Sonata Arctica – The Ninth Hour

L’album mantiene per tutta la sua durata bellissime atmosfere malinconiche, trovando nelle orchestrazioni mai invadenti e nei passaggi progressivi la sua linfa e, forse, la strada definitiva per il sound dei futuri Sonata Arctica.

Apparsi sulla scena power sul finire del millennio, i Sonata Arctica hanno trovato il meritato successo con album che univano le cavalcate metalliche alla Stratovarius con un gusto melodico raffinato ed un approccio caldo che li allontanava dal maggior difetto dell’allora band di Timo Tolkki (sempre un po’ freddini, anche nei loro indiscutibili capolavori), in un crescendo qualitativo che li ha portati ad essere uno dei gruppi più rappresentativi del genere.

Con una discografia che, se consideriamo la riessue di Ecliptica uscita due anni fa, arriva con questo nuovo lavoro al traguardo della doppia cifra, la band finlandese ha ormai abbandonato le sonorità degli esordi per un sound più introspettivo, calcando la mano sull’aspetto melodico e prog del proprio credo musicale a svantaggio del più canonico power metal di scuola scandinava.
Non fraintendetemi, Tony Kakko and company non fanno certo mancare gli attimi dove sontuoso metallo nordico ha ragione dell’atmosfera malinconica che si respira su questo The Ninth Hour, ma è indubbio che una svolta c’è stata, partendo da Pariah’s Child, ultimo lavoro di inediti targato 2014.
E The Ninth Hour prosegue deciso la strada intrapresa, con le ballad che prendono il sopravvento sul songwriting e la furia power ormai domata in favore di un metal classico, colmo di melodie e dal gustoso sentore symphonic prog.
Ora, com’è normale in questi casi ci saranno i fans che storceranno il naso al cospetto di cotanta melodia e chi invece apprezzerà le scelte operate dal gruppo che, diciamolo, conferma l’essere una top band aldilà dei gusti personali.
Si perché The Ninth Hour è un ottimo lavoro, magari leggermente prolisso, ma sicuramente in grado di mantenere inalterata la fama del gruppo, con un Kakko probabilmente mai così interpretativo ed una serie di brani che alla lunga riusciranno ad aprire una breccia nel cuore dei fans.
Così, archiviato l’unico episodio che ricorda il passato del gruppo (Rise A Night), l’album mantiene per tutta la sua durata bellissime atmosfere malinconiche, trovando nelle orchestrazioni mai invadenti, in mid tempo dove la potenza è accennata ma mai liberata in toto e nei passaggi progressivi la sua linfa e, forse, la strada definitiva per il sound dei futuri Sonata Arctica.
Pioveranno critiche alla pari degli elogi, ma a mio parere la bellezza di Fairytale, Till Death’s Done Us Apart e White Pearl, Black Oceans Part II – By The Grace Of The Ocean non potranno che emozionare anche il fan più scettico.

TRACKLIST
01. Closer to an Animal
02. Life
03. Fairytale
04. We Are What We Are
05. Till Death’s Done Us Apart
06. Among the Shooting Stars
07. Rise a Night
08. Fly, Navigate, Communicate
09. Candle Lawns
10. White Pearl, Black Oceans (Part II: By the Grace of the Ocean)
11. On the Faultline (Closure to an Animal)

LINE-UP
Elias Viljanen – Guitars
Henrik Klingenberg – Keyboards
Pasi Kauppinen – bass
Tommy Portimo – Drums
Tony Kakko – Vocals

SONATA ARCTICA – Facebook

Narnia – Narnia

Lavoro apprezzabile in tutte le sue parti, Narnia convince e ci presenta un gruppo in ottima forma.

Sono passati quasi vent’anni dal debutto, ma i Narnia continuano, magari con meno assiduità rispetto al passato, a regalarci album di power neoclassico classicamente scandinavo.

La band svedese torna dopo sette anni dall’ultimo lavoro sulla lunga distanza, Course of a Generation, con un album da considerare senza dubbio più diretto rispetto al passato: infatti questo lavoro omonimo, oltre a non arrivare ai quaranta minuti di durata, si compone di nove tracce che, senza troppi fronzoli e andando subito al sodo, mettono in bella mostra l’anima power del gruppo di Jönköping, come sempre impreziosito da tastiere e solos dal gusto neoclassico ma molto più dirette.
Un bene perché il songwriting risulta fresco, per una band dalla già abbondante carriera discografica.
Certo che il successo commerciale dei primi lavori, licenziati nella seconda metà degli anni novanta in piena seconda era per il power metal, soprattutto in Europa, ormai è un ricordo, ma a livello qualitativo i Narnia hanno creato un lavoro degno delle produzioni passate (Long Live The King , The Great Fall e Enter the Gate su tutti).
Anche il fatto di intitolare l’album con il nome del gruppo lascia una sensazione di ripartenza per la band svedese, che non mancherà di compiacere gli amanti dei suoni metallici, dal flavour neoclassico, elegantemente power e dalle ottime atmosfere epiche.
Prodotto dal chitarrista CJ Grimmark (Grimmark, Rob Rock, ex Saviour Machine, ex-Fires Of Babylon), Narnia conferma l’ottimo feeling con queste sonorità del gruppo svedese: i brani tra potenza e melodia escono forti del chitarrismo elegante di Grimmark e dell’ottima interpretazione di Christian Rivel-Liljegren dietro al microfono, in gran spolvero su brani che sono perfettamente bilanciati tra Rainbow, Royal Hunt e robusto power metal epico (Reaching for the Top e I Still Believe formano una partenza entusiasmante).
Il taglio prog che si evince in qualche atmosfera, riprendendo il mood del precedente album, ed un originale vena dark rock nella splendida ballad Thank you, rendono ancora più vario ed elegante il sound dell’album, dove chiaramente non mancano mid tempo epici e dal piglio hard rock come On The Highest Mountain, song che rinverdisce i fasti dell’arcobaleno più famoso del rock.
Lavoro apprezzabile in tutte le sue parti, Narnia convince e ci presenta un gruppo in ottima forma, consigliato senza riserve.

TRACKLIST
1. Reaching for the Top
2. I Still Believe
3. On the Highest Mountain
4. Thank You
5. One Way to the Promised Land
6. Messengers
7. Who Do You Follow?
8. Moving On
9. Set the World on Fire

LINE-UP
Carl-Johan Grimmark – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Christian Rivel-Liljegren – Vocals
Andreas Johansson – Drums
Martin Härenstam – Keyboards
Andreas Olsson – Bass

NARNIA – facebook

Them – Sweet Hollow

Se accuserete l’album di avere un sound derivativo avrete scoperto l’acqua calda, lasciate perdere le solite menate da scienziati metallici e godetevi questi cinquanta minuti scarsi di heavy metal horrorifico e spettacolare

Prendete un manipolo di musicisti provenienti da varie scene metalliche, tutti con la passione per la musica del re diamante, formate un supergruppo e dategli il nome di un famoso classico della discografia del singer danese (Them), chiudeteli in uno studio per un po’ di mesi e quando le porte si apriranno, usciranno con un lavoro bellissimo incentrato sulle sonorità tipiche del King Diamond style, ma con l’aggiunta del loro assoluto talento.

Kevin Talley ( ex di una miriade di gruppi tra cui Six Feet Under, Suffocation, Chimaira e Dying Fetus), Richie Seibel ( Ivanhoe, Lanfear,), Troy Norr (Coldsteel), Markus Ullrich (A Cosmic Trail, Lanfear, Septagon), Mike LePond ( Symphony X ed altre mille band) e Markus Johansson, insieme uniti per glorificare la musica metal horror di King Diamond, dopo il promo ep uscito anch’esso quest’anno, tornano con un album nuovo di zecca, ed il risultato farà spellare le mani agli amanti di pietre miliari del metal come appunto Them, Abigail e compagnia orrorifica.
Sweet Hollow è ovviamente un concept (e non poteva essere altrimenti) incentrato sul viaggio di un uomo tra sfortunati eventi e circostanze misteriose, raccontato con tutti i crismi dello storico singer dei Mercyful Fate, con tanto di cantato in falsetto ed interpretazione imoeccabile di Troy Norr, cantante dei Coldsteel e mente dietro a questo progetto.
Ad impreziosire il sound che, chiariamolo, è devoto in tutto e per tutto allo stile di Diamond, ci sono le prove dei musicisti, veri maestri del proprio strumento, alle prese con uno stile che ha fatto storia.
Sweet Hollow non si accontenta però di copiare lo spartito del re diamante, ma nei vari brani sono ben presenti le caratteristiche insite nel background dei nostri, così che possiamo trovare ottime aperture melodiche di intricato prog metal, sfuriate ritmiche dal sapore estremo, teatrali atmosfere evil, incorniciate con solos di puro heavy metal americano che, insieme al suo omologo  europeo,  accompagnano il protagonista nel suo tragico ed avventuroso viaggio.
Detto di una prova spettacolare del singer (che fondò il gruppo nel 2008 proprio per coverizzare le opere dei king Diamond), Sweet Hollow piacerà non poco ai fans, l’ottimo songwriting dà modo all’album di brillare, impreziosito da una raccolta di brani che a tratti entusiamano e tra cui spiccano le varie Forever Burns, Ghost In The Graveyard e Dead Of Night.
Se accuserete l’album di possedere un sound derivativo avrete scoperto l’acqua calda, lasciate perdere le solite menate da scienziati metallici e godetevi questi cinquanta minuti scarsi di heavy metal horrorifico e spettacolare… punto.

TRACKLIST
1. Rebirth
2. Forever Burns
3. Down The Road To Misery
4. Ghost In The Graveyard
5. The Quiet Room
6. Dead Of Night
7. FestEvil
8. The Crimson Corpse
9. Blood From Blood
10. The Harrowing Path To Hollow

LINE-UP
Kevin Talley – Drums
Richie Seibel – Keyboards
Troy Norr – Vocals
Markus Ullrich – Guitars
Mike LePond – Bass
Markus Johansson – Guitars

THEM – Facebook

Rainveil – Verses

La drammatica teatralità di fondo, le sfumature dark e le sontuose orchestrazioni, danno all’album quel tocco di maturità che non lascia dubbi sul valore del gruppo

Un’altra ottima band, i lodigiani Rainveil, si affacciano sulla scena nazionale in ambito metallico dagli spunti classicamente heavy ed orchestrali.

Licenziato dalla ormai storica Underground Symphony, mixato e masterizzato da Simone Mularoni (altra garanzia di qualità) ai Domination Studios, Verses è un gran bel lavoro, magari di poca durata per la qualità delle composizioni ed il genere (poco più di mezz’ora) ma notevole per songwriting, suono e potenzialità della band.
Qui si trova un heavy metal, roccioso e melodico, strutturato su tappeti tastieristici raffinati, una serie di brani che di potenti mid tempo fanno la loro forza, ispirati da una leggera vena prog ed un’oscurità di fondo riscontrabile nell’heavy statunitense.
Senza scendere in disquisizioni tecniche che in tracce dove l’emozionalità è tangibile diventa superfluo, Verses abbonda di orchestrazioni, incastonate su trame heavy metal eleganti e la mente non può che portare ai Kamelot.
Inoltre. la drammatica teatralità di fondo e le sfumature dark danno all’album quel tocco di maturità che non lascia dubbi sul valore del gruppo, bravo nel cogliere il punto debole dell’ascoltatore medio nel genere e cioè il pretendere potenza metallica e melodie che conquistino al primo ascolto, e i Rainveil in questo sono maestri.
I brani sono uno più bello dell’altro, dall’opener Macabre Ecstasy, che segue il prologo ed esplode in un refrain irresistibile tra riff possenti, solos classici e tappeti tastieristici magniloquenti, la successiva Break Out, ruvida e melodica e la bellissima semiballad Fire Opal, un crescendo entusiasmante aperto con la voce femminile a confermare l’eleganza intrinseca nel sound dei lodigiani.
Un lavoro affascinante che si rivela un’autentica sorpresa in campo classico, da non perdere assolutamente per gli appassionati dai gusti raffinati.

TRACKLIST
1. Prologue – Into the Void
2. Macabre Ecstasy
3. Break Out
4. Drowned
5. Mirror
6. Fire Opal
7. Eleanore
8. Shades of Darkness
9. Epilogue: Is this the End?

LINE-UP
Matteo Ricci – Vocals
Luca Maddonini – Lead Guitar
Pietro Canette – Bass

RAINVEIL – Facebook

Meshuggah – The Violent Sleep of Reason

Ancora una volta i Meshuggah hanno preparato meticolosamente un nuovo gelido tavolo autoptico.

Giunta ormai all’ottavo album in studio, la macchina perversa dei Meshuggah è tornata con un altro monolite d’acciaio tecnico e inesorabile.

Mi approccio all’ascolto quasi timoroso al cospetto di una band oserei direi essenziale per la natura stessa della sua proposta rivoluzionaria e innovativa, mai strettamente commerciale e, bisogna dirlo, con un approccio alla musica tra i più impegnativi e così dannatamente heavy. Così, prendiamo fiato e immergiamoci a ruota libera nei meandri di questo violento sonno della ragione. Nei 7 minuti dell’opener Clockworks vi sembrerà di essere pestati a sangue grazie a una sezione ritmica pesantissima e assassina che vi lascerà storditi in attesa di alienarvi con Born In Dissonance. La chirurgica MonstroCity vi sezionerà accuratamente e successivamente vi ricucirà abilmente con le corde affilate dell’allucinante solista di Thordendal . L’incubo tortuoso di By The Ton potrebbe temporaneamente lenire le vostre ferite attraverso le mani lente e inesorabile di uno psicopatico, ma non c’è tregua, perché la title track e Ivory Tower vi frantumeranno le ossa a martellate. Il maelstrom di Stifled vi opprimerà come un tiranno implacabile illudendovi solo attraverso brevi innesti disarmonici a base di synth e solos estranianti. Il tunnel di Nonstrum vi ingannerà per alcuni secondi per poi sminuzzarvi come schiacciati da una Tunnel Boring Machine. La pressione sul vostro cranio aumenterà dall’impellente incedere di Our Rage Won’t Die e con la mortifera Into Decay si chiude egregiamente un ennesimo lavoro di considerevole qualità. The Violent Sleep of Reason vi sequestrerà, e per un’ora potrete deliziarvi nei vortici ipnotici e nel dolore profondo concepito da Kidman e soci. Ancora una volta i Meshuggah hanno preparato meticolosamente un nuovo gelido tavolo autoptico.

TRACKLIST
01. Clockworks
02. Born In Dissonance
03. MonstroCity
04. By The Ton
05. Violent Sleep Of Reason
06. Ivory Tower
07. Stifled
08. Nostrum
09. Our Rage Won’t Die
10. Into Decay

LINE-UP
Jens Kidman – vocals, rhythm guitar
Fredrik Thordendal – lead guitar, rhythm guitar, synth
Mårten Hagström – rhythm guitar
Dick Lövgren – bass guitar
Tomas Haake – drums

MESHUGGAH – Facebook

VV.AA. – Imperative Music Compilation Vol.12

Un ottima occasione per fare un bel giretto per il mondo e conoscere nuovi adepti al sacro fuoco del metal, che sia classico o estremo non importa, le vie del metallo sono moltissime, provatele tutte.

Ottima e abbondante questa raccolta, giunta addirittura al dodicesimo volume, da parte della Imperative Music Agency, agenzia brasiliana a supporto di molte band metal/rock in giro per il mondo.

Incentrata su suoni che vanno dal thrash, al death ed ovviamente al metal più classico, la panoramica offerta spazia per il mondo alla caccia di talenti ed offre un quadro esaustivo sulla salute della nostra musica preferita, dal paese sudamericano, passando per gli Stati Uniti, il Giappone ed il vecchio continente, con una scappata nel nostro paese per conoscere i Wild Child ed il loro heavy metal epico.
Dicevamo, un’iniziativa lodevole e molto esauriente (anche per la buona qualità dei gruppi presenti) per tastare lo stato di salute della musica metal che ormai ha raggiunto tutti i paesi del mondo e regala sorprese ogni giorno, almeno per chi ne segue con interesse lo sviluppo nell’unico ambiente possibile, l’underground.
Varia la proposta, che passa dall’heavy metal classico dei nostri paladini Wild Child, alle sinfonie rock/metal degli olandesi Armed Cloud, dal thrash metal dei giapponesi Alice In Hell, all’hard rock dei brasiliani Basttardos e al death metal dei Nihilo, per tornare in Europa con il gothic robusto dei portoghesi Godvlad e volare in Canada per farci violentare dal death metal tecnico e colmo di groove dei devastanti Statue Of Demur.
Insomma, un ottima occasione per fare un bel giretto per il mondo e conoscere nuovi adepti al sacro fuoco del metal, che sia classico o estremo non importa, le vie del metallo sono moltissime, provatele tutte.

TRACKLIST
01 – Alice In Hell – Time To Die (Japan)
02 – Infact – Change My Name (Luxembourg)
03 – Cavera – Controlled By The Hands (Brazil)
04 – As Do They Fall – Burn (Brazil)
05 – Nihilo – On the Brink (Switzerland)
06 – Statue of Demur – Hot to Rot (Canada)
07 – Darcry – Cry of Despair (Japan)
08 – Death Chaos – Atrocity On Peaceful Fields (Brazil)
09 – The Holy Pariah – No Forever (USA)
10 – Tribal – Broken (Brazil)
11 – Hide Bound – Eden Kew (Japan)
12 – Phantasmal – Specter of Death (USA)
13 – Basttardos – Exilados (Brazil)
14 – Metanium – Resistiendo (USA)
15 – The Wild Child – You and The Snow (Italy)
16 – Armed Cloud – Jealousy With A Halo (The Netherlands)
17 – Eduardo Lira – The Edge (Brazil)
18 – Godvlad – Game of Shades (Portugal)

IMPERATIVE MUSIC – Facebook

Watchtower – Concepts of Math: Book One

EP più lineare, ma siamo sempre su livelli eccelsi. Coraggio e determinazione vanno premiati.

Quanto abbiano dato i Watchtower all’heavy metal forse lo sanno in pochi, ma si può chiedere a gente come Dream Theater, Death, Atheist, Sieges Even, Spiral Architect, Twisted Into Form.

Questi extraterrestri del pentagramma, prima nel 1985 con Energetic Disassembly e poi nel 1989 con il capolavoro Control and Resistance, hanno dato l’input a tutta una serie di band hi-tech metal, nonché extreme-prog.
Perciò per chi come me adora questi texani, l’attesa di un nuovo album è stata veramente lunga, e queste 5 tracce (4 già pubblicate in digitale nel corso negli ultimi 5 anni) sono già un piccolo tesoro musicale.
In attesa del full-length Mathematics (spero presto!) immergiamoci in questo primo libro di matematica metallica. La strumentale M-Theory Overture apre alla Spastic Ink e la macchina perfetta dei texani ci trascina sulla giostra schizofrenica diretta dal maestro Jarzombek. L’estro creativo e i tecnicismi della successiva Arguments Against Design spezzano l’ascoltatore meno avvezzo a tali sonorità. Il basso di Keyser è in primo piano, ossessivo, e con l’entusiasmante drumming di Colaluca è come essere intrappolati tra le rapide di un fiume impetuoso.
Non c’è tregua nelle composizioni dei Watchtower e la densità di idee all’interno delle composizioni è notevole. Le vocals di Alan Tecchio sono ora più aspre, ora melodiche, meno acute di un tempo e la schizzata Technology Inaction ne è un esempio lampante. Le parti soliste di Ron hanno la capacità di estraniare la mente dal contesto e allo stesso tempo deliziare con soluzioni sempre brillanti. The Size of Matter è quasi orecchiabile con il suo incedere spezzato e martellante puntualmente infiorettato dalla solista di Jarzo.
Chiude l’inedita Mathematica Calculis che con i suoi quasi 10 minuti ritorna parzialmente agli antichi fasti, con una band matura che non vuole a tutti i costi ripetersi e che è ancora capace di gustosi colpi di scena sincopati, inseriti con moderna freschezza.
In …Book One le contorsioni e il parossismo tecnico sono affievoliti, così pure la chimica fenomenale che riesca a sorprendere ad ogni cambio di tempo o d’atmosfera, così anche lo stupore di un arrangiamento mai uguale a quello precedente.
EP più lineare dunque, ma siamo sempre su livelli eccelsi. Coraggio e determinazione vanno premiati.

TRACKLIST
1. M-Theory Overture
2. Arguments Against Design
3. Technology Inaction
4. The Size of Matter
5. Mathematica Calculis

LINE-UP
Alan Tecchio – vocals
Ron Jarzombek – guitar
Doug Keyser – bass
Rick Colaluca – drums

WATCHTOWER – Facebook

Ichabod Krane – Beyond Eternity

Quando le sonorità vecchia scuola sono glorificate in tale maniera, album come questi sono da usare come esempio per le nuove leve metalliche, cresciute ai ritmi sincopati del metal odierno.

E’ ancora una volta la Pure Steel a regalarci un piccolo gioiellino di metallo incendiario direttamente dagli States.

La band in questione si chiama Ichabod Krane, vede tra le proprie fila musicisti provenienti dagli storici Halloween, band ottantiana con una discografia alle spalle di tutto rispetto e Beyond Eternity è il secondo lavoro dopo l’esordio Day of Reckoning, licenziato un paio di anni fa.
Il gruppo chiaramente poggia le proprie basi musicali nell’U.S. Metal e lo fa ottimamente aiutato dall’esperienza accumulata dai protagonisti, un ottimo cantante, ed una raccolta di belle canzoni, elegantemente oscure, epiche e con una buona alternanza tra potenza e melodia.
Siamo in territori cari ai primi Queensryche e Crimson Glory, potenziati da una dose massiccia di soluzioni priestiane, valorizzate da un talento melodico non da poco che riesce nella non facile impresa di rendere accattivanti anche gli episodi più duri (la title track in questo senso è un piccolo capolavoro).
Ottima la prova di Jeff Schlinz al microfono, un cantante di razza, potente e melodico, interpretativo il giusto per dare un’anima alle tracce che compongono il cd, anche se la parte del leone la fa la sei corde di Rick Graig che impazza in tutto l’album tra riff classic metal e solos taglienti come rasoi.
L’album funziona alla grande in brani come Metal Messiah, When The Stars Fall (dove Schlinz raggiunge vette interpretative del Tate degli anni migliori) e Bitter Romance (semi ballad che mantiene comunque inalterata tutta la potenza espressa sull’album), ma è nell’insieme che il disco ha qualcosa in più, aiutato da un lavoro in consolle da elogiare.
Beyond Eternity è il classico album metal dai rimandi old school perfettamente inserito nel nuovo millennio, fiero nel suo essere classico, suonato ottimamente e a tratti trascinante, uno spasso per gli amanti dell’heavy metal suonato nel nuovo continente.
Quando le sonorità vecchia scuola sono glorificate in tale maniera, album come questo sono da usare come esempio per le nuove leve metalliche, cresciute ai ritmi sincopati del metal odierno.

TRACKLIST
1. Black World
2. Metal Messiah
3. Pandora’s Box
4. Beyond Eternity
5. When the Stars Fall
6. Bring It Down
7. Why So Sad
8. Whiskey Angel
9. Bitter Romance

LINE-UP
George Neal – bass
Rick Graig – guitars
Jeff Schlinz – vocals
Rob Brug – drums
Lisa Hurt – keyboards, backing vocals

ICHABOD KRANE – Facebook

Metal Witch – Tales From The Underground

Un album dedicato a chi mantiene intatto il cordone ombelicale che lo tiene legato alla scuola old school, le nuove leve difficilmente troveranno di che soddisfarsi, ma ai Metal Witch non credo interessi più di tanto.

Il ritorno in auge delle sonorità old school hanno risvegliato realtà metalliche ormai dormienti da molti anni i gruppi storici, specialmente quelli conosciuti in ambito underground, sono tornati a combattere le loro battaglie sotto la bandiera di label attente nel mantenere vivi i suoni classici come, per esempio la Pure Steel, e le etichette che dalla label tedesca dipendono per la distribuzione, come la Iron Shields.

I tedeschi Metal Witch ne sono il classico esempio: una band cresciuta negli anni ottanta, ma che ha visto il primo lavoro uscire addirittura all’alba del nuovo millennio.
Nel 2008 il primo lavoro sulla lunga distanza passato quasi inosservato (Risen From The Grave), ristampato tre anni fa ed ora finalmente un nuovo lavoro, che se non susciterà grossi clamori sicuramente piacerà al pubblico metallico ancorato ai vecchi cliché ottantiani.
Nulla di clamoroso dunque, ma un buon esempio di heavy metal ignorante, un sound che del gergo calcistico, palla lunga e pedalare fa il suo credo, mescolando con risultati più che sufficienti molte delle caratteristiche dei gruppi più famosi dell’era d’oro della nostra musica preferita.
Il quintetto di Amburgo, infatti, parte da una base musicale fortemente influenzata dalla new wave of british heavy metal, aggiunge un pizzico di ritmiche power, classiche per chi proviene dalle terre germaniche, e lo velocizza con trame rock’n’roll: ne esce un sound che rispecchia le caratteristiche peculiari di gruppi quali Accept, Saxon e Motorhead.
Il tutto sinceramente funziona, anche per merito di brani come Heavy And Roll (con il classico fischio usato da Biff nei primi lavori dei Saxon), Stay True, dove aleggia lo spirito di Lemmy, senza dimenticare l’opener Cheers To The Underground, un inno metallico dedicato ai maestri Accept.
Un album dedicato a chi mantiene intatto il cordone ombelicale che lo tiene legato alla scuola old school, le nuove leve difficilmente troveranno di che soddisfarsi, ma ai Metal Witch non credo interessi più di tanto.

TRACKLIST
1. Cheers to the Underground
2. Flute of Shame
3. God Save the Heroes
4. Heavy and Roll
5. Standing in My Way
6. Stay True
7. Still Going Strong
8. The Heart of England
9. The Man Who Shouldn’t Live
10. Weapons of the Night

LINE-UP
Thorsten Meyer – Bass
Rüdiger Voigt – Drums
Ingo Hinz – Guitars
Lorenz Hoppe – Guitars
Kay Rogowski – Vocals

METAL WITCHES – Facebook

Seven Sisters – Seven Sisters

Un buon album di heavy metal, niente di più e niente di meno, ma i Seven Sisters sapranno far dimenticare ai più attempati gli anni che inesorabilmente sono passati.

Nel ritorno in auge dei suoni old school non potevano certo mancare i gruppi dediti alla riproposizione di uno dei generi più famosi ed importanti di tutto il mondo metallico, l’heavy metal di scuola britannica conosciuto ai più come new wave of british heavy metal, una scena che nello spazio di quattro anni, tra il 1979 e il 1983 diede i natali ad una manciata di gruppi divenuti in seguito delle vere icone della nostra musica preferita con in testa gli Iron Maiden.

E britannici sono pure i Seven Sisters, band attiva in quel di Londra da un paio d’anni ed arrivata all’esordio omonimo sulla lunga distanza dopo il classico demo, inizio discografico per il 90% dei giovani gruppi metallici di tutto il mondo.
Le sette sorelle non mancheranno di piacere ai nostalgici del suono inglese per antonomasia, almeno in ambito metallico, l’album infatti è una trasposizione fedele del suono di quegli anni, dalla produzione che odora di vinili impolverati, al sound perfettamente calato nei cliché che fecero grandi le realtà ottantiane.
Cavalcate maideniane, solos dal flavour epico, così come i refrain, ed un vocalist più che dignitoso, fanno di Seven Sisters il lavoro perfetto per metallari ormai vicini alla pensione, con gli occhi lucidi quando il sound si colma di quelle atmosfere dure come l’acciaio ed emozionali come solo la musica heavy metal classica sa regalare.
Le ritmiche mantengono una linea che perdura su cavalcate o mid tempo, non mancano i crescendo tipici di chi la storia del metal l’ha fatta per davvero e, nel suo piccolo, l’album regala qualche perla incastonata sul manico dello spadone forgiato dagli dei del metallo (Destiny’s Calling, Seven Sisters e Cast To The Stars).
Un buon album di heavy metal, niente di più e niente di meno, ma i Seven Sisters sapranno far dimenticare ai più attempati gli anni che inesorabilmente sono passati.

TRACKLIST
1. Destiny’s Calling
2. Highways of the Night
3. The Silk Road
4. Seven Sisters
5. Pure as Sin
6. Commanded by Fear
7. Gods and Men Alike
8. Cast to the Stars

LINE-UP
Kyle McNeill – Guitars, Vocals
Graeme Farmer – Guitars
Adam Thorpe – Bass
Steve Loftin – Drums

SEVEN SISTERS – Facebook

Vultures Vengeance – Where the Time Dwelt In

Il sacro fuoco dell’heavy metal scorre nelle vene e nello spartito dei romani Vultures Vengeance, alfieri del più canonico ma affascinante esempio di puro metallo direttamente dagli anni ottanta.

Il sacro fuoco dell’heavy metal scorre nelle vene e nello spartito dei romani Vultures Vengeance, alfieri del più canonico ma affascinante esempio di puro metallo direttamente dagli anni ottanta.

Attivi dal 2009 i quattro cavalieri metallici hanno finora dato alle stampe un solo demo, Rising, che ha trovato estimatori soprattutto in Germania e Giappone, feudi metallici di lungo corso.
Dopo sette lunghi anni dalla nascita del combo, arriva tramite la Gates Of Hell Records un nuovo lavoro in formato ep, Where The Time Dwelt In che, a fronte di una produzione scarsa o definibile da molti old school, convince, emoziona e lascia intravedere un gruppo con molte frecce da scagliare in ambito classico.
Quattro cavalcate metalliche all’insegna di una neanche troppo velata epicità, una dichiarazione di guerra al metal moderno fatta di solos taglienti, atmosfere guerresche e fiere dichiarazioni d’intenti: portare nel nuovo millennio il più puro ed incontaminato heavy metal.
Warlord e Iron Maiden sono i numi ispiratori, un vocalist che comanda le operazioni con il giusto carisma (Tony T. Steele), ed un songwriting molto ispirato, fanno di questo ep un cult per tutti gli appassionati.
Quattro tracce ispiratissime, con On A Prisoner’s Tale una spanna sopra alle altre, che mantengono una media molto alta e con lo strumentale Where The Time Stands Still che la dice lunga sulla qualità della musica del gruppo romano.
Questo ep, se prodotto con tutti i crismi sarebbe risultato una bomba: ci accontentiamo, anche perché non so quanto la cosa sia voluta dalla band, ma rimane l’assoluto valore dei brani che compongono l’opera e che svernicia molti degli album sentiti nel genere negli ultimi tempi.

TRACKLIST
1. Intro
2. A Curse From Obsidian Realm
3. And The Wind Still Screams His Name
4. On a Prisoner’s Tale
5. Where The Time Stands Still

LINE-UP
Tony T. Steele – vocals, guitars
Matt Savage – bass
Nail – guitars
K Khel – drums

Legion – War Beast

I fratelli Adamo valorizzano con le loro trame chitarristiche i brani, ben interpretati dal cavaliere metallico Ralph Gibbons, singer di razza che gioca con toni cari a Dio e Ian Gillan

Tornano dopo più di dieci anni dall’esordio i Legion, band del New Jersey capitanata dai fratelli Adamo ed alfieri di un heavy metal classico, tra la tradizione europea di gruppi come Rainbow e Dio e quella statunitense U.S. Metal.

Il gruppo aveva già fornito un’ottima prestazione sul primo Shadow of the King, che aveva lasciato una buona impressione agli addetti ai lavori, purtroppo il lungo silenzio ha condizionato non poco la carriera del gruppo in anni in cui si fa fretta a dimenticare, travolti dalle centinaia di uscite mensili ed un approccio alla musica che, anche nel metal, sta prendendo la pericolosa strada dell’usa e getta.
La Pure Steel però non se li è fatta scappare e War Beast può così contare sulla label tedesca, madrina di innumerevoli realtà musicali dai rimandi old school e molto attenta al mercato statunitense.
Come nel primo lavoro, l’ascendente Rainbow è molto presente tra le trame dei brani, a tratti epici, ben assestati su mid tempo potenti ma eleganti e sfiorati da un vento power di estrazione americana che convince non poco.
I fratelli Adamo valorizzano con le loro trame chitarristiche i brani, ben interpretati dal cavaliere metallico Ralph Gibbons, singer di razza che gioca con toni cari a Dio e Ian Gillan, e che dà il suo personale tocco classic alla proposta del gruppo.
Si passa da brani più tirati e aperti da riff metallici di scuola ottantiana (Gypsy Dance), a bellissimi esempi di hard & heavy dove l’arcobaleno più famoso del metal viene glorificato, con Gibbons che si esalta nel capolavoro Bricks of Egypt, brano che sprizza epicità regale, un omaggio neanche troppo velato al grande Ronnie James.
Stand And Fight risulta un brano più diretto rispetto allo standard delle tracce, anche se non manca il refrain epico che riporta l’atmosfera sui lidi già descritti.
Arriviamo alla conclusiva Luna (ballad di genere), senza fatica accompagnati dal sound di questo ottimo gruppo che ripercorre strade storiche senza indugi, riportandoci tra i colori di un arcobaleno difficile da dimenticare, un album di hard & heavy classico sopra le righe, bella sorpresa.

TRACKLIST
1. On The Place Horse
2. Gypsy Dance
3. Bricks Of Egypt
4. When Life And Spirit Divide
5. War Beast
6. Stand And Fight
7. Future Passed
8. Luna

LINE-UP
Ralph Gibbons – vocals
Frank Adamo – guitars
Arthur Maglio – bass
John Soden – drums
Joe Adamo – guitars

LEGION – Facebook

Temperance – The Earth Embraces Us All

Un lavoro nel quale sono rare le cadute di tensione, basterebbe dimenticare Amaranthe e Nightwish e continuare ad osare.

Personalmente trovo delizioso il titolo cha la band ha dato a questo nuovo lavoro in studio. L’immagine de ‘La Terra Abbraccia tutti noi’ evoca sensibilità all’ambientalismo, implica scienza e filosofia insieme, mente e cuore.

Sono convinto che facciamo parte di una grande Unità, e mi piace constatare che questi validissimi ragazzi italiani ce l’abbiano messa tutta per rendere The Earth Embraces Us All una creatura capace di comprendere le diverse sfaccettature connaturate nell’esistenza stessa. Ed è molto bello anche l’artwork realizzato da Gustavo Sazes (Kamelot, Arch Enemy, Morbid Angel). Rispetto ai brani più immediati dei primi due lavori, in The Earth… troviamo alcune composizioni molto più elaborate, elementi nuovi, come ad esempio il violino, che accentua la vena prog della band. Consideriamo pure che i Temperance hanno già alle spalle una discreta serie di concerti con artisti tra i quali Nightwish, Luca Turilli’s Rhapsody, Dragonforce, Within Temptation. L’elemento che risalta immediatamente in questo nuovo lavoro è la varietà. Ottime miscele di riff, parti più elettroniche e altre folk, le vocals cristalline di Chiara Tricarico che regge degnamente e amplifica le innumerevoli suggestioni. Meno convincente (a tratti) l’aggressività di Pastorino al microfono che si alterna non sempre con successo tra scream raschiato e (quasi) growl. Il sipario si apre con gli oltre 6 minuti della sinfonica e orecchiabile A Thousand Places, brano fra i meno originali del lotto comunque impreziosito dalle parti di violino a inizio traccia e dal sax nel finale. La seconda traccia At The Edge Of Space, più canonica, ma ancora molto orecchiabile ed efficace. La folkeggiante Unspoken Words saltella giocosamente mentre la successiva Empty Lines ricalca la vena del power-prog più nordico. Mi fa sempre strano ascoltare i testi in italiano (Maschere) nel quale affrontano lo svelamento del nostro io, un messaggio positivo, ma che implica sofferenza. In Haze c’è un bel groove, la modernità incontra schemi e stili indubbiamente già sfruttati. La power ballad Fragments of Life si fa ben godere, poi irrompe Revolution che di rivoluzionario non ha nulla, ma spinge bene e si stampa in mente. Con gli 8 minuti di Advice From A Caterpillar ci troviamo finalmente con un titolo curioso e con un brano in cui la temperanza si manifesta decisamente. Qui la band sperimenta la fusione tra metal prog e musica classica, spruzzando il tutto con un pizzico di follia jazz ottimamente arrangiata. La dolce Change The Rhyme è caratterizzata da soavi melodie accompagnate dal piano e da vocals ispirate. Finale con la suite The Restless Ride, altro pezzo da novanta di prog metal sinfonico in cui la sezione ritmica decide la marcia, accarezzata dalle tastiere e interrotta da climi altalenanti tra quiete e impetuosità.
Notevole l’impianto sonoro e creativo messo su dai Temperance, con imponenti atmosfere e ottima perizia nell’esecuzione, e la sontuosità tenuta sapientemente sempre sotto controllo. Un lavoro nel quale sono rare le cadute di tensione, basterebbe dimenticare Amaranthe e Nightwish e continuare ad osare.

TRACKLIST
1. A Thousand Places
2. At The Edge Of Space
3. Unspoken Words
4. Empty Lines
5. Maschere
6. Haze
7. Fragments Of Life
8. Revolution
9. Advice From A Caterpillar
10. Change The Rhyme
11. The Restless Ride

LINE-UP
Chiara Tricarico – lead vocals
Marco Pastorino – lead guitars & backing vocals
Sandro Capone – rhythm guitar
Luca Negro – bass
Giulio Capone – drums

TEMPERANCE – Facebook

Hyaena – Metamorphosis Revisited

Metamorphosis torna in una nuova veste con suoni cristallini che mettono in risalto il metal classico del gruppo toscano

Gabriele Bellini oltre ad essere un grandissimo chitarrista, nonché attuale boss della Qua’Rock, è stato uno dei precursori della scena metal nazionale.

Nel 1985, insieme a Ross Lukather, fondò gli Hyaena dando alle stampe due anni dopo Metamorphosis, demo che incoronò la band come fulgido esempio italiano di New Wave Of British Heavy Metal, genere storico all’epoca ancora nelle preferenze dei fans.
In seguito il gruppo ebbe un discreto successo nel panorama progressivo con due splendidi lavori, The Ground, the Light, the Sound del 1992 e Scene, uscito nel 1995, ma il primo urlo metallico del gruppo rimane un piccolo gioiello che meritava sicuramente più attenzione da parte di fans e addetti ai lavori.
Negli ultimi tempi Gabriele e Ross (nel frattempo protagonisti nella scena metal nazionale con Death SS, Labyrinth, Athena, Ritmenia Zoo, Pulse-R, Shining Fury) tornano a far parlare della loro storica band e, unite le forze con la cantante Claire Briant Nesti e la bassista Isabella Ferrari, con la produzione di Giacomo Jac Salani fanno risplendere i sei brani che componevano lo storico demo, aggiungendovi la spettacolare cover di Phenomena dei Goblin.
Metamorphosis così torna in una nuova veste, con suoni cristallini che mettono in risalto il metal classico del gruppo toscano, in un’altalena di sfumature NWOBHM e metallo statunitense, con la chitarra di Bellini che taglia il ferro, chirurgica ed ispirata, l’ottimo lavoro di Lukater e della Ferrari nelle ritmiche, valorizzati poi da una prestazione di spessore dalla nuova vocalist, interpretativa e personale nella sua varia performance.
Metamorphosis parte forte con la title track, brano british al 100%, carico di adrenalina, con la sei corde che disegna teschi in cielo tra tuoni e fulmini, un mid tempo heavy metal esemplare.
Wrath Child corre via con ritmiche power, per poi rallentare e rientrare nei ranghi del classico metal ottantiano, epico e fiero, mentre No Man’s Land risulta un crescendo di tensione dove la prova della Nesti diventa sontuosa, marchiando a fuoco il brano con cori operistici presi in prestito dalla sua band, i power/prog metallers Inside Mankind.
Da Behind The Wall in poi il sound si sposta sul versante americano: il metal degli Hyaena, pur mantenendo un approccio europeo, si avvicina ai Riot di Mark Reale quali ispiratori di cavalcate metalliche urlanti come Kill Without Mercy e Screams For Savannah, mentre la già citata cover di Phenomena lascia in noi la speranza di rivedere il gruppo sul mercato con un lavoro di inediti.
I suoni old school, specialmente nell’underground, stanno piano piano tornando tra le preferenze degli ascoltatori e non è detto che ciò costitusica un passo indietro, anzi …

TRACKLIST
1. Metamorphosis
2. Wrathchild
3. No Man’s Land
4. Behind the Wall
5. Kill Without Mercy
6. Screams for Savannah
7. Phenomena

LINE-UP
Ross Lukather – Drums
Gabriele Bellini – Guitars
Isabella Ferrari – Bass
Claire Briant Nesti- Vocals

HYAENA – Facebook

Sabaton – The Last Stand

L’epicità valorizzata da orchestrazioni melodiche sopra le righe, la fierezza e l’impatto uniti ad un approccio da true defenders sono ancora ben in vista nel sound del battaglione Sabaton.

Tornano i guerrieri di Falun con l’ottavo lavoro sulla lunga distanza di una carriera che li ha visti arrivare fino ai vertici nelle preferenze degli amanti del power metal epico e, in questi anni di suoni moderni e contaminazioni varie che imbastardiscono (spesso con ottimi risultati, chiariamolo) il nostro amato metal, non è cosa da poco.

La band svedese si è appunto costruita una reputazione che solo i gruppi con una marcia in più e benedetti dal dio metallo possono vantarsi d’avere, e poco conta se questo The Last Stand dividerà la critica e forse i fans, l’epicità valorizzata da orchestrazioni melodiche sopra le righe, la fierezza e l’impatto uniti ad un approccio da true defenders sono ancora ben in vista nel sound del battaglione Sabaton.
Un album scritto per intero in tour, con una miriade di date live che hanno tenuto la band in giro per il mondo praticamente dall’uscita del precedente Heroes, non hanno minato lo spirito con cui i Sabaton si approcciano al power metal epico con cui sono diventati uno dei gruppi più amati e seguiti della scena, confermato da un’opera che se lascia qualcosa indietro per quanto riguarda furia e durezza metallica, si impreziosisce valorizzando l’aspetto melodico.
Peter Tägtgren ha prodotto l’album, una garanzia per la qualità dei suoni di The Last Stand, che letteralmente esplodono metallici e sontuosamente orchestrali, attraversando i secoli tra scontri e battaglie vissute in diverse epoche storiche.
Dai 300 guerrieri di Sparta, alla prima guerra mondiale, dalla Scozia dei clan (Tunes Of War docet), ai samurai nel Giappone degli imperatori, The Last Stand trascina in epoche e fatti dove i comuni denominatori sono sangue e valore, eroi vincenti o sconfitti, sempre sotto il segno dei guerrieri di Falun.
Se il sound del gruppo aveva bisogno di una rinfrescata, l’uso più marcato delle melodie ed un’occhiata all’hard rock (che ricordo in Svezia è tradizione, ancora prima del successo dei suoni estremi), direi senz’altro che la band ha raggiunto il suo scopo, forte di brani dal grande appeal (su tutti la splendida Blood of Bannockburn), non facendo mancare gli inni epici per cui sono diventati famosi e che già dall’opener Sparta faranno crogiolare i vecchi fans della band.
I cori vi inviteranno come sempre ad urlare al cielo la vostra fiera appartenenza al popolo metal, le tastiere di scuola hard rock smuoveranno i vostri fondo schiena, le ritmiche faranno sbattere le vostre teste e le asce sanguineranno quando entreranno nel petto del nemico.
Da un album del genere pretendere di più è puro eufemismo…

TRACKLIST
1. Sparta
2. Last Dying Breath
3. Blood of Bannockburn
4. Diary of an Unknown Soldier
5. The Lost Battalion
6. Rorke’s Drift
7. The Last Stand
8. Hill 3234
9. Shiroyama
10. Winged Hussars
11. The Last Battle

LINE-UP
Joakim Brodén-Vocals
Chris Rörland-Guitars
Pär Sundström-Bass
Hannes Van Dahl-Drums

SABATON – Facebook

Stryctnyne – Unfinished Business

Unfinished Business continua fino all’ultima canzone ad alternare metal e hard rock

Strana storia quella degli Stryctnyne, band statunitense fondata dal bassista Samson James e dal chitarrista Grandma Cyco addirittura nel bel mezzo degli anni ottanta, con due demo all’attivo tra il 1990 e l’anno successivo e poi un lungo letargo che porta al risveglio nel 2013 con una compilation e a questo primo lavoro sulla lunga distanza che esce su per giù a distanza di trent’anni dall’inizio delle ostilità.

Unfinished Business quindi si può considerare in toto come un ritorno del gruppo newyorkese, finalmente sul mercato con il suo hard & heavy che se a tratti si può considerare scolastico, non manca di farsi apprezzare per il buon lavoro in fase di creazione, un’attitudine che rivolge lo sguardo tanto al metal classico (Accept) quanto all’hard rock nato nella terra dei canguri (Ac/Dc) e legato ad un certo modo di fare rock’n’roll maschio, ignorante e senza compromessi.
La voce rude, da polveroso motociclista appena sceso dal suo cavallo d’acciaio di ritorno da un giro per la Route 66, di Siren Scac ci porta nell’America on the road, sempre in bilico tra l’heavy metal e l’hard rock, la chitarra sputa saliva impolverata dalla sabbia del deserto, mentre Blasphemer risulta un’opener atipica per l’album, interpretata dal singer con toni vicini al growl, dalle ritmiche sabbathiane e dai solos che sono filmini metallici all’orizzonte.
Ottima apertura, non fosse che dalla seconda traccia l’album cambia registri, gli umori si fanno rock, ruvidi, pesanti, ma pur sempre devoti al rock, e bisogna arrivare al brano numero sette (Satan’s Ride) per ritornare alle sonorità classic doom metal dell’inizio.
Bellissima Thunder Godz che, a dispetto di un titolo super metallico, risulta un rock’n’roll intriso di southern rock, trascinante e splendidamente U.S.A.
Unfinished Business continua fino all’ultima canzone ad alternare metal e hard rock, risultando vario, mentre col tempo le tracce intrise di spirito ribelle hanno la meglio su quelle più orientate al metal tout court.
In generale un buon ritorno per il gruppo di Long Island, che si fa ascoltare e diverte, onesto nel portare avanti una proposta old school fregandosene altamente di mode e music biz, promossi.

TRACKLIST
1. Blasphemer
2. Last Rite
3. Kill or Be Killed
4. Line Them Up
5. Hammer Down
6. Reality
7. Satan’s Ride
8. Thunder Godz
9. Turn the Power On
10. Witches Hunt
11. The Power and the Glory
12. Keeper’s of the Secret

LINE-UP
Samson James – Bass
Jack Hammer – Drums
Grandma Cyco – Guitars
Siren Scac – Vocals

STRYCTNYNE . Facebook

Sue’s Idol – Six Sick Senses

Six Sick Senses è un lavoro dai richiami old school che meritava senz’altro una migliore produzione

Eccoci con il classico album che un lavoro su produzione e mastering di un altro livello avrebbe reso eccellente, mentre ci si deve accontentare di un ottimo songwriting e buone idee poco valorizzate da un suono non all’altezza.

Voliamo virtualmente negli Stati Uniti e precisamente in Nevada dove, nella città capitale mondiale del gioco d’azzardo (Las Vegas), incontriamo i Sue’s Idol, heavy metal band al secondo full length , successore di Hypocrites and Mad Prophets, debutto licenziato un paio di anni fa.
Il loro nuovo album intitolato Six Sick Senses è un bell’esempio di heavy metal statunitense, cantato ottimamente ed ispirato alle opere oscure di Metal Church, primi Savatage ed Helstar, con i Black Sabbath a fare da collante al sound e bellissime orchestrazioni che conducono l’opera verso un mood epico davvero trascinante.
Si destreggia tra le trame del disco il bravovocalist Shane Wacaster, anche batterista e fondatore del gruppo insieme al chitarrista Dan Dombovy, i richiami alle band elencate come ispiratrici dei musicisti sono chiare e cristalline come l’acqua di un torrente montano, poco male se siete amanti del genere, anzi la band fa funzionare il tutto a dovere e le varie Kill Or Be Killed, aperta da sontuose orchestrazioni dal mood cinematografico, il doom metal richiamato all’inizio della monumentale Gears Of War o la cavalcata epico oscura Lady Painted Death risultano dei brani splendidi di U.S. metal old school.
Peccato perché il gran lavoro del gruppo in fase di scrittura non viene supportato da quello in consolle, i brani escono ovattati, le tastiere e la batteria sono lasciate in secondo piano, mentre la voce a tratti perde la sua forza, travolta dal suono delle chitarre.
Six Sick Senses è un lavoro dai richiami old school che meritava senz’altro più attenzione, un peccato mortale per il gruppo non curare certi dettagli in sala d’incisione, perché le potenzialità ci sono tutte.

TRACKLIST
1. Six Sick Senses
2. DMO
3. Halls of Mourning
4. Scion Pariah
5. Kill or Be Killed
6. Luna Sees
7. Metal Octane
8. Gears of War
9. Taste This Evil
10. A Minor Requiem
11. Lady Painted Death

LINE-UP
Shane Wacaster – Drums, Vocals
Dan Dombovy – Guitars
Steve Habeck – Bass
Toby Knapp – Guitars (lead)
Mitch Dematoff – Keyboards, Piano

SUE’S IDOL – Facebook

Icy Steel – Through The Ashes

Dopo due ascolti non potrete fare ameno di urlare verso il cielo, in un’atmosfera delirante di conquista e vittoria.

Lucidate le spade, calzate le armature e foderate gli scudi, gli Icy Steel sono tornati, ancora una volta tramite la label tedesca Pure Steel (dopo la parentesi My Graveyard Productions con il precedente Krònothor) e Through The Ashes risulta un esempio tangibile dell’enorme potenziale del gruppo sardo, almeno per quanto riguarda l’heavy metal dagli spunti epici e manowariani.

Per chi non conoscesse il gruppo proveniente da Sassari, ricordo che si sta parlando di una realtà attiva dal 2005 e con tre full length sul groppone, il primo omonimo album uscito nell’ormai lontano 2007, seguito da As the Gods Command del 2010 ed il precedente lavoro licenziato quattro anni fa.
Fondati da quell’animale metallico che è  Stefano Galeano (voce e chitarra) e con una storia comune a molte band, con cambiamenti di line up in corso d’opera, il grupposi assesta con il condottiero sardo a capitanare un manipolo di eroi composto da Pietro Bianco alla sei corde, Flavio Fancellu alle pelli e Carlo Serra al basso, fautori di un’opera epica sopra le righe, in formato doppio cd con il primo (Before) a rinverdire la tradizione metallica della band, ed il secondo (After) a coglierne l’anima introspettiva ed acustica.
Si parte nel migliore dei modi con il metallo epico e coinvolgente del primo cd, un ottimo esempio di come l’heavy metal classico ed epico conquisti ancora la palma di genere re della musica a sfondo guerresco.
Before è un’apoteosi di atmosfere battagliere, orgoglio metallico che sfiora la perfezione, prodotto benissimo e valorizzato da un lotto di brani che grondano fierezza.
Sarà anche la provenienza dei nostri (il popolo sardo, senza nulla togliere agli altri, è uno dei più fieri del Mediterraneo), sarà un songwriting in stato di grazia, ma il lotto di brani qui presentato sbaraglia la concorrenza nel genere: Galeano si dimostra singer di altra categoria e la sei corde con i suoi assoli è una spada affilata piantata nel costato dei nemici affrontati in battaglia.
Epicità alla massima potenza, con una serie di tracce (la forma canzone qui è alla massima potenza) che dopo due ascolti vi spingeranno ad urlare al cielo, in un’atmosfera delirante di conquista e vittoria.
The Day Became Night, Last Thing To Destroy, …And The Warrior Return, sono straordinarie interpretazioni del classico metallo epico che collegano la band a realtà importantissime della storia del genere come gli amatissimi Manowar, gli inarrivabili Warlord e i meno conosciuti Slough Feg.
Si cambia cd ed entriamo nel mondo più poetico e folk degli Icy Steel con cinque brani acustici, cinque atmosferiche tracce che ci presentano il lato più riflessivo del combo.
La battaglia è giunta al termine e i guerrieri intorno al fuoco ringraziano gli dei per essere sopravvissuti ancora una volta e per poter tornare al più presto a combattere: le sei corde ricamano armonie acustiche dall’alto della tecnica dei protagonisti, con sfumature progressive che lasciano senza fiato, assolutamente non banali e piacevolmente strumentali come Inside The Glass Place e la conclusiva Shaman’s Death.
Album bellissimo ed emozionante, un affresco di metallo epico e classico che non si può ignorare, pena la morte a fil di spada …

TRACKLIST
CD1 – Before
1 Last Man On The Earth
2 Fire And Flames
3 The Day that Became Night
4 Ritual Of The Wizard
5 Last Thing To Destroy
6 …And The Warriors Return
7 Today The Rain Cries
8 The Earth After Man

CD2 – After (unplugged)
1 Bard’s Dreams In The Silent Woodland
2 Ashes Of Glory
3 Inside The Glass Place
4 Shaman’s Death
5 The Weight of Signs

LINE-UP
Stefano “Icy Warrior” Galeano – Guitars and Vocals
Pietro Bianco – Guitars
Flavio “Athanor F.D.H.” Fancellu – Drums
Carlo Serra – Bass

ICY STEEL – Facebook

Blackgate – Ronin

Ronin è un buon lavoro che sicuramente non cambierà la storia della nostra musica preferita ma sprigiona molta energia e, sopratutto, risulta un sincero tributo all’heavy metal.

I Ronin, nella cultura del Sol Levante, sono una particolare frangia dei più famosi Samurai, quelli che hanno perso il legame con il proprio signore per la morte di quest’ultimo o per la perdita di fiducia nei loro confronti, diventando guerrieri erranti.

Sulla copertina del primo lavoro dei power thrashers americani Blackgate campeggia proprio uno di questi bellicosi guerrieri giapponesi, ai quali il titolo è dedicato, mentre sullo sfondo un paese è in preda ad un furioso incendio.
Fuoco e fiamme metalliche, che si alimentano con il power metal del quintetto del Michigan, potenziato da potenti ritmiche thrashy e solos di chiara ispirazione heavy.
Un album old school, per dirla come va di moda in questi anni, composto da quattordici brani che comprendono anche quelli del primo ep uscito un paio di anni fa, un po’ prolisso per l’ora abbondante di durata, che nel genere è veramente tanta, ma probabilmente il gruppo ha cercato di presentarsi all’appuntamento con il primo full length con tutta la musica a disposizione.
Power metal, speed e thrash si alleano per formare il sound di Ronin, le tracce mantengono un approccio metallico molto ottantiano, diretto quel tanto che basta per avvicinarsi al mood del thrash metal, senza dimenticare la lezione dei gruppi classici, più europei che americani a dire il vero, ma questo è un dettaglio.
Ronin incalza e i primi sette brani sono saette metalliche che squarciano il cielo notturno, mentre il paese brucia; alla velocità della luce le varie BPS, la titletrack, l’ottima The Soldier sparano mitragliate ritmiche, che si trasformano in cavalcate chitarristiche di buona fattura e supportate da una produzione sufficientemente in linea con i prodotti odierni.
La seconda parte del disco regala i brani migliori: le lunghe The Veil e Last Son guardano all’heavy metal dei classici Maiden e Priest, velocizzati e tributati dai riff e solos in uscita dalle due asce, mentre Iron Legion torna a solcare territori thrash, questa volta con il basso in grande evidenza.
Ronin è un buon lavoro che sicuramente non cambierà la storia della nostra musica preferita ma sprigiona molta energia e, sopratutto, risulta un sincero tributo all’heavy metal.

TRACKLIST
1. Bps
2. Ronin
3. Dying Age
4. Horizon’s Fall
5. Caesar
6. The Soldier
7. You Better Run
8. Beneath
9. The Veil
10. Last Son
11. I Am the Night
12. Iron Legion
13. Hollow Men
14. Bps (Reprise)

LINE-UP
Ryan Lunsford – Drums
Jeff Kollnot – Guitars
Matt Cremeans – Guitars
David Cuffman – Vocals
Zach Flora – Bass

BLACKGATE – Facebook

Thermit – Saints

Un album che vale la pena cercare come l’arca perduta

Mi chiedo spesso il motivo per cui delle ottime band licenzino album autoprodotti, risultando comunque ben fatti sotto ogni punto di vista, mentre altre hanno la fortuna di accasarsi con label importanti (a livello underground) per poi deludere con lavori approssimativi, specialmente per quanto riguarda produzione e master.

Saints è l’esempio lampante di come dietro ad album con i crismi dall’autoproduzione si nasconda spesso un piccolo gioiellino metallico, supportato da un buon songwriting e da un ottimo lavoro in sala.
Loro sono i Thermit, gruppo heavy/thrash polacco attivo dal 2009 e con un paio di lavori minori alle spalle (un demo ed un ep), arrivano quest’anno al traguardo del debutto con Saints, album suonato alla grande, prodotto quel tanto che basta per valorizzare il gran lavoro strumentale dei cinque musicisti di Poznam che, con piglio e sfrontatezza, affrontano la materia metallica mettendo in campo grinta, freschezza ed un’ottima preparazione strumentale.
Saints si avvale di una sezione ritmica varia e martellante (Przydep alle pelli e Fabian al basso) che non disdegna repentini cambi di tempo e un approccio che, a tratti, non è eresia chiamare progressivo.
Le chitarre seguono con solos e riff le intricate partiture, mentre un cantante tripallico spettacolarizza il tutto con una prova grintosa, melodica e personale, cambiando registro su ogni brano e mettendo l’ombrellino sul cocktail metallico preparato dal gruppo.
I santi sono tutti sotto il palco a fare headbanging, esaltati da questa raccolta di brani che non lascia scampo, la storia del metal fa capolino tra lo spartito dell’album non facendo mancare il supporto in termini di ispirazione, sia delle storiche thrash bad della Bay Area che l’heavy classico di estrazione europea.
Un lavoro ritmico sontuoso elargito da quel mostro di bravura che di nome fa Fabian, ultimo arrivato in casa Thermit, con il suo basso fa la differenza come Lewandowski al centro dell’area di rigore, e contribuisce a rendere Saints un debutto coi fiocchi, con Zombie Lover, la splendida Smoke & Soot, dove la band regala spunti hard blues e di fatto suonando il primo brano thrash blues della storia, il ruvido mid tempo Fairyland, con le due asce (Jendras e Modly) sugli scudi; ancora,  l’esaltante Louise, dove Trzeszcz fulmina il microfono con una prova sopra le righe e, quando i Thermit decidono di suonare heavy metal, la titletrack prende i Judas Priest per il colletto e Painkiller al confronto sembra una sigla di cartoni animati per bambini.
Un album che vale la pena cercare come l’arca perduta, spettacolare nel saper amalgamare, con spunti a tratti geniali, heavy metal, thrash, hard rock. prog e blues; ascoltatelo e ditemi quante marce in più hanno questi ragazzi: con band molto più famose il confronto diventa imbarazzante. Una bellissima scoperta.

TRACKLIST
1. Lady Flame
2. Zombie Lover
3. Perfect Plan
4. Smoke & Soot
5. The Story About Bird & Snake
6. Fairyland
7. The Last Meal of the King
8. Louise
9. Mr. Two-Face
10. Saints

LINE-UP
Przydep – Drums
Jendras – Guitars
Młody – Guitars
Trzeszcz – Vocals
Fabian – Bass

THERMIT – Facebook