Struttura e Forma – One Of Us

One Of Us è un album elegante, raffinato e dall’ascolto piacevole, nel quale la tecnica dei musicisti è messa al servizio delle composizioni, lasciando che la musica scorra come acqua in un cristallino torrente di note,

Genova ed il progressive rock, un amore che dura da oltre quarant’anni e che può sicuramente essere considerata una tradizione per la Superba, città dalle mille contraddizioni e che, come una bellissima donna, ti ammalia per poi lasciarti solo con al tuo desiderio.

Gruppi storici più o meno famosi, cantautori e poeti divenuti leggenda, etichette importanti e divenute di riferimento nell’ambiente, vanno di pari passo con una svogliata attitudine a lasciare che le cose accadano, mentre il brusio del mugugno non accenna a smettere da tempo immemore.
Gli Struttura e Forma sono un progetto progressivo nato addirittura nei primi anni settanta, tempi di grande musica rock, quando la città era testimone di una scena rock forse irripetibile.
Tra i vicoli della città vecchia Franco Frassinetti e Giacomo Caliolo decidono di formare il gruppo che vede, oltre alle loro sei corde, Toni Pomara alla batteria e il cantante-chitarrista Alex Diambrini.
Tra molte vicissitudini fatte di reunion e split, gli anni passano ed arriviamo ad oggi, quando finalmente il primo album, One Of Us, vede la luce  con una formazione che comprende, oltre ai due membri storici, Claudio Sisto al microfono, Marco Porritiello alla batteria e Stefano Gatti al basso.
Beppe Crovella, membro originale degli Arti & Mestieri, è il gradito ospite che dà il suo contributo con il mellotron, mentre fa ben mostra di sé la bellissima cover di Lucky Man, brano tributo al grande Greg Lake e classico fuori dal tempo degli ELP.
Il resto del lavoro alterna brani originariamente concepiti negli anni settanta a nuove composizioni: il progressive rock del gruppo si sviluppa così tra brani ariosi ed altri più articolati, alcuni più legati al progressive nostrano, altri invece dal taglio internazionale.
One Of Us rimane comunque un album elegante, raffinato e dall’ascolto piacevole, nel quale la tecnica dei musicisti è messa al servizio delle composizioni, lasciando che la musica scorra come acqua in un cristallino torrente di note, spaziando per un ventennio di musica progressiva venata da un leggero tocco cantautorale tutto ligure.
In conclusione, un lavoro consigliato agli ascoltatori del genere e dai gusti (se mi si passa il termine molto di moda oggigiorno) “old school”.

TRACKLIST
1.Worms
2.Symphony
3.Lucky Man
4.Kepler
5.One Of Us
6.Kyoko’s Groove
7.Indios Dream
8.Fasting Soul
9.Amsterdam
10.Acoustic Waves
11.Il Digiuno Dell’anima

LINE-UP
Franco Frassinetti – Guitars
Giacomo Caliolo – Guitars
Marco Porritiello – Drums
Stefano Gatti – Bass
Klaudio Sisto – Vocals

STRUTTURA E FORMA – Facebook

Steve Hackett – The Night Siren

The Night Siren si va a collocare molto vicino ai picchi solisti di Hackett, trattandosi di un album davvero ricco di intuizioni brillanti e rivelandosi vario ma non dispersivo, tra pulsioni etniche e rimandi al rock e al pop più colto.

Per chi è cresciuto con le musicassette dei Genesis, prezioso cimelio che all’inizio degli anni ’70 costituivano una sorta di Sacro Graal per noi adolescenti folgorati dall’epopea progressive, non è facile ritrovarsi a dover scrivere, dopo una quarantina d’anni, dell’ennesimo (il venticinquesimo) album solista di uno dei propri miti, con il rischio di apparire obiettivo come un qualsiasi genitore che assiste alle gesta sportive della propria prole …

Del resto un simile status non pare certo usurpato da Steve Hackett, uno tra i pochi reduci di quei bei tempi andati (assieme a lui mi viene in mente il solo Peter Hammill) che abbiano continuato a produrre instancabilmente musica inedita, senza tralasciare comunque di rinverdirla e riproporre sui palchi di mezzo modo le note che hanno reso immortale il nome dei Genesis.
Se è vero che, dell’Hackett solista, gli album che hanno lasciato davvero il segno sono i primi tre, con un capolavoro assoluto come Voyage Of The Acolyte e gli ottimi Please Don’t Touch e Spectral Mornings, ciò non significa che tutto il resto della produzione sia da trascurare, anche perché ogni disco del chitarrista inglese, anche il meno brillante, è ammantato da tale e tanta classe da renderlo comunque meritevole di attenzione.
The Night Siren si va a collocare però molto vicino ai picchi solisti di Hackett, trattandosi di un album davvero ricco di intuizioni brillanti e rivelandosi vario ma non dispersivo, tra pulsioni etniche e rimandi al rock e al pop più colto e, nel contempo, immediato; in tutto questo balenano lampi che fanno riferimento alle diverse culture musicali ben rappresentate da ospiti provenienti da diverse parti del pianeta, ognuno portatore del proprio background artistico-musicale.
A partire dalla magnifica Behind the Smoke, traccia che fa capire anche quanto stavolta Steve abbia deciso di non lesinare riguardo ai suo leggendari ed unici assoli chitarristici, il disco si dipana senza fornire punti di riferimento precisi, tenendo fede in senso letterale a quella che dovrebbe essere realmente la musica progressive, ovvero non una serie interminabile di cambi di tempo fine a sé stessi, bensì il naturale sfogo della curiosità musicale di un artista di livello superiore.
Prendiamo ad esempio due brani differenti ma resi contigui dalla sola idea di collocarli sullo stesso album: El Nino è uno strumentale che porta a scuola intere generazioni di musicisti prog, con le sue orchestrazioni che vanno ad esaltare un sound nervoso sul quale si stagliano tonalità che riportano ai migliori momenti di Spectral Mornings, e Anything But Love, traccia solare con coralità in stile Kansas che, nella seconda metà, lasciano spazio a quasi due minuti di maestria chitarristica offerta ai posteri.
Insomma, non c’è un solo brano che annoi o che non sorprenda con soluzioni sempre brillanti, ovviamente esaltati da un consesso di musicisti del quale appare superfluo decantare le doti.
West To East, oltre ad essere un brano magnifico, dai tratti sognanti e suadenti che riportano ai passaggi più soft di Wind And Wuthering e comprendente uno stacco orientaleggiante da far impallidire gli stessi Myrath, è soprattutto anche il manifesto concettuale di un lavoro composto all’insegna di sentimenti positivi, con l’idea tutt’altro che peregrina che la musica sia forse ancora l’unico collante capace di unire i popoli racchiudendo nel suo abbraccio l’intero pianeta.
The Gift, struggente strumentale che chiude il lavoro, è appunto il dono che Steve Hackett fa a tutti gli amanti della buona musica: The Night Siren è l’ennesima prova maiuscola di chi ha messo classe, talento e umanità al servizio di tutti gli appassionati di musica, nessuno escluso …

Tracklist:
1. Behind the Smoke
2. Martian Sea
3. Fifty Miles from the North Pole
4. El Niño
5. Other Side of the Wall
6. Anything but Love
7. Inca Terra
8. In Another Life
9. In the Skeleton Gallery
10. West to East
11. The Gift

Line-up:
Steve Hackett – electric & acoustic guitars, oud, charango, sitar guitar, harmonica, vocals (1 – 11)

Roger King – keyboards and programming (1 – 10)
Amanda Lehmann – vocals (1,2,3,6,7,8,9,10)
Christine Townsend – violin, viola (3, 4, 5, 7, 9, 10)
Rob Townsend – baritone & soprano sax, flute, flageolet, quena, duduk, bass clarinet (1, 4, 7, 9)
Gary O’Toole – drums (3, 4, 10)
Nick D’Virgilio – drums (2)
Gulli Briem – drums, cajon, percussion (7,9)
Mira Awad – vocals (10)
Leslie-Miriam Bennett – keyboards (11)
Troy Donockley – Uilleann pipes (8)
Dick Driver – Double bass (3,4,5,7)
Nad Sylvan – vocals (7)
Kobi Farhi – vocals (10)
Benedict Fenner – keyboards and programming (11)
Jo Hackett – vocals (10)
John Hackett – flute (2,10)
Ferenc Kovács – trumpet (3)
Sara Kovács – didgeridoo (3)
Malik Mansurov – tar (1)

STEVE HACKETT – Facebook

Pallbearer – Heartless

Ascoltare Heartless è un’esperienza che ti fa essere grato di non essere morto prima di poter sentire un disco così.

Heartless è talmente bello che a volte fa paura ascoltarlo, si rimane intimoriti da cotanta grazia.

Il terzo disco dei Pallberear è qualcosa di magnifico e stordente. Questo disco contiene tutto, dal post metal al rock, dall’heavy metal più illuminato alla canzone epica, dal dark al non cosa, ma qui dentro c’è. Probabilmente i Pallbearer sono un medium attraverso i quali chissà quale entità fa scorrere la propria musica da un altro punto dell’universo. Ascoltare Lie Of Survival è un’esperienza che ti fa essere grato di non essere morto prima di poter sentire una canzone così. Heartless è ciò che è illustrato in copertina, una montagna antropomorfa che riposa inquieta. I Pallbearer prima di questa prova erano un gran gruppo, molto promettente e fautore di un’ottima musica pesante virata al doom, e di grande efficacia dal vivo. Dimenticatevi di tutto ciò. Certamente qualcosa è rimasto, sicuramente i pregi di quanto fatto prima, ma qui è un altro piano cosmico, è l’iperuranio. Questo disco lo sentirete con le orecchie ma va dritto verso i ventuno grammi che forse compongono la nostra anima. Il tempo si dilata, e i Pallbearer ci sussurrano all’orecchio di incredibili mondi che sono dentro e fuori di noi, e mentre lo fanno scorrono le vite di quello che siamo stati prima e di quello che saremo dopo, in una maliconia fatta del contrario di ciò di cui è fatta la carne. Heartless è forse un sogno, forse non esiste, ma almeno lo avremo sentito. Gli oltre undici minuti di Dancing In Madness si vorrebbe che non finissero mai, tanta è la dolcezza. Si potrebbero nominare molti riferimenti, ma non avrebbe senso, bisogna tornare a sentire la musica per amarla senza etichette, Questo disco non ha confini, si espande come l’aria fresca, dolcezza e durezza, chitarre che completano l’etere e confini abbattuti. Tra Cure, Pink Floyd, qualcosa dei Black Sabbath, e tantissimo Pallberear. Cambi di melodia, superamento di mondi lontani, abbracci fra demoni diversamente divini, tutto.
Uno dei miei dischi preferiti di sempre, immenso.

TRACKLIST
1. I Saw The End
2. Thorns
3. Lie Of Survival
4. Dancing In Madness
5. Cruel Road
6. Heartless
7. A Plea For Understanding

LINE-UP
Joseph D. Rowland – Bass
Devin Holt – Guitars
Brett Campbell – Guitars, Vocals
Mark Lierly – Drums

PALLBEARER -Facebook

Althea – Memories Have No Name

Il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.

I buoni riscontri che Memories Have No Name ha ottenuto qualche mese fa da varie webzine, tra le quali la nostra, ha consentito agli Althea di destare l’interesse di diverse label, tra le quali la più lesta ad accaparrarsene le prestazioni è stata la Sliptrick Records, che ha licenziato la versione fisica dell’album proprio in questi giorni.
Ci sembra opportuno, quindi, rinfrescare la memoria degli ascoltatori riproponendo la nostra recensione risalente allo scorso dicembre.

E’ durissima la vita per chi decide (spronato da una passione infinita per il mondo delle sette note), di dedicare gran parte del suo tempo ad alimentare un webzine come la nostra.

Sempre a rincorrere le tonnellate di materiale che puntualmente (e fortunatamente) arrivano alla base, con poche persone che hanno voglia di mettersi in gioco e dare una mano (anche e soprattutto nell’ambiente) e sempre i soliti che tra famiglia, l’odiato lavoro, gli scazzi di una vita sempre più difficile e gli anni che cominciano ed essere tanti sul groppone, portano inevitabilmente a quei momenti no dove tutto quello che si fa appare inutile e la voglia di mollare fa capolino nella testa.
Poi d’incanto tutto torna ad avere un senso, le dita scorrono sulla tastiera più fluide che mai mentre le note di un bellissimo album che, probabilmente, non sarebbe entrato mai nella propria sfera musicale se non fosse giunta una richiesta di ascolto da parte del gruppo protagonista di cotanta maestria musicale.
E allora pronti e via per questo viaggio in musica sulle note progressive dei nostrani Althea, quintetto lombardo fondato dal chitarrista Dario Bortot e dal bassista Fabrizio Zilio, al primo full length ma con un ep alle spalle (Eleven) risalente ad un paio di anni fa .
Memories Have No Name è un bellissimo concept di un solo brano diviso in sedici capitoli, incentrati sui ricordi e sull’impatto che questi hanno su due diversi personaggi, raccontato con il supporto della musica totale per antonomasia, il progressive.
Il sound di questo lavoro, pur mantenendo un approccio metallico alla musica progressiva, è molto più rock di quello che ad un primo ascolto si può recepire, il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.
Hard rock, AOR, metal prog ed un pizzico di rock moderno sono gli ingredienti principali di Memories Have No Name, album che sotto l’aspetto dell’emozionalità tocca vette sorprendenti.
La bravura dei musicisti coinvolti non si discute, ma sono appunto il calore e le emozioni che sprigionano dai vari capitoli a rendere l’opera un piccolo gioiello progressivo, con Paralyzed che, subito dopo l’intro, mostra la parte più metallica del sound, avvicinando il gruppo alla musica dei Dream Theater.
E allora direte voi?
Basta saper aspettare e la musica degli Althea saprà sorprendervi con un continuo ed entusiasmante cambio di atmosfere, dove i momenti topici sono quelli in cui l’anima intimista e sperimentale prende il comando dello spartito regalando momenti di ottima musica progressiva, con i vari intermezzi che non risultano riempitivi ma fondamentali momenti acustici ed atmosferici (A New Beginning, Drag Me Down e la title track) e tracce capolavoro come Halfway Of Me, Leave It For Tonight (brano progressivo dai rimandi beatlesiani), con la ballad Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E.), dallo smisurato impatto emotivo.
Parlare di influenze è riduttivo, ma il paragone a mio parere più calzante (e con le dovute differenze) è con gli Active Heed di Umberto Pagnini, specialmente nel talento innato per le melodie e per le emozioni che suscita la musica prodotta: Memories Have No Name è un lavoro imperdibile per gli amanti delle sonorità progressive.

TRACKLIST
1.Regression From Regrets
2.Paralyzed
3.A New Beginning
4.Revenge
5.Drag Me Down
6.Halfway Of Me
7.Intermediated pt. 1
8.I Can’t Control My Mind
9.Intermediated pt. 2
10.Leave it for Tonight
11.Memories Have No Name
12.The Game
13.Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E)
14.Take Me As I Am
15.Anything We’ll ever be
16.A Final Reflection

LINE-UP
Dario Bortot – Guitar
Fabrizio Zilio – Bass
Marco Zambardi – Key and Loops
Sergio Sampietro – Drums
Alessio Accardo – Vocal

ALTHEA – Facebook

Presence – Masters And Following

Masters And Following rappresenta il ritorno soddisfacente di una band ritrovata, per la quale si spera che questo sia solo l’inizio di una nuova e prolifica fase della sua storia.

Il fatto stesso che una band definibile in qualche modo di culto, come lo sono i Presence, si rifaccia viva dopo un lungo silenzio costituisce di per sé un evento, per cui resta solo da valutare quanto il trascorrere del tempo abbia influito o meno sull’operato del gruppo napoletano.

Indubbiamente, se si intendesse utilizzare quale termine di paragone un lavoro come Black Opera, che portò in maniera dirompente i Presence all’attenzione del pubblico nel 1996, sarebbe un partire con il piede sbagliato: vent’anni sono un lasso temporale che non può lasciare alcunché di immutato, tanto più se i musicisti, al di là delle centellinate uscite discografiche con questo monicker, sono stai attivi in altre vesti e alle prese con sfumature musicali differenti.
Ed è proprio un’accentuata varietà stilistica l’aspetto che colpisce maggiormente al primo impatto con Masters And Following: i Presence spaziano dal progressive più classico a quello metallizzato, passando attraverso pulsioni pop e hard rock, e a tutto questo non è certo estranea la decisione di annoverare tra i 13 brani del cd contenente i brani inediti anche ben tre cover, pure queste di natura variegata se pensiamo al rock settantiano di The House On The Hill degli Audience, alla NWOBH di Freewheel Burning dei Judas Priest ed al pop danzereccio di This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us degli Sparks (versione riuscitissima questa, che peraltro mi ha indotto a rivalutare quale fosse la caratura dei fratelli Mael, snobbati all’epoca da molti di noi imberbi fans del progressive).
In Masters And Following si attraversano così in maniera naturale tutte queste anime musicali immortalate da una serie di brani a mio avviso complessivamente riusciti, grazie ai quali, volendo giocare con il titolo dell’album, l’appellativo di “masters” nei confronti dei Presence calza a pennello …
Sicuramente il lavoro (del quale ho omesso inizialmente di dire che consta di un doppio cd, il secondo dei quali ripercorre la carriera del gruppo tramite una serie di canzoni registrate dal vivo) trova il suoi meglio nella parte iniziale, visto che la title track, Deliver e Now sono tre tracce differenti quanto efficaci, e soprattutto esaustive dell’incorrotta capacità della premiata ditta Baccini, Iglio, Casamassima di creare atmosfere coninvolgenti, nelle quali la robustezza del metal si sposa con naturalezza ad un tocco tastieristico settantiano e ad una voce come quella di Sophya che, come sempre, non si risparmia.
Diciamo anche, per converso, che dopo il trittico delle cover inframmezzato dal notevole strumentale Space Ship Ghost, la tensione scema leggermente senza che il livello complessivi si abbassi a lambire livelli di guardia, ritrovando anzi un’altra notevole impennata con un brano bellissimo come Collision Course.
Detto della parte dedicata al nuovo materiale, non resta che fare un breve accenno al cd dal vivo, purtroppo inficiato da una registrazione che spesso non rende giustizia alla bellezza della musica ed al talento dei musicisti, per cui la sua presenza nella confezione riveste più un valore documentale che non artistico, benché utile forse a spingere chi non conoscesse già i Presence a recuperare le opere originali dalle quali sono tratti i brani, cominciando ovviamente dall’imprescindibile Black Opera.
Masters And Following rappresenta il ritorno soddisfacente di una band ritrovata, per la quale si spera che questo sia solo l’inizio di una nuova e prolifica fase della sua storia.

Tracklist:
CD1:
1. Masters And Following
2. Deliver
3. Now
4. Interlude
5. The House On The Hill
6. Freewheel Burning
7. Space Ship Ghost
8. This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us
9. Prelude
10. Symmetry
11. Collision Course
12. On The Eastern Side
13. The Revealing

Bonus CD:
1. Scarlet
2. The Sleeper Awakes
3. Lightning
4. The Dark
5. Eyemaster
6. Just Before The Rain
7. The Bleeding
8. Un Di’ Quando Le Veneri
9. Orchestral:
– Overture
– Hellish
– J’Accuse
– Makumba
– Supersticious
– The King Could Die Issueless

Line up:
Sophya Baccini – vocals
Enrico Iglio – keyboards, percussion
Sergio Casamassima – guitars
Guests:
Sergio Quagliarella – drums
Mino Berlano – bass

PRESENCE – Facebook

Anèma – After The Sea

Piace l’importanza che gli Anèma danno all’insieme piuttosto che alla tecnica individuale: After The Sea convince e ci consegna una band che di certo non mancherà di regalare ulteriori soddisfazioni.

Progressive rock e metal dagli anni settanta ai giorni nostri: in After The Sea troviamo gli elementi che caratterizzano i due generi figli della stessa madre, una dea progressiva che aggiunge a tratti altri elementi per cercare di nobilitare il più possibile la musica di questi suoi giovani adepti, i siciliani Anèma .

Nato un paio di anni fa come cover band dei gruppi storici degli anni settanta, ma con un ampio raggio di ispirazioni ed influenze che arrivano fino ai nostri giorni, il quartetto siracusano debutta su Sliptrick con After The Sea, un viaggio tra le coste bagnate dal Mar Mediterraneo dove, ogni giorno, sbarcano centinaia di uomini in fuga dal loro paese con la chimera di un futuro migliore, sogno che svanisce all’arrivo sulle coste italiche, oppure tra le onde di un mare che non fa sconti.
Da qui il viaggio musicale della band ha inizio, tra sonorità che si rifanno al periodo settantiano, attimi di grinta metal progressiva ed atmosfere di ariose armonie di musica mediterranea.
After The Sea ha il pregio di non osare troppo, sia per durata (che risulta ridotta per le abitudini del genere) che per tecnica, andando subito al cuore dei brani che rimangono molto vari e mai banali nel loro approfondire una materia difficile come il progressive.
Personalmente trovo la musica del gruppo splendida quando non forza sulla parte metal, trovando sfogo piuttosto in parti ariose, al limite della fusion in alcuni attimi, ma legate al progressive rock degli ultimi anni.
Ed infatti ritengo brani come She o Some Fires molto vicini alla musica di Umberto Pagnini e dei suoi Active Heed, mentre quando il suono si indurisce la musica del gruppo acquista in energia ma perde in magia, tornando a livelli più normali ed in linea con il classico prog metal (This Place Needs Revolution).
Piace l’importanza che gli Anèma danno all’insieme piuttosto che alla tecnica individuale: After The Sea convince e ci consegna una band che di certo non mancherà di regalare ulteriori soddisfazioni. Buona la prima, dunque.

TRACKLIST
1.Intro
2.After The Sea
3.She
4.Free Forever
5.Some Fires
6.Let The Sky In The Mainland
7.Song For Nothing
8.This Place Needs Revolution
9.Outro

LINE-UP
Salvo Crucitti – Drums
Dario Giannì – Bass
Lorenzo Giannì – Guitars
Baco Dì Silenzio – Vocals

ANEMA – Facebook

Davide Laugelli – Soundtrack of a Nightmare

L’esperimento di Davide Laugelli è senz’altro convincente, nonostante il bassista scenda su un terreno normalmente non battuto, a dimostrazione di una preparazione inattaccabile ed anche di una certa ispirazione, sfuggendo agli stucchevoli tecnicismi che spesso ammorbano gli album strumentali.

Davide Laugelli è un musicista dal curriculum  piuttosto ricco in ambito metal, facendo parte attualmente dei Disease Illusion e degli Heller Schein ed avendo ricoperto nel recente passato il ruolo di bassista on stage al servizio degli storici Electrocution, senza contare la passata militanza in altre band e svariate collaborazioni.

Soundtrack of a Nightmare esula formalmente da tutto questo, trattandosi di un primo esperimento di musica interamente strumentale eseguita utilizzando due bassi (uno tradizionale ed uno fretless, suonati ovviamente da Laugelli),  synth (a cura di Fausto De Bellis) e batteria (Michele Panepinto): l’intenzione del musicista bergamasco (ma da tempo di stanza a Bologna) è quello insito nel titolo dell’ep, ovvero la creazione di una sorta di colonna sonora per gli incubi che, sovente, rendono piuttosto agitate le notti di ognuno.
Anche se il lavoro mostra aspetti per lo più imprevedibili, non sorprende la prima traccia visto che la Johannes Brahms Op.49 n. 4 altro non è che la ninna nanna per antonomasia, rivista con un certo gusto e senza stravolgerne l’essenza; il breve intermezzo onirico La Nave di Pietra introduce una più movimentata A Night At Stonehenge, nella quale si apprezza il lavoro dei musicisti che si snoda su coordinate progressive anche se non nell’accezione più comune del genere.
Hell With You è un altro brano piuttosto breve, nel quale il basso di Laugelli si fa minaccioso ed ossessivo, mentre Climbing The Wrong Mountain, con il suo andamento potrebbe rievocare quelle affannose rincorse a cui la nostra mente ci costringe mentre il corpo solo apparentemente riposa: anche qui va segnalato un lavoro strumentale di prim’ordine, prima che il trillo di una sveglia ci sottragga all’incubo per riportarci alla realtà, non necessariamente più rassicurante di quella elaborata dalla psiche durante il sonno.
L’esperimento di Davide Laugelli è senz’altro convincente, nonostante il bassista scenda su un terreno normalmente non battuto, a dimostrazione di una preparazione inattaccabile ed anche di una certa ispirazione, sfuggendo agli stucchevoli tecnicismi che spesso ammorbano gli album strumentali, e riuscendo infine a tenere fede alla dichiarazione d’intenti contenuta nel titolo dell’ep, grazie ad un sound cangiante che alterna passaggi più nervosi ad altri più rarefatti e vicini all’ambient.
La breve durata ne aiuta senz’altro l’assimilazione, ma l’ascolto di Soundtrack of a Nightmare offre la ragionevole certezza che Davide sia in grado, in futuro, di replicare quanto fatto in quest’occasione anche su un eventuale lavoro su lunga distanza.

Tracklist:
1. Johannes Brahms Op. 49 n. 4 (insane version)
2. La nave di pietra
3. A night at Stonehenge
4. Hell with you
5. Climbing the wrong mountain

Line up:
Davide Laugelli: bass
Michele Panepinto: drums
Fausto de Bellis: synth

DAVIDE LAUGELLI – Facebook

Riftwalker – Green & Black

Questo trio canadese si presenta con il debutto sulla lunga distanza e ci travolge con il suo sound estremo e progressivo, magari di questi tempi non originalissimo, ma quantomeno interessante.

Questo trio canadese si presenta con il debutto sulla lunga distanza e ci travolge con il suo sound estremo e progressivo, magari di questi tempi non originalissimo, ma quantomeno interessante.

Che i Riftwalker non vogliano essere una band come le altre lo si evince dalla copertina, un pastore montano con il suo cane che, con il technical progressive death metal suonato dal gruppo, non ci azzecca un granché.
Ma qui si parla di musica, ed allora sappiate che siamo al cospetto di un trio molto interessante, magistrale tecnicamente ma molto attento al songwriting che mantiene alta la media qualitativa di un album di notevole spessore.
Solo un ep, Wreckage of the Old World di tre anni, fa separa il gruppo di Vancouver tra i suoi inizi targati 2009 e quest’opera estrema, che mantiene per tutta la sua durata un approccio moderno, progressivo ed intricato, ma che non perde mai le briglie di un sound che è un animale selvaggio e indomabile.
Ripeto, ormai parlare di originalità diventa difficile anche in un genere che, per primo, ha permesso di amalgamare sonorità lontane anni luce dal metal estremo con il death metal, ma in Green & Black tutto è perfettamente al suo posto senza risultare forzato.
Harlequin Ichthyosis, Primordial Collapse e Beyond Mortality sono i brani migliori di un lavoro che speriamo non si disperda nello sterminato universo dell’ underground estremo.

TRACKLIST
1.B.H.O.
2.Harlequin Ichthyosis
3.Engineer Their Consent
4.Intrinsic Degeneration
5.Primordial Collapse
6.States of Decay
7.Beyond Mortality
8.Green & Black

LINE-UP
Spencer Atkinson – Bass, Vocals
Zan Petrovic – Drums, Percussion
Miles Morrison – Guitars, Vocals

RIFTWALKER – Facebook

The Mute Gods – Tardigrades Will Inherit The Earth

Da un trio di simile caratura non poteva certo scaturire un lavoro deludente dal punto di vista tecnico e va detto che, anche sotto l’aspetto compositivo, Tardigrades Will Inherit The Earth mostra a tratti un caratura di livello superiore alla media.

Seconda uscita nel giro di poco più di un anno per i The Mute Gods, trio composto da musicisti di spicco che rispondono al nome di Nick Beggs (voce, basso e chitarra)  e Roger King (tastiere), entrambi appartenenti alla cerchia di collaboratori del grande Steve Hackett, e Marco Minnemann (batteria) uno che non ha certo bisogno di presentazioni visto il suo curriculum chilometrico che spazia dal rock al metal.

L’estroso Beggs porta avanti a livello lirico il suo lodevole intento di sensibilizzazione degli ascoltatori riguardo alle problematiche ambientali e sociali che stanno portando il pianeta al collasso e, di conseguenza, tutti i suoi ospiti verso un’estinzione più rapida di quanto si possa pensare: il titolo dell’album ci ricorda, con un humour amaro e tipicamente britannico, come ad ereditare la Terra, di questo passo, saranno probabilmente i tardigradi, minuscoli invertebrati a otto zampe capaci di sopravvivere nelle condizioni più ostili per qualsiasi altra forma di vita.
Il rivestimento sonoro, invece, non può che essere costituito da un prog rock che spazia da quello più tradizionale e settantiano a quello più moderno, in stile Porcuipine Tree (non a caso Beggs e King hanno lavorato anche con Steve Wilson).
Chiaramente da un trio di simile caratura non poteva certo scaturire un lavoro deludente dal punto di vista tecnico e va detto che, anche sotto l’aspetto compositivo, Tardigrades Will Inherit The Earth mostra a tratti un caratura di livello superiore alla media.
A lungo andare, infatti, è possibile apprezzare le ottime linee melodiche offerte con la prevedibile perizia, oltre a familiarizzare con la voce di Nick, stranamente molto efficace sui toni medio altri ma piuttosto piatta ed impersonale su quelli più bassi.
La varietà stilistica è un altro punto di forza dell’album, in cui si passa da tracce più ritmate e robuste come la trascinante title track, Animal Army e The Dumbing Of The Stupid, agli umori decismente oscuri di We Can’t Carry On, fino alle più sudenti ed emotive Stranger Than Fiction, Early Warning, Window Onto The Sun e soptattutto la stupenda e prevalentemente acustica The Singing Fish Of Batticaloa, riguardo al cui testo Beggs ha dichiarato: “Ho scritto la canzone immaginando che questi pesci, con il loro canto, forse stanno cercando di comunicarci qualcosa riguardo al futuro e ci mettono in guardia sulla nostra fine imminente”.
Rispetto al precedente album viene meno la collaborazione dei diversi ospiti che avevano contribuito ad arricchirne per un verso il contenuto ma forse, per un altro, a deviare parzialmente l’attenzione dall’operato di questi tre ottimi musicisti i quali, pur senza aver dato alla luce un’opera epocale, ci regalano un qualcosa di ugualmente prezioso e meritevole d’attenzione, sia dal punto di vista lirico che musicale.

Tracklist:
1 Saltatio Mortis
2 Animal Army
3 We Can’t Carry On
4 The Dumbing Of The Stupid
5 Early Warning
6 Tardigrades Will Inherit The Earth
7 Window Onto The Sun
8 Lament
9 The Singing Fish Of Batticaloa
10 The Andromeda Strain
11 Stranger Than Fiction

Line-up:
Nick Beggs: string basses, guitars, Chapman Stick, programming, keyboards and vocals
Roger King: keyboards, programming, guitars, backing vocals, production and mastering
Marco Minnemann: drums, additional guitars

THE MUTE GODS – Facebook

Tim Bowness – Lost In The Ghost Of Light

Un album ad esclusivo uso e consumo dei fruitori del prog rock moderno e della musica gravitante attorno a Steve Wilson.

Quarto album solista per Tim Bowness, cantante e autore inglese che molti progsters ricorderanno nei No-Man in compagnia del leader dei Porcupine Tree Steve Wilson.

L’artista si circonda di una manciata di nomi altisonanti della musica progressiva mondiale come Ian Anderson, Andrew Keeling, Stephen Bennet (Henry Fool), Colin Edwin (Porcupine Tree), Brice Soord (The Pineapple Thief) tra gli altri, e con Steve Wilson dietro alla consolle crea questo concept sulla vita di un musicista e tutto ciò che circonda il mondo.
Il progressive rock di Tim Bowness è delicato, suadente, moderno nella concezione ma purtroppo monocorde: le canzoni, alcune comunque davvero belle, alla lunga non decollano e rimangono impantanate in un rock d’autore ma nulla più.
Manca la canzone che traini l’album, assolutamente obbligatoria anche in un genere come il progressive rock, nel quale le derive moderne hanno portato la musica su territori pericolosissimi, dove la linea tra un capolavoro atmosferico ed intimista ed una lenta agonia musicale è sottilissima.
Peccato, perché a tratti l’ascolto è piacevole anche se non si va mai oltre il compitino con melodie pinkfloydiane, accenni al gruppo di Wilson ed un rock semiacustico a cui manca una melodia che distolga dall’andamento monotematico che, dalla prima canzone, attanaglia questo Lost In The Ghost Of Light.
Certo è che se il concept si ispira alla vita di un musicista a fine carriera, musicalmente viene descritto più il nostalgico canto del cigno che non le bizze di gioventù: nel finale, You Wanted To Be Seen si pone come picco più alto del disco, essendo una traccia ariosa e ritmicamente più varia rispetto all’andamento generale dell’album, che risulta così ad uso e consumo dei soli fruitori del prog rock moderno e della musica del gruppo di Steve Wilson.

TRACKLIST
01. Worlds Of Yesterday
02. Moonshot Manchild
03. Kill The Pain That’s Killing You
04. Nowhere Good To Go
05. You’ll Be The Silence
06. Lost In The Ghost Light
07. You Wanted To Be Seen
08. Distant Summers

LINE-UP
Tim Bowness
Colin Edwin (Porcupine Tree)
Bruce Soord (The Pineapple Thief / Katatonia)
Hux Nettermalm (Paatos)
Stephen Bennett (Henry Fool / No-Man)
Andrew Booker (Sanguine Hum / No-Man)

Ian Anderson (Jethro Tull)
Kit Watkins (Happy The Man / Camel)
Andrew Keeling (Hilliard Ensemble / Robert Fripp)
Steve Bingham (Ely Sinfonia / No-Man)
David Rhodes (Peter Gabriel / Kate Bush / Scott Walker)

TIM BOWNESS – Facebook

Mindscar – What’s Beyond the Light

Secondo album per il trio capitanato dall’ex Trivium Richie Brown: i Mindscar sono protagonisti di un sound che trova il perfetto equilibrio tra death metal classico, metalcore e soluzioni progressive.

Dalla Florida, patria del death metal statunitense, arriva questo trio estremo attivo dal dagli ultimi scorci del secolo scorso ma con i primi due full length licenziati negli ultimi due anni.

What’s Beyond the Light è il secondo album, successore di Kill The King a conferma della costanza degli ultimi anni in casa Mindscar.
La bend, che vede alla sei corde ed alla voce l’ex Trivium Richie Brown, è forte di un sound che riesce a far convivere il death metal classico con quello moderno, valorizzandolo con svisate progressive e martellanti ritmiche metalcore che a tratti appesantiscono notevolmente la proposta del gruppo.
Ottimi musicisti, i Mindscar, oltre a Brown vedono impegnati Terran Fernandez al basso e Robbie Young alle pelli, una sezione ritmica che riesce perfettamente ad assecondare i deliri del bravissimo chitarrista.
Ne esce un album che, grazie anche alla durata perfetta per la musica proposta, convince tra estreme parti deathcore, arpeggi e voli progressivi e una sempre presente sfumatura classica che ricorda il sound nato tra le strade della Florida.
Mid tempo pesanti come incudini fanno da rovescio della medaglia ad aperture melodiche di stampo progressivo che poi risultano i momenti migliori del disco, la cui apertura è affidata alla Obituary oriented I Am The Bad Man; l’ alternanza tra ritmiche sincopate e scariche violentissime fa da tappeto alla devastante Headless, ma da
Buried Beneath the Snow si cominciano ad intravedere nuove strade progressive sviluppate in seguito, soprattutto nella conclusiva title track.
What’s Beyond The Light è un album che merita la giusta attenzione, e l’ uso da parte del gruppo di varie atmosfere rende l’ascolto piacevole anche grazie all’ottima tecnica dei musicisti coinvolti.

TRACKLIST
1.I Am the Bad Man
2.Headless
3.Buried Beneath the Snow
4.A Faceless Force that Must Die
5.Megalodon
6.Cerberus
7.When the Soul Dies
8.Entering the Void
9.What’s Beyond the Light

LINE-UP
Richie Brown – Guitars, Vocals (lead)
Terran Fernandez – Bass, Vocals
Robbie Young – Drums, Vocals

MINDSCAR – Facebook

Arduini/Balich – Dawn Of Ages

Dawn Of Ages, primo lavoro della coppia, è un album sarebbe un peccato trascurare, soprattutto se siete amanti del doom classico e dei suoni progressivi.

Alcuni anni fa (intorno al 2013) lo storico chitarrista Victor Arduini, uno dei fondatori dei prog metallers Fates Warning, chiuse la sua collaborazione con i Freedoms Reign.

L’incontro con il vocalist degli Argus Brian Balich è l’inizio di una collaborazione che porta all’uscita di questo lavoro, licenziato dalla Cruz Del Sur Music ed intitolato Dawn Of Ages.
Al duo si unisce il batterista Chris Judge, ed i tre musicisti si avventurano tra le trame di un doom dai tratti progressivi, ma solido ed aggressivo il giusto per essere considerato un album di musica del destino a tutti gli effetti:
doom classico di derivazione settantiana, unito a quello dei gruppi americani della generazione che ha visto le opere di Saint Vitus e Trouble, ma che non manca di lasciare al chitarrista sfoghi progressivi sulla sei corde che macina riff sabbathiani come una macchina da guerra.
Balich canta con voce rude e passionale mentre i mid tempo, cosi come l’incedere lento accompagna l’immenso lavoro di Arduini alla sei corde.
Chris Judge, arruolato da Arduini con cui ha diviso l’ esperienza con i Freedoms Reign, accompagna il duo con ordine e senza sbavature, mentre l’atmosfera epica dei brani cresce così come la qualità, passaggio dopo passaggio.
Un disco concepito come le opere settantiane, con brani che per la loro lunghezza si trasformano in suite e che hanno nel capolavoro Beyond The Barricade il perfetto sunto del sound creato dal trio, con i suoi diciassette minuti di doom/progressivo intenso e valorizzato da un songwriting di un’altra categoria.
Quasi ottanta minuti di musica con la M maiuscola, sei brani a cui si aggiungono le cover di Sunrise (Uriah Heep), Wolf Of Velvet Fortune (Beau Brummels) e After All (The Dead) dei Black Sabbath.
Un album bellissimo che sarebbe un peccato trascurare, soprattutto se siete amanti del doom classico e dei suoni progressivi, dunque da avere e consumare.

Autore
Alberto Centenari

TAG -1
doommetal

TAG – 2
doommetal

TAG – 3
progressive

Iyezine ?
No

ETICHETTA

TRACKLIST

1. The Fallen
2. Forever Fade
3. Into Exile
4. The Wraith
5. Beyond The Barricade
6. The Gates Of Acheron
7. Sunrise (Uriah Heep – Cover)
8. Wolf Of Velvet Fortune (Beau Brummels – Cover)
9. After All (The Dead) (Black Sabbath – Cover)

LINE-UP

Victor Arduini – guitars / bass
Brian Balich – vocals
Chris Judge – drums

VOTO
8.30

URL Facebook
http://www.facebook.com/arduinibalich

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Teleport – Ascendance ep

I Teleport hanno tutti i crismi per diventare una band di culto nel panorama estremo europeo, e un prossimo full length potrebbe lanciare definitivamente il quartetto sloveno

Loro lo chiamano sci-fi death metal o cosmic metal, io vi consiglio di ascoltare questo mini cd, ultimo lavoro dei Teleport, perché porta con se un pizzico di originalità ed un songwriting nobilitato dalla geniale pazzia dei Voivod.

Ma andiamo con ordine: i Teleport sono una band slovena, nata nel 2010 e in questi sette anni di attività ha pubblicato tre demo e questo primo ep dal titolo Ascendance.
Il quartetto proveniente dalla capitale Lubiana, la bellissima città dei draghi, ha creato un sound che amalgama thrash metal voivodiano e death/black in un contesto progressivo e dal concept sci-fi.
Una bellezza questi quattro brani più intro, estremi e devastanti, progressivi nelle ritmiche e spazzati da un vento death/black che soffia dalla Scandinavia e arriva gelido nel loro paese natio.
Dimenticatevi una sola ritmica che sia scontata, e anche nelle veloci e devastanti sfuriate il lavoro ritmico è da applausi, lo scream ricorda Jon Nodveidt compianto leader e cantante dei Dissection, mentre lo spirito di Dimension Hatross e Nothing Face aleggia su brani bellissimi e ricchi di dettagli e note, destabilizzanti ed originali come in The Monolith e Artificial Divination, primi due brani capolavoro di questo ep.
Darian Kocmur alle pelli, ultimo arrivato in casa Teleport, e Lovro Babič al basso formano la sezione ritmica, mentre le due chitarre che fanno fuoco e fiamme sull’ottovolante Real Of Solar Darkness sono armi letali tra le mani di Jan Medved (alle prese con il microfono) e Matija “Dole” Dolinar.
I Teleport hanno tutti i crismi per diventare una band di culto nel panorama estremo europeo, e un prossimo full length potrebbe lanciare definitivamente il quartetto sloveno: staremo a vedere, per ora gustiamoci questa ventina di minuti di musica estrema spettacolare.

TRACKLIST
1. Nihility
2. The Monolith
3. Artificial divination
4. Realm of solar darkness
5. Path to omniscience

LINE-UP
Jan Medved – vocals, guitars
Lovro Babič – bass
Matija “Dole” Dolinar – guitars
Darian Kocmur – drums

TELEPORT – Facebook

Fabio La Manna – EBE

In EBE potrete trovare progressive metal, progressive rock, post rock e ambient, il tutto perfettamente inglobato in un’opera davvero riuscita, complimenti.

Godere di opere progressive in tempi come questi, in cui la musica si è adeguata allo scorrere velocissimo del tempo senza dare più tempo alle persone di metabolizzare alcunché, diviene un rito a cui purtroppo pochi si assoggettano, consumati dall’usa e getta abituale purtroppo anche nella musica rock.

E così diventa una battaglia contro i mulini a vento cercare di raccontare a chi non è amante dei suoni progressivi un album come EBE, ancora di più se pensiamo ad un opera strumentale.
La musica dell’album si sviluppa su un concept fantascientifico e sull’incontro con UFO ed altre civiltà, ed è stato creato dal musicista Fabio La Manna, polistrumentista con un passato nei metal progsters Alchemy Room e nei My Craving, band gothic rock.
EBE è il secondo album solista, successore di Res Parallela uscito nel 2013, in cui La Manna si avvalse dell’aiuto del batterista Andy Monge, come in questo ultimo lavoro, mentre per le uscite live è prevista l’entrata in formazione di un bassista nella persona di Fausto Poda.
EBE è un viaggio tra mondi e civiltà perdute in compagnia del talentuoso musicista e compositore nostrano, che non lascia dubbi sulle sue notevoli capacità di creare musica strumentale senza scadere in una semplice dimostrazione tecnica, ma lasciando che ha parlare siano le emozioni.
Un album progressive tout court che mantiene un approccio classico, solo a tratti attraversato da venti metallici, provenienti da pianeti sconosciuti, mentre accenni alla musica progressiva dai rimandi settantiani guidano l’ascoltatore, poi deliziato da una musica che riesce a descrivere situazioni e scenari fuori dai nostri canoni grazie allo spartoto di brani come la bellissima title track , l’incedere doomy di Elohim Song o i raffinati ricami dell’elegante Starchild.
Come suggerisce Fabio La Manna in sede di presentazione all’album, su EBE potrete trovare progressive metal, progressive rock, post rock e ambient il tutto perfettamente inglobato in un’opera davvero riuscita, complimenti.

TRACKLIST
1.Being Of Light
2.EBE
3.Closer
4.In Love And Silence
5.Elohim Song
6.The Little People
7.The Vanishing Of Enoch
8.Starchild
9.Luna2

LINE-UP
Fabio La Manna – All Instruments
Andy Monge – Drums

FABIO LA MANNA – Facebook

Pryapisme – Diabolicus Felinae Pandemonium

Ben venga il profetizzato dominio dei gatti sul mondo, per cui abituiamoci quanto prima alla musica dei Pryapisme, che diverrebbero schiavi privilegiati in quanto ufficiali cantori della razza felina …

Dopo quasi due anni rieccoci nuovamente alle prese con i folli Pryapisme e le loro bizzarre teorie riguardo al futuro dominio dei gatti sull’umanità (cosa che peraltro già avviene in ogni dimora abitata dai nostri amici felini …)

Rispetto a Futurologie, se non lo ritenessi azzardato, mi spingerei ad parlare di una relativa normalizzazione del sound, se non fosse che qui, come da copione, di ordinario non c’è nulla, a partire dal nome della band, passando per i titoli dei brani e arrivando alla copertina.
L’impressione è che la creatività disturbata e bulimica della band francese appaia in qualche modo più organica (un vecchio allenatore di calcio italiano definiva il proprio credo tattico “caos organizzato” …), soprattutto quando a predominare sono le pulsioni fusion e progressive attraverso le quali i nostri piazzano repentini cambi di tempo che sono una gioia per le orecchie, prima che il percorso musicale si rifaccia nuovamente lineare come l’elettroencefalogramma di un individuo afflitto da disturbi neurologici.
Elettronica, metal, jazz, folk, suoni che paiono scaturire da tastierine giocattolo, mentre sotto si intuiscono arpeggi chitarristici degni di John McLaughlin, accelerazioni, rallentamenti, brusche pause, miagolii di gatti e chi più ne ha più ne metta: la fantasia dei Pryapisme non va mai in vacanza e, a mio avviso, con questa nuova fatica potrebbero conquistare qualche attenzione in più a parte di chi non teme di perdere la bussola nell’oceano asimmetrico immaginato dalla band transalpina.
Tre tracce spiccano su tutte in Diabolicus Felinae Pandemonium: Un max de croco, Tau Ceti Central e Totipotence d’un erg, ma non mi si chieda una motivazione logica, sarà forse perché in queste emerge con più forza un potenziale espressivo che avrebbe ottenuto l’approvazione totale di un agitatore musicale come Frank Zappa.
E comunque, ben venga il profetizzato dominio dei gatti sul mondo, per cui abituiamoci quanto prima alla musica dei Pryapisme, che diverrebbero schiavi privilegiati in quanto ufficiali cantori della razza felina …

Tracklist:
1. Un max de croco
2. La Boetie stochastic process
3. 100 % babines, pur molossoïde !
4. A la Zheuleuleu
5. Tau Ceti Central
6. Tête de museau dans le boudoir ( Intermezzo )
7. Myxomatosis against architektür vol IV
8. Carambolage fillette contre individu dragon non-décortiqué
9. C++
10. Totipotence d’un erg

Line-up:
Benjamin Bardiaux : Keyboards
Nils Cheville : Guitar
Antony Miranda : Bass, Guitar, Moog, Vocals
Nicolas Sénac : Guitar
Aymeric Thomas : Drums, Clarinet(s), Keyboards, Machines

Guests:
Adrien Daguzon (Zibeline) : Sax on #2, #5
Matthieu Halberstadt (Ogino, Please lose battle) : Contrabass on #1, #5, #10
Gautier Lafont (Sebastockholm) : Smashed door on #6

PRYAPISME – Facebook

Paolo Baltaro – The Day After the Night Before

The Day After the Night Before va scoperto piano, senza fretta, abbandonandosi tra le note di questi splendidi brani.

Certo che la scena underground nazionale non smette di regalare sorprese e così, lasciando per un attimo la frangia metallica ed estrema, ci facciamo travolgere dalla musica totale del polistrumentista Paolo Baltaro, al secondo album da solista dopo i trascorsi con varie band, tra le quali Arcansiel, Mhmm, Roulette Cinese, S.A.D.O. e Sorella Maldestra.

Questo nuovo lavoro segue il debutto licenziato per Musea nel 2011 (Low Fare Flight to the Earth) ed entusiasma per la varietà della musica proposta che, se può senz’altro essere considerata come rock progressivo, è composta da una moltitudine di anime musicali perfettamente amalgamate nel suo insieme.
Ogni brano è stato composto come una colonna sonora di film inesistenti, in cui Baltaro canta e suona tutti gli strumenti aiutato da molti altri musicisti, eccetto le due versioni di Do It Again, colonna sonora reale dell’ultimo film di Ricky Mastro, in preparazione questi giorni e in uscita prevista per la prima metà del 2017, e le due cover Bike (Syd Barrett) e It’s Alright With Me (Cole Porter).
Registrato a Londra al Pkmp Soho Studios e ad Amsterdam allo Studio 150, masterizzato da Cristian Milani al Rooftop Studio di Milano, l’album è un’opera affascinante dove la parola d’ordine è stupire.
Progressivo nel più puro senso del termine, The Day After the Night Before – Original Soundtracks for Imaginary Movies si compone di una dozzina di brani l’uno diverso dall’altro, l’uno più intrigante dell’altro, dove il musicista nostrano vola oltre i confini ed i muri costruiti per imprigionare i generi, per raccogliere il meglio che la musica rock può offrire donandolo all’ascoltatore.
Dagli anni settanta ai giorni nostri, si compie un viaggio su una nuvola di note che solca il cielo mentre progressive, jazz, rock e fusion compongono quella che risulta di fatto un’opera rock.
Preparatevi all’ascolto dell’album come se doveste incontrare in una quarantina di minuti tutti gli artisti e musicisti che hanno segnato la storia della nostra musica preferita, dai Pink Floyd, ai Beatles, da Jimi Hendrix a Frank Zappa: in totale libertà artistica e con una facilità disarmante Paolo ce li presenta tutti prima che il loro contributo, tradotto in ispirazione, lasci un segno indelebile su questo splendido album.
The Day After the Night Before va scoperto piano, senza fretta abbandonandosi tra le note di questi splendidi brani: l’opera è scaricabile dal sito del musicista (www.paolobaltaro.com), mentre è disponibile all’acquisto la versione in vinile più cd, quindi non ci sono scuse per perdersi un lavoro di questa portata.

TRACKLIST
1.Do It Again (Acoustic Version)
2.Postcard From Hell
3.Cole Porter At Frankz’s Birthday Party
4.Goodnight
5.Another Sunny Day
6.Bike
7.Nowhere Street Part II
8.Pills
9.Silent Song
10.It’s All Right With Me
11.Do It Again (Electric Version)
12.Revolution N.13-11 (Hidden Track)

LINE-UP
Paolo Baltaro – Vocals, all Instruments
Andrea Beccaro – Drums
Andrea Fontana – Drums
Alessandro De Crescenzo – Guitars
Paolo Sala – Guitars
Gabriele Ferro – Guitars
Gabriel Delta – Guitars
Simone Morandotti – Piano
Barbara Rubin – Chorus
Luca Donini – Sax, Flute
Sandro Marinoni – Sax, Flute
Alberto Mandarini – Tromba

PAOLO BALTARO – Facebook

Fabiano Andreacchio And The Atomic Factory – Bass Guitar Hero

Fabiano Andreacchio si dimostra musicista dalla grande tecnica: aspettiamo ora un nuovo lavoro di inediti di questo suo progetto a suo modo originale e da seguire senza remore.

Torna, a pochi mesi di distanza dall’ottimo Living Dead Groove, Fabiano Andreacchio, attuale bassista dei Gory Blister e leader dei The Atomic Factory, band con cui ha registrato il lavoro precedente.

Bass Guitar Hero è una compilation di brani più datati a cui Fabiano Andreacchio And The Atomic Factory hanno dato una veste più attuale e conforme al sound del gruppo.
Invero, rispetto ai brani di Living Dead Groove, questa raccolta sottolinea in modo più marcato la tecnica individuale del bassista lombardo, davvero un eroe del basso, stupefacente nel disegnare arabeschi di intricate ritmiche metal progressive.
Le tracce si sviluppano quindi sul basso di Andreacchio, abbandonando la forma canzone più marcata nel disco uscito qualche mese fa e indirizzandosi maggiormente verso la tecnica strumentale.
Un album per musicisti e per chi apprezza le opere strumentali, con pochi punti di riferimento stilistici come ormai ci ha abituato il bassista e con qualche chicca che non manca di valorizzare l’album, come la bellissima e progressiva One Step Closer To Heaven e la cover di Transylvanya degli Iron Maiden.
Fabiano Andreacchio si dimostra musicista dalla grande tecnica: aspettiamo ora un nuovo lavoro di inediti di questo suo progetto a suo modo originale e da seguire senza remore.

TRACKLIST
1.HeartQuake
2.Hell Is Now NGA
3.Unforgivable (acoustic)
4.Sexonia NGA
5.One Step Closer To Heaven
6.Curious (acoustic)
7.Strange KInd NGA
8.The Gentle Hand 8acoustic)
9.Transylvanya NGA
10.Ascent (dub mix)

LINE-UP
Fabiano Andreacchio – Bass and Vocals
Mikahel Shen Raiden – Guitar and Backing Vocals
Nicola De Micheli – Drums

FABIANO ANDREACCHIO – Facebook

Pain Of Salvation – In the Passing Light of Day

Daniel Gildenlöw riversa in questo disco tutte le esperienze vissute in questi ultimi anni, mettendosi a nudo di fronte agli ascoltatori e realizzando, con il fondamentale contributo dei suoi compagni d’avventura, il disco forse più maturo e completo dei Pain Of Salvation.

Negli anni a cavallo del nuovo millennio i Pain Of Salvation si palesarono sulla scena musicale come una sorta di inattesa supernova, proponendosi come band capace di rileggere, finalmente in maniera personale, fresca ed esaltante, la materia progressive, ammantandola di una robusta intelaiatura metallica e rifuggendo sempre il pericolo del tecnicismo fine a sé stesso.

Personalmente, dal 1997, anno di uscita dell’album d’esordio Entropia, fino al 2002, quando venne pubblicato Remedy Lane, ho considerato la band di Daniel Gildenlöw la manifestazione più eccitante e luminosa di talento musicale che quegli anni ci avessero regalato, riuscendo nella non facile impresa di lasciar riposare sugli scaffali, per molto più tempo del solito, i dischi dei grandi del passato, prossimo o remoto a seconda della sponda di approdo di ciascuno al prog metal (etichetta di comodo che è sempre stata stretta ai Pain Of Salvation).
Poi, quando tutti attendevano l’annunciata parte seconda del capolavoro The Perfect Element, arrivò invece Be, opera ambiziosa che provocò reazioni contrastanti e che, al di là di chi avesse torto o ragione, segnò l’inizio di una fase musicale sempre di alto livello ma, a mio avviso, meno brillante ed innovativa: seguirono infatti il controverso Scarsick e i due Road Salt, dischi questi ultimi senz’altro riusciti e capaci di portare nuovi estimatori alla band, ma decisamente differenti e in qualche modo dall’impatto meno dirompente rispetto ai primi quattro lavori.
Dopo di che il proscenio venne preso dall‘imprevedibilità della vita, ovvero la malattia gravissima che colpì Daniel nel 2014, seguita, fortunatamente, dalla sua lenta ma definitiva ripresa: un fatto del genere lascerebbe il segno in chiunque, figuriamoci in un artista di rara sensibilità come il musicista svedese. Tutto questo ha contribuito a far maturare, successivamente, un lavoro come In the Passing Light of Day che, fin dal titolo, è del tutto intriso di tematiche inerenti l’esile confine che separa la vita dalla morte e il concentrato di sensazioni e stati d’animo derivanti: tutti aspetti, questi, che assumono un altro spessore quando a parlarne è qualcuno rimasto sospeso a lungo su quella sottile fune, rischiando seriamente di piombare nel baratro.
Ne consegue che questo atteso album è il più duro e, al contempo, il più cupo tra quelli mai usciti a nome Pain Of Salvation, ritornando stilisticamente ai fasti di The Perfect Element, laddove la robustezza delle partiture metal andavano a sposarsi con naturalezza ad aperture melodiche capaci di commuovere ed imprimersi per sempre nella mente dell’ascoltatore; è anche vero, d’altronde, che a livello di tematiche lo si potrebbe considerare piuttosto l’ideale seguito di Remedy Lane, disco che non a caso viene citato in diversi momenti, soprattutto nei brani conclusivi.
Tutto questo ci conduce, tanto per sgombrare il campo da equivoci ed andare dritti al punto, al primo capolavoro di questo 2017, nonché all’album che, chi aveva amato i Pain Of Salvation nella prima fase della loro carriera, pensava di aver perso definitivamente la possibilità di ascoltare.
Detto questo, è necessaria una doverosa avvertenza: In the Passing Light of Day necessita d’essere ascoltato con la dovuta dedizione più e più volte, e solo dopo almeno 4 o 5 passaggi diverrà oggetto di un loop dal quale difficilmente ci si riuscirà a sottrarre.
L’impatto iniziale non lascia dubbi: l’incipit strumentale di On a Tuesday è metal ai limiti del djent, prima di aprirsi al più familiare riffing di matrice Pain Of Salvation, mentre le prime parole sussurrate da Gildenlöw, idealmente nel suo letto d’ospedale, fanno rabbrividire (sono nato in questo edificio / fu il primo martedì che io avessi mai visto / e se vivo fino a domani / quello sarà il mio martedì numero 2119) rivelando quella che sarà la portata emotiva dell’intero lavoro: la robustezza delle linee sonore si alterna a melodie vocali nelle quali, per la prima volta nella storia della band svedese, il leader si alterna ad un altro componente della band, il chitarrista islandese Ragnar Zolberg, dotato di una timbrica più sottile che ben si integra con quella di Daniel.
Tongues of God, che arriva subito dopo è una traccia notevole e dai toni robusti quanto oscuri, che non possiede però lo stesso carico emotivo di tutti gli altri brani: il primo di questi è Meaningless, per il quale è stato girato anche un video, secondo alcuni di dubbio gusto ma che, in realtà, se si ascoltano con attenzione le parole e lo si inquadra correttamente nel contesto lirico dell’album, appare crudo quanto funzionale alla causa; musicalmente non si rinvengono i crismi canonici del singolo apripista, essendo tutt’altro che una canzone orecchiabile, se si eccettua un chorus reso trascinante dal ricorso alle due voci all’unisono.
Silent Gold riporta l’album a toni più riflessivi e poetici, trattandosi di una e vera e propria ballad che prepara il terreno al quarto d’ora più robusto dell’album, rappresentato dalla magnifica Full Throttle Tribe e da Reasons, secondo brano scelto per essere accompagnato da un video: nella prima canzone si possono già cogliere accenni, pur se non troppo espliciti, a Remedy Lane, e riascoltare certe note è una sorta di ritorno a casa per gli estimatori di vecchia data dei Pain Of Salvation, sempre tenendo conto che il tutto non fa venire meno il pathos e la drammaticità dell’album e che l’ultimo minuto e mezzo riversa una dote di violenza degna dei connazionali Meshuggah (non del tutto un caso, se si pensa che l’ottimo bassista Gustaf Hielm ne ha fatto parte dal ’95 al ’98). Reasons riparte come si era chiusa la traccia precedente, rivelandosi alla fine l’episodio più definibile a ragion veduta come prog metal dell’intero album, nel suo alternare sfuriate di matrice djent e stop and go a melodie cristalline e deliziose parti corali.
Qui termina la prima metà dell’album e ne inizia un altra nella quale vengono quasi del tutto abbandonate le pulsioni metalliche, per regalare una mezz’ora abbondante di emozioni a profusione, difficili da descrivere se non dicendo che Angels of Broken Things possiede una tensione sempre sul punto di esplodere fino al prolungato sfogo chitarristico di un eccellente Zogberg, che The Taming of a Beast gode di un crescendo inarrestabile e che If This Is the End è, semplicemente, il brano più drammatico e intenso che i Pain Of Salvation abbiamo mai inciso, beneficiando dell’interpretazione sentita di chi ha vissuto davvero sulla propria pelle tutto quanto viene raccontato, inclusa l’invocazione rabbiosa di Dio, un momento capace di accomunare in certe circostanze atei e credenti, pur se con approcci diametralmente opposti.
Resta da parlare brevemente dell’ultima e lunghissima canzone, la title track, non a caso summa e manifesto sonoro e lirico dell’album, con suoi richiami (ora sì più scoperti) a Remedy Lane: un quarto d’ora in cui i Pain Of Salvation si concedono un lungo quanto gradito congedo, lasciandoci in eredità un nuovo e grande album che li riporta meritatamente nel ristretto novero delle band contemporanee per le quali ogni aggettivo appare superfluo ed ogni paragone fuori luogo.
Daniel Gildenlöw riversa in questo disco tutte le esperienze vissute in questi ultimi anni, mettendosi a nudo di fronte agli ascoltatori e realizzando, così, con il fondamentale contributo dei suoi compagni d’avventura, il disco forse più maturo e completo della storia della sua creatura; anche chi non dovesse trovarsi d’accordo con le mie valutazioni sulle diverse fasi del percorso dei Pain Of Salvation, non potrà fare a meno di approvare questa nuova svolta che non rappresenta, comunque, una completa inversione di marcia, bensì la definitiva forma di coesione tra le diverse espressioni musicali da loro esibite in questi vent’anni.
Mi piace l’idea di chiudere questa recensione riprendendo una dichiarazione di Daniel riportata nelle note di accompagnamento al promo dell’album, utile a capire quanto lo spessore dell’uomo non sia certo inferiore rispetto a quello del musicista : “ … quando sono uscito (dall’ospedale) ho dovuto imparare di nuovo come fare le scale. NON ho imparato, invece, che è necessario trascorrere più tempo con la mia famiglia, NON ho imparato che dovrei sprecare meno tempo della mia vita preoccupandomi o stressandomi, NON ho imparato che la vita è preziosa e che lo è ogni suo singolo secondo. No, io non ho imparato tutte queste cose, semplicemente perché già le conservavo nel mio cuore. Noi tutti lo facciamo. Le nostre priorità non cambiano di fronte alla morte, vengono solo rafforzate …
Grazie Daniel, anche solo per queste parole …

Tracklist:
1. On a Tuesday
2. Tongue of God
3. Meaningless
4. Silent Gold
5. Full Throttle Tribe
6. Reasons
7. Angels of Broken Things
8. The Taming of a Beast
9. If This Is the End
10. The Passing Light of Day

Line-up:
Daniel Gildenlöw – vocals, guitars, lute, additional keyboards, additional bass, additional drums and percussion, accordion, zither
Ragnar Zolberg – guitars, vocals, additional keyboards, samplers, accordion, zither
Daniel D2 Karlsson – grand piano, upright, keyboards, backing vocals
Gustaf Hielm – bass, backing vocals
Léo Margarit – drums, percussion, backing vocals

PAIN OF SALVATION – Facebook

Northern Lines – The Fearmonger

Bravi ed originali, i Northern Lines possiedono un sound perfettamente bilanciata tra irruenza ed eleganza e quello che ne trae l’ascoltatore è uno splendido caleidoscopio musicale.

I Northern Lines, trio strumentale in arrivo dalla capitale, propongono un ottimo esempio di hard rock progressivo, stimolato da varie sfumature prese in prestito da altri generi, ma pur sempre ben saldo nella tradizione hard & heavy.

Il gruppo nasce a Roma tre anni fa ed è composto da Stefano Silvestri (basso), Cristiano “Chris” Schirò (batteria) e Alberto Lo Bascio (chitarra), l’ esordio risale all’anno della fondazione (Hari Pee Hate), mentre ne 2014 il gruppo dàalle stampe l’album Farts From S.E.T.I. Code.
Il 2017 é l’anno di The Fearmonger che prosegue il cammino dei tre musicisti romani tra la musica moderna, un cammino intrapreso sulla strada del metal/rock, ma con più di una scorciatoia che allontana il sound del trio dalla strada principale per inoltrarsi in sentieri rock, prog, fusion, in un continuo cambio di atmosfere.
Un album strumentale che, proprio per la sua varietà di suoni e umori è un piacere ascoltare, senza inutili prove di bravura strumentale, ma con in primo piano un grande senso melodico, che dà continuità al mood dei brani pur così diversi tra loro.
Ovviamente i musicisti sanno il fatto loro, l’opera è prodotta molto bene e la musica scivola tra momenti di grintoso hard & heavy, fughe progressive, momenti di liquida musica fusion ed accenni a motivi famosi che si piazzano nella testa giusto quell’attimo per non andarsene più.
Bravi ed originali, i Northern Lines possiedono un sound perfettamente bilanciata tra irruenza ed eleganza e quello che ne trae l’ascoltatore è uno splendido caleidoscopio musicale: The Fearmonger è un album
bello e consigliato anche a chi non ama più di tanto i lavori strumentali.

TRACKLIST
1. Mast Cell Disorder
2.Session 1
3.Shockwave
4.Nightwalk
5.Session 2
6.Machine Man
7.Meteor
8.Jukurrpa
9.Towards The End
10.Apathy Fields
11.Most People Are Dead

LINE-UP
Cristiano Schirò – Drums
Alberto Lo Bascio – Guitar
Stefano Silvestri – Bass,piano,synth

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