Vardis – Red Eye

Un gradevole tuffo nel passato, anche se non mancano motivi per apprezzarlo sia nel presente che nel futuro

Il trio proveniente dal Regno Unito, composto oggi dal talentuoso chitarrista/cantante Steve Zodiac e dalla sezione ritmica che vede Joe Clancy alle pelli e Martin Connolly al basso (che ha sostituito dopo l’uscita dell’abum Terry Horbury, putroppo scomparso lo scorso dicembre), può tranquillamente essere considerato un gruppo storico del metal/rock ottantiano anche se discografia non è così colma di full length (Red Eye è il quarto) in quanto la band ha interrotto le uscite discografiche per un lungo periodo tra il 1986 ed il 2015.

L’attività è iniziata nel lontano 1979 e la prima metà del decennio successivo ha visto i Vardis impegnati nel produrre tre lavori su lunga distanza, The World’s Insane nel 1981, Quo Vardis l’anno dopo e l’ultima prova nel 1986, quel Vigilante che rimase per molto tempo il testamento discografico della band.
Red Eye segna il ritorno sulle scene del trio anglosassone, una macchina di metal/rock dalle forti influenze blues, pregna di micidiale groove e di riff che si modellano su un hard rock tra Ac/Dc e Status Quo.
Rock vecchio stile, insomma, che trasuda rock’n’roll potente e tanto divertimento, affiancato da una componente metallica pescata a piene mani dalla new wave of british heavy metal, genere in cui i Vardis si rispecchiano a sufficienza.
L’album risulta una buona mazzata hard rock, la sei corde, a tratti hendrixiana è l’assoluta protagonista delle canzoni che compongono il lavoro, impetuosa, tremendamente blues ma graffiante quando Zodiac la fa urlare di orgoglio metallico.
Red Eye è un album old school, suonato, cantato e vissuto da musicisti che di anni di musica alle spalle ne hanno da vendere, e le sanguigne Paranoia Strikes, The Knowledge, l’irresistibile di Back To School e l’ammiccante Head Of The Nail, brano che porta Angus Young a suonare negli Status Quo, non potranno che far luccicare di nostalgia gli occhi a chi, a dispetto degli anni, hanno ancora voglia di sentire del sano rock.
L’album prende quota quando il vecchio blues prende le redini del sound e ne escono brani travolgenti come Hold Me, un ritorno nelle strade polverose in cui i fantasmi del passato vi prenderanno per mano accompagnadovi davanti a chi offre il successo in cambio della dannazione eterna.
Detto della produzione perfetta e corposa, della sezione ritmica che asseconda il chitarrista con una prova tutta grinta e sudore, ed un lotto di brani che si mantengono di buon livello, non mi rimane che consigliarvi questo tuffo nel passato, anche se i motivi non mancano per apprezzarlo sia nel presente che nel futuro.

TRACKLIST
1. Red Eye
2. Paranoia Strikes
3. I Need You Now
4. The Knowledge
5. Lightning Man
6. Back to School
7. Jolly Roger
8. Head of the Nail
9. Hold Me
10. 200 M.P.H.

LINE-UP
Steve Zodiac -Guitar, Voice
Joe Clancy – Drums
Terry Horbury – Bass

VARDIS – Facebook

Attalla – Attalla

Il risultato è una macchina di suono in veloce e poderoso movimento verso di voi, per aumentare il vostro trip lisergico che qui è garantito.

Attacco sonoro con trip power lisergico dalle lande del Wisconsin. Debutto per questo quartetto americano che usa riffoni potenti e calibrati per portare l’ascoltatore su di un altro piano dimensionale.

Per realizzare il loro piano di straniamento musicale gli Attalla usano l’hard rock, un doom bello duro e cadenzato e anche un bel pò di tenebre.
I titoli dell tracce sono brevi e stringati poiché l’attenzione maggiore deve essere sulla musica, ed ascoltandoli gli Attalla attirano benissimo al nostra attenzione. Sono retrò senza esagerare, hanno un impianto sonoro che è stato costruito negli anni settanta, ma lo attualizzano molto bene. La durezza della loro musica è molto ben calibrata, non esagerano, armonizzandola con la voce che è molto valida. Il risultato è una macchina di suono in veloce e poderoso movimento verso di voi, per aumentare il vostro trip lisergico che qui è garantito. Ottimo debutto, disponibile in cd, cassetta e digitale.

TRACKLIST
1.Light
2.Haze
3.Lust
4.Thorn
5.Veil
6.Doom

LINE-UP
Cody Stieg – Lead Guitar/Vocal
Brian Hinckley – Rhythm Guitar
Bryan Kunde – Bass
James Slater – Drums

ATTALLA – Facebook

Stonewall Noise Orchestra – The Machine, The Devil & The Hope

The Hope si candida come una delle migliori uscite targate Steamhammer/SPV in ambito classic e hard rock

Che la penisola scandinava sia una terra molto ricettiva per i suoni hard rock non è certo una novità, storicamente la musica dura di stampo melodico e AOR ha sempre trovato terreno fertile nelle sconfinate ed innevate lande nord europee, ma ultimamente sempre più realtà di vaglia scendono verso il sud portando proprio i suoni caldi dell’hard rcok settantiano, sporcato dal blues e da reminiscenze stoner.

La Stonewall Noise Orchestra (S.N.O) sono ormai più di dieci anni che, dalla Svezia propone questo tipo di sound, vintage certo, ma terribilmente coinvolgente specialmente per chi ama i suoni rock di stampo americano.
The Machine, the Devil & the Dope è il quinto full length di questa macchina da guerra rock’n’roll, il primo lavoro datato 2005 (Vol. 1), ha dato il via ad una discografia che ha visto licenziare un album ogni due/tre anni, una buona costanza per le innumerevoli band di oggi, arrivando nel 2013 con quello che fino ad oggi era l’ultimo parto, Salvation.
Il quintetto svedese ci consegna un’altro gioiellino di classic rock, che svaria tra le atmosfere che in oltre quarant’anni hanno attraversato il genere, inglobando sfumature che vanno dal blues, allo stoner, dalla psichedelia all’hard rock sabbatico, così da comporre un album vario, pur mantenendo inalterato lo spirito vintage che contraddistingue in concept del gruppo.
Riff ora colmi di groove stonato, ora drogati di blues, un approccio ruvido reso a tratti potentissimo da mid tempo sabbathiani e tanta melodia sono la chiave di lettura di The Machine, The Devil & The Hope, una raccolta di songs che come un documentario sulla storia della nostra musica preferita vede passare in rassegna, Led Zeppelin, Black Sabbath, Soundgarden, Kyuss e Spiritual Beggars, in un viaggio temporale tra i decenni passati fino a quello attuale.
Il songwriting, così come la produzione sono a livelli sopra la media, i brani, dalla sabbathiana The Fever che apre le danze, passando dall’energico rock’n’roll di Welcome Home, dallo stoner desertico di Into The Fire, dalla splendida e travolgente Superior #1 e dalla psichedelica e liquida I,The Servant non mancano di regalare emozioni calde e sanguigne, come devono elargire opere di questo genere.
Con Jonas Kjellgren (Scar Symmetry, Carnal Forge) alla produzione e l’artwork curato da Per Wiberg (Opeth, Spiritual Beggars, Arch Enemy) The Machine, The Devil & The Hope si candida come una delle migliori uscite targate Steamhammer/SPV in ambito classic e hard rock, non fatevelo sfuggire.

TRACKLIST
1. The Fever
2. Welcome Home
3. Into the Fire
4. Don’t Blame the Demons
5. Superior #1
6. Stone Crazy
7. I, the Servant
8. On a Program
9. The Machine, the Devil & the Dope

LINE-UP
Snicken – Guitar
Mike – Guitar
Tony – Vocals
Mr Pillow – Drums
Jonas – Bass

STONEWALL NOISE ORCHESTRA – Facebook

Sixx A.M. – Prayers For The Damned Vol. 1

Stavate cercando una band da far sedere sul trono dell’hard rock mondiale? L’avete trovata.

Negli ultimi mesi non sono state poche le band tornate in campo hard rock a far parlare la propria musica, gruppi ormai famosi che hanno attraversato con alterne fortune gli ultimi vent’anni, ancora comunque tutte ben inserite in un music biz sull’orlo di una crisi di nervi, nel trovare la band trainante per tutto il movimento.

La moria delle cosidette ultime icone del rock’n’roll, ed una crisi economica mondiale che ha influito negativamente anche sul mondo musicale, stanno dando ragione (ma solo in termini economici) a chi continua a sostenere che il rock è morto, aiutati dai passi falsi delle ultime band storiche che pur di attaccarsi agli ultimi dollari si inventano collaborazioni ridicole (la storia AC/DC-Axl Rose ne è il più clamoroso esempio).
Ed allora chi prenderà per mano il rock’n’roll per accompagnarlo in questi primi anni del nuovo millennio?
I Sixx A.M., liberati dallo scioglimento dei Motley Crüe (Nikki Sixx) e dalle bizze di Axel Rose (Dj Ashba), con questo nuovo lavoro potrebbero essere tra le band cardine di questi prossimi anni a venire, intanto per il carisma dei protagonisti e poi per la qualità della musica proposta che si colloca perfettamente tra il rock tradizionale, quello più moderno ed easy listening con una componente metal, che potrebbe davvero mettere d’accordo tutti e fare del gruppo statunitense una bomba pronta ad esplodere sul mercato discografico.
Una collaborazione, quella tra il bassista dei leggendari Crüe ed il chitarrista dei fenomenali Beautiful Creatures (il loro debutto omonimo del 2001 è un capolavoro assoluto), iniziata nel 2007 per dare una colonna sonora al libro The Heroins Diaries, cronache della tossicodipendenza di Sixx che, a molti, dava l’impressione di un progetto estemporaneo, anche per il rientro in campo dei Crüe con una serie infinita di live e l’entrata del chitarrista tra le file dei gunners del solo Rose.
Non è andata così fortunatamente, ed il gruppo arriva al traguardo del quarto lavoro, il quale avrà un seguito sul finire dell’anno (Vol.2) e che succede, oltre al debutto ad altri due ottimi lavori come This Is Gonna Hurt (2011) e Modern Vintage di due anni fa.
Prayers For The Damned Vol.1 è un lavoro colmo di canzoni bellissime, con irresistibili refrain e quella vena tragica che è nel DNA della band, ed appunto una perfetta amalgama tra tradizione e modernità.
Non un brano che qualsiasi artista non venderebbe l’anima per scrivere, non un riff che non sia perfettamente inserito in un contesto che funziona, tra melodia e scintille metalliche al servizio del rock’n’roll.
Chorus che si insinuano nella testa, scavano nella mente e si costruiscono una nicchia per non uscire più, mentre le emozioni si susseguono, vagando tra queste undici canzoni che semplicemente rapiscono.
Fin dall’opener Rise è un’apoteosi di rock moderno, confermato ed accentuato da piccoli capolavori come le metalliche When We Were Gods e Belly of the Beast o alla vena drammatica e seriosa della title track, passando dall’hard rock dannatamente moderno e a stelle e strisce di I’m Sick, Everything Went To Hell (splendidamente Beautiful Creatures) e You Have Come To The Right Place.
Detto di una prova mostruosa di James Michael al microfono, del talento di un D.J Asbha che si dimostra uno dei più validi interpreti alla sei corde nel genere, oltre ovviamente di un Nikki Sixx che si fa beffe degli anni e di un passato “turbolento”, non rimane che inchinarsi davanti ad un album superbo.
Stavate cercando una band da far sedere sul trono dell’hard rock mondiale? L’avete trovata.

TRACKLIST
1. Rise
2. Have You Come The Right Place
3. I’m Sick
4. Prayers For The Damned
5. Better Man
6. Can’t Stop
7. When We Were Gods
8. Belly Of The Beast
9. Everything Went To Hell
10. The Last Time (My Heart Will Hit The Ground)
11. Rise Of The Melancholy Empire

LINE-UP
Nikki Sixx – bass guitar, backing vocals, keyboards, additional guitar
James Michael – lead vocals, rhythm guitar, keyboards
Dj Ashba – lead guitar, backing vocals

SIXX A.M. – Facebook

Vandallus – On The High Side

Un buon debutto per il gruppo di Cleveland , se siete degli attempati rocker come il sottoscritto o giovanotti dai gusti vintage, On The High Side non vi deluderà

Quando si parla di hard rock spesso si fa riferimento alla scena statunitense o a quella britannica, dimenticando colpevolmente molte band che hanno fatto la storia del rock duro provenienti da altri paesi e che hanno avuto un’importanza epocale nello sviluppo dell’hard & heavy.

Due di queste sono il power trio canadese Triumph e gli Scorpions dei fratelli Schenker, la prima spesso paragonata ai progsters Rush, anche per il paese di provenienza, la seconda regina dell’hard rock melodico europeo.
On The High Side, debutto del trio statunitense Vandallus, riprende le sonorità del gruppo canadese e le fa proprie aggiungendo melodie a frotte sotto il segno dello scorpione, confezionando un buon album vintage, sicuramente debitore nei confronti dei due mostri sacri ma composto da buone canzoni.
Attenzione però, la band non fa un passo indietro ma due, andando a riprendere il sound settantiano, specialmente per quanto riguarda la band tedesca, lasciando le produzioni patinate del periodo ottantiano, per un approccio dallo spiccato groove.
Jason Vanek si dimostra un buon cantante, personale e melodico, le chitarre scintillano sotto le dita sue e dell’altro Vanek, Shaun anche alle prese con basso e batteria, e con l’aiuto alle pelli del buon Steve Dukuslow.
Hard rock settantiano dunque, grintoso e molto melodico, con un taglio decisamente vintage, curato nel songwriting e suonato molto bene con le sei corde in evidenza, autrici di gustosi riff power e solos in linea con i chitarristi dell’epoca .
Rat è una fulminante intro che sfocia nel hard power di Break The Storm, il ritornello è pura melodia made in Scorpions e da qui in poi veniamo catapultati dalla macchina del tempo in pieni anni settanta con l’ottima title track, la semi ballad Running Lost e l’irresistibile refrain di On Top Of The World.
Un buon debutto per il gruppo di Cleveland , se siete degli attempati rocker come il sottoscritto o giovanotti dai gusti vintage, On The High Side non vi deluderà.

TRACKLIST
1. Rat
2. Break The Storm
3. On The High Side
4. Who’s Chasing Me
5. Running Lost
6. Back To The Grind
7. Get Out
8. On Top Of The World
9. A Fool You’re Right

LINE-UP
Jason Vanek – vocals, guitar
Shaun Vanek – guitar, drums, bass
Steve Dukuslow – drums

VANDALLUS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=GcC9aAlP4KM

Gallows Pole – Doors Of Perception

Una via di mezzo tra Tom Petty e l’heavy metal, così è scritto sulla presentazione dei Gallows Pole curata dalla Pure Rock , band austriaca che ha attraversato più di trent’anni di rock ai margini del giro che conta, licenziando otto album sulla lunga distanza, da In Rock We Trust del lontano 1982 a questo ottavo lavoro dal titolo Doors Of Perception.

La verità sta nel mezzo, il sound di cui si veste questo lavoro è un rock appena accentuato in qualche ritmica di chitarra, specialmente nell’opener Burn It Down, il brano più hard fra tutti quelli presenti, con un ottimo solo che effettivamente profuma di rock statunitense.
Attenzione però, il cantato sembra provenire da una band new wave ottantiana, accentuata dal controcanto profondo ma che si ispira non poco all’elettronica tedesca.
Dalla successiva Angel Eyes cambia non poco il mood del disco, dove l’acustica la fa da padrone con una serie di semiballad in cui la chitarra si approccia in modo molto timido e la voce non cambia di tono risultando monocorde e a mio parere colpevole di appiattire non poco i brani del disco.
Learn To Fly torna a donarci visioni di musica pop ottantiana, leggermente più dinamica per qualche arpeggio più grintoso.
Bring Me Through The Night ci regala qualche brivido metallico, un mid tempo dove la solista ricama una bella serie di solos, rovinata da un ritornello ripetuto e stancante.
Siamo arrivati al sesto brano, sono passati una ventina di minuti che sembrano ore, l’album non decolla e quando si vivacizza, quella sensazione di pop music rivestita di verve elettrica non dà scampo.
Il finale è lasciato alla title track , forse il brano che nei suoi nove minuti mostra un crescendo emotivo adeguato per risultare la song più riuscita dell’intero lavoro, un po’ poco per andare oltre una risicata sufficienza, tenendo conto che la band non è certo ai primi passi e la label è di quelle che difficilmente sbaglia un colpo.

TRACKLIST
1. Burn It Down
2. Angel Eyes
3. Learn To Fly
4. Watching The Sun Go Down
5. Bring Me Through The Night
6. Someday Soon
7. Your Own Demons
8. A Rainbow Just For Me
9. Doors Of Perception

LINE-UP
Alois Martin Binder – vocals, guitars, bass
Harald Prikasky – guitars
Andy Wagner – drums
Günther Steiner – keyboards
Harry “El” Fischer – guitars

GALLOWS POLE – Facebook

Brutus – Wandering Blind

Tutto funziona alla perfezione per un disco di hard blues rock che farà felice molta gente.

Terzo album per questo combo composto da due norvegesi e tre svedesi, nato per fare blues hard rock in stile anni sessanta/settanta senza compromessi.

Il revival di quell’epoca, specialmente in campo hard rock, è leggermente inflazionato negli ultimi anni, e onestamente non tutti i gruppi sono all’altezza del compito. I Brutus sono fra i migliori, se non il gruppo migliore del lotto, loro hanno davvero classe e riescono comporre canzoni bellissime ed analogiche nel dna. Il disco è stato registrato dal vivo in cinque giorni all’Engfelt & Forsgren Studios di Oslo da Christian Engflet, ottimo produttore già con Cato Salsa Experience e Big Bang. Christian ha ulteriormente arricchito il suono dei Brutus facendoli incidere il master su cassetta, con pre amplificatori d’epoca e con il suo sapiente tocco. Il risultato è un disco che trasuda passione, classe e perfetta comprensione di cosa fare. Wandering Blind è una prova maiuscola, con tutti i requisiti sia vintage che soprattutto di estrema godibilità. Non ci sono pezzi noiosi o momenti artefatti, tutto funziona alla perfezione per un disco di hard blues rock che farà felice molta gente.

TRACKLIST
1. Wandering Blind
2. Drowning
3. Axe Man
4. Whirlwind Of Madness
5. The Killer
6. Blind Village
7. Creepin
8. My Lonely Room
9. Living In A Daze

LINE-UP
Jokke Stenby
Johan Forsberg
Kim Molander
Knut-Ole Mathisen
Christian Hellqvist

Darkness Light – Living With The Danger

Ci sono parecchi dettagli da sistemare nell’economia sonora dei Darkness Light, magari lasciando il microfono ad un cantante più personale ed emozionale ed accentuando la parte più metallica, dove si riscontrano le migliori virtù.

Chi vive di sonorità hard rock e metal classiche sa molto bene di quante differenti atmosfere sia composto questo mondo musicale, all’apparenza tutte uguali ma con background molto diversi, dall’hard rock settantiano a quello statunitense del Sunset Boulevard, fino a quello europeo, tanto per citare le correnti che più hanno segnato gli ultimi quarant’anni di rock duro.

In Europa negli anni ottanta l’hard rock si accompagnò con l’allora fulminante new wave of british heavy metal, creando nuovi sottogeneri che allargarono ancora di più i confini della musica dura.
Se nel regno unito band come Rainbow e Dio, si nutrirono di atmosfere epiche, nell’Europa centrale gli storici Accept indurirono ancora di più le ritmiche, di fatto creando il power, genere figlio della scena metallica tedesca.
E dalla Germania arriva questo duo, formato nel 2011 e giunto all’esordio sul finire dello scorso anno con questo Living With The Danger.
Il duo di Augusta è composto da Cristian Bettendorf , chitarra e tastiere e Dixie Krauser, voce, basso, chitarra e tastiere: il debutto vive di alti e bassi, confrontandosi con un hard rock di stampo classico, tra ruvide reminiscenze power e metal melodico, senza dare l’impressione di affondare il colpo, rimanendo in un limbo sempre in bilico tra aggressività e melodia.
Una decina di canzoni che si perdono nei meandri della storia del genere, tra Accept, atmosfere purpleiane, accenni all’hard rock melodico britannico (Ten e Dare), ma senza brillare.
Manca il feeling per far funzionare questa raccolta di brani, importantissimo nel genere, specialmente quando le armonie prendono il comando dei brani, lasciando le asperità di un hard rock incisivo in panchina, per giocarsi la carta della melodia.
La voce ci mette del suo per non far decollare i brani, troppo monocorde e poco interpretativa e così, a parte qualche song più metallica, dove il duo se la cava, Living With The Danger scivola senza sussulti fino alla fine, con qualche sbadiglio di troppo da parte dell’ascoltatore.
Ci sono parecchi dettagli da sistemare nell’economia sonora dei Darkness Light, magari lasciando il microfono ad un cantante più personale ed emozionale ed accentuando la parte più metallica, dove si riscontrano le migliori virtù.

TRACKLIST
1. Adrenaline
2. Living With The Danger
3. Darkness Light
4. No No More
5. Bad Boys Are Better
6. Song For You
7. It Was Just Dreaming
8. For Another Sunny Day
9. Long Ago
10. Alone

LINE-UP
Dixie Krauser – Vocals, bass, keyboards, guitars
Cristian Bettendorf – Guitars, keyboards

DARKNESS LIGHT – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Midnight Sin – Never Say Never

Godiamoci le tre canzoni che compongono Never Say Never ed aspettiamo fiduciosi il nuovo full length, ci sarà da divertirsi.

Ci eravamo occupati un paio di anni fa del debutto dei Midnight Sin, uscito per Bakerteam, che risultava un ottimo esempio di hard rock, dalle atmosfere sleazy e glam in puro Sunset Boulevard style, anche se tra le note di Sex First non mancavano riferimenti alle nuove generazioni di street band da lustrini, paillettes, belle donne e tanto divertimento.

Tutto confermato, ora che Never Say Never, ep di tre brani a fare da ponte tra il primo album ed il nuovo lavoro che non tarderà ad arrivare, riempie di suoni rock’n’roll tredici minuti della nostra fin troppo triste e alquanto noiosa vita.
Due songs inedite, la travolgente e divertentissima title track e la rocciosa BJ@Job, che vi lasceranno senza fiato, due hit tra passato e presente dello street, glam, sleazy hard rock, tra Poison, Motley Crue, Steel Panthers, Crashdiet e compagnia di ragazzacci perduti tra party di puro rock’n’roll style.
La cover di Satisfaction della premiata ditta Jagger/Richards impreziosisce questo mini cd e la band ne esce alla grande con una riedizione tosta dalle ritmiche aggressive e dal gran tiro.
Il gruppo nostrano si conferma come una delle band di punta del genere, ora che i suoni classici e stradaioli degli anni ottanta stanno tornando in auge, almeno nell’underground che non fa mancare nuove realtà dalle ottime potenzialità e molte di queste provenienti dalle città del nostro paese.
Godiamoci le tre canzoni che compongono Never Say Never ed aspettiamo fiduciosi il nuovo full length, ci sarà da divertirsi.

TRACKLIST
1.Never Say Never
2.BJ@Job
3.Satisfaction

LINE-UP
Albert Fish – Vocals
LeStar – Lead Guitar
Acey Guns – Bass
Dany Rake – Drums

MIDNIGHT SIN – Facebook

Samcro – Colpevoli

I Samcro, duo blues/hard rock toscano composto da Mario Caruso e Nicola Cigolini, ritornano, a distanza di quasi due anni da “Terrestre”, con gli undici brani di Colpevoli. Il disco, pubblicato da Soffici Dischi e impreziosito dalla presenza di Paolo Benvegnù (nel brano La Ricostruzione), suona grasso e corposo, ma coinvolge a fatica e risulta poco convincente nel suo insieme.

Il calore strumentale di Dalle Ceneri, apre il disco creando il terreno giusto per il trascinante procedere della torrida La Ricostruzione e per il sudato citare di Reagire Al Dolore (parte del testo arriva da “La Cognizione Del Dolore” di Carlo Emilio Gadda).
Il cantato/gridato ai limiti del punk di Opponibile, tagliando l’aria con il rabbioso graffiare di chitarre, cede spazio al procedere energico (ma piuttosto dispersivo) di Martin X, mentre Similitudine, non riuscendo a disegnare i deserti hard rock che vorrebbe, lascia che a seguire sia la poco incisiva Mahmud.
Kingsley, invece, provando a mordere con la sua energia, introduce il trambusto incolore di Colpevoli e le grasse chitarre de Il Mare Dentro Di Te.
La meno distorta e più introversa Benvenuto, infine, chiude il disco provando a mettere in mostra il lato più intimo e riflessivo della band.

Nonostante gli sforzi, l’energia e i tentativi, questo Colpevoli non risulta memorabile in nessuna occasione. Gli undici brani presentati, infatti, provano a creare un sound granitico, corposo e trascinante, ma ogni volta, si spengono in idee poco convincenti e in testi non proprio coinvolgenti. Insomma, l’impressione è che ci sia tanta passione e voglia di fare, ma che manchino ancora i contenuti necessari per rendere il sogno realtà. Un disco monotono e al di sotto delle aspettative.

TRACKLIST
01. Dalle Ceneri
02. La Ricostruzione
03. Reagire Al Dolore
04. Opponibile
05. Martin X
06. Similitudine
07. Mahmud
08. Kingsley
09. Colpevoli
10. Il Mare Dentro Di Te
11. Benvenuto

LINE-UP
Mario Caruso
Nicola Cigolini

SAMCRO – Facebook

Bastian – Rock Of Daedalus

Un album compatto, valorizzato dalla prova di un Vescera sontuoso, di un Macaluso che sfodera tutta la sua esperienza alle pelli, ben sostenuto dal basso di Giardina, e dalla sei corde dell’axeman nostrano, un chitarrista sanguigno che lascia ad altri virtuosismi fini a se stessi e mette il suo talento a disposizione dei brani

Quello che poteva sembrare un progetto estemporaneo, ha trovato la sua definitiva consacrazione con l’uscita di questo secondo album e i Bastian di Sebastiano Conti possono essere considerati una band a tutti gli effetti.

Due anni fa il chitarrista siciliano aveva stupito tutti con Among My Giants, un bellissimo album di hard’n’heavy che vedeva il buon Conti circondato da un nugolo di musicisti storici della scena come Vinnie Appice, Mark Boals, Michael Vescera e John Macaluso.
Lo scorso anno Among My Giants tornava a far parlare di sé con la riedizione curata dall’Underground Symphony, label per cui esce questo nuovo Rock Of Daedalus con il gruppo ridotto a quattro elementi : Sebastiano Conti alla sei corde, Michael Vescera al microfono, John Macaluso alle pelli e Corrado Giardina al basso.
Rock Of Daedalus non sposta di una virgola il concept musicale su cui si destreggia il chitarrista siciliano: il sound influenzato dalla scena ottantiana e dai mostri sacri del genere, perfettamente bilanciato tra hard rock ed heavy metal, continua a mietere vittime con questi dieci brani ruvidi e diretti, aggressivi e potenti ma tremendamente efficaci.
Una album compatto, valorizzato dalla prova di un Vescera sontuoso, di un Macaluso che sfodera tutta la sua esperienza alle pelli, ben sostenuto dal basso di Giardina, e dalla sei corde dell’axeman nostrano, un chitarrista sanguigno che lascia ad altri virtuosismi fini a se stessi e mette il suo talento a disposizione dei brani, così che possano esplodere in tutta la loro carica hard rock.
Massiccio è forse il termine più adatto per descrivere il sound di questo lavoro, e la band, fin dall’opener Strange Toughts, sfodera ritmiche dal groove viscerale, molto più zeppeliniane rispetto al suo predecessore.
Il mid tempo roccioso di The Pide Piper torna ad esplorare il sound dei Black Sabbath era Tony Martin, mentre Vlad e Terminators confermano la voglia di far male di questa multinazionale dell’hard & heavy, supportata da un Vescera in stato di grazia, epico ed emozionale.
Conti ricama di solos sanguigni e riff tutta grinta e potenza le varie songs, e siamo già alla metallica Steel Heart, apice di questo bellissimo lavoro, un brano heavy metal disegnato coi colori dell’arcobaleno più famoso della nostra musica preferita.
Smokin’ Joe e la ballad Wind Song, chiudono questo ritorno sopra le righe dei Bastian, confermando quello di Sebastiano Conti un gruppo che non può mancare tra gli ascolti degli amanti dell’hard’n’heavy di estrazione classica.

TRACKLIST
1.Strange Thoughts
2.The Pide Piper
3.Vlad
4.Terminators
5.Man Of Light
6.Man In Black
7.18 In Woodstock
8.Steel Heart
9.Smokin’ Joe
10.Wind Song

LINE-UP
Sebastiano Conti- Guitars
Michael Vescera- Vocals
John Macaluso- Drums
Corrado Giardina- Bass

BASTIAN – Facebook

Inishmore – The Lemming Project

Tanta melodia, dunque, per un album piacevolmente metallico in il songwriting si dimostra all’altezza ed i musicisti, senza strafare, ottengono un bel voto per tecnica e feeling.

La Svizzera ha una tradizione metallica di tutto rispetto, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock e metal classici, le band che nel tempo hanno trovato i favori dei fans, anche fuori confine, non sono poche e tra le cime dei monti alpini, così come nelle fiabesche valli, il genere ha trovato un sicuro rifugio, anche nei periodi che hanno visto i suoni classici perdere popolarità tra gli amanti della musica dura.

Gli Inishmore sono una band proveniente da Baden, il loro viaggio nella musica metallica è iniziato nel lontano 1997 e all’alba del nuovo millennio il gruppo licenziò il primo full length, The Final Dance, cui seguirono altri due lavori, Theatre of My Life del 2001 e Three Colours Black del 2004.
Un lungo silenzio discografico ha caratterizzato gli ultimi undici anni, anche se il gruppo si è riformato in effetti nel 2011 arrivando finalmente a dare un seguito all’ultimo lavoro con The Lemming Project, licenziato dalla Label Dark Wings.
Il sound della band si sviluppa con un power metal di scuola teutonica, impreziosito da ottime ritmiche e melodie hard rock;,il cantato femminile non punta alle solite linee sinfoniche, care ai gruppi odierni, ma offre una buona prestazione dal timbro melodico e personale della bravissima Michela Parata.
Tanta melodia, dunque, per un album piacevolmente metallico in cui il songwriting si dimostra all’altezza ed i musicisti, senza strafare, ottengono un bel voto per tecnica e feeling.
Tastiere presenti, ma non invadenti, asce a cui non manca la giusta grinta, chorus dal buon appeal e ritmiche che si alternano tra fughe power e ritmi hard rock, fanno di The Lemming Project un ottimo album, vario e ben fatto, dove ogni brano non scende sotto un livello buono e forma con gli altri un lavoro tutto da ascoltare.
Tra i solchi dei vari brani presentati le sonorità power la fanno da padrone, ma, come detto, non mancano sfumature da arena rock, che mantengono comunque un piglio ruvido, metallico, ottimo per scaldare i cuori dei true defenders, così come dei più pacati rockers vecchia scuola.
Merciful, la folk oriented Finally a Love Song, la cadenzata e old school Manifest, la bellissima Red Lake, power metal song dal piglio drammatico, e i dodici minuti della suite che dà il titolo all’album, un piccolo capolavoro di metal orchestrale e progressivo, sono all’origine del buon risultato finale; un disco che raccoglie una moltitudine di atmosfere hard/power e le ingloba in un unico lavoro che, a tratti, risulta entusiasmante.
Pink Cream 69, Masterplan e Rough Silk, sono i primi nomi che affiorano tra le trame di The Lemming Project, dategli un ascolto, ne vale la pena.

TRACKLIST
1. Cup of Lies
2. Merciful
3. Better off Dead
4. Finally a Love Song
5. Part of the Game
6. Manifest
7. Eternal Wanderer
8. Red Lake
9. Where Lonely Shadows Walk
10. The Lemming Project
11. Where Lonely Shadows Walk (Acoustic)

LINE-UP
Michela Parata-Vocals
Fabian Niggemeier-Guitars
Jarek Adamowski-Guitars
Alex Ortega-Drums
Pascal Gysi-Keyboards

INISHMORE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Tv3RTkKZY5k

Pino Scotto – Live For A Dream

Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.

Mi è difficile parlare di Pino Scotto, un artista che amo profondamente, non solo per la sua carriera musicale che, senza ombra di dubbio, è una della più importanti e gloriose in ambito hard rock ed heavy metal del nostro paese, ma soprattutto come persona, un uomo che incarna il mio pensiero al 100%, fuori da inutili ed obsoleti discorsi di una politica che purtroppo è diventato solo un circo, puro e fuori dagli schemi in modo talmente naturale, che quello che dice, molte volte forzando la mano, anche per una persona non più di primo pelo come il sottoscritto, diventa l’unica ineluttabile verità.

Ed è così che diventa un onore scrivere qualche riga per la nostra ‘zine sull’ultimo lavoro del rocker italiano per antonomasia, una raccolta di brani che ne ripercorre la carriera, dai Pulsar, passando per i gloriosi Vanadium, i Fire Trails e l’esperienza solista.
Un rocker che ha attraversato quarant’anni di musica rock in Italia, un paese dove ancora oggi la musica del diavolo è vista come una fastidiosa sottocultura, anche in questi ultimi anni in cui i talenti continuano a moltiplicarsi.
Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.
Il suo tono graffiante da rocker navigato spadroneggia su questo nuovo Live For A Dream, gli ospiti valorizzano brani stupendi, profondi, molti composti da testi di denuncia contro un mondo ed un sistema a cui il musicista partenoopeo non ha mai concesso nulla, tirando dritto per la sua strada che continua a non avere un punto d’arrivo sul proprio navigatore.
Una truppa di talenti della scena tra cui Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie, Dario Cappanera, Stef Burns, Steve Angarthal, Rob Iaculli, Alex Del Vecchio e Fabio Treves, tra gli altri, fornisce il proprio contributo nel far risplendere questa raccolta, tra classici, ultime produzioni ed inediti (Don’t Touch The Kids e The Eagle Scream, brano scritto in memoria del suo vecchio amico Lemmy, e di cui uscirà un video).
Non mancano, chiaramente, oltre alle più datate produzioni i brani simbolo della sua carriera solista, ora più che mai sulla cresta dell’onda anche per il programma Database che conduce da ormai tredici anni su Rock Tv.
Morta La Città, Quore Di Rock’N’Roll, Signora Del Voodoo e Angus Day, e poi le stupende Dio Del Blues e Third Moon (made in Fire Trails) e via via tutte le altre, fanno di Live For A Dream una completa e suggestiva panoramica sul mondo di Pino Scotto, supportata da un DVD contenente immagini live delle registrazioni in studio, interviste e videoclips, in attesa di ritrovare in giro per i palchi nostrani per l’ennesimo tour questo inesauribile condottiero del rock’n’roll.

PS. Nel 2011, insieme a Caterina Vetro, Pino Scotto fonda Rainbow Projects, un progetto di educazione, sanità e sviluppo nato per contribuire a migliorare le condizioni di vita di bambini estremamente svantaggiati come gli orfani e le vittime di abusi in Belize, quelli della discarica di Coban in Guatemala o a forte rischio di prostituzione minorile e mendicanza in Cambogia: questo, tanto per chiarire, a chi se ne fosse fatta un’idea precostituita o travisata, di che pasta è fatto questo monumento vivente alla vera cultura rock’n’roll.
Un artista che musicisti, fans e addetti ai lavori dovrebbero solo ringraziare ogni volta che fa mattina e ci si alza dal letto …

TRACKLIST
1.Don’t Touch the Kids
2.The Eagle Scream
3.A Man on the Road
4.We Want Live Rock ‘n’ Roll
5.Easy Way to Love
6.Streets of Danger
7.Too Young to Die
8.Dio del Blues
9.Gamines
10.Leonka
11.Spaces and Sleeping Stones
12.Third Moon
13.Come noi
14.Quore di Rock ‘n’ Roll
15.Morta è la città
16.Che figlio di Maria
17.Signora del Voodoo
18.Angus Day

DVD
1.A Man on the Road
2.We Want Live Rock ‘n’ Roll
3.Easy Way to Love
4.Streets of Danger
5.Too Young to Die
6.Dio del Blues
7.Gamines
8.Leonka
9.Spaces and Sleeping Stones
10.Third Moon
11.Come noi
12.Quore di Rock ‘n’ Roll
13.Morta è la città
14.Che figlio di Maria
15.Signora del Voodoo
16.Angus Day

LINE-UP
Pino Scotto-Vocals
Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie – Vocals
Stef Burns, Steve Angarthal, Igor Gianola, Dario Cappanera, Filippo Dallinferno, Ale “Fuzz” Regis – Guitars
Rob Iaculli, Alex Mansi, Marco di Salvia – Drums
Dario Bucca, Ciccio Li Causi – Bass
Alex Del Vecchio. Maurizio Belluzzo – Keyboards
Valentina Cariulo – Violin
Fabio Treves – Haromonica

PINO SCOTTO – Facebook

Pristine – Reboot

Il rock è vivo e vegeto, si rigenera per mezzo dei suoi figli e voi non avete scuse

Non credo che nelle fredde lande scandinave vi siano crocicchi ove si possa vendere l’anima al diavolo, così da suonare la sua musica con magico talento, eppure all’ascolto di questo lavoro, rimane il dubbio che i Pristine qualcuno abbiano incontrato, tra le strade ricoperte di ghiaccio del loro paese, la Norvegia.

Terzo lavoro per il gruppo di Oslo, dopo l’esordio del 2011 Detoxing, ed il seguente No Regret di tre anni fa, mentre la band è pronta per la calata nella nostra penisola in questo periodo, a supporto degli svedesi Blues Pills.
Capitanati dalla notevole singer Heidi Solheim, una via di mezzo tra Patty Smith, PJ Harvey e Bjork, i Pristine fanno il botto, con questo straordinario Reboot, un concentrato di rock blues ad alta gradazione emozionale, colmo di psichedelia e rock’n’roll, uno sguardo attento sul sound americano, un viaggio nei meandri più sanguigni della musica del diavolo.
Reboot è composto da un lotto di brani uno diverso dall’altro, uno più emozionante dell’altro, con il blues che spadroneggia, lasciando però spazio a momenti di psichedelia lisergica in un trionfale tributo agli anni settanta e agli dei dell’hard rock.
Il nostro viaggio tra le fiamme, nella casa di satanasso, inizia con il blues energico dell’opener Derek, i Bad Company sono lì, a farci l’occhiolino, mentre senza voltarci saliamo sul dirigibile zeppeliniano con All My Love.
All I Want Is You è il primo tuffo nella psichedelia, un blues drammatico ricamato da una chitarra pinkfloydiana e da un hammond dai colori porpora, che ritroveremo nel capolavoro The Middlemen, ma prima c’è da muovere le natiche con il rock’n’roll di Bootie Call seguito dal blues messianico della title track.
The Middlemen, il capolavoro di questo album, canzone lisergica ed emozionale, valorizzata da una prova sontuosa della vocalist e dell’axeman Espen Elverum Jakobsen, porta il gruppo norvegese molto vicino all’olimpo dove riseidono i grandi; con l’inno California, la song più moderna e hard rock dell’intero lavoro, il sole brucia l’asfalto e siamo lontani dal freddo norvegese, con la temperatura che sale con il blues tragico (cantato dalla Solheim con un trasporto tale da sconvolgere) di Don’t Save My Soul.
The Lemon Waltz chiude il lavoro, una ballad rock blues che ricorda nei suoi accordi e armonie i Beatles di Sgt.Peppers, chiudendo un cerchio iniziato con i Bad Company, i Led Zeppelin, i Pink Floyd e l’america sudista raccontata dai The Allman Brothers Band e Grand Funk Railroad.
Reboot è un album superbo, un esempio di come nel 2016 si può suonare rock ad altissimi livelli, prendendo ispirazione dalle proprie influenze ma senza risultare patetici come molti dinosauri inchiodati al proprio portafoglio.
Il rock è vivo e vegeto, si rigenera per mezzo dei suoi figli e voi non avete scuse, fatelo vostro.

TRACKLIST
1.DEREK
2.ALL OF MY LOVE
3.ALL I WANT IS YOU
4.BOOTIE CALL
5.REBOOT
6.THE MIDDLEMEN
7.CALIFORNIA
8.LOUIS LANE
9.DON’T SAVE MY SOUL
10.THE LEMON WALTZ

PRISTINE . Facebook

Wonderworld – II

Un ascolto piacevole che ci prende per mano accompagnandoci in territori cari a Uriah Heep, Led Zeppelin, Deep Purple era Hughes e Coverdale, con una sound grintoso e raffinato, irruente ed estremamente elegante, come ci hanno abituato da tempo tutti il lavori che vedono coinvolto Tiranti.

Secondo lavoro per la band italo/norvegese Wonderworld, che vede il nostro Roberto Tiranti insieme alla coppia di musicisti scandinavi Ken Ingwersen e Tom Fossheim, rispettivamente alla chitarra e alla batteria.

Anche questo secondo lavoro si distingue per un elegante classic rock di scuola settantiana, pennellato di blues e soul, suonato divinamente e dal songwriting sontuoso.
Scritto a quattro mani da Tiranti e Ingwersen, II conferma ancora una volta l’eclettico talento del musicista genovese, instancabile artista e vocalist sopraffino, alle prese con questa raccolta di brani che svaria tra ruvidità ed eleganza, grinta e melodia, vorticosi sali e scendi nel rock e nell’hard & heavy di stampo classico.
Gruppo di tre elementi, quindi pochi fronzoli e sound che va dritto al punto, con un Ingwersen che si dimostra chitarrista fenomenale, raffinato quando i brani lo richiedono, tostissimo quando le atmosfere si irrobustiscono ed il gruppo se ne esce potenti bordate hard rock.
Sempre magistrale il lavoro di Tiranti al microfono e chirurgico il drumming di Fossheim, così che II si rivela un altro bellissimo album caratterizzato da sonorità classiche, magari poco considerate nel superficiale mondo del music biz odierno, ma assolutamente imprescindibili per gli amanti della buona musica.
Le ritmiche raffinate di brani come Elements, It’s Not Over Yet e Echo Of My Thoughts si scontrano con le atmosfere adrenaliniche di Evil In Disguise, Forever Is The Line e della sabbathiana In The End; in mezzo una serie di songs che fanno dell’hard rock raffinato il loro credo, magistralmente interpretate da questo power trio, che non lascia da parte emozionalità e feeling.
Un ascolto piacevole che ci prende per mano accompagnandoci in territori cari a Uriah Heep, Led Zeppelin, Deep Purple era Hughes e Coverdale, con una sound grintoso e raffinato, irruente ed estremamente elegante, come ci hanno abituato da tempo tutti il lavori che vedono coinvolto Tiranti.
Non perdete altro tempo e fate vostro questo bellissimo album, ulteriore dimostrazione dell’immortalità della nostra musica preferita, specialmente se suonata a questi livelli.

TRACKLIST
1. Forever Is A Lie
2. Remember My Words
3. Elements
4. It’s Not Over Yet
5. Echo Of My Thoughts
6. The Evil In Disguise
7. Return To Life
8. Memories
9. In The End
10. Down The Line

LINE-UP
Roberto Tiranti – vocals, bass
Ken Ingwersen- Guitars
Tom Fossheim- Drums

WORDERWORLD – Facebook

Gabriels – Fist Of The Seven Stars, Act 1 Fist Of Steel

Opera che rasenta il capolavoro, il secondo album di Gabriels è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese

La label genovese Diamonds Prod., dopo aver licenziato il bellissimo album del progetto Odyssea di Pier Gonella e Roberto Tiranti, pesca un altro gioiello metallico, il secondo lavoro solista del musicista e compositore siciliano Gabriels, che torna sul mercato tra anni dopo il notevole Prophecy, un concept ispirato ai fatti dell’undici settembre 2001.

Gabriels si contorna, come nel primo album, di un manipolo agguerrito di talenti della scena metallica nazionale e non solo, portando in musica le gesta dei protagonisti del manga e anime Hokuto No Ken di cui il musicista è cultore.
Fist Of Steel è il primo capitolo di una trilogia intitolata Fist Of The Seven Stars, dunque un concept oltremodo ambizioso e, almeno in questa prima parte, il risultato è quantomai eccellente.
I musicisti che hanno aiutato Gabriels in questa avventura sono tanti, chi come membro fisso della line up, chi come special guest, contribuendo a rendere l’album un manifesto sontuoso di musica fieramente metallica, melodica e orchestrale.
Da Wild Steel, Marius Danielsen, Dario Grillo, Dave Dell’Orto e Ida Elena splendidi interpreti al microfono, all’apporto strumentale dei vari Glauber Oliveira (Dark Avengers), Stefano Calvagno (Metatrone), Francesco Ivan Sante’ Dall’O tra gli altri alla sei corde, Andrea “Tower” Torricini dei Vision Divine al basso e chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impegnati, rendono quest’opera un’escalation di emozioni, capitanati ovviamente dai tasti d’avorio di Gabriels, alle prese con hammond, synth e pianoforte accompagnandoci nel mondo eroico della leggenda di Hokuto No Ken, famosissima in tutto il mondo.
Il sound si discosta leggermente dal mood del primo lavoro, che a più riprese ricordava l’hard rock orchestrale dei danesi Royal Hunt: Fist Of Steel risulta più power oriented, specialmente nella prima parte con la title track e She’s Mine che fanno decollare l’album fino ad elevate vette qualitative con la melodica Seven Stars e la power A New Beginning, song che avvicina il sound ai primi lavori dei tedeschi Edguy.
Il cuore dell’album è lasciato a tre brani superbi per intensità e prestazioni vocali: Break Me, My Advance e To Love, Ever Invain, mentre Black Gate ci riporta su ritmiche power metal.
Revenge Invain e Decide Your Destiny chiudono questo primo capitolo al meglio, con un’apoteosi di suoni orchestrali, nobile metallo sinfonico, cori epici ed emozioni che crescono a dismisura, mentre le note che le dita di Gabriels fanno scaturire dalle tastiere, formano arcobaleni di scale melodiche sopraffine.
Opera che rasenta il capolavoro, la prima parte di quello che diventerà un lavoro monumentale è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese; è davvero l’ora di tagliare il cordone ombelicale che vi lega ai sempre più imbolsiti dinosauri di ere passate tuffandovi nella musica del nuovo millennio che, con rispetto, guarda al passato ma vive nel presente ed è pronta per un roseo futuro: scegliere questo lavoro per farlo sarebbe il migliore inizio.

TRACKLIST
1) Fist of Steel
2) She’s mine
3) Mistake
4) Seven Stars
5) A new beginning
6) Break me
7) My Advance
8) To love, ever invain
9) Sacrifice
10) Black Gate
11) Revenge invain
12) Decide your destiny

LINE-UP
Gabriels: All the Keyboards, Piano, Synth, Hammond and background vocals
Wild Steel : Vocals
Dario Grillo : Vocals
Marius Danielsen: Vocals
Ida Elena : Vocals
Dave Dell’Orto : Vocals
Iliour Griften : Background Vocals
Glauber Oliveira : Guitars
Stefano Calvagno : Guitars
Giovanni Tommasucci : Guitars
Francesco Ivan Sante’Dall’O : Guitars
Angelo Mazzeo : Guitars
Tommy Vitaly : Guitars
Dino Fiorenza : Bass
Christian Cosentino : Bass
Simone Alberti : Drums

Guests:
Andrea “Tower” Torricini : Bass and Guitars
Davide Perruzza : Guitars

GABRIELS – Facebook

Hollow Illusion – Hollow Illusion

Hollow Illusion è un album adatto a qualsiasi palato abituato a nutrirsi dei suoni classici hard’n’heavy

Il lavoro omonimo del duo formato da Magnus Mikkelsen Hoel e Ove Mikkelsen Hoel, chiamati Hollow Illusion, conferma il talento per i suoni classici dei musicisti nati tra i fiordi e le immense pianure innevate, mostrando diverse influenze ed atmosfere, che pescano tanto dall’heavy metal quanto dall’hard rock, alternando sfumature old school e più moderni salti nel groove rock.

L’album, oltretutto, ha potuto fregiarsi di varie collaborazioni importanti in fase di registrazione, prodotto da Trond Hotler (Wig Wam e Jorn), per il mix la band è volata negli States ed ha lasciato il materiale nelle sapienti mani di Roy Z (Judas Priest, Halford, Bruce Dickinson), mentre Andy Horn ha curato il master in Germania.
Hollow Illusion è un ottimo tuffo nelle sonorità classiche, tra le varie songs si avvicendano influenze e stili diversi: si passa quindi dall’hard rock dei Thin Lizzy all’heavy metal old school, da melodie care ai rockers conterranei del duo come i TNT al groove ruvido che guarda alle sonorità statunitensi (come Zakk Wilde insegna).
Voce maschia, melodica e sanguigna, ottimi solos ed un buon songwriting fanno di Hollow Illusion un buon biglietto da visita per il duo norvegese, che quando picchia sa far male con God Of Rock e Lights Go Down, apertura tutta grinta dell’album.
Belli i chorus, che imperversano su un po tutti i brani, dalla solida Now Or Never, alla ballatona Mountain On Solid Gorund, mentre Rain si aggiudica la palma di migliore composizione pregna di hard rock solare e refrain da urlo.
Hollow Illusion è un album adatto a qualsiasi palato abituato a nutrirsi dei suoni classici hard & heavy, non manca la grinta ma neppure la melodia, quindi cari rockers, ascoltatelo ed innamoratevene.

TRACKLIST
1.Mercury Rising
2.God Of Rock
3.Lights Go Down
4.I Don’t Care
5.Now Or Never
6.Mountain On Solid Ground
7.Can’t Stand Still
8.Rain
9.Fighter
10.Voodoo Medicine Man
11.Come Back

LINE-UP
Magnus Mikkelsen Hoel – Vocals
Ove Mikkelsen Hoel – Bass

HOLLOW ILLUSION – Facebook

Highrider – Armageddon Rock

Quattro brani deflagranti, devastanti e potenti, eppure non siamo nei meandri del metal estremo, bensì nel più classico e all’apparenza più innocuo hard rock.

Tempesta, tuoni, fulmini, terremoti e tsunami che si riversano sull’ascoltatore come in una pellicola di genere catastrofico, un’onda altissima di metallo fumante, rock ruvido accompagnato da una voce che gronda rabbia e angoscia.

Un armageddon, appunto, di rock settantiano ipervitaminizzato da scariche metalliche fuse nell’acciao, impreziosito da un hammond signore e padrone del sound, apocalittico e dannatamente vintage, ma fondamentale nell’economia di queste splendide quattro canzoni.
Gli Highrider sono un quartetto svedese, Armageddon Rock è il loro debutto, licenziato dalla The Sign Records, registrato da Leo Moller, mixato da Henke Magnusson e masterizzato da Linus Anderson ai Kust studio di Gotheborg così da straripare letteralmente dalle casse, come l’acqua liberata dal crollo di una diga.
Quattro brani deflagranti, devastanti e potenti, eppure non siamo nei meandri del metal estremo, bensì nel più classico e all’apparenza più innocuo hard rock.
Il fantastico lavoro alle tastiere di Christopher Ekendahl, che riporta indietro agli anni settanta e ai mai troppo osannati Uriah Heep, avvolge il metal, a tratti stonerizzato, rabbioso e devastante suonato dai suoi compari, con la sei corde di Eric Radegard che illumina la scena con solos dal saporeclassico (S= T x I) e la sezione ritmica che ci investe con una forza disumana (Carl-Axel Wittbeck alle pelli e Andreas Fageberg al basso).
Il concept dell’album è chiaramente ispirato alla deriva intrapresa dal genere umano e la musica, che mantiene un mood apocalittico, forma insieme alle urla drammatiche e rabbiose del bassista una clamorosa denuncia degli effetti distruttivi delle politiche nucleari.
Venti minuti esaltanti, da ascoltare a volume altissimo, un enorme suono che si sviluppa e si rigenera tra le trame bombastiche di Agony Of Limbo, The Moment (Plutonium) e Semen Mud And Blood.
Un grandissimo debutto che incorona gli Highrider come una delle sorprese di questa metà dell’anno di grazia 2016, il che induce ad aspettarli per la prima prova sulla lunga distanza che, se si attestasse su questi livelli, sarebbe trionfale.
Non c’è ne tregua ne speranza, solo la colonna sonora della fine del mondo.

TRACKLIST
1.S= T x I
2.Agony Of Limbo
3.The moment (Plutonium)
4.Semen Mud And Blood

LINE-UP
Eric Radegard-Guitar
Carl-Axel Wittbeck-Drums
Andreas Fageberg-Bass
Christopher Ekendahl-Keyboards

HIGHRIDER – Facebook

BlackRain – Released

A mio parere un’occasione in parte mancata, anche se sono sicuro che l’album farà sicuramente conquistare nuovi fans al gruppo francese ma, se volete ascoltare fottuto rock’n’roll puro Los Angels style, rivolgetevi altrove.

Ecco arrivato sulla mia scrivania quello che si prospetta come l’album hard rock del 2016: Released, dei transalpini BlackRain, licenziato dalla UDR/Warner.

Il quartetto di rockers formatosi dieci anni fa nelle alpi francesi, dopo una lunga gavetta fatta di importantissimi live al fianco di Europe, Alice Cooper, Scorpions ed i nuovi eroi dell’hard rock mondiale come Steel Panthers, Kissin’ Dynamite e Crash Diet e con quattro full length alle spalle, con It Begins (il precedente lavoro uscito nel 2013) quale il picco qualitativo, è pronto al grande salto e Released conferma l’attesa degli addetti ai lavori, per un album che dovrebbe rivelarsi un’esplosione di suoni street/hard rock, direttamente dalla Los Angeles del periodo ottantiano.
Prodotto da Jack Douglas, nome di spicco del panorama rock americano (Aerosmith, Cheap Trick, Alice Cooper, The New York Dolls e John Lennon) l’album è stato registrato tra Parigi ed ovviamente la città degli angeli, con il mix finale curato da Douglas insieme a Warren Huart, ingegnere del suono della band di Steven Tyler e Joe Perry.
Tanto spiegamento di forze, ha dato i suoi frutti e Released non può che essere destinato al successo: tutto è perfetto, il suono patinato e cristallino, le canzoni formano una raccolta di hits che trent’anni fa avrebbe fatto tremare il music biz, con la leggera attitudine stradaiola della band e quel tocco ruffiano che è la chiave per entrare nei cuori dei vecchi e nuovi rockers sparsi per il mondo.
Tra le note di brani dall’appeal conclamato come l’opener Back In Town, l’esplosiva Mind Control, Puppet On A String, la semi ballad strappa lacrime Home, l’irriverente Rock My Funeral, troverete di che crogiolarvi se continuate ad infilare nella vostra autoradio i greatest hits di Motley Crue, Skid Row, Poison ed in parte, ma solo in parte, Guns’n’Roses.
Tutto fila liscio come l’olio, le songs entrano in testa alla velocità della luce e non meravigliatevi se, dopo un solo ascolto, vi ritroverete a canticchiare uno dei ritornelli di questi tredici brani, costruiti per piacere senza se e senza ma.
E allora, vi chiederete, perché il voto non rispecchia del tutto queste valutazioni ?
Perché, a mio modesto parere, Released è “troppo” perfetto per un album che dovrebbe trasudare sporco rock’n’roll: il tutto risplende di una luce asettica, a causa di un’attenzione ai particolari che è sintomatica dell’intento di costruire a tavolino un lavoro in grado di sfondare, ma che lascia qualche dubbio sull’effettivo impatto e molti di più sulla reale attitudine della band.
Ci si aspetta da un momento all’altro che l’album esploda davvero, che la voce lasci intravedere gli effetti collaterali di serate da sballo, e le sei corde ci facciano godere di un riffing di matrice street, dai richiami punk/blues cari a band storiche come L.A Guns o primi Gunners, ed invece si scivola nel compitino, nello schema strofa-ritornello-strofa, carino, perfetto per le radio, ma alla lunga abbastanza prevedibile.
A mio parere un’occasione in parte mancata, anche se sono sicuro, l’album farà sicuramente conquistare nuovi fans ai BlackRain, ma se volete ascoltare fottuto rock’n’roll puro Los Angels style, rivolgetevi altrove.

TRACKLIST
01. Back In Town
02. Mind Control
03. Killing Me
04. Run Tiger Run
05. Puppet On A String
06. Words Ain’t Enough
07. Eat You Alive
08. Home
09. For Your Love
10. Fade To Black
11. Electric Blues
12. Rock My Funeral
13. One Last Prayer
14. True Survivor (Bonus)
15. Jenny Jen (Bonus)

LINE-UP
Swan Hellio – Lead vocals, Guitars
Axel “Max 2” Charpentier – Lead guitars
Matthieu De La Roche – Bass
Frank Frusetta – Drums

BLACKRAIN – Facebook

Bridgeville – Aftershock

Aftershock non scende mai di livello mantenendo una qualità notevole, i brani sono tutti molto belli e fanno l’occhiolino ai Bon Jovi così come agli Whitesnake nella versione USA ottantiana

I paesi nordici sono da sempre patria dei generi melodici di stampo hard rock, anche se spesso si pensa solo alle espressioni musicali più esteme.

Ed è proprio dalla fredda Norvegia che arrivano i Bridgeville con il loro sound fatto di caldo hard rock classico, molto melodico e dall’ottimo appeal.
Una raccolta di brani che parla al cuore di ogni rocker innamorato di chitarre ruvide, refrain irresistibili e da cantare in qualche locale riscaldato dai watt che esplodono nella sala, avvolgendo gli astanti di melodie provenienti direttamente dagli anni ottanta, anni in cui il rock, quello vero, spadroneggiava nelle radio di tutto il pianeta.
Il gruppo nasce nel 2013 per volere del vocalist Martin Steene, già in line up con i metallers danesi Iron Fire e l’hard rock band norvegese Absinth, e recluta tra le fila della nuova band, i chitarristi Erik Norheim e Kenneth Jacobsen, Roger Svenkesen al basso e Thomas Furuvald alle pelli.
Il gruppo così composto si prepara al debutto licenziando il singolo Absinthia, arriva poi la firma per la Crime Records e la band, nello scorso anno, entra in studio con Jacob Hansen e Tommy Hansen per registare Aftershock, debutto sulla lunga distanza che spezzerà cuori, muoverà fondoschiena e piacerà non poco ai rockers orfani dell’hard rock classico, svolazzando tra le varie influenze come un’ape tra i fiori.
Ottime trame chitarristiche, atmosfere che si alternano tra arena rock e ed elettrizzante e grintoso hard’n’roll, semiballad che ricordano nostalgici road movie, il tutto raccontato tramite una voce che risulta il primo comandamento di come si suona il genere (ovvero, avere un cantante con le palle).
Aftershock non scende mai di livello mantenendo una qualità notevole, i brani sono tutti molto belli e fanno l’occhiolino ai Bon Jovi così come agli Whitesnake nella versione USA ottantiana, mentre l’ascoltatore non mancherà certo di divertirsi con l’adrenalina che scorre tra i solchi di Save Me, Black Rain e Absinthia, mentre con Bridge To A Broken Heart e Homeland, la lacrimuccia non mancherà di scendere sul viso di tipacci dal cuore tenero.
Aftershock ci regala una quarantina di minuti di ottime melodie, che vanno a comporre un debutto di tutto rispetto, fatelo vostro.

TRACKLIST
01. Get On Top
02. Mystic River
03. Save Me
04. Aftershock
05. Black Rain
06. Keep Holding On
07. Bridge To A Broken Heart
08. Freakshow
09. Homeland
10. Anthem Of The World
11. Absinthia

LINE-UP
Martin Steene – Vocals
Erik Norheim – Guitars, B. Vocals
Thomas Furuvald – Drums
Roger Svenkesen – Bass
Kenneth Jacobsen – Guitars

BRIDGEVILLE – Facebook