
Martin Reibold – Guitars

Tempestuous Fall – The Stars Would Not Awake You

Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tempestuous Fall è la nuova incarnazione del musicista australiano Dis Pater, conosciuto finora nell’ambiente per il suo progetto principale Midnight Odyssey.

Se i lavori pubblicati con questo monicker sono sempre stati all’insegna di un affascinante black ambient, The Stars Would Not Awake You esplora gli oscuri meandri dei territori funeral-death doom, dando libero sfogo a quelle influenze primigenie che, a detta dello stesso autore, per qualche insondabile motivo fino a oggi non avevano trovato il loro naturale sbocco.
Il risultato è davvero apprezzabile anche perchè, nonostante il dichiarato riferimento ai lavori di My Dying Bride e Anathema degli anni ’90, l’album si sviluppa su coordinate tutt’altro che scontate nel corso della sua ora abbondante di durata distribuita su cinque lunghi brani, trovando i suoi picchi qualitativi nell’opener Old & Grey e nel brano di chiusura A Cold Stale Goodbye.
Nel primo caso colpiscono il grande gusto melodico e le clean vocals evocative, mentre nel secondo le atmosfere si fanno maggiormente plumbee e chiaramente di stampo funeral, con un sound che riporta direttamente ai mitici Thergothon.
In questo senso anche la title-track si rivela traccia di grande qualità, soprattutto quando un solenne assieme di chitarra, tastiere e growl irrompe brutalizzando letteralmente i delicati passaggi pianistici, mentre sia Beneath a Stone Grave che Marble Tears contribuiscono a mantenerne elevato il livello medio dell’intero lavoro.
Tenendo conto del fatto che Dis Pater si cimenta per la prima volta con questo genere e che l’album è uscito contemporaneamente a un lavoro immenso come “Atra Mors” degli Evoken, si può tranquillamente affermare che The Stars Would Not Awake You non esce affatto schiacciato dal confronto, inserendosi, invece, sulla scia dei maestri statunitensi grazie a un songwriting ispirato e tutt’altro che di maniera.
Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tracklist :
1. Old & Grey
2. Beneath a Stone Grave
3. Marble Tears
4. The Stars Would Not Awake You
5. A Cold Stale Goodbye

Line-up :
Dis Pater – Vocals, All Instruments