Collapse Under Empire – The Fallen Ones

Non è solo post rock, o decostruzione dei fondamentali di quest’ultimo, ma qualcosa che si lega indissolubilmente alla nostra anima, e ci ricorda che non siamo solo corsa, fatica e numeri su un bancomat.

Definire i Collapse Under Empire un gruppo post rock è alquanto limitante nei loro confronti.

Certamente il loro genere di appartenenza è questo ibrido di rock ed altre cose, un dilatarsi moderno ma allo stesso molto antico per quello che provoca dentro chi lo sente e lo apprezza. I Collapse Under Empire hanno la missione di espandere la nostra coscienza, ma soprattutto di abbattere i confini dei nostri angusti mondi e proiettarci oltre, molto otre, per sfuggire alla bruttezza ed alla limitazione delle nostre vite. The Fallen Ones è il sesto disco di questo gruppo di Amburgo, ed è un cominciare a girarsi indietro ed omaggiare chi è caduto al nostro fianco, in un’età non più verde dove coloro che sono rimasti indietro cominciano ad essere molti. Una delle chiavi di lettura di questo disco, come di tutta la discografia dei Collapse Under Empire, è l’empatia, questo sentire insieme, l’avere le stesse emozioni, e qui di emozioni ce ne sono tante. Bisogna chiudere gli occhi e lasciarsi andare a suoni che non hanno nulla di predefinito o di caratterizzante, ma servono per raggiungere uno scopo, quello di emozionare l’ascoltatore; ci sono momenti di autentica beatitudine,  nei quali si viene trasportati in iperuranio dove la sofferenza è sublimata e la si rivive in un’altra maniera. Troppo spesso ci affanniamo, corriamo intorno alla nostra coda senza mai prenderla, mentre ci si dovrebbe fermare ed elevarsi al di sopra, ascoltando un disco come questo, un piccolo bosco incantato dove ci si può permettere una breve sosta per una magnifica terapia. I vari suoni del gruppo che scorrazza per generi diversi, cercando e trovando sempre la giusta soluzione sonora, ci portano in uno stato zen di calma e di contemplazione della bellezza, un ascoltare finalmente qualcosa di bello, di prezioso ed importante. Inoltre il duo tedesco ha una facilità di spiegarsi attraverso la sua musica, ed una grande umiltà che a volte spiazza. Non è solo post rock, o decostruzione dei fondamentali di quest’ultimo, ma qualcosa che si lega indissolubilmente alla nostra anima, e ci ricorda che non siamo solo corsa, fatica e numeri su un bancomat.

Tracklist
1.Prelude
2.The Fallen Ones
3.Dark Water
4.A Place Beyond
5.Blissful
6.The Forbidden Spark
7.The Holy Mountain
8.Flowers from Exile
9.The End Falls

Line-up
Martin Grimm
Chris Burda

COLLAPSE UNDER EMPIRE – facebook

Descrizione Breve

Autore
Massimo Argo

Voto
85

Genere – Sottogeneri – Anno – Label
Post Rock

Landscape

Cinematic

2017

SILENT WHALE BECOMES A° DREAM – REQUIEM

Un album in cui non c’è niente da perdere,se non sé stessi. Un ascolto che nemmeno ad un muro potrebbe risultare anonimo. È una porta aperta per una stanza di cui voi decidete il contenuto,irrazionalmente. Fatevi guidare dal vento gelido di questa band in un viaggio che sfugge agli occhi indiscreti.

Il concetto di “giudizio”, divino o umano che sia, è sempre soggetto a distorsioni e mistificazioni.

E allora a spiegarcelo meglio ci pensano i francesi Silent Whale Becomes A° Dream con il loro terzo album Requiem.
Perché di giudizio si parla, nella sua accezione più pura, quella da cui nessuno può nascondersi. È quello della coscienza, e di un mondo capace di assoggettare anche i più magnanimi a sensi di colpa inesistenti.
Come nei lavori precedenti, alla band francese non servono addobbi particolari, ma bastano quattro brani per raccontare qualcosa (addirittura, in Architeuthis era solo uno). Il titolo dell’album, così come quelli delle singole canzoni, rimanda al Dies Irae, proprio una delle sequenze del Requiem. La lingua latina, oltre che madre della nostra, risulta eternamente elegante e capace di immortalare ogni sensazione, come in questo caso.
Non si lasciano scappare questi particolari i nostri amici francesi, creando un mondo in musica verso il quale si può solo mettersi comodi, ma mai passivi. 57 minuti e 46 secondi in cui il benessere sconfinato ed eterno si intreccia all’inquietudine incalzante, all’angoscia che sta in agguato e sempre fa parte di noi.
Non manca la sana malinconia, per un futuro che si compone piano piano durante l’ascolto, e la breve pausa intorno al terzo minuto del brano Recordàre assomiglia ad un profondo respiro chiarificatore.
Questo calderone di emozioni si relaziona con lo scenario, che assume qui un ruolo quasi mistico, del mare. Dal mare può provenire un pericolo, ma soprattutto proviene il giudizio, il confronto. Ispirati dal mare, i francesi producono un sound quasi elitario, sulla scia dei God is an Astronaut, solo ed esclusivamente per chi sarà paziente e capace di seguirli, ma soprattutto di seguire sé stesso.
Ma come finirà questo loro racconto? Una risposta forse possiamo trovarla nel pezzo finale Lacrymósa Dies Illa (Giorno di lacrime, quello), che si sposta senza problemi, come delle soffici onde, tra inferno, purgatorio e, dulcis in fundo, paradiso. Come negli altri brani, vi è un’esplosione improvvisa, ma stavolta ha dei connotati diversi. Stavolta possiamo percepire la grandiosità nonostante i travagli passati.
In definitiva, i Silent Whale Becomes A° Dream hanno le idee chiare pur in un percorso che si mette sempre in discussione per sua stessa natura, e forse la parola chiave adatta per i loro lavori futuri, più che “giustizia” può essere “curiosità”.

Tracklist
1.Dies Iræ, Dies Illa
2.Cor Contritum Quasi Cinis
3.Recordàre
4.Lacrymósa Dies Illa

Line-up
S.
D.
E.
M.

SILENT WHALE BECOMES A° DREAM – Facebook

Misto – Helios

La giusta durata che non lascia spazio alla prolissità è un valore aggiunto alla fruibilità dell’opera, così che Helios si possa apprezzare nella sua interezza, mentre le onde si placano ed il nostro mare torna placido sulle ultime note di Time To Destroy My Life Capsule.

La musica di Misto è come il mare su cui si affaccia la sua città, Genova.

Da calma e tranquilla si increspa irrequieta o diventa impetuosa come le lunghe onde quando i venti soffiano forti , per poi tornare a dormire e, sonnecchiando, cullare la mente e il fisico di noi che da essa ci nutriamo, avidi di note.
Misto è il progetto solista del polistrumentista Mirko Viscuso, al secondo lavoro dopo l’ep Infinite Mirrors, licenziato lo scorso anno.
Parliamo di post rock strumentale, dall’anima progressiva e a tratti introspettivo, poetico ed incline ad un leggero mood psichedelico che lo rende misterioso, liquido e molto affascinante, proprio come il mare e come tale soggetto a repentini cambi di umore, in un vortice di tempi che non danno una precisa identità al sound, ma variano e si alternano, tra rock ed elettronica con  le burrasche elettriche che  agitano lo spartito avvicinandosi al post metal (Set Your Farearms Against The Sun).
Ma come per il mare, passata la tempesta si torna in armonia prima che attimi di musica dalle reminiscenze pinkfloydiane valorizzino la bellissima title track.
Helios è un lavoro strumentale che, come ci hanno abituato le giovani generazioni di musicisti, lascia da parte ogni forma di autocompiacimento tecnico a favore di un approccio emotivo altissimo: la giusta durata che non lascia spazio alla prolissità è un valore aggiunto alla fruibilità dell’opera, così che Helios si possa apprezzare nella sua interezza, mentre le onde si placano ed il nostro mare torna placido sulle ultime note di Time To Destroy My Life Capsule.

Tracklist
1.Buried Under Remote Lands
2.Polemic Guy Wants To Fight
3.Daffodils Crashing Into The Water
4.Set Your Firearms Against The Sun
5.Helios
6.Time To Destroy My Life Capsule

Line-up
Mirko Viscuso – All instruments

MISTO – Facebook

Painted Black – Raging Light

I Painted Black dimostrano d’aver raggiunto quella maturità necessaria per mettersi nella nobile scia dei maestri del gothic metal lusitano ed europeo chiamati Moonspell, facendolo però con una buona personalità e soprattutto cercando con successo di sottrarsi ad imbarazzanti paragoni con la band di Ribeiro.

Quando si pubblica un secondo full legth a sette anni di distanza da quello d’esordio è normale attendersi dei cambiamenti, in certi casi anche piuttosto sensibili.

È questo il caso dei portoghesi Painted Black, i quali dopo un album come Cold Comfort, riconducibile al filone gothic death doom, sono approdati ad una forma di rock/metal oscuro che non rinnega affatto le origini ma che sposta decisamente la barra verso lidi più melodici e liquidi; un’evoluzione per certi versi naturale e che trova i suoi potenziali prodromi nell’album d’esordio del progetto Sleeping Pulse, che vedeva all’opera Luís Fazendeiro, chitarrista e compositore principale della band lusitana, avvalersi della voce di Mick Moss per raggiungere vette di lirismo prossime, appunto, a quelle degli Antimatter.
Non stupisce più di tanto, quindi, ritrovare in Raging Light riferimenti a quell’area stilistica che parte dai Katatonia ed arriva fino agli ultimi Anathema, con la band svedese che aleggia sicuramente nei passaggi leggermente più robusti e meno atmosferici e quella inglese, invece, che emerge dai brani più melodici e suadenti, tutto questo senza dimenticare del tutto le radici metal che di tanto in tanto riemergono restando un elemento importante ma non preponderante nell’economia del lavoro.
Il sound dei Painted Black è decisamente elegante, sempre controllato e modellato con sapienza da Fazendeiro e compagni, con Daniel Lucas capace di fornire una buona prestazione vocale sia con voce pulita che in growl.
L’album parte ottimamente con due brani davvero belli come The Raging Light, oscillante tra un’indole intimista e l’antico retaggio gothic doom, e Dead Time, dallo sviluppo simile ma contenente una più decisa accelerazione nella fase centrale, il tutto sempre caratterizzato da un notevole lavoro chitarristico a tessere le opportune trame.
Il resto del lavoro si muove costantemente attraverso queste oscillazioni, mantenendo un’aura malinconica per la quale il colore più indicato nel monicker sarebbe il grigio piuttosto che il nero.
La chiusura è affidata ad una traccia molto lunga come Almagest, vera e propria summa dell’idea musicale dei Painted Black, i quali dimostrano d’aver raggiunto quella maturità necessaria per mettersi nella nobile scia dei maestri del gothic metal lusitano ed europeo chiamati Moonspell, facendolo però con una buona personalità e soprattutto cercando con successo di sottrarsi ad imbarazzanti paragoni con la band di Ribeiro.
Raging Light non rappresenta ancora l’album perfetto per i Painted Black, perché a mio avviso l’emotività che dovrebbe trasmettere un’opera di questo tipo arriva ancora in maniera discontinua, ma per certi versi questo è un bene, in quanto significa che la band portoghese ha nelle proprie corde un potenziale ancora superiore a quello già importante esibito in quest’occasione

Tracklist:
1 – The Raging Light
2 – Dead Time
3 – The Living Receiver
4 – Absolution Denied
5 – Chamber
6 – In The Heart Of The Sun
7 – I Am Providence
8 – Almagest

Line-up:
Daniel Lucas – Vocals
Luís Fazendeiro – Rhythm & Lead Guitars, Clean Guitars, Piano & Synths, Bass on tracks 1,3,5 and 8
Gonçalo Sousa – Lead & Rhythm Guitars

Guests:
Marcelo Aires – Drums
Pedro Mendes – Bass on tracks 2,4,6 and 7
Mick Moss – spoken words on track 3
Amber Moss – spoken words on track 3
Jenny O’Connor – spoken words on track 3

PAINTED BLACK – Facebook

Ancient VVisdom – 33

Il suono è un qualcosa che non troverete da nessuna altra parte, bisogna completamente abbandonasi a questo piccolo grande capolavoro di musica occulta americana, che si sviluppa su più livelli e che potrebbe farvi vedere le cose in una prospettiva diversa, derivando direttamente dall’oscurità dei figli dei fiori, dalle pazze ore di Aleister Crowley e che continua a fluire tra le ere, non domata da duemila anni di cristianesimo.

Gli Ancient Vvisdom sono dei cantori dell’occulto, seguaci di Lucifero e del percorso della mano sinistra, adoratori della carnalità umana, ma soprattutto un grandissimo gruppo musicale.

Nato nel 2009 in quel di Austin in Texas, il trio si compone di Nathan Opposition, anche nei Vessel Of Light con Dan Lorenzo, suo fratello Michael e Connor Metsker. Nel 2010 incidono un dodici pollici split intitolato Inner Earth Inferno su Withdrawl Records con un certo Charles Manson, non so se lo conoscete. In seguito hanno pubblicato altri tre dischi dopo quel dodici pollici. La loro traiettoria musicale è un rock neo folk con innesti doom e gotici, dal forte retrogusto metal, e fortemente ispirato dalla tradizione del folk americano. In alcuni momenti ci si avvicina anche al death rock, ma è davvero difficile non privilegiare la matrice folk per definire il gruppo. 33 è un disco esoterico ed occulto, che parla di luce e tenebra molto diversamente dai soliti termini, e già dal titolo ha dei riferimenti ben precisi in tal senso. Qui, sia nella musica che nei testi c’è la carnalità umana, l’eterna lotta dell’umano per uscire fuori dai binari già determinati di un’esistenza priva di libero arbitrio. La musica è dolce e molto melanconica, ti culla nell’oscurità, adoratori di Lucifero ti sussurrano parole di conoscenza proibita e tutto il disco ha un sapore difficilmente dimenticabile. In 33 ci sono momenti di assoluto entusiasmo grazie ad un gruppo che è in stato di grazia, e che va ben oltre la musica. Il suono è un qualcosa che non troverete da nessuna altra parte, bisogna completamente abbandonasi a questo piccolo grande capolavoro di musica occulta americana, che si sviluppa su più livelli e che potrebbe farvi vedere le cose in una prospettiva diversa, derivando direttamente dall’oscurità dei figli dei fiori, dalle pazze ore di Aleister Crowley e che continua a fluire tra le ere, non domata da duemila anni di cristianesimo.

Tracklist
1. Ascending Eternally
2. Light of Lucifer
3. In the Name of Satan
4. True Will
5. The Infernal One
6. Summoning Eternal Light
7. Rise Fallen Angel
8. 33
9. The Great Beast
10. Lux
11. Dispelling Darkness

Line-up
Nathan “Opposition” Jochum – vocals, acoustic guitar, kick drum
Michael Jochum – guitar, back up vocals
Connor Metsker – bass

ANCIENT VVISDOM – Facebook

Neun Welten – The Sea I’m Diving

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore.

I tedeschi Neun Welten ritornano con il loro terzo full length, a ben otto anni di distanza dal precedente Destrunken.

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore attraverso la voce e la chitarra di Meinolf Müller, il violino ed il piano di Aline Deinert ed il violoncello, la chitarra ed il basso di David Zaubitzer: la profonda connessione con tematiche naturalistiche (in questo caso con l’acqua quale elemento cardine a livello lirico) è percepibile in ogni singolo passaggio in quanto, nonostante l’approdo ad una più tradizionale forma canzone, le modifiche intervenute nel “mondo” dei Neun Welten non hanno affatto stravolto quella che è sempre stata l’essenza primaria della loro forza compositiva.
Momenti di alto lirismo si vanno ad intrecciare, così, con altri nei quali la voce quasi sussurrata di Müller accarezza i timpani; indubbiamente la musica del trio è rivolta a chi vuole trovare un’oasi di pace, pur se virtuale, una sorta di immaginaria radura all’interno della foresta nella quale giacere e meditare, magari consentendo ad un pizzico di malinconia di illanguidire l‘animo.
Il sound dei Neun Welten è pura poesia, ed il gradito inserimento delle parti vocali rende ancor più tangibile tale aspetto facendo sì che canzoni splendide come Drowning, Nocturnal Rhymes, Human Fail e la più post rock oriented In Mourning siano solo i picchi di un’opera da godersi nella sua interezza e con la giusta predisposizione: l’arricchimento, sia morale che musicale, è assolutamente garantito …

Tracklist:
01. Intro
02. Drowning
03. The Dying Swan
04. Cursed
05. Nocturnal Rhymes
06. Floating Mind
07. Earth Vein
08. Lonesome October
09. Lorn
10. Human Fail
11. In Mourning

Line-up:
Aline Deinert : Violin, Piano
David Zaubitzer : Guitar, Cello, Bass
Meinolf Müller : Guitar, Vocals

NEUN WELTEN – Facebook

GlerAkur – The Mountains are Beautiful Now

Questa è musica che travalica i generi, andando a scandagliare la sensibilità di un pubblico il cui sentire, inevitabilmente, da un certo momento in poi si muoverà in perfetta sincronia con quello dell’autore, raggiungendo quello che è il fine ultimo dell’arte, almeno nell’accezione più alta che noi conosciamo.

Abbiamo fatto conoscenza con i GlerAkur poco più di unno fa, parlando dell’ep Can’t You Wait, con il quale il musicista islandese Elvar Geir Sævarsson aveva messo in mostra la sua innata sensibilità artistica.

The Mountains Are Beautiful Now è un album che contiene musica composta inizialmente per l’opera teatrale Fjalla-Eyvindur & Halla, tratta dall’opera di Jóhann Sigurjónsson definita tra le più importanti testimonianze letterarie fuoriuscita dall’isola in epoca moderna.
A Sævarsson era stato proposto inizialmente di fare uscire un lavoro contenente la fedele riproduzione della musica utilizzata per la rappresentazione al National Theatre (dove il nostro lavora come fonico) ma, in seguito, il tutto è stato realizzato rendendolo un album slegato in qualche modo dall’aspetto visivo e registrato da una band vera e propria.
Ciò che ne scaturisce è un’opera magnifica che, senza smarrire la sua indole originaria di supporto alle azioni degli attori sul palco, offre circa tre quarti d’ora di musica ambient con ampie aperture atmosferiche e diverse incursioni da parte di sonorità più robuste, accentuate dall’utilizzo contemporaneo di una doppia batteria.
Una scelta, questa, della quale si evince la ragione d’essere ascoltando la già edita Can’t You Wait, con il suo fantastico crescendo percussivo, e la conclusiva Fagurt er á fjöllunum núna, che nella seconda metà esplode in un delirante death-industrial; per il resto, salvo la più tenue HallAlone, le meravigliose Augun Opin e Strings si avvalgono di atmosfere prevalentemente acustiche che avvolgono l’ascoltatore, trasportandolo nei paesaggi unici di una delle terre più particolari ed affascinanti del pianeta.
Lo stesso sound targato GlerAkur del resto non potrebbe che arrivare dall’Islanda, una nazione che, proporzionalmente al numero di abitanti, ha prodotto un numero consistente di musicisti in grado di segnare la scena musicale contemporanea (Bjork e Sigur Ros su tutti) grazie a proposte realmente peculiari ed innovative.
Fortunatamente Sævarsson ha seguito il suo istinto che lo ha spinto a completare questa operazione dalla quale è scaturita una gemma preziosa come The Mountains are Beautiful Now: questa è musica che travalica i generi, andando a scandagliare la sensibilità di un pubblico il cui sentire, inevitabilmente, da un certo momento in poi si muoverà in perfetta sincronia con quello dell’autore, raggiungendo quello che è il fine ultimo dell’arte, almeno nell’accezione più alta che noi conosciamo.

Tracklist:
1.Augun Opin
2.Can’t You Wait
3.HallAlone
4.Strings
5.Fagurt er á fjöllunum núna

GLERAKUR – Facebook

Final Coil – Persistence of Memory

I Final Coil hanno creato un mondo di note rock che vivono di tramonti musicali, un sound che risulta come una giornata che volge al termine e all’imbrunire si tirano le somme delle ultime dodici ore alle prese con il mondo circostante.

E’ più difficile di quanto possa sembrare riuscire a combinare ed amalgamare, in un unico sound, rock alternativo, post grunge e progressive, senza diventare delle copie dei soliti e alquanto depressivi Tool, anche se l’atmosfera rimane intimista in tutta la durata dell’album.

I Final Coil, con il primo lavoro sulla lunga distanza ci sono riusciti, creando un mondo di note rock che vivono di tramonti musicali, un sound che risulta come una giornata che volge al termine e all’imbrunire si tirano le somme delle ultime dodici ore alle prese con il mondo circostante.
Provenienti da Leicester (Regno Unito), con due ep alle spalle ed una fresca firma con la nostrana Wormholedeath, il quartetto britannico, si è nutrito di musica rock sparsa per il vecchio millennio e la rigetta nel nuovo, rielaborata sotto forma di un post rock progressivo ed emozionale, raffinato e mai sopra le righe: progressivo nella più moderna concezione del termine, anche se lasciano ad altri mere partiture tecniche per una proposta senz’altro più emozionale e sentita.
Un rock che non sconfina mai nel metal, mantenendo un approccio a tratti indie, mescolandosi così tra le proposte più cool di questo inizio millennio: Persistence Of Memory è pregno di post rock che varia nei suoi sessanta minuti abbondanti di musica e che prova, riuscendoci, a non erigere barriere, passando con disinvoltura tra i generi e le atmosfere citate.
Ci si deve fermare e dedicarvi tutto il tempo necessario perché brani come l’opener Corruption, la lunga e cangiante Failed Light, l’eleganza del post rock adulto di Lost Hope, facciano braccia in noi prolungando un tramonto ormai passato al buio nostalgico di una notte profonda illuminata dalla luna e dalle raffinate note progressive dei Final Coil.

TRACKLIST
1. Corruption
2. Dying
3. Alone
4. You Waste My Time
5. Myopic 6. Failed Light
7. Spider Feet
8. Lost Hope
9. Moths To The Flame
10. In Silent Reproach
11. Alienation

LINE-UP
Phil Stiles – Lead Vocals; Rhythm Guitar; Lead Guitar; Synths & Programming
Richard Awdry – Lead Guitar; Rhythm Guitar; Vocals; Programming
Jola Stiles – Bass Guitar; Flute
Tony ‘Ches’ Hughes – Drums & Programming

FINAL COIL – Facebook

From Oceans To Autumn – Ether​/​Return To Earth

Il campo base del viaggio è il post rock, ovvero una musica ariosa e sognante, ma poi si arriva ad esplorare territori come i migliori Rosetta, e ci si spinge a regalare momenti molto simili alle atmosfere pinkfloydiane.

La musica può essere un mezzo per raggiungere svariati scopi, e la stessa canzone è altamente soggettiva se ascoltata da due persone differenti.

A volte però la musica è soltanto un velo di maya che nasconde altre cose, ed in questo caso tantissimi altri mondi e multiversi. From Oceans To Autumn è un creatore di mondi, una tensione continua verso l’infinito usando la musica come un vettore spaziale per portarci lontano. Già nel precedente A Perfect Dawn ci eravamo stupiti di fronte ad un disegno musicale davvero superiore e completamente diverso dai nostri parametri abituali. Qui è tutto ancora più maestoso ed etereo. Brandon Helms diventa un David Lynch musicale e disegna scena per scena un doppio disco incredibile e bellissimo. Il campo base del viaggio è il post rock, ovvero una musica ariosa e sognante, ma poi si arriva ad esplorare territori come i migliori Rosetta, e ci si spinge a regalare momenti molto simili alle atmosfere pinkfloydiane. I due cd sono un viaggio verso lo sconosciuto, verso galassie di suoni e rumori, atmosfere rarefatte e poi fughe verso il centro della stanza, e il momento dopo si apre la finestra e si vola. Le differenze fra i due dischi sono abbastanza sostanziali, nel senso che il primo cd offre un taglio maggiormente post rock, mentre il secondo è allo stesso tempo maggiormente ambient ma anche più chiuso e meno arioso, più inquieto. Impossibile stabilire quale dei due sia meglio, anche perché sono quasi due dischi diversi anche se c’è un filo che li lega, e che è quello di essere stati composti da un genio che risponde al nome di Brandon Helms, un compositore classico nato fortunatamente nei nostri tempi. Questa potrebbe benissimo essere infatti musica classica, per consistenza, forza e potenza, ma anche per la delicatezza e la negazione di barriere musicali. Molto coraggiosa anche la scelta di produrre due cd che devono essere ascoltati a fondo il più possibile, in un momento in cui la fruizione della musica è quella dello streaming, un rubinetto velocissimo dove tutto scorre ascoltato in superficie, mentre questo è un nettare divino che va degustato. Meraviglie.

TRACKLIST
disc 1 “ether”:
1. quintessence/core
2. medium
3. air/elysium
4. stratus/vapor

disc 2 “return to earth”:
1. arrival
2. live again
3. visible light II
4. keep awatchful eye
5. Isle
6. 211 south
7. Reconnect
8. through the ages

FROM OCEANS TO AUTUMN – Facebook

Les Discrets – Prédateurs

Prédateurs si va a collocare in una sorta di terra di mezzo, dove la rinuncia alle passate sonorità non ha portato con altrettanta decisione all’approdo verso un sound maggiormente definito, facendo ragionevolmente pensare che possa trattarsi di un passo interlocutorio

Sono già passati cinque anni dall’uscita di Ariettes Oubliees, anche se a livello temporale non sembra, visto che i Les Discrets hanno comunque continuato a lanciare frequenti segnali, pur se concretizzati a livello discografico dall’uscita del solo Live At Roadburn nel 2015 e del singolo Virée Nocturne la scorsa estate.

Questo periodo appare, invece, molto più lungo alla luce delle novità riscontrabili in questo lavoro che prende le distanze, in maniera abbastanza evidente, rispetto a quanto fatto in precedenza dalla creatura musicale partorita dalla mente di Fursy Teyssier.
Se almeno fino al disco precedente, pur trattandosi di una semplificazione forse anche superficiale, non era del tutto azzardato considerare i Les Discrets come autori di una sorta di versione alleggerita dello shoegaze degli Alcest, realtà con la quale esiste da sempre un legame a doppio filo, con Prédateurs il musicista transalpino ha imboccato con risultati alterni una strada il cui possibile approdo è tutto da definire, potendo risultare un’intrigante forma di trip hop (emblematico appunto il brano Virée Nocturne) ma anche un pop intimista e spruzzato di elettronica, indubbiamente di buona qualità esecutiva ed altrettanta pulizia sonora, ma in diversi momenti piuttosto inoffensivo.
In effetti, il rischio più grande che corre Teyssier (come sempre accompagnato nella sua avventura da Audrey Hadorn), con questa sua svolta, è quello di non incidere come dovrebbe/potrebbe, pur proponendo un lavoro di indiscutibile perizia e gradevolezza; la totale assenza di qualsivoglia accelerazione o cambio di ritmo rende oggettivamente difficile esprimere qualcosa che vada oltre un blando apprezzamento da parte dell’ascoltatore.
Forse Teyssier aveva voluto lanciare un indizio, definendo la musica dell’album come cinematografica e, alla luce di diversi ascolti, viene proprio da pensare che la musica contenuta in Prédateurs potrebbe risultare più efficace se abbinata alle immagini di una pellicola ambientata nello scenario decadente di una periferia parigina, immortalata nelle sue ore notturne.
Definire brutto questo lavoro non sarebbe né giusto né corretto, perché l’artista francese ha perlomeno il merito di non aver voluto ripercorrere, con il pilota automatico inserito, la stessa strada che gli aveva regalato un certo successo al’inizio del decennio e, come già detto, la gradevolezza di certi passaggi depone a favore delle sue doti di compositore.
Resta il fatto che Prédateurs si va a collocare in una sorta di terra di mezzo, dove la rinuncia alle passate sonorità non ha portato con altrettanta decisione all’approdo verso un sound maggiormente definito, facendo ragionevolmente pensare che possa trattarsi di un passo interlocutorio, anche se forse dopo un quinquennio sarebbe stato lecito attendersi qualcosa di differente.
Poi, quando si ascoltano canzoni come la già edita Virée Nocturne, Le Reproche o Rue Octavio Mey, appare palese quale sia il talento e la sensibilità artistica di cui dispone Fursy Teyssier, e forse anche per questo è difficile non restare parzialmente delusi e perplessi di fronte a quest’ultima fatica targata Les Discrets.

Tracklist:
1.Prédateurs
2.Virée Nocturne
3.Les Amis De Minuit
4.Vanishing Beauties
5.Fleur Des Murailles
6.Le Reproche
7.Les Jours D’Or
8.Rue Octavio Mey
9.The Scent Of Spring (Moonraker)
10.Lyon – Paris 7h34

Line up:
Audrey Hadorn – Vocals & Lyrics
Fursy Teyssier – Guitars, bass, vocals, visuals

LES DISCRETS – Facebook

King Woman – Created in the Image of Suffering

Una buona prima opera da una band che “condensa” doom emozionale con shoegaze e post rock.

Bastano poco meno di quaranta minuti ai King Woman per presentarci la loro arte!

A chi segue il doom, come me, il trovarsi di fronte un disco con un minutaggio “ristretto” può infastidire; il suono doom ha bisogno di tempi dilatati per esprimere al meglio la propria dolente spiritualità; in questo caso però la proposta musicale del gruppo guidato dalla vocalist Kristina Esfandiari, nel miscelare doom, post rock, shoegaze e aromi psych crea un flusso continuo, avvolgente come una liturgia ammantata da chitarre ora decise, ora morbide che fanno da cangiante tappeto alle liriche di sofferta introspezione scritte dalla stessa vocalist, segnata da un’infanzia imprigionata nel fanatismo religioso della famiglia. La voce della Esfandiari rappresenta il valore aggiunto con i suoi toni drammatici, carichi, capaci di ammaliare creando un’atmosfera mistica, sussurrata (Hierophant), un ipnotico viaggio che non presenta picchi qualitativi ma si fa, forse, preferire negli ultimi quattro brani dove le note di un suggestivo violino e gocce di psichedelia d’annata inondano i brani di una profonda disperazione.
Anche questa volta la Relapse ha visto giusto, andando un po’ oltre le sue normali coordinate sonore, dando lo spazio per esordire ai King Woman (finora avevano soltanto un EP al loro attivo) che attendiamo fiduciosi ad altre prove, sperando in uno sviluppo maggiore dei brani (lo spirito doom è duro a morire); opera interessante che merita …

TRACKLIST
1. Utopia
2. Deny
3. Shame
4. Hierophant
5. Worn
6. Manna
7. Hem

LINE-UP
Kristina Esfandiari – Vocals, Lyrics
Colin Gallagher – Guitars
Peter Arensdorf – Bass
Joey Raygoza – Drums

KING WOMAN – Facebook