Devin Townsend Project – Transcendence

Transcendence suona imponente e vasto e, malgrado la spinta interiore verso il sovrumano, Devin permane dentro un ambito fondamentale: l’heavy metal.

Trascendenza: in filosofia, la condizione o la proprietà di essere trascendente, di esistere al di fuori o al di sopra di un’altra realtà.

Devin Really Hevy Townsend, (Steve Vai, Strapping Young Lad, The Devin Townsend Band, Ziltoid The Omniscient, Casualties of Cool) poliedrico musicista canadese, ha sperimentato fusioni di più generi, elevando e modernizzando il concetto di heavy metal. Per il sottoscritto rappresenta un esempio lampante di chi ha ricevuto l’immenso dono della creatività, perciò consacrato all’arte e al cambiamento. Uscire dalla zona di comfort, sperimentare i contrari, esprimere tutto ciò nelle sue composizioni, rappresenta evidentemente tutti aspetti della sua individualità.
In Transcendence (bellissima la copertina ad opera di Anthony Clarkson) c’è probabilmente un nuovo approccio alla vita, in parte anche alla musica, perché Mr. Townsend non è poi così estraneo alla realtà sensibile che lo circonda. Tutto nell’album è amplificato, maestoso, sinfonico, come proveniente dall’Universo, da una dimensione ultraterrena, sconfinata. Un’opera che scandisce il tempo di una colossale colonna sonora. Si avverte immediatamente una disposizione d’animo più positiva che in passato, l’amalgama è molto densa, le emozioni che scaturiscono durante l’ascolto sembrano voler legare l’essere umano al Tutto. Volutamente evito la recensione track by track perché ci troviamo alle prese con un flusso di sensazioni tutte in stretta relazione, durante le quali si alternano vette appassionanti a parti più monotone, ma che per nostra fortuna si risollevano con energia e originalità. Su tutte cito solo Failure, le bellissime Higher e Stars e la coda di From The Heart. Si chiude con l’apprezzabile cover Transdermal Celebration dell’alternative rock band Ween.
Se avete già apprezzato i precedenti lavori, amerete questo tipo di sonorità spaziali. Viaggerete tra le stelle accompagnati da cori celestiali, suoni pomposi, piccoli sprazzi djent, cori femminili (ancora a carico di Anneke Van Giersbergen) e ritmiche alternate. Le (poche) parti di chitarra solista sono squisite, ma le sonorità sviluppate dal genio di Vancouver negli ultimi anni sono state aggiornate e potenziate da un approccio fresco e moderno.
Registrato al Armoury Studios, prodotto e mixato dallo stesso Townsend e da Adam ‘Nolly’ Getgood (Periferie, Animals As Leaders), Transcendence suona imponente e vasto e, malgrado la spinta interiore verso il sovrumano, Devin permane dentro un ambito fondamentale: l’heavy metal. E a noi sta molto bene così.

TRACKLIST
1. Truth
2. Stormbending
3. Failure
4. Secret Sciences
5. Higher
6. Stars
7. Transcendence
8. Offer Your Light
9. From The Heart
10. Transdermal Celebration

LINE-UP
Devin Townsend – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Dave Young – Keyboards, Guitars
Mike St-Jean – Keyboards
Brian Waddell – Bass
Ryan Van Poederooyen – Drums

DEVIN TOWNSEND – Facebook

DGM – The Passage

Il passaggio su Frontiers non ha alterato la proposta DGM. La band ha compiuto ancora un ulteriore passo in avanti verso la magnificenza.

Dopo il magnifico “Momentum” del 2013, mi giunge come graditissima sorpresa per il mio secondo contributo su Metal Eyes la proposta del Cavanna di recensire l’ultimo lavoro dei DGM.

L’attuale formazione è stabile da quasi un decennio e, per nostra gioia, ha composto grande musica. Quale fan dei Symphony X, mi sento molto vicino a quanto finora proposto dalla band italiana, e questi ultimi non hanno mai peraltro dissimulato l’influenza dei giganti americani.
Mi immergo perciò in questi 60 minuti con voluttà e le ampie aspettative (le ho ancora, malgrado la veneranda età) vengono rispettate fin dall’opener The Secret (Part I), 8 minuti buoni di eccellente power prog nei quali potenza, tecnica e feeling non lasciano spazio ai pensieri, tant’è la forza espressiva dei nostri. La mini suite si estende in The Secret (Part II), le atmosfere distese e l’andatura più riflessiva, caratterizzata da aperture melodiche di chitarra e tastiere ora brillanti, ora elegiache nel finale. Animal è diretta abilmente dalla chitarra di Simone Mularoni, ottimo compositore e sorgente inesauribile di riff coinvolgenti e fraseggi mai banali. Ghosts Of Insanity (con la partecipazione di Tom Englund degli Evergrey) mostra muscoli e perizia compositiva con un riff iniziale al fulmicotone, possente, vera màcina che sfocia in un ritornello delizioso, fino all’assolo di chitarra scintillante con un finale finale martellante e cupo.
Attacca Fallen e picchia al cuore alternando riff di matrice thrash a refrain ariosi da cantare a pieni polmoni. La title track mette i brividi con un riff iniziale tostissimo e geniale, una composizione entusiasmante che rallenta fino al sublime dialogo tra chitarra/tastiera e dal finale improvviso. La dolce Disguise per piano e voce introduce l’infuocata Portrait, dove tutti gli attributi dei talentuosi power metallers romani vengono esibiti senza inibizioni. La successiva Daydreamer allenta la presa ed è forse la traccia meno entusiasmante, ma Dogma ci inocula nuova adrenalina sempre alternando parti plasmate nell’acciaio ad altre di più ampio (e breve) respiro dove Mark Basile esprime potenza e melodia con linee vocali sempre ispirate, supportate egregiamente da tutti gli altri componenti, compreso l’ospite eccellente a nome Michael “SX” Romeo. La conclusiva In Sorrow ci culla e sfuma nel silenzio rimarcando l’eco di questo magnifico album che ha il solo vizio di essere ancora deliziosamente “dipendente” dalla Symphonia metallica del New Jersey.

TRACKLIST
01. The Secret (Part I)
02. The Secret (Part II)
03. Animal
04. Ghosts Of Insanity
05. Fallen
06. The Passage
07. Disguise
08. Portrait
09. Daydreamer
10. Dogma
11. In Sorrow

LINE-UP
Mark Basile – vocals
Simone Mularoni – Guitars
Emanuele Casali – Keyboards
Andrea Arcangeli – Bass
Fabio Costantino – Drums

DGM – Facebook

Evergrey – The Storm Within

“The Storm Within” è decisamente il miglior album degli Evergrey, accessibile, profondo, con una produzione centrata e potente, 100% Metal.

Avevo apprezzato discretamente i prog-metallers svedesi Evergrey con “In Search of Truth” e “Recreation Day”, li avevo “allontanati” dopo il non esaltante “The Inner Circle” del 2004.

Al decimo lavoro in studio mantengono il loro inconfondibile lato oscuro e quella malinconia che da sempre li contraddistingue, qui stemperata da melodie decisamente catchy.
Apre Distance, con una intro di piano luttuosa, desolante, per il quale è stato realizzato un bel video promozionale (anche per The Paradox of the Flame), poi il ritmo incalza con basso e chitarra sugli scudi, guidati dal poderoso e metronomico drummer. Il groove è notevole, caratterizzato da accordature “detuned” e un riff portante molto coinvolgente.
La voce di Tom Englund in questo lavoro è decisamente espressiva, matura e con la successiva Passing Through il respiro si fa decisamente più ampio. Il brano è mirabile, con una interpretazione molto sentita e assoli incastonati alla perfezione.
Someday col suo incedere quasi epico e cadenzato ci conduce nel cuore del disco, avvalendosi di chitarre ispirate e coinvolgenti.
La più classica Astray innalza ulteriormente il tasso energico-dinamico e chiude con un bel finale adrenalinico di stampo modern thrash.
La breve ballata per voce e tastiera The Impossible inietta malinconia e desolazione prima di My Allied Ocean che pesta duro con la sezione ritmica trainata dalla doppia cassa di Jonas M. Ekdahl, e il metallo trasuda che è un vero piacere.
La melodiosa e ragionata In Orbit è impreziosita dalla vocalist Floor Jansen che duetta all’unisono con Englund, e d’altronde in tutto l’album le melodie vocali sono molto curate e godibili. Attacco deciso per The Lonely Monarch, dove melodia e potenza sono amalgamate con oculatezza e infiorettate da coinvolgenti guitar-solos, sapienti keyboards e vocals incisive.
La meravigliosa e intimistica The Paradox Of The Flame propone ancora una volta Carina Englund al fianco del marito, accompagnandoci in un altro luogo misterioso e maggiormente rarefatto, e si ritorna in corsa con Disconnect e The Storm Within, i brani più lunghi del lotto, nei quali si alternano con gusto parti cadenzate e maggiormente dilatate con un utilizzo delle tastiere che conferiscono ulteriore enfasi e atmosfera in chiusura dell’album.
The Storm Within è decisamente il miglior album degli Evergrey, accessibile, profondo, con una produzione centrata e potente, 100% metal. Consigliato ai fan della band e non!

TRACKLIST
01. Distance
02. Passing Trough
03. Someday
04. Astray
05. The Impossible
06. My Allied Ocean
07. In Orbit (feat. Floor Jansen)
08. The Lonely Monarch
09. The Paradox Of The Flame
10. Disconnect
11. The Storm Within

LINE-UP
Tom S. Englund – vocals, guitar
Henrik Danhage – guitar, backing vocals
Rikard Zander – keyboard, backing vocals
Jonas Ekdahl – drums
Johan Niemann – bass, backing vocals

EVERGREY – Facebook

Element Of Chaos – A New Dawn

Gli Element Of Chaos meritano l’attenzione di chi non ha paura di attraversare i confini tracciati nella vasta cartina del metal moderno

Fortunatamente il mondo del metal è più vario e colmo di sorprese di quello che molti sostengono, gli amanti della musica dura possono contare per i loro ascolti di una moltitudine di generi e sottogeneri, molte volte ben delineati tra loro, ma spesso come in questo caso amalgamati per formare un quadro di musica fresca e sorprendentemente matura.

Ovviamente anche i romani Element Of Chaos non inventano nulla che non sia già stato scritto a suo tempo, semplicemente con sagacia rielaborano in un unico spartito spunti provenienti da mondi diversi di intendere il metal.
Armati di un’ottima tecnica la band romana scarica dodici bordate di moderno metal dagli spunti progressivi, irrobustendolo con ritmiche dal micidiale groove, una forte base elettronica e l’immancabile impronta deathcore, data non solo dalle ritmiche a tratti marziali, ma dall’uso delle due voci, un robusto growl ed ottime cleans.
Nato ormai quasi dieci anni fa, il sestetto laziale esordì con il primo album autoprodotto tre anni fa dal titolo Utopia; la firma per la label Agoge records e l’aiuto del produttore Gianmarco Bellumori, hanno portato la band a questo A New Dawn, un album che al primo passaggio nel vostro lettore vi sembrerà un labirinto di suoni metallici in cui perdersi, ma pian piano la chiave del sound nascosta tra le fughe di synth, i passaggi atmosferici, la furia del deathcore ed il forte mood progressivo, aprirà la porta che vi condurrà nel mondo degli Element Of Chaos.
La melodia si scontra con l’aggressività, in tutti i vari capitoli che compongono il lavoro, la quiete di questa tempesta di suoni viene rivestita di passaggi progressivi che dimostrano la maturità artistica del combo romano, mentre veniamo travolti dal mood apocalittico di songs come l’opener The Second Dawn Of Hiroshima, Nothing But Death, e la splendida conclusione affidata al tragico intimismo di Sons Of The Atom.
Difficile trovare delle similitudini con altre realtà, la spiegazione più logica rimane confinata ai generi più che ad una band in particolare, anche se la genialità di Devin Townsend per esempio fa capolino più concettualmente che musicalmente.
Gli Element Of Chaos meritano l’attenzione di chi non ha paura di attraversare i confini tracciati nella vasta cartina del metal moderno: difficile fare previsione sulla strada che prenderà il sound del gruppo, per accontentiamoci dall’ottimo lavoro svolto su questo A New Dawn.

TRACKLIST
01. The Second Dawn Of Hiroshima
02. Idiots Lose Control
03. Just A Ride
04. Nothing But Death
05. Mutant Circus Manifesto
06. Coming Home
07. The Harmony Concept
08. Epiphany
09. A New Dawn
10. Sons Of The Atom
11. Epiphany (Paternoise Remix)
12. The Butterfly Effect (Remastered

LINE-UP
Andrea Audino (Dandy) – voce
Danele Spigola (Echo) – chitarra
Bruno Colucci (Vice) – chitarra)
Luca Prata (Ulga) – basso
Daniel Mastrovito (Shag) – tastiere
Claudio Finelli (Wonder Boy) – batteria

ELEMENT OF CHAOS – Facebook

Lanfear – The Code Inherited

Un ottimo album, melodico e progressivo, metallico e perfettamente calato nel trademark compositivo che da anni distingue i Lanfear

Tornano sul mercato i prog/power metallers tedeschi Lanfear, gruppo da vent’anni ai margini della scena prog metal a livello commerciale ma capace di rilasciare ottimi lavori come il precedente This Harmonic Consonance, uscito quattro anni fa e da considerare l’apice qualitativo.

Un lungo viaggio nel mondo dei suoni progressivi dal taglio power, iniziato nel 1996 con il debutto Towers e continuato con altri sei capitoli, compreso quest’ultimo lavoro che arriva in questa estate metallica, dal titolo The Code Inherited.
Come tradizione tedesca vuole, la band amalgama con buoni risultati sonorità power e raffinati inserti melodici e progressivi, in un’ottima via di mezzo tra l’irruenza di gruppi come i conterranei Brainstorm e l’eleganza del prog metal di scuola Fates Warning.
The Code Inherited risulta così un ottimo lavoro, prodotto alla grande e dal sound che fa breccia nel cuore degli appassionati per le le ruvide cariche ritmiche, i chorus e le atmosfere melodiche e una buona tecnica esecutiva qualità peculiare nel genere suonato.
Meno sinfonico e tragico rispetto al suo predecessore, il nuovo album risulta più in your face, la componente power del gruppo prende il sopravvento sui brani di cui si compone The Code Inherited, anche se le aperture melodiche, specialmente nei refrain continuano ad essere l’arma in più del sound del gruppo.
Ottimi i dieci minuti della title track, la song più prettamente prog metal dell’album (insieme alla sci-fi oriented Remain Undone) con i suoi repentini cambi di tempo ed atmosfere, mentre si fanno apprezzare le cavalcate metalliche espresse dalla band nell’opener The Delusionist, della devastante progressione ritmica di The Opaque Hourglass e Converging Saints.
Un ottimo album, melodico e progressivo, metallico e perfettamente calato nel trademark compositivo che da anni distingue i Lanfear: per gli amanti del gruppo un ritorno senza sbavature, per chi non ne conoscesse la musica un buon modo per rimediare.

TRACKLIST
1. The Delusionist
2. The Opaque Hourglass
3. Evidence Based Ignorance
4. The Code Inherited
5. Self-Assembled
6. Converging Saints
7. Remain Undone
8. Summer of ’89

LINE-UP
Nuno Miguel de Barros Fernandes – vocals
Kai Schindelar – bass
Markus Ullrich – guitars
Richard Seibel – keyboard
Jürgen Schrank – drums

LANFEAR – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=RsLUPHt6p2w

Slammin’ Thru – Things to Come

Things To Come ha il pregio di dire tutto in una quarantina di minuti, senza raggiungere però clamorosi picchi e risultando lineare ed onesto ma anche un po’ troppo derivativo.

Torna a far parlare di se uno dei generi più amati/odiati nel mondo metallico, il prog metal e lo fa con l’esordio sulla lunga distanza dopo oltre un decennio di attività degli spagnoli gli Slammin’ Thru.

Il prog metal dei nostri è quanto di più classico si possa ascoltare, con i Dream Theater ed i Queensrÿche a fare da muse ispiratrici e l’esibizione di una discreta tecnica individuale che non disdegna qualche ritmica power e sfumature progressive di settantiana memoria.
Ricami, atmosfere e sfumature che giocano a nascondino dentro il sound di Things To Come, che ha il pregio di dire tutto in una quarantina di minuti, senza raggiungere però clamorosi picchi e risultando lineare ed onesto ma anche un po’ troppo derivativo.
Metallo tecnico su cui il songwriting poggia le sue fondamenta, una buona grinta che fa dell’album un ascolto sufficientemente piacevole anche per i true defenders che non hanno dimenticato i primi lavori della prog metal band di Seattle degli ormai ex Geoff Tate (al quale il vocalist David deve non poco) e Chris De Garmo, sono le virtù principali di questo primo lavoro dal quale, proprio perché arriva dopo molti anni, ci si poteva attendere qualcosa di più.
La produzione non aiuta certo le canzoni ad esplodere, con la voce relegata in secondo piano e la musica che esce leggermente ovattata, un peccato mortale per un disco del genere.
Tra i brani che compongono il cd si segnalano la title track e la bellissima Pariah, il resto fila via senza sorprendere più di tanto gli ascoltatori più esigenti.
Un lavoro sufficiente per dare un reale avvio ad una carriera che auspichiamo più ricca di uscite, magari correggendo i difetti riscontrati in questa occasione.

TRACKLIST
1. Metallic Leaves
2. Things To Come
3. Disguised Queen
4. Break
5. Undisclosed
6. Pariah
7. Seeing Eye

LINE-UP
David – Vocals
Alberto – Guitar
Óscar – Guitar
Guts – Bass
Adrián – Drums
Axel – Keyboards

SLAMMIN THRU

Myrath – Legacy

Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune

Per farmi uscire dalla confortevole cripta virtuale, all’interno della quale mi abbevero di tutte le sonorità più cupe e funeree che il mondo musicale può offrire, ci vuole qualcosa di unico, di speciale, capace di entrare in rotazione pressoché fissa nel lettore, anche se di genere normalmente estraneo ai miei ascolti abituali.

L’anno scorso questo “evento” si era verificato grazie ai francesi 6:33, mentre in questo 2016 credo proprio che il loro posto verrà preso dai magnifici tunisini Myrath.
La band nordafricana non è, in effetti, una sopresa vera e propria, neppure per me visto che avevo già avuto modo, qualche anno fa, di apprezzarne le indiscutibili doti espresse con il terzo full-length Tales of the Sands.
Quel lavoro, così come i precedenti, metteva in evidenza un gruppo di assoluto livello ma, ammettiamolo, molta dell’attenzione nei suoi confronti derivava dalla nazione di provenienza, inutile girarci intorno, e questo induceva inevitabilmente a deformare la percezione del contenuto musicale, badando più all’aspetto esotico della proposta che non al suo effettivo e ben consistente valore.
Legacy, lo spero con tutto il cuore, dovrebbe sgombrare il campo da ogni distorsione, rendendo il disco dei Myrath “semplicemente” un capolavoro scritto e composto da musicisti che vivono su questo pianeta, punto; poi, è evidente quanto la grandezza di questo album derivi anche da quelle origini, oggi più che mai compenetrate con la struttura heavy/prog dei brani grazie ad un lavoro di arrangiamento a dir poco stupefacente, oltre che all’operato di un tastierista dalla statura superiore alla media (in tutti i sensi) come Elyes Bouchoucha, in grado di ammantare il sound dei Myrath di quelle orchestrazioni arabeggianti che lo rendono unico.
Questa commistione sonora in passato era riuscita altrettanto bene agli Orphaned Land (soprattutto in Mabool), ma la proposta della band israeliana traeva vantaggio da una maggiore eterogeneità che, quindi, consentiva di spaziare con disinvoltura da partiture estreme a passaggi etnici, senza però raggiungere l’amalgama perfetta espressa invece dai tunisini: in Legacy ogni singola strofa è immersa in questa atmosfera davvero speciale, con suoni caldi e comunque differenti da quelli, solo apparentemente simili, che possono giungere dall’Europa o dagli States; infatti, i Myrath riescono in maniera continua a conferire al loro sound la “riconoscibilità”, ovvero quel quid che rende ogni nota suonata da una band una sorta di marchio di fabbrica.
Certo, si potrebbe obiettare che, esemplificando al massimo, la musica ascoltata in Legacy sia una sorta di versione alleggerita ed arabeggiante dei Symphony X ma, fermo restando che ciò non sarebbe affatto sminuente nei confronti dei Myrath, va ribadito che qui non si sta parlando dell’invenzione di un nuovo genere, bensì di una rielaborazione dell’esistente in maniera del tutto personale: Legacy è un lavoro tutto sommato ortodossamente prog/heavy metal, per cui la bravura dei nostri risiede proprio nella capacità di apparire “unici”, pur muovendosi all’interno di un territorio dai confini stilistici ben definiti.
Del disco restano da citare i brani migliori, ma per far questo sarebbe sufficiente fare un copia-incolla della tracklist, visto che non c’è un solo brano debole tra gli undici (più intro) presentati; messo alle strette confesso però di avere maturato un debole per il singolo Believer (da godersi il video che lo accompagna), per Nobody’s Lives, con il suo refrain cantato in lingua madre, e per quello che ritengo uno dei brani migliori ascoltati negli ultimi tempi, la magica ed evocativa Duat.
Zaher Zorgati è il cantante perfetto per una band si questo tipo, con una voce che potrebbe definirsi, con molta approssimazione, un ipotetico punto d’incontro tra Dio, Jorn Lande e Roy Khan: un vocalist del quale si apprezzano, comunque, le doti interpretative ed espressive più che i virtuosismi.
Inevitabilmente ottimo il lavoro del chitarrista Malek Ben Arbia, fondatore della band quando era appena un ragazzino, meno appariscente in fase solista del suo modello Michael Romeo ma non di meno efficace, ed impeccabile la base ritmica fornita da Anis Jouini al basso e dal francese Morgan Berthet alla batteria.
Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune; il fatto stesso che la band abbia deciso di autointitolare l’album (non è un refuso, Legacy è la traduzione inglese di Myrath) rende l’idea di quanto questo passo fosse ritenuto fondamentale per imprimere una svolta decisiva e definitiva ad una carriera che, da qui in poi, ci si augura possa proseguire in maniera altrettanto luminosa, per la gioia di tutti gli appassionati di musica in senso lato.
Nei primi anni del secolo un gruppo di ragazzi tunisini si dilettava a suonare cover dei Symphony X: nel 2016 quei ragazzi, diventati i Myrath, stanno intraprendendo un tour con quelli che erano i loro idoli (dalla nostre parti arriveranno il 3 marzo all’Alcatraz di Milano), con il concreto “rischio” di metterne in dubbio la leadership e, mi si creda, non sto affatto esagerando …

Tracklist
1.Jasmin
2.Believer
3.Get Your Freedom Back
4.Nobody’s Lives
5.The Needle
6.Through Your Eyes
7.The Unburnt
8.I Want To Die
9.Duat
10.Endure The Silence
11.Storm Of Lies
12.Other Side

Line-up:
Anis Jouini – Bass
Malek Ben Arbia – Guitars
Elyes Bouchoucha – Keyboards, Vocals
Zaher Zorgati – Vocals
Morgan Berthet – Drums

MYRATH – Facebook

Teramaze – Her Halo

Her Halo conferma l’assoluta qualità della band australiana ed il talento dei suoi protagonisti.

Con una line up leggermente rinnovata dall’ultimo, bellissimo, Esoteric Symbolism, uscito lo scorso anno e di cui vi avevamo parlato con toni entusiastici su queste pagine, torna la prog metal band australiana Teramaze, creatura metallica guidata dal chitarrista Dean Wells.

Infatti nel nuovo lavoro Nathan Peachey prende il posto del buon Brett Rerekura dietro al microfono, mentre la formazione a quattro che aveva registrato il precedente lavoro si aggiunge di tre elementi, Mat Dawson alla chitarra, Luis Enrique Eguren al basso e Dave Holley alle tastiere.
Non si scende sotto l’eccellenza, neppure con questo album, ed il gruppo nato nella terra dei canguri, ci regala un’altra perla di prog metal di altissimo livello, incastonato nel genere, un altro album da non perdersi se si è amanti dei suoni sofisticati, eleganti e raffinati che il metal dalle sfumature progressive sa donare.
Emozioni, come ci ha ormai abituato la band, il nuovo album è ricco di spunti emozionali che, prendono per il colletto la tecnica strumentale ( elevatissima), la relegano in un angolo e finalmente liberi nella loro funzione ci avvolgono per tutta la durata di Her Halo.
Sono emozioni dal piglio drammatico, malinconico, molte volte intimista che aggiunge all’influenza Fates Warning il sound ancora più malinconico e moderno dei Pain Of Salvation.
Il risultato sommato all’interpretazione sopra le righe del giovane e sconosciuto vocalist, non può che essere una straordinaria alchimia di suoni progressivi, che alternano le classiche sfuriate metalliche, a momenti di classe melodica sopraffina in un turbinio di atmosfere sinfoniche che strizzano l’occhio a quella verve modernista cara al gruppo australiano.
Della durata meno prolissa del suo predecessore, Her Halo acquista quel minimo di facilità nell’ascolto che lo rende più assimilabile, anche se la musica del gruppo ha comunque bisogno di essere maneggiata con cura, per assaporare ogni momento, ogni nota e le tante e diverse sfumature che l’accompagnano.
An Ordinary Dream (Enla Momento) apre le ostilità e veniamo subito travolti da una suite di dodici minuti, tra splendido chitarrismo, eleganti tasti d’avorio ed il regale biglietto da visita che il nuovo cantante ci pone tra le mani.
Non male come inizio, visto che da qui in poi, i suoni si induriscono, l’alternanza tra melodia ed elettricità metallica diventa preponderante e la band da spettacolo con To Love, a Tyrant e la titletrack.
Stupendo il refrain di For the Innocent ed al limite del clamoroso quello che fa Wells con la sua sei corde in Trapeze, brano strumentale al limite dello shred.
Broken addolcisce l’atmosfera, risultando una semiballad, così come l’inizio della conclusiva Delusions of Grandeur, trasformatasi in corso d’opera in una prog metal songs che entra dalla porta principale del teatro di sogno.
Prodotto da Jacob Hansen ex Anubis Gate, una garanzia, specialmente se si parla di metal progressivo e nobile, Her Halo conferma l’assoluta qualità della band australiana, ed il talento dei suoi protagonisti, a cui si aggiunge Nathan Peachey, vocalist di cui sentiremo ancora parlare, disco bellissimo, fidatevi.

TRACKLIST
1. An Ordinary Dream (Enla Momento)
2. To Love, a Tyrant
3. Her Halo
4. Out of Subconscious
5. For the Innocent
6. Trapeze
7. Broken
8. Delusions of Grandeur

LINE-UP
Dean Wells: guitars
Nathan Peachey: vocals
Mat Dawson: guitars
Dean Kennedy: drums
John Zambelis: guitars
Luis Enrique Eguren: bass
Dave Holley: keyboards

TERAMAZE – afcebook

Vanden Plas – Chronicles of the Immortals: Netherworld II

Un gruppo del genere nobilita il metal in senso lato e dovrebbe vedere i suoi lavori ben conservati sulla mensola di ogni appassionato, a prescindere dal genere preferito. Arte senza se e senza ma.

Tornano a distanza di un anno i grandiosi Vanden Plas con la seconda parte del concept tratto da Le Cronache degli Immortali, trilogia fantasy scritta da Wolfgang Hohlbein, fan della band a cui tempo fa propose la trasposizione in musica della sua opera.

L’album è clamoroso, come d’altronde la prima parte e come negli anni la band di Kaiserslautern ci ha abituato, iniziando dallo stupendo debutto Colour Temple, uscito nel 1994, per proseguire nel corso del ventennio con una serie di album dalla qualità superiore, forse poco considerata, specialmente dagli addetti ai lavori, colpevoli molto spesso di rincorrere le new sensation del genere lasciando le briciole ai veri artisti dello spartito.
Poco male, il gruppo tedesco nel corso degli anni ci ha deliziato con album straordinari (su tutti The God Thing del 1997 e Christ O del 2006) e non contento ha portato la propria arte sul palcoscenico di un teatro, per reinterpretare opere immortali come Jesus Christ Superstar, The Rocky Horror Show e La Piccola Bottega degli Orrori.
La storia su cui la band ha creato questo stupendo arabesco di suoni vede come protagonista Andrej Delàny, cavaliere immortale che trova, al ritorno nel suo paese di origine situato in Transilvania, solo distruzione e morte.
L’unico sopravvissuto alla strage (Frederic) lo informa che il colpevole è un cardinale, alla guida di tre cavalieri dalle armature dorate e che tra i pochi sopravvissuti, fatti prigionieri c’è anche suo figlio.
Inizia così l’avventura, che vedrà i due sulle tracce dei cattivi, tra mille avventure e scontri, in cui Andrej scoprirà di essere parte di una stirpe di cavalieri immortali, diretti discendenti dei vampiri transilvani.
L’album, come la prima parte, non fa che ribadire l’immenso talento del gruppo, con un Andy Kuntz sontuoso, interprete magnifico delle avventure dei nostri eroi, che sommato alla bravura strumentale dei fratelli Andreas e Stephan Lill (rispettivamente batteria e chitarra), al basso di Torsten Reichert e ai tasti d’avorio del fenomenale Günter Werno, fanno dei Vanden Plas un gruppo di inestimabile valore, alle prese con un’opera che ci investe con una valanga di emozioni.
Diviso in nove visioni, l’album si apre con My Universe, dove la voce teatrale di Kuntz ci introduce alla seconda parte del concept, accompagnata da un poderoso riffone metallico a far coppia con le tastiere di Werno.
Si entra nel cuore dell’opera e il gruppo incanta, Godmaker’s Temptation e Stone Roses Edge sono prog metal songs teatrali e sontuose, magnifico il lavoro dei tasti d’avorio nella seconda che concede un refrain molto Dream Theater ed una sezione ritmica ruvida.
Blood Of Eden emoziona in un turbine di suoni tra pianoforte, fiati e violoncello ed una voce femminile che accompagna Kuntz, nel dialogo tra il cavaliere e la sua defunta consorte e si va via, con la mente persa in quei luoghi nascosti da una spessa coltre di nebbia, portati dalle scale musicali del gruppo che continua a deliziare con atmosferiche parti melodiche e fughe dure come l’acciaio, dove la doppia cassa spinge sull’acceleratore e lo spirito metallico esce, immortale come il protagonista, in tutta la sua leggendaria fierezza (The Last Fight).
La conclusiva Circle Of The Devil, musicalmente risulta un sunto di tutto il ben di dio racchiuso in questo lavoro, parte orchestrale che lascia spazio alla furia metallica per tornare ai suoni dell’opener, per una conclusione degna di un’opera dall’elevato tasso qualitativo.
Un gruppo del genere nobilita il metal in senso lato e dovrebbe vedere i suoi lavori ben conservati sulla mensola di ogni appassionato, a prescindere dal genere preferito. Arte senza se e senza ma.

TRACKLIST
1. Vision 11even- In My Universe
2. Vision 12elve- Godmaker’s Temptation
3. Vision 13teen- Stone Roses Edge
4. Vision 14teen- Blood of Eden
5. Vision 15teen- Monster
6. Vision 16teen- Diabolica Comedia
7. Vision 17teen- Where Have the Children Gone
8. Vision 18teen- The Last Fight
9. Vision 19teen- Circle of the Devil

LINE-UP
Torsten Reichert – basso
Andreas Lill – batteria
Stephan Lill – chitarre
Günter Werno – tastiere
Andy Kuntz – voce prog metal

VANDEN PLAS – Facebook

In Memory – LaKrima

Un’opera che mette d’accordo fans dai gusti prog con chi ama i nuovi suoni dai rimandi sinfonici guidati da bellissime sirene dall’ugola d’oro.

Perso nelle note dell’ultimo, meraviglioso lavoro dei prog metal nostrani Eldritch, ecco che faccio mia l’opera dei toscani In Memory, gruppo fondato dai fratelli Ginanneschi, dove Dario è alle prese con il drumkit e Rudj, da un po’ di anni alla corte di Terence Holler e Eugene Simone, è il chitarrista.

Non una band di giovine nascita, gli In Memory sono al terzo lavoro sulla lunga distanza di una storia iniziata a cavallo del millennio, con vari cambi nella line up e due lavori, licenziati nel lontano 2003 il primo (Intoxicating Mind) e otto anni fa il secondo (Glyptic).
Era il 2007 infatti, quando la band diede alle stampe il suo secondo lavoro, otto anni che non sono passati invano visto la qualità della musica proposta, un ottimo esempio di prog metal, molto melodico e dalle sfumature gothic, non troppo accentuate ma presenti, anche per l’ottima interpretazione della vocalist Cristiana Musella che fa per un’attimo dimenticare le ormai troppe cantanti dallo stile classico per procurare brividi rock, sentiti, emozionali, ma pur sempre rock oriented.
La musica del gruppo livornese ha nel dna il prog metal, questo è sicuro, ma lo dissemina di atmosfere dark, dall’aura intimista, che non se ne va neppure nei brani più metallici, contornando la sua proposta di sfumature grigiastre, lasciando il sound in mano agli strumenti rock e relegando le tastiere ad accompagnatrici non troppo invadenti e suonate dall’ospite Gabriele Caselli (ex Eldritch, ora negli Ensight, protagonisti del bellissimo esordio Hybrid, uscito in questi giorni).
Alternando brani di prog power metal, ad altri dove la stupenda voce della singer è protagonista emozionando non poco, galleggiando su acque ferme, ma buie, Lakrima regala attimi di musica raffinata che si confronta con cavalcate metalliche dal buon impatto, suonate con l’ottima padronanza di mezzi a disposizione dei musicisti ed un songwriting maturo ed equilibrato.
La forza dell’album è proprio quella di mantenere la stessa atmosfera sia nelle parti più ruvide, sia in quelle dall’alto potenziale melodico, che non finiscono mai di regalare spunti emozionali dal buon potenziale dark/gothic: ne esce un’opera che mette d’accordo fans dai gusti prog con chi ama i nuovi suoni dai rimandi sinfonici guidati da bellissime sirene dall’ugola d’oro.
My Strenght, The Past Of Steel, la title track, Sweet Deceiver e She sono esempi di come la musica del gruppo toscano, guardi al prog( Eldritch e DGM ), come al dark/gothic di Lacuna Coil e The Gathering, rivelandosi una gradita sorpresa ed un’altra band da sottolineare nel vasto panorama metallico nazionale.

TRACKLIST
01. Buried Alive
02. Dust
03. LaKrima
04. Inexorable
05. Beautiful Doubt
06. My Strength
07. The Past Of Steel
08. Sweet Deceiver
09. Still Alive
10. I’m So Excited
11. She
12. The Jewel Of My Life

LINE-UP
Emiliano di Rosa – Bass
Dario Ginanneschi – Drums
Rudj Ginanneschi – Guitars
Cristiana Musella – Vocals

IN MEMORY – Facebook

Worldview – The Chosen Few

Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.

Giunti all’esordio sulla lunga distanza, gli americani Worldview, aiutati da una manciata di musicisti su cui spicca Oz Fox degli Stryper, confezionano un lavoro di power metal statunitense, ma dalle molte atmosfere europee, raffinato, mai troppo potente ma dal buon gusto melodico.

La band californiana ha nell’ugola del vocalist Rey Parra, il suo asso nella manica, che asseconda con un songwriting ispirato, magari non originalissimo ma molto piacevole.
Atmosfere orientaleggianti(Mortality), drammatiche parti power/prog tipiche del metal d’oltreoceano, ed un gusto per le melodie nobilitate da una vena prog danno al disco un tono adulto e fanno di The Chosen Few un buon esordio, anche se le influenze compaiono a tratti ben visibili tra i solchi del disco, da ricercare specialmente nei Kamelot di Roy Khan.
Niente di male, l’album scorre mantenendo questi clichè, la band difficilmente corre,le ritmiche si mantengono cadenzate, marciando al suono tenuto da tastiere dal mood progressivo.
Quando la luce metallica si accende, ne escono power song dal taglio epico come Prisioner Of Pain, ottima song che non disdegna tasti d’avorio dal taglio settantiano e chorus che rimandano all’hard & heavy di ottantiana memoria.
I musicisti ci sanno fare non poco con gli strumenti, le tastiere disegnano arabeschi progressivi su eleganti parti ritmiche, mentre la chitarra si rende protagonista di solos ben incastonati nelle varie parti dell’album.
Quando l’hard rock melodico prende il sopravvento, sempre arricchito da orchestrazioni di natura prog ecco che i danesi Royal Hunt fanno capolino nella bellissima Two Wonders.
Affidato alle mani di Bill Metoyer (W.A.S.P, Slayer) The Chosen Few gode di un ottimo suono, che esce pulito e cristallino, cosi da raffinare ulteriormente le songs proposte dal gruppo di Los Angels.
Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico, dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.
Lo spiegamento di forze, sia alla consolle, che negli ospiti che appaiono con un loro contributo nei vari brani dell’album, non sono stati sprecati e The Chosen few risulta un’ottima opera prima per la band losangelina.

• Autore
Alberto Centenari

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• ETICHETTA

TRACKLIST
01. Mortality
02. Illusions of Love
03. Back in Time
04. The Mirror
05. Why?
06. Prisoner of Pain
07. Two Wonders
08. Walk Through Fire
09. The Chosen Few

LINE-UP
Johnny Gonzales – Drums, Percussion
Todd Libby – Bass guitar, Keyboards
George Rene Ochoa – Guitars, Keyboards, Background Vocals
Rey Parra – Lead Vocals

Special guests
Oz Fox [Stryper] – Lead guitar on “Back in Time” (2nd lead)
Les Carlsen [Bloodgood] – Bridge vocals on “The Chosen Few”
Larry Farkas [ex. Vengeance Rising] – Lead guitar on “Prisoner of Pain” (1st lead)
Jimmy P Brown II [Deliverance] – BGV on “The Mirror” (2nd and 3rd chorus)
Ronson Webster – Keyboards, Background Vocals
Armand Melnbardis [Rob Rock] – Piano on “The Chosen Few”, Violin on “Back in Time”
Niki Bente – Female vocals on “The Chosen Few”

WORLDVIEW – Facebook

Stormy Atmosphere – Pent Letters

Pent Letters è opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita.

Opera mastodontica, questo secondo lavoro della band Israeliana, al secolo Stormy Atmosphere, in attività dal 2002, ma con solo due lavori licenziati: il primo, ColorBlind del 2009 e appunto questo maestoso Pent Letters.

Prendendo spunto da una manciata di capolavori letterari come Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, Il Conte Di Montecristo di Dumas ed Il Faust di Goethe tra gli altri, la band costruisce un’opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita, interpretata in modo strepitoso dai musicisti del gruppo, protagonisti di prove da urlo, valorizzate da emozionati brani, dove la teatralità prende il sopravvento e si alterna con mirabolanti vortici di musica progressiva.
Impreziosito dal contributo di Tom S. Englund, vocalist degli Evergrey, l’album vive come un’opera teatrale, davvero interpretata dai due vocalist del gruppo: la stupenda
Dina Shulman, dotata di un’ugola strepitosa e carismatica che letteralmente ipnotizza l’ascoltatore e l’ottimo Teddy Shvets, protagonista di una prova emozionale, mattatore tanto quanto la sua partner, con duetti che lasciano a bocca aperta, così che, chiudendo gli occhi vi ritroverete al cospetto di un palco, con i due vocalist a dispensare perle di recitazione, in una rappresentazione teatrale entusiasmante.
Il sound su cui è strutturato Pent Letters, non può che correre dietro ai due assi al microfono, una sinfonia progressiva alimentata da soluzioni metalliche, ed atmosfere gotiche, dove i musicisti del gruppo danno sfoggio di una maestria elevata, anche se è la musica che in Pent Letters incanta, calda, ricca di cambi repentini di atmosfere, fughe tastieristiche, sinfonie operistiche, solos che sparano lingue di fuoco, ritmiche veloci come il vento, o intricate come la tela di un ragno, che creano attimi entusiasmanti, costringendo i generi di cui l’album si nutre ad allearsi per far risplendere la musica di Pent Letters.
D’altronde non si può rimanere indifferenti alle trame di cui sono composti brani esagerati come Science Fiction, Historical Adventure, The Menippeah (epica, operistica, un capolavoro), Tragic Play (metallica, debordante e bombastica), songs che valorizzano un’opera che interamente incanta.
Ayreon, Dream Theater, la Turunen solista, Evergrey e Within Temptation, prendete i gruppi e gli artisti in questione, amalgamateli sapientemente ed avrete una minima idea di quello che vi aspetta all’ascolto di Pent Letters … il resto lo mettono i fantastici Stormy Atmosphere.

Tracklist:
1. Afterlight
2. The Way Home
3. First Day
4. Science Fiction
5. First Year
6. Historical Adventure
7. Hour
8. The Menippeah
9. While
10. Suspense
11. Gothic Dread
12. Decennary
13. Tragic Play
14. Outcome
15. Time

Line-up:
Teddy Shvets – Vocals
Dina Shulman – Female Vocals
Stas Sergienko – Guitars
Eduard Krakov – Keyboards
Max Man – Bass

TesseracT – Polaris

Una band di levatura superiore ma che non incide come potrebbe, esibendo solo ad intermittenza abbacinanti lampi di classe e preferendo per lo più specchiarsi nella propria perfezione formale.

Se non mi unisco ai peana che sento levarsi da più parti riguardo a quest’ultimo disco dei TesseracT non è perché mi piaccia fare il bastian contrario, per partito preso o per innescare chissà quale dibattito solo per ottenere qualche contatto in più.

Niente di tutto ciò, semplicemente penso che, in fondo, una recensione sia solo l’articolazione più completa di un’opinione e, in quanto tale, è del tutto soggetta ai gusti ed alle preferenze di chi scrive.
Sull’altro piatto della bilancia c’è invece l’oggettività, alla quale non ci si può sottrarre per onestà intellettuale, che mi obbliga ad affermare con convinzione che i TesseracT sono un ottima band, capace di portare a scuola decine di altri gruppi grazie alla tecnica indiscutibile esibita nel corso della loro ultradecennale carriera e che non viene certo meno in questo ultimo Polaris.
Il problema è che un sottogenere come il djent, che i nostri hanno contribuito in maniera decisiva a far crescere e prosperare esasperando all’ennesima potenza il lato tecnico e dissonante del prog metal, è piuttosto lontano dalla mia idea di musica fin dai suoi presupposti fondamentali.
Il risultato che ne scaturisce è, infatti, una perfetta e talvolta piacevole esibizione di virtuosismo musicale, senz’altro meno scontato rispetto ad altri esponenti del genere, ma ugualmente prevedibile a lungo andare.
Peccato, perché la proposta dei TesseracT funziona benissimo proprio quando emerge una vena che riporta ai Porcupine Tree e in genere al neo progressive albionico, costretta però a convivere con queste pulsioni di metallo iper-tecnico che, almeno a me, restituiscono solo una certa freddezza.
Le aperture melodiche di brani come Hexes, Tourniquet, Phoenix e della splendida Seven Names mostrano le stimmate di una band di levatura superiore ma che non incide come potrebbe, esibendo solo ad intermittenza abbacinanti lampi di classe e preferendo, per lo più, specchiarsi nella propria perfezione formale
Il ritrovato Daniel Tompkins è effettivamente un magnifico vocalist e il suo contributo si rivela fondamentale per le sorti di un album che è rivolto a chi apprezza più la tecnica del cuore finendo per risultare, quindi, musica per musicisti, i quali sono naturalmente facilitati nel godere appieno di lavori di questa fatta.
Almeno questo è il mio parere, quello di un appassionato soprattutto di generi che antepongono il pathos e le emozioni a tutto il resto; tenetene conto nel leggere queste righe, perché in fondo molti tra voi probabilmente riterranno invece Polaris un album eccezionale, con più di qualche “oggettiva” buona ragione.
I’m sorry, it’s not my cup of tea …

Tracklist:
1. Dystopia
2. Hexes
3. Survival
4. Tourniquet
5. Utopia
6. Phoenix
7. Messenger
8. Cages
9. Seven Names

Line-up:
Acle Kahney – Guitar
James Monteith – Guitar
Jay Postones – Drums
Daniel Tompkins – Vocals
Amos Williams – Bass

TESSERACT – Facebook

The Long Escape – The Warning Signal

Il futuro del progmetal passa da lavori che miscelano tradizione e modernità come “The Warning Signal”

Brutta bestia il prog metal: da una parte la bravura tecnica dei musicisti che nel genere è un dato di fatto, dall’altra un forte senso di già sentito aleggia sulle produzioni del genere, fredde se la tecnica prende il sopravvento sul songwriting, emozionali ma derivative se le band puntano sul classico seguendo il teatro di sogno in un caso o il new prog britannico nell’altro.

Allora esce allo scoperto la voglia di chi, pur conservando un approccio prog alle composizioni, le valorizza con varie influenze, dal rock alternativo al metal moderno, accorciando il minutaggio delle composizioni, raddoppiandone l’appeal e rendendo la propria musica fruibile ad un pubblico che non sia solo formato da intenditori.
La versione metal del prog anni settanta, purtroppo, consta di fans molto conservatori, ancorati ai gruppi storici settantiani o ai metallari che, dal power più tecnico hanno volto lo sguardo alle sonorità care alle super band degli anni novanta (Dream Theather e Symphony X su tutte).
I francesi The Long Escape, giustamente, fanno spallucce e con il loro secondo lavoro, accentuano ancor di più il loro sound che di metal prog si nutre, cercando però di variegarlo con ottime atmosfere che dei generi moderni sono prerogativa.
Ecco che nasce il sound di The Warning Signal, prog metal moderno, colmo di ritmiche grasse che a tratti schiacciano l’occhiolino al core, brani dal forte sapore alternative e tanta bravura strumentale, che esce allo scoperto quando il gruppo si ricorda di divagare con scale intricate ma non troppo, melodiche, ruffiane, graffianti e aggressive il giusto per piacere agli appassionati dai gusti moderni.
Ne esce un gran bel disco, piacevole in tutte le sue sfumature e suonato benissimo, da musicisti sul pezzo e alquanto vario; certo, dimenticatevi cervellotiche fughe chitarristiche accompagnate da tastiere suonate alla velocità della luce: qui si viaggia su ritmi cadenzati e pesanti, le accelerazioni, quando la band schiaccia sul pedale, sono devastanti monoliti dal groove micidiale, intervallati da soluzioni alternative, come se gli Alter Bridge decidessero di suonare prog metal.
Seas Of Wasted Men, Awakened Ones, Carnival Of Deadly Sins e Slave sono gli episodi migliori di un album riuscito e che entra di diritto nelle opere di genere che lasciano qualcosa in più rispetto a mere prove di tecnica strumentale fini a sé stesse.
Da appassionato di prog in tutte le sue forme, credo fortemente che il futuro per il genere passi da questi lavori che miscelano tradizione e modernità.

Track List:
1.The Noise
2.Seas Of Wasted Men
3.Awakened Ones
4.Million Screens
5.Digital Misery
6.Carnival Of Deadly Sins
7.Crashdown
8.The Search
9.Homo Weirdiculus
10.Slave
11.World Going Down
12.The Last Crying Man

Line-up:
Kimo – Vocals/Guitars
Marius – Guitars
Nicolas – Bass
Tom – Drums

THE LONG ESCAPE – Facebook

FAKE HEROES – Intervista

Proseguiamo con la serie delle interviste alle band che sono state incluse nella compilation UMA 2015: oggi è il turno dei pescaresi Fake Heroes.

Proseguiamo con la serie delle interviste alle band che sono state incluse nella compilation UMA 2015: oggi è il turno dei pescaresi Fake Heroes.

fakeheroes

iye Intanto congratulazioni per l’avvenuto accesso alla compilation: ci raccontate in breve la storia della band?

La band nasce nel 2012 come naturale evoluzione di una “vecchia” band postgrunge: alla stessa formazione strumentale si è aggiunta una nuova voce e da lì, sulla base delle forti influenze hard rock/alternative di stampo americano, abbiamo prodotto il nostro primo EP Beyond This Glass (aprile 2012) e meno di un anno dopo il nostro primo album Divide And Rule (marzo 2013 per la tedesca Antstreet Records).
All’inizio dell’anno scorso c’è stato un cambio di line up alla batteria e i due lavori successivi (l’EP Bridge Of Leaves e l’album di prossima uscita Clouds) si sono spostati su territori piuttosto progressive/alternative con influenze djent, senza mai perdere d’occhio la base melodica che ci portiamo dietro dall’inizio.

iye Cosa vi ha spinto a partecipare al contest indetto dalla Underground Metal Alliance?

La necessità, in qualche modo, di far sentire la propria voce senza necessariamente dover investire ogni volta molti soldi. L’UMA rappresenta per noi una realtà da sostenere in un sistema in cui il normale concetto di investimento si è trasformato in un marasma in cui tutti, dal più professionale al più incapace, chiedono soldi per realizzare qualsiasi cosa/servizio.

iye Oltre a quelli più immediati, legati alla partecipazione a questa iniziativa, quali sono gli obiettivi che vi siete prefissati nell’immediato futuro?

Per quella che è la situazione odierna, soprattutto in Italia, vorremmo semplicemente avere la possibilità di farci ascoltare, davvero. Crediamo molto nel nostro album di prossima uscita e nel nostro piccolo crediamo anche di aver creato qualcosa di “diverso”, almeno per la proposta rock/metal italiana.

iye Quali sono per voi le band ed i musicisti di riferimento e per quali nomi, attualmente, varrebbe la pena oggi di fare un sacrificio per assistere ad un concerto?

All’interno della band abbiamo gusti e background parecchio diversi (come spesso accade). Diciamo che il collante che ci spinge oggi a fare musica affonda le sue giovani radici nella scena progressive metal moderna, nel djent e nel metalcore: Periphery, Tesseract, Skyharbor, Circles, Intervals. Tutti questi spunti sono stati mescolati ad altro: Dead Letter Circus, Twelve Foot Ninija … Difficile dare pochi nomi ed è forse quello che in realtà ci ha permesso di fare un primo vero lavoro personale. Per quanto riguarda i concerti ognuno ha i suoi punti di vista, ma di certo in Italia è difficilissimo poter assistere ad un concerto di molte delle band citate.

iye Suonare metal in Italia è un’impresa che porta con sé il suo bel coefficiente di difficoltà; tracciando un consuntivo di quanto fatto finora, siete soddisfatti dei riscontri ottenuti dalla band?

Possiamo dire di avere una discreta esperienza maturata live e in studio e da diverso tempo abbiamo capito che in realtà in ambito underground c’è una certa meritocrazia. Partendo da questo concetto sicuramente non ci riteniamo soddisfatti dei riscontri ottenuti ma ci rendiamo conto che gran parte della colpa è nostra. Nella vita di tutti i giorni si è presi da molte cose e se perdi di vista l’obiettivo che ti sei prefissato, qualsiasi esso sia, non arriverà mai. In Italia ci sono band che a nostro parere propongono prodotti di profilo a volte anche molto basso ma riescono a farsi sentire, a suonare live e a far girare il proprio nome perché spingono e credono molto nel progetto, facendone una priorità.

iye Per quanto riguarda invece l’attività dal vivo, anche voi avete incontrato le stesse difficoltà nel trovare date e location disponibili che molti evidenziano? Ci sarà, comunque, la possibilità di vedervi all’opera su qualche palco nel corso dell’estate?

Nel corso dell’estate sarà molto complicato. Abbiamo preso contatti con diversi festival in giro per l’Italia, ma molti quest’anno non si organizzeranno per mancanza di fondi. Con l’uscita del disco speriamo di riuscire a trovare locali disposti a condividere con noi la propria location.

iye Per finire, vi lasciamo lo spazio per fornire ai nostri lettori almeno un buon motivo per avvicinarsi alla vostra musica.

Nel nostro prossimo lavoro non c’è nulla di scontato, nulla di buttato lì al caso. Sarà come leggere dentro uno di noi, anche se in realtà siamo in 5.

FAKE HEROES – Facebook

Nightmare World – In The Fullness Of Time

Esordio su lunga distanza per la band britannica capitanata dal chitarrista dei Threshold Pete Morten.

Con l’esordio su lunga distanza dei Nightmare World siamo nella grande famiglia del power/prog britannico, genere che ha nei Threshold la band di punta: il gruppo, infatti, vede come protagonista al microfono Pete Morten, chitarrista dei più famosi conterranei negli ultimi lavori “March of Progress” e “For the Journey” e al lavoro anche su “The Interpreter” dei My Soliloquy, uscito nel 2013.

In The Fullness Of Time segue di ben sei anni l’ep “No Regrets”, e trattasi di un’opera che non si discosta poi molto da quello che i Threshold producono ormai da più di vent’anni, calcando la mano sulle ritmiche, a tratti più power oriented, ma mantenendo l’impronta progressiva cara alla band di quello che, il sottoscritto, considera il capolavoro del metal/prog, “Psychedelicatessen”, uscito all’alba del decennio di massimo splendore per il genere.
Dotato di un’ottima voce, Morten straripa sulle note power/prog del lavoro, accompagnato da cinque musicisti che, chiaramente, non sono da meno così che la musica della band ci delizia sia nella componente tecnica, che non manca mai in album come questo, sia nella sua parte strettamente emozionale; altro punto a favore per i Nightmare World, i quali puntano al sodo, è il fatto di racchiudere il tutto in meno di quaranta minuti di musica, pochi per gli standard a cui ci hanno abituato le band dedite al genere, ma assolutamente perfetti per questo ottimo album che non annoia con inutili prolissità, colpendo subito il bersaglio dell’assimilazione.
I brani sono infatti diretti, perfettamente suddivisi tra quelli più power e dal taglio epico (The New Crusade) ed altri in cui il prog comanda il sound (Defiance, Damage Report), lasciando che le tastiere di Nick Clarke comandino i giochi con melodie che riportano sempre alla scuola del new prog britannico.
Le chitarre (Sam Shuttlewood e Joey Cleary), aggressive e veloci nelle ritmiche a tratti riconducibili al power teutonico (Euphoria), e la sezione ritmica protagonista di un ottimo lavoro (Billy Jeffs alle pelli e David Moorcroft al basso) completano il combo.
L’album è prodotto da Karl Groom (chitarrista di Threshold e Shadowland e produttore di Dragonforce e Edembridge), mentre il master è stato affidato a Peter Van’t Riet (al lavoro con Symphony X, Transatlantic e Epica), entrambi garanzia di qualità per l’ottima riuscita dell’album.
Ascolto più che piacevole per gli amanti del genere, In The Fullness Of Time è consigliato anche a chi ama suoni più metallici, proprio per la sua immediatezza, pur mantenendo le linee guida del prog sound in voga al di là della manica.

Tracklist:
1. The Mara
2. In Memoria Di Me
3. The New Crusade
4. No Regrets
5. Defiance
6. Burden of Proof
7. The Ever Becoming
8. Damage Report
9. Euphoria

Line-up:
Pete Morten – vocals
David Moorcroft – bass
Sam Shuttlewood – guitars
Nick Clarke – keyboards
Billy Jeffs – drums
Joey Cleary – guitar

NIGHTMARE WORLD – Facebook

Dreams Of Victory – Dreams Of Victory

Dreams Of Victory deve avere la più presto un erede sulla lunga distanza, senza che il tempo raffreddi l’attesa di chi ha scoperto questa band dal potenziale ancora tutto da scoprire.

Strana la storia dei Dreams Of Victory: pur essendo stati fondati nel 2002, più di dieci anni fa, e connotati da un sound originale, dopo ben tredici anni sono solo al secondo ep, il primo per Metal Scrap, che segue “9 Stairs”, lavoro passato praticamente innoservato.

La band ucraina merita tutto il supporto possibile ed IYE corre in suo aiuto anche se questo ep omonimo, composto da tre brani di una varietà ed una emozionalità unica, è uscito ad ottobre dello scorso anno, .
Siamo in ambito prog metal ma, attenzione, perché la band il genere lo manipola e lo nobilita facendone l’uso per cui è nato: una musica senza barriere fatta propria da band come Queensryche e Dream Theater che, a cavallo tra il decennio ottantiano e quello successivo, ha di fatto portato all’attenzione degli ascoltatori la pura tecnica strumentale.
I Dreams Of Victory sono innamorati dei suoni del teatro di sogno e ci travolgono con una marea di ispirazioni ed influenze prese da almeno l’80% dei generi di cui il metal si nutre: in questi tre brani troverete, infatti, symphonic metal (la title-track) amalgamato con soluzioni tecniche, metal epico, declamatorio, ottantiano e fiero erede di band come i Manilla Road (The Patriot) e gothic che affiora dalle voci operistiche, come di moda nel metal classico odierno.
Power, heavy e davvero riuscito, Dreams Of Victory deve avere la più presto un erede sulla lunga distanza, senza che il tempo raffreddi l’attesa di chi ha scoperto questa band dal potenziale ancora tutto da scoprire.

Tracklist:
1.Overture
2.The Patriot
3.Dreams Of Victory

Line-up:
Sergey Lyubimov – keyboards;
Aleksandr Kypriyanov – drums;
Sergey Lukasevitch – bass;
Natalia Dzizinska – violin;
Max Nabokov – guitars

DREAMS OF VICTORY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=hyd3oDY7

Bug – Alpha

Un concept futurista ed un ottimo esempio di metal strumentale per l’esordio di Bug.

Buon esempio di progressive metal strumentale l’esordio di Lorenzo Meoni, che sotto il monicker Bug licenzia questa quarantina di minuti tutti da ascoltare.

Alpha è un concept molto originale: la storia raccontata attraverso il solo uso delle note si sviluppa sul conflitto tra la metà umana e quella robotica racchiusi in un unico corpo, quello del protagonista, che crea la metà cyborg con lo scopo di difendersi sia a livello fisico che mentale.
Col passare del tempo la parte creata si ribella diventando autonoma, iniziando una dura lotta che porterà alla morte questa sorta di creatura metà uomo, metà robot.
Sotto l’aspetto musicale il lavoro è molto vario, passando dal metal, al progressive moderno, con ottimi risultati di fruibilità; Lorenzo Meoni suona tutti gli strumenti con buona padronanza dei mezzi, passando dai suoni cari a Devin Townsend al thrash panterizzato, fino ad esplorare il metal prog di Anthony Lucassen, con ottimi risultati.
Scariche elettriche si alternano a momenti più rilassati sempre tenendo alta la tensione e sopratutto l’attenzione dell’ascoltatore: l’atmosfera di scontro tra le due metà è avvertibile da una drammaticità di fondo ed una violenza musicale che non viene mai meno.
Davvero interessante poi, che in un album strumentale non si avverta il minimo accenno al virtuosismo fine a se stesso, ogni nota racconta di questo inevitabile e drammatico scontro, catturando e affascinando con sfuriate thrash e bellissimi momenti di melodie progressive.
Album realizzato in modo molto professionale, come ormai ci hanno abituato i lavori targati Qua’Rock, Alpha racchiude undici brani, tutti ottimamente prodotti e suonati, da ascoltare tutto di un fiato per assaporare tutti i vari passaggi che porteranno alla tragica fine del protagonista.
Prodotto non solo consigliato agli amanti dei dischi strumentali, ma un po’ a tutti gli amanti della buona musica.

Tracklist:
1.Alpha
2.Tears Of Silicon
3.Ethernet Express
4.The Rebellion Of The System
5.Formatted
6.No Parameter
7.You’re Just A Number
8.Synchro
9.Remove My Circuits
10.Session Terminated
11.Null

Line-up:
Lorenzo Meoni- All Instruments

BUG – Facebook

Frozen Sand – Prelude

Ottimo ep d’esordio per i prog metallers Frozen Sand, ideale preludio all’imminente full length.

I Frozen Sand provengono da Novara, nascono nel 2010 e, all’insegna di un buon progressive metal, alternando tradizione e modernità, licenziano questo Ep di quattro brani dal titolo Prelude, appunto preludio di una storia che sarà sviluppata nel futuro esordio sulla lunga distanza.

Fractal Of Frozen Lifetimes, questo è il titolo del concept in cui la band sviluppa il suo songwriting fatto di un metal/prog che predilige le atmosfere piuttosto che cervellotiche parti tecniche, anche se ai musicisti del gruppo la bravura strumentale non manca di certo.
Ottime le vocals, che passano da parti evocative che creano un aurea epica, al growl (ormai usato sempre più spesso dalle band del genere) fino ad un’ottima voce pulita, il che rende l’ascolto dei brani vario, così come vario risulta il sound di Prelude che alterna con disinvoltura progressive e metal classico, inserendo ritmiche di death moderno che seguono l’alternarsi delle voci, cambiando atmosfere ad ogni passaggio.
Inutile elencare influenze o band da cui il gruppo piemontese prende spunto, qualsiasi amante dei suoni progressivi troverà modo di farsi una sua idea: la cosa che invece salta all’orecchio è la personalità con cui i Frozen Sand affrontano un genere non facile come quello racchiuso in Prelude, aumentando la curiosità e le aspettative per il futuro full length, di cui sicuramente ci faremo carico di parlarvi.

Tracklist:
1.Chronicle I – Chronomentrophobia
2.Chronicle II – Sand Of The Hourglass
3.Chronicle III – Khrono’s Pendulum
4.Fracture

Line-up:
Luca Pettinaroli – Vocals
Mattia Cerutti – Guitar
Tiziano Vitiello – Bass
Simone De Benedetti – Drums
Federico De Benedetti – Guitar, synth guitar & back vocals

FROZEN SAND – Facebook