Tenebrae – My Next Dawn

I Tenebrae possiedono una dote essenziale, al di là di qualsiasi altra considerazione: sanno trasmettere emozioni uniche a chi è in grado di attivare i propri sensi per poterle riceverle.

Per chi aveva apprezzato un lavoro magnifico come Il Fuoco Segreto, la voglia di ascoltare un nuovo disco dei Tenebrae era mista ad un certo timore, alla luce della preannunciata sterzata a livello stilistico unita all’ennesimo rimpasto di una line-up che sembrava aver raggiunto una sua stabilità; inoltre, la necessità, da parte della band genovese, di ricercare una nuova etichetta in grado di supportarne adeguatamente gli sforzi creativi, finiva per disegnare un quadro ricco di criticità che avrebbero potuto mettere in crisi qualsiasi persona sprovvista della passione e della convinzione dei propri mezzi in possesso di Marco “May Arizzi”.

Intanto, il chitarrista e compositore principale dei Tenebrae, assieme all’unico superstite della formazione originale, il bassista Fabrizio Garofalo, ed al vocalist già presente su Il Fuoco Segreto, Paolo Ferrarese, hanno trovato due nuovi compagni d’avventura nel tastierista Fulvio Parisi e nel batterista Massimiliano Zerega. Rinsaldata così una line-up che si era sfaldata proprio durante la fase di stesura dei brani che sarebbero confluiti in My Next Dawn, il processo compositivo ha ripreso slancio ed ulteriore vigore e, mai come in questo caso, si può sostenere a buona ragione che le difficoltà alla lunga abbiano avuto un effetto fortificante, di fronte all’evidenza dei risultati ottenuti.
Già, perché My Next Dawn si pone come il punto più alto raggiunto dal gruppo ligure, cosa neppure troppo scontata se si pensa al valore assoluto che contraddistingueva la produzione precedente ed al parziale abbandono di uno stile peculiare che la marchiava in maniera indelebile.
Il passaggio dall’italiano all’inglese, in sede di stesura dei testi, è stato, in primis, un passo necessario per rendere più appetibile il disco anche al di fuori dei nostri confini, ma non è certo l’unico motivo: infatti, la metrica anglofona meglio si sposa con un sound che punta maggiormente verso l’oscurità del gothic doom e, qui, non si può non fare un plauso alla bravura di Antonella Bruzzone, capace di passare con disinvoltura dalle storie tragiche ed intrise di romanticismo descritte nella nostra lingua in Memorie Nascoste e Il Fuco Segreto, ad un racconto di matrice apocalittica in lingua straniera, ispirato al film The Road, ed affidato alla magnifica interpretazione di Paolo Ferrarese.
My Next Dawn, però, nonostante tali premesse, non recide del tutto il cordone ombelicale con la produzione passata: la peculiare impronta progressive resta ben definita anche se non più in primo piano, assieme ad un afflato melodico che aleggia in ogni brano, persino nei passaggi apparentemente più aspri, andando a comporre un quadro complessivo cupo, malinconico e tutt’altro che semplice da etichettare (atmospheric doom, gothic, dark, sono questi i tag puramente indicativi che accompagneranno probabilmente le diverse recensioni del lavoro)
Dopo l’intro Dreamt Apocalypse, è Black Drape il reale biglietto da visita dei nuovi Tenebrae, con accelerazioni ai confini del black alternate a momenti evocativi guidati dalle tastiere di Parisi ed esaltati dalla versatilità di Ferrarese, capace come non mai di esprimersi in diversi registri vocali che, per la maggior parte dei cantanti, risulterebbero incompatibili: una teatrale voce stentorea si alterna ad un growl profondo e convincente e, soprattutto, a vocalizzi di stampo operistico che hanno il compito di enfatizzare il pathos che pervade lo scorrere delle note.
La bellezza di questo brano spazza via ogni dubbio e da qui in poi l’ascolto diviene null’altro che la scoperta di una serie di gemme disseminate all’interno del lavoro, a partire da Careless, assieme alla title track una delle tracce che i nostri avevano già presentato nelle loro ultime apparizioni dal vivo quale assaggio di ciò che sarebbe stato My Next Dawn: qui è uno struggente assolo di Marco Arizzi a porre il suggello ad un’altra canzone magnifica.
La chitarra acustica suonata dall’ospite Laura Marsano (protagonista qualche anno fa su Le Porte Del Domani, quello che probabilmente è stato l’atto finale della carriera de La Maschera di Cera) è un valore che si aggiunge lungo il corso dell’album e fa bella mostra di sé nell’intro di Grey, traccia che si dipana in un finale di toccante e drammatica bellezza, precedendo quello che si rivelerà uno dei picchi dell’album, la magnifica The Fallen Ones, nella quale viene esaltato il connubio tra le liriche e la musica, con Ferrarese a denunciare un abbrutimento della razza umana che non è più soltanto la precognizione di un futuro post-apocalittico.
Arrivati a metà del guado, non resta che verificare la capacità dei Tenebrae di mantenere anche nella parte discendente dell’album la stessa profondità di un sound che brilla di un’intensità quasi sorprendente.
The Greatest Failure è la risposta, trattandosi dell’ennesima canzone che si imprime nella memoria, apparendo destinata ad albergarvi a lungo così come la successive Behind (che, dopo un inizio rarefatto, esplode letteralmente nella sua seconda parte) e Lilian (contraddistinta da un elegante lavoro tastieristico).
Se, più di una volta, le band che sparano le migliori cartucce in avvio dei loro album finiscono poi per scontare una certa impasse dovuta all’inserimento di riempitivi, i Tenebrae riservano il meglio proprio nel finale, con l’accoppiata composta dalla title track e da As The Waves, due brani di struggente bellezza che dimostrano ampiamente la dimensione artistica raggiunta dal quintetto genovese, capace come pochi altri di chiudere un lavoro in costante crescendo e lasciando in dote all’ascoltatore esclusivamente quelle emozioni trasmesse con stupefacente continuità per una cinquantina di minuti.
Se vogliamo, i Tenebrae sono approdati oggi su un terreno attiguo a quello battuto dagli Ecnephias, benché i sentieri percorsi siano stati decisamente differenti, esprimendo con My Next Dawn un lavoro all’altezza del masterpiece pubblicato lo scorso anno dalla band lucana.
Non credete, allora, che sia arrivato il momento di dare maggior credito a chi compone e suona musica per passione, dando sfogo ad un fuoco che difficilmente cesserà di ardere, piuttosto che supportare passivamente chi contrabbanda per arte il semplice tentativo di sbarcare il lunario?
Se siete ancora convinti che oggi non ci sia più nessuno in grado di regalare opere degne di occupare un posto di rilievo nelle vostre collezioni discografiche, provate prima ad ascoltare My Next Dawn; fatevi questo regalo, date un calcio definitivo alle preclusioni ed ai giudizi precostituiti: i Tenebrae non diventeranno mai, purtroppo, uno di quei nomi  “cool” dei quali farsi vanto d’essere fan o sostenitori, ma ascoltare e vivere la vera musica è un processo interiore, lontano anni luce da un effimero post da condividere sui social, questo non va dimenticato mai …

Tracklist:
1. Dreamt Apocalypse
2. Black Drape
3. Careless
4. Grey
5. The Fallen Ones
6. The Greatest Failure
7. Behind
8. Lilian (changing shades)
9. My Next Dawn
10. As The Waves (always recede)

Line-up:
Marco Arizzi – Chitarre
Fabrizio Garofalo – Basso
Paolo Ferrarese – Voci
Fulvio Parisi -Tastiere
Massimiliano Zerega- Batteria

Laura Marsano – Chitarra acustica
Antonella Bruzzone – Testi
Sara Aneto – Grafica

TENEBRAE – Facebook

Ribbons Of Euphoria – Ribbons Of Euphoria

Ne esce un sound che nel suo essere stupendamente vintage mantiene un’originalità concettuale altissima

La Satanath Records, conosciuta come label che supporta principalmente sonorità estreme, stupisce tutti con l’esordio omonimo di questa band greca, un quintetto ateniese che propone un clamoroso progressive rock dalle mille sfumature, un involucro di suoni dai più svariati generi, un affresco di musica rock adulta, straordinariamente matura per una band all’esordio, pronta per diventare quantomeno oggetto di culto per gli appassionati del rock progressivo.

Ribbons Of Euphoria pesca dal meglio che le sonorità dei mostri sacri del genere ci hanno regalato, amalgamando in modo stupefacente progressive rock, hard rock, psichedelia e blues creando un’opera che risulta una sorpresa ad ogni nota, ogni passaggio, ogni cambio di atmosfera che la band usa a suo vantaggio per stupire l’ascoltatore.
Cinque brani per quaranta minuti abbondanti di musica a 360°, cinque clamorosi trip dove le allucinazioni sempre più reali non sono incubi, ma incontri ravvicinati con il rock che ha fatto storia.
Lasciate perdere disquisizioni tecniche che lasciano il tempo che trovano, le varie Incidence Of Truth, la suite prog/psichedelica A Jester And The Queen, la stoner/blues The Druids Are Rising (To The Forefront Once More), la purpleliana Smokin’ N’ Spittin’ e l’acida e liquida Mindful Of Dreams emanano profumo di erbe bruciate in un lento rituale psichedelico, dove il progressive di Yes e Gentle Giant, incontra l’hard rock dei Deep Purple, il rock blues dei Cream e l’era psichedelica dei fab four e li potenzia con cascate di groove e ritmiche sabbathiane.
Ne esce un sound che nel suo essere stupendamente vintage mantiene un’originalità concettuale altissima, una serie infinita di jam che si accavallano, una sopra l’altra una più clamorosa dell’altra in un rituale altamente acido, portando al genere una ventata di freschezza di cui ad oggi ha assolutamente bisogno per non risultare obsoleto.
Parlare di sound fresco dopo aver nominato le band di cui sopra può sembrare un’azzardo, beh cercatevi questo gioiellino, ascoltatelo e poi fatemi sapere … un album che è già un cult!

TRACKLIST
01. Incidence Of Truth
02. A Jester And The Queen
03. The Druids Are Rising (To The Forefront Once More)
04. Smokin’ N’ Spittin’
05. Mindful Of Dreams

LINE-UP
Stavros Zouliatis – vocals, percussion
Thanos Karakantas – bass, backing vocals
Nick Poulakis – guitars, backing vocals
Thanasis Strogilis – drums

RIBBONS OF EUPHORIA – Facebook

Black Crown Initiate – Selves We Cannot Forgive

Una band, nata appena tre anni fa, che elabora a suo modo il metal estremo, si spolvera di dosso ogni accostamento possibile ed immette sul mercato il suo secondo lavoro, arrivando in poco tempo ad una maturazione compositiva completa.

Una band, nata appena tre anni fa, che elabora a suo modo il metal estremo, si spolvera di dosso ogni accostamento possibile ed immette sul mercato il suo secondo lavoro, arrivando in poco tempo ad una maturazione compositiva completa.

Gli statunitensi Black Crown Initiate, in soli tre anni hanno dato alle stampe un ep e due full lenght, Selves We Cannot Forgive infatti è il successore del debutto The Wreckage of Stars, uscito un paio di anni fa e che aveva dato al gruppo una già buona popolarità.
Il nuovo lavoro fa compiere un altro importantissimo passo avanti prendendo a spallate i soliti cliché del genere e cercando una via personale alla materia fatta di sfumature e generi che si susseguono nei vari brani, diversi uno dall’altro tanto da sorprendere ad ogni passaggio.
Un bel contenitore di sorprese Selves We Cannot Forgive, dal songwriting elastico e fresco e che passa in modo naturale da roboanti sferzate brutal, a reminiscenze core, passando per brani dalla forte connotazione rock (Again), magari violentati da sfuriate death ma pur sempre strutturate su un esplosivo e moderno prog rock.
Tralasciando un’ottima preparazione strumentale ed una produzione al top (gli americani in questo sono una sicurezza), l’album è talmente vario che si rischia ad un ascolto superficiale di credere d’essere al cospetto di band diverse, ed invece il gruppo cerca nuove soluzioni ad ogni passaggio, continuando a viaggiare tra brutalità e melodia, death metal e parti malinconiche, aperture ariose ed imprevedibili, blast beat e delicati passaggi prog rock.
La componente moderna o core è presente in piccole dosi, e si respira in qualche passaggio tra il growl (assolutamente brutal) e le clean vocals, con qualche ritmica più marziale ma costantemente estrema ed intricata.
Belie the Machine, Transmit To Disconnet, l’ottima Sorrowpsalm (forse il brano che raccoglie tutte le sfumature del sound in un unico caleidoscopio musicale), confermano la bravura di questo combo statunitense, pronto per finire sulla bocca di fans e addetti ai lavori in questa calda estate 2016.
Scommetto che in poco tempo diventeranno la new sensation del metal estremo proveniente dal nuovo continente, noi ve ne abbiamo parlato ora, qualcuno come sempre se ne prenderà i meriti magari più in là, a giochi fatti: è già successo, ma non importa, fatevi sotto perché il gruppo se lo merita …

TRACKLIST
1. For Red Clouds
2. Sorrowpsalm
3. Again
4. Belie the Machine
5. Selves We Cannot Forgive
6. Transmit to Disconnect
7. Matriarch
8. Vicious Lives

LINE-UP
Nick “Bass” Shaw – Bass
Jesse Beahler – Drums
Andy Thomas – Guitars, Vocals (clean)
James Dorton – Vocals

BLACK CROWN INITIATE – Facebook

Lateral Blast – La Luna Nel Pozzo

Un ottimo esempio di musica ariosa e sognante, dove il tempo si ferma per darci modo di farci cullare dalle melodie che il gruppo riesce a creare

Accompagnato da un sontuoso digipack, in linea con i lavori progressivi degli anni settanta (opera del pittore bolognese Vito Giarrizzo), esce il secondo album del gruppo romano Lateral Blast, La Luna nel Pozzo.

L’’esordio I Am Free, datato 2014, ha riscosso molti commenti positivi tra gli addetti ai lavori, mentre il gruppo si è fatto notare per una buona attività live che li ha visti sul palco del Pistoia Blues nel 2014.
Elegante progressive rock cantato in lingua madre, La Luna Nel Pozzo è un’opera che riprende gli stilemi della tradizione settantiana, specialmente quella nazionale, aggiungendo bellissime ed affascinanti atmosfere folk , senza dimenticare gli inarrivabili maestri internazionali di uno dei generi più conservatori della storia del rock.
La band non si perde in suite estenuanti, i brani si susseguono mai troppo prolissi come da trend delle nuove leve del prog, e questo è un bene, perché l’album scorre piacevolmente anche per chi non è abituato al genere.
Si respira l’aria rarefatta di una mattina ai piedi di un castello e l’impronta folk è molto importante nel sound del gruppo: il flauto di Rosa Zumpano, molto brava anche al microfono con il suo tono ruvido ed emozionale, dona alle canzoni una magia senza tempo, richiamando non poco la musica di Angelo Branduardi, assistita dalla chitarra elettrica, raffinata e mai invadente, di Leonardo Angelucci e soprattutto dalle tastiere di Alessandro Ippoliti.
E’ un progressive rock d’autore quello suonato dai Lateral Blast, poetico, forse poco irruento per i canoni attuali, ma colmo di sfumature da assaporare con gli ascolti; vario nell’uso della doppia voce e perfetto nell’alternare strumenti acustici, momenti ritmici cangianti che sconfinano dalle linee guida del genere e magnifiche atmosfere rese sognanti dalla coppia flauto/tastiere.
Tra i brani spiccano il singolo Io Voglio Volare, l’energica Troubadour e Suite per Lei, riassunto compositivo del credo musicale della band romana.
Siamo nel progressive classico, ma con una forte influenza folk che aleggia su tutta l’opera: un ottimo esempio di musica ariosa e sognante, dove il tempo si ferma per darci modo di farci cullare dalle melodie che il gruppo riesce a creare, lasciandosi alle spalle inutili esibizioni tecniche e puntando tutto sulle emozioni.
Siamo vicini, a mio parere, al sound degli storici Il Castello Di Atlante, rispetto ai quali i Lateral Blast appaiono molto meno sinfonici ma perfettamente a loro agio nell’amalgamare sonorità progressive a reminiscenze prettamente folk.

TRACKLIST
01 Intro
02 L’Ululato
03 Come Nuvole
04 Troubadour
05 Le Urla Dei Bambini
06 Io Voglio Volare
07 Silenzio
08 Hellesylt
09 Il Morto Felice
10 Suite Per Lei
11 Scheletro feat. Daniele Coccia
12 La Luna Nel Pozzo

LINE-UP
Leonardo Angelucci – Voce, Chitarra Elettrica
Rosa Zumpano – Voce, Flauto Traverso
Antonello D’Angeli – Voce, Chitarra Acustica
Matteo Troiani – Basso
Tommaso Guerrieri – Batteria, Percussioni
Alessandro Ippoliti – Tastiere, Keytar

LATERAL BLAST – Facebook

Psychoprism – Creation

Un’opera di una bellezza disarmante da parte di un quintetto di musicisti preparatissimi, con un songwriting che avvicina la band ai nomi di rilievo del metal mondiale di stampo classico.

Il metal classico è vivo più che mai, magari si è rinnovato, o forse dagli anni ottanta si è evoluto con l’aggiunta di elementi sinfonici e prog, ma rimane comunque il genere di riferimento per i metallari sparsi per il mondo, anche e soprattutto nel nuovo millennio.

I detrattori o gli uccelli del malaugurio che si beano della morte del genere padre di tutto il movimento metallico, anche quello più moderno o estremo, possono mettersi l’anima in pace, specialmente se a mantenerlo in vita sono band eccezionali come questi musicisti statunitensi che, sotto il monicker Psychoprism, hanno creato un lavoro di power/prog metal straordinario.
Il gruppo del New Jersey due anni fa licenziò il primo ep autoprodotto, e la Pure Steel è piombata come un falco sul gruppo e dopo la firma, pubblicandone il primo full length, Creation, in questo assolato e tragico luglio.
Un’opera di una bellezza disarmante da parte di un quintetto di musicisti preparatissimi, con un songwriting che avvicina la band ai nomi di rilievo del metal mondiale di stampo classico, trovando nelle sfumature progressive un alleato per far risplendere la musica di cui si compone questo manifesto all’arte musicale.
Probabilmente Creation rimarrà nel genere l’esordio più riuscito fino alla fine dell’anno, anche se forse non riscuoterà neanche un quarto del successo che un’opera del genere meriterebbe, ma non importa, se siete amanti della musica, qui la si deve glorificare come si deve.
Prendete il metal classico raffinato dei Crimson Glory, aggiungete potenti dose ritmiche di estrazione power, una vena progressiva che si espande per tutta la durata dell’album, direttamente dai primi e fondamentali lavori di Queensryche e Fates Warning, e incorniciateli con note sinfoniche di commovente epicità: avrete forse un’idea di cosa vi aspetta appena la title track imploderà nei vostri padiglioni auricolari, donandovi musica regale e splendidamente metallica.
Chiaramente i musicisti non possono che essere dei maestri, ed allora rimarrete a bocca aperta quando Jess Rittgers vi sconvolgerà con la sua voce che, se a tratti richiama Geoff Tate, risulta ancora più teatrale, un’ugola nata per emozionare.
Bill Visser e la sua sei corde sono una macchina di solos altamente metallica, ma che ovviamente non manca di crogiolarsi in scale progressive dall’alto tasso tecnico, mentre la sezione ritmica (Kevin Myers alle pelli e Erick Hugo al basso) non si risparmia in cavalcate power e repentini ed intricati cambi di tempo.
Il tutto viene valorizzato dai tasti d’avorio di Adam Peterson, raffinati, a tratti neoclassici, squisitamente orchestrati da questo mostro di bravura, ed a mio avviso arma in più del gruppo americano.
Niente di nuovo direte voi, il classico album suonato con maestria e nulla più!
Nulla di più sbagliato, invece, perchè Creation vive di un’emozionalità unica e la pelle d’oca che procurano brani intensi e meravigliosamente metallici come The Acclaimed, la super ballad Friendly Fire, l’epico power metal neoclassico di Against The Grain, la potentissima e velocissima The Wrecker, difficilmente la riproverete di questi tempi, specialmente continuando ad ascoltare i soliti nomi.
Lavori come questo mi fanno ringraziare il cielo per essermi innamorato della musica fin da ragazzino facendomi sentire un uomo fortunato. Capolavoro.

TRACKLIST
1. Alpha
2. Creation
3. Shockwaves
4. The Acclaimed
5. Chronos
6. Friendly Fire
7. Against the Grain
8. Defiance
9. The Wrecker
10. Stained Glass

LINE-UP
Erick Hugo – Bass
Jess Rittgers – Vocals
Bill Visser – lead guitars
Kevin Myers – Drums
Adam Peterson – Keyboard

PSYCHOPRISM – Facebook

Völur – Disir

I non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.

Da una costola dei Blood Ceremony nasce questo interessante progetto denominato Völur.

Lucas Gadke, bassista della nota occult doom band canadese, si avvale dell’aiuto del batterista James Payment e soprattutto della violinista e vocalist Laura Bates, la quale si dimostra elemento decisivo nel conferire peculiarità al lavoro.
L’uscita di Disir, in effetti, risale a poco più di due anni fa in formato cassetta: la sempre attenta Prophecy ripropone il tutto nelle più canoniche versioni in cd e vinile migliorandone nel contempo la reperibilità, specie sul più ricettivo suolo europeo.
I quattro lunghi brani qui contenuti prendono le mosse dal doom per spingersi verso ambiti e sfumature variegate: con il violino a sostituire di fatto la chitarra, il sound dei Völur assume caratteristiche non prive di un certo fascino, andando ad evocare di volta in volta sensazioni oscillanti dalla Mahavishnu Orchestra ai King Crimson con David Cross in formazione, fino a spingersi ai riflessi morriconiani della soffusa White Phantom.
Disir non è un album semplicissimo da assimilare, non tanto per una sua relativa orecchiabilità quanto per il suo andarsi a collocare in un ambito dai confini indefiniti e, quindi, non rivolto ad una specifica fascia di ascoltatori.
Immagino, però, che i non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano, non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.

Tracklist:
1. Es wächst aus seinem Grab
2. The Deep-Minded
3. White Phantom
4. Heiemo

Line-up:
Lucas Gadke – Electric bass, double bass & vocals
Laura C. Bates – Violin & vocals
James Payment – Drums

Völur – Facebook

Ciconia – Winterize

Un album che, pur tra qualche imperfezione, convince e lascia nell’ascoltatore la sensazione di essere al cospetto di una band con ancora molti margini di miglioramento.

L’affascinante bootleg che accompagna il cd ci mostra attimi di vita di un borgo perso tra le montagne delle Sanabria, nella Spagna nordoccidentale molti anni fa: sono immagini poetiche di gente semplice assolutamente fuori dal nostro modo di vivere, mentre la musica descrive note progressive tra l’armonia suadente ed intimista che fuoriesce dagli strumenti acustici e l’irruenza del metal più sofisticato, ma a suo modo aggressivo, così da conferire all’album umori diversi tra bianco e nero, luce ed ombra, semplicità e complessità.

Winterize è il secondo lavoro degli spagnoli Ciconia (il primo album The Moon Sessions è targato 2014), band proveniente da Valladolid, il sound proposto è un rock/metal strumentale ed influenzato da esponenti diversi del fare musica progressiva, passando dal classico sound alla Liquid Tension Experiment, a quello più oscuro degli Opeth, fino a raggiungere intimisti lidi rock dove ad aspettarci ci sono Porcupine Tree ed Anathema.
Più di un’ora di musica in cui gli strumenti creano le atmosfere cangianti di cui sopra, Winterize risulta una lunga suite divisa in dieci capitoli, tra maschia e tecnicamente ineccepibile elettricità e momenti di ottime soluzioni acustiche dal sapore folk, ma dure nel loro mood, come la vita in montagna.
La musica del trio spagnolo (Jorge Fraguas al basso, Javier Altonaga alla chitarra e Aleix Zoreda alle pelli) si specchia poco nel tecnicismo, lasciando al valore del songwriting tutti i pregi di quest’opera strumentale, che risulta ostica solo per la lunga durata e l’impegno che l’ascoltatore deve assolutamente mettere sul conto al primo approccio con la musica in essa contenuta, ma che diventa perfettamente leggibile man mano che gli ascolti si intensificano.
Limbus, The Forgotten e i sedici minuti conclusivi della mini suite Towards the Valley si compongono dei migliori momenti del disco, un album che, pur tra qualche imperfezione (alcune slegature tra le varie atmosfere), convince e lascia nell’ascoltatore la sensazione di essere al cospetto di una band con ancora molti margini di miglioramento.

TRACKLIST
1. Snowfields
2. Eloina’s Inn
3. Limbus
4. Scarsman
5. The Forgotten
6. A Wolf Never Comes Alone
7. Reel of Trevinca
8. Forestwalk
9. Fiadeiro
10. Towards the Valley

LINE-UP
Jorge Fraguas – Bass
Javier Altonagae – Guitars
Aleix Zoreda – Drums

CICONIA – Facebook

Winterhorde – Maestro

Chiunque si professi amante della buona musica deve ritagliarsi, almeno per un po’, un’oretta al giorno per cogliere appieno ogni sfumatura e godersi senza distrazioni un lavoro che difficilmente si schioderà dalla top ten di quest’anno.

Gli israeliani Winterhorde potrebbero esser presi ad emblema di ciò che si intende per progressione artistica: partiti come band dedita ad un symphonic black sulle tracce di Dimmu Borgir et similia (Nebula, 2006) ed approdati poi ad una forma parzialmente più evoluta ed avanguardista, ma ancora legata a tratti di matrice  estrema (Underwatermoon, 2010), giungono infine alla quadratura del cerchio con Maestro, tramite il quale, quasi in ossequio al titolo scelto, impartiscono una spettacolare quanto sorprendente lezione della durata di oltre un’ora a base di musica “progressiva” nel senso più autentico del termine.

Il retaggio sinfonico resta fortemente connesso alla struttura compositiva del gruppo mediorientale ma, in questo caso, costituisce un tessuto che avvolge ed arricchisce il lavoro d’insieme piuttosto che rappresentare la classica la soluzione ad effetto volta solo a mascherare, in molti lavori, ampi vuoti creativi.
Il raggiungimento di un simile risultato non arriva per caso ed una delle chiavi di volta è stato sicuramente un pesante ritocco della line-up che ha visto, in particolare, l’ingresso in formazione del cantante Igor “Khazar” Kungurov, il quale, con le sue splendide tonalità pulite duella incessantemente con lo screaming/growl del vocalist e fondatore Z.Winter, finalizzando il lavoro rutilante di una band capace di spaziare con una disinvoltura disarmante tra diverse sfumature stilistiche senza mai appesantire l’ascolto.
Chi ha avuto la ventura di ascoltare quel capolavoro che risponde al titolo Blessed He with Boils degli americani Xanthochroid troverà non poche affinità, specie nei passaggi più accelerati ed in certe repentine aperture atmosferiche, ma i Winterhorde ci mettono di loro un trademark più classico, riconducibile persino a Savatage/Trans Siberian Orchestra nelle frequenti orchestrazioni e, comunque, meno estremo, con una ricerca costante della melodia che non necessità del ricorso a dissonanze o a colpi ad effetto per attrarre l’attenzione dell’ascoltatore.
Mi rendo conto, scrivendone, quanto sia complesso provare a descrivere a parole questo disco, pertanto mi limiterò a dire che chiunque si professi amante della buona musica deve ritagliarsi, almeno per un po’, un’oretta al giorno per cogliere appieno ogni sfumatura e godersi senza distrazioni un lavoro che difficilmente si schioderà dalla top ten di quest’anno.
Anche citare un brano piuttosto che un altro riesce difficile, in quanto Maestro è un’opera di rara compattezza qualitativa, in cui non viene sprecata una nota che non sia funzionale al risultato finale: obbligato a scegliere tra tanta abbondanza, opto per The Heart of Coryphee, la traccia più lunga del lavoro nonché quella che farei ascoltare a qualcuno che mi chiedesse di proporgli un frammento dell’album per farsene un’idea, mentre tutto sommato la traccia meno brillante è proprio la conclusiva Dancing in Flames, in virtù di certe venature circensi che non sono mai state nelle mie corde.
Maestro è l’album che porta i Winterhorde su livelli inattesi ai più: probabilmente il tempo trascorso dall’ultimo lavoro su lunga distanza è stato sfruttato per focalizzare e finalizzare al meglio gli obiettivi, a dimostrazione del fatto che quasi sempre la fretta è nemica della qualità; non resta che assaporare questa splendida opera con la speranza che sia solo l’inizio di una nuova fase della carriera del gruppo israeliano.

Tracklist:
1. That Night in Prague
2. Antipath
3. Worms of Souls
4. They Came with Eyes of Fire
5. Chronic Death
6. The Heart of Coryphee
7. A Dying Swan
8. Maestro
9. Through the Broken Mirror
10. Cold
11. Dancing in Flames

Line-up:
Z.Winter – Vocals
Igor “Khazar” Kungurov – Vocals, Acoustic Guitar
Dima “Stellar” Stoller – Guitars
Omer “Noir” Naveh – Guitars
Sascha “Celestial” Latman – Bass, Saxophone, Acoustic Guitar
Alexander “Morgenrot” Feldman – Keyboards, Theremin
Maor “Morax” Nesterenko – Drums

WINTERHORDE – Facebook

Il Castello di Atlante – Arx Atlantis

Arx Atlantis è un bellissimo e quanto mai riuscito affresco di rock progressivo

Si torna a parlare di rock progressivo sulle pagine della nostra zine con l’ultima opera di Il Castello Di Atlante, storica band piemontese, attiva dal 1974 e con otto precedenti album usciti dall’inizio degli anni novanta in avanti.

L’esordio infatti è datato 1992 (Sono io il signore delle terre a nord), poi una serie di lavori che portano il gruppo fino a Cap. 8 Live di due anni fa.
Arx Atlantis è un bellissimo e quanto mai riuscito affresco di rock progressivo, che immortala la tradizione dello stivale nel genere, traghettata dal decennio settantiano fino ai nostri giorni da un numero di band dall’alto tasso qualitativo, con lavori che sono entrati di diritto nel gotha del rock progressivo internazionale.
Storie di altri tempi dai rimandi folk, stupende e ariose armonie tastieristiche, il violino che riempie l’atmosfera di melodie trasportate nel tempo, un viaggio tra racconti che donano una magica aura di immortalità, sono le prime impressioni suscitate dall’ascolto di canzoni sognanti come l’opener Non Ho Mai Imparato o Il Tempo del Grande Onore, rigorosamente cantate in italiano e suonate meravigliosamente dai sette musicisti, con l’aiuto dei tasti d’avorio di Tony Pagliuca delle ombre sulla splendida e medievale Ghino e L’Abate di Clignì.
Un genere il progressive che spesso si è chiuso in sé stesso, costruendosi un mondo a parte nel vasto panorama della musica rock, importantissimo per lo sviluppo della musica contemporanea, non solo quindi sfoggio di mera tecnica strumentale ( in abbondanza su questo lavoro) ma scrigno di emozioni senza tempo che Il Castello Di Atlante regala all’ascoltatore, come dei moderni cantastorie, menestrelli in questo mondo dove la realtà, specialmente quella più orrenda, supera la fantasia.
Ed allora salutate il mondo per una cinquantina di minuti e fatevi travolgere dalle melodie che escono sublimi dallo spartito di Arx Atalantis, opera che dalla prima all’ultima nota del capolavoro Il Tesoro Ritrovato (brano che chiude il cd), non risparmia travolgenti cambi d’ atmosfere, ritmi che si rincorrono, sinfonie progressive di rara bellezza in un crescendo
di emozioni senza fine.
Per chi ama il genere Arx Atlantis è l’ennesimo album imperdibile creato dal gruppo piemontese, l’anno di nascita ed il curriculum di cui la band si può vantare mi inducono a non parlare di influenze ma al limite di paragoni, che vanno dai Genesis ed E.L.P. ai nostri mostri sacri come Il Banco Del Mutuo Soccorso, Le Orme e PFM.

P.S. Un consiglio per i più giovani : ascoltate e riascoltate gruppi come Il Castello Di Atlante, fonte del lungo fiume di band che alimentano il mare del metallo progressivo contemporaneo.

TRACKLIST
1. Non Ho Mai Imparato
2. Il Vecchio Giovane
3. Ghino e L’Abate di Clignì
4. Il Tempo del Grande Onore
5. Il Tesoro Ritrovato

LINE-UP
Aldo Bergamini – guitar, vocals
Andrea Bertino – violin
Davide Cristofoli – piano, keyboards, synths
Massimo Di Lauro – violin on track 4
Paolo Ferrarotti – vocals, keyboards, drums on track 5
Dino Fiore – bass
Mattia Garimanno – drums

Guest:
Tony Pagliuca – keyboards on track 3

IL CASTELLO DI ATLANTE – Facebook

VV.AA. – Thirteeen: An Ethereal Sound Works Compilation

Thirteen è la compilation che celebra i tredici anni di attività della label portoghese Ethereal Sound Works, nel cui roster sono comprese band lusitane dedite ai generi più disparati, ma tutte accomunate da una notevole qualità di fondo e da altrettanta verve creativa.

Thirteen è la compilation che celebra i tredici anni di attività della label portoghese Ethereal Sound Works, nel cui roster sono comprese band lusitane dedite ai generi più disparati, ma tutte accomunate da una notevole qualità di fondo e da altrettanta verve creativa.

Sono ben 19 i brani contenuti in questa raccolta piuttosto esaustiva con la quale il buon Gonçalo esibisce i suoi gioielli, anche quelli più preziosi ma, purtroppo, non più attivi come i Vertigo Steps.
Così, in questo caleidoscopio di suoni ed umori, troviamo il metal con il death dei Rotem e il power/thrash degli Hourswill, il rock alternativo di Secret Symmetry, Painted Black, Dream Circus e Artic Fire, il punk di The Levities, Chapa Zero e Punk Sinatra, il dark di And The We Fall, Rainy Days Factory e My Deception, l’indie dei The Melancholic Youth Of Jesus, il folk dei Xicara , la sperimentazione pura dei Fadomorse e l’ ambient degli Under The Pipe e dei Soundscapism Inc., quest’ultimo fresco progetto di Bruno A., successivo allo split dei Vertigo Steps, qui rappresentati dalla splendida Silentground.
L’eclettismo è il vero marchio di fabbrica della ESW, grazie alla quale abbiamo la possibilità di constatare come in Portogallo si produca tanta musica di qualità, in più di un caso oggetto delle nostre recensioni (che possono essere lette nella sezione sottostante denominata articoli correlati).
Non ci sono solo i Moospell o il fado, quindi, a rappresentare il fatturato musicale lusitano, e questa compilation offre una ghiotta possibilità di farsi un’idea più precisa di quel movimento, portando alla luce diverse realtà oltremodo stimolanti.

Tracklist:
1.Secret Symmetry – Disarray And Silver Skies
2.Vertigo Steps – Silentground
3.Painted Black – Quarto Vazio
4.Hourswill – Atrocity Throne
5.My Deception – Daylight Deception
6.Dream Circus – Ticking
7.Rotem – The Pain
8.The Levities – Split Lip
9.Chapa Zero – Vai Lá Vai
10.Punk Sinatra – Nunca Há Paciência
11.Under The Pipe – No Need Words
12.Artic Fire – Running
13.The Melancholic Youth Of Jesus – Insensivity
14.And Then We Fall – Ancient Ruins
15.Rainy Days Factory – Deep Dive
16.Fadomorse – Deicídio
17.Xícara – Cantiga (Deixa-te Estar na Minha Vida)
18.Dark Wings Syndrome – In My Crystal Cage (2015)
19.Soundscapism Inc. – Planetary Dirt

ETHEREAL SOUND WORKS – Facebook

Mayfair – My Ghosts Inside

Emozioni, è proprio di questo che non smettiamo mai di aver bisogno, e fortunatamente ci ancora sono artisti come i Mayfair che ne elargiscono a profusione

Era il lontano 1993, quando aprivo il portafoglio nel mio negozio di fiducia per procurarmi l’opera prima dei Mayfair, band unica nell’universo del progressive, specialmente dopo lo scioglimento delle catene che tenevano il genere legato ai clichè settantiani e all’apertura ad altri suoni, magari mal digerita dai vecchi fans di dinosauri in continua e drammatica estinzione, ma assolutamente essenziale per portare il genere in salute, nel nuovo millennio, senza risultare obsoleto.

La band austriaca è stata una delle prime ad approcciarsi al progressive con brani dalla durata limitata, evitando lunghe suite, ma puntando tutto sull’emozionalità della propria musica e non sono pochi i gruppi odierni, sicuramente più famosi, che devono non poco al sound di quel Behind che all’epoca fu un ascolto fondamentale, almeno per chi ebbe la fortuna di poterlo fare.
My Ghost Inside torna a far parlare del gruppo dopo Schlage Mein Herz, Schlage che, tre anni fa, ne segnava il ritorno dopo un silenzio lungo quindici anni, con la sezione ritmica completamente rinnovata, ed i soli Mario e Renè a fungere da superstiti della line up originale.
I Mayfair continuano la loro evoluzione, lasciando che l’alternative metal depressivo dei vari Anathema e Katatonia, prenda il sopravvento sulle sonorità progressive: rimane l’impronta inconfondibile del sound originario, ma la tendenza di questo lavoro è più orientato verso un mood teatrale e drammatico, non lasciando indietro neppure qualche accenno toolliano.
Rimane il talento per atmosfere intimiste e rarefatte, sviluppate su tonalità grigie, pregne di un’eleganza del tutto personale, mentre le lancette dell’amplificazione arrivano al massimo solo nella metallica Schrei Es Raus, posta come penultimo atto di un lotto di brani dal mood plumbeo.
Un ascolto rilassato, arpeggi scritti su di un specchio ricoperto dalla polvere di molte primavere ormai passate, un autunno che con i suoi colori spenti riempie l’aria di malinconia, mentre brani di raffinato dark prog alternativo come Loss, Blinded By Your Light, When Angels And Demons Meet e Andermal colmano di rilassate sfumature tragico malinconiche quaranta minuti di una classica giornata di estenuante mal di vivere.
Emozioni, è proprio di questo che non smettiamo mai di aver bisogno, e fortunatamente ci ancora sono artisti come i Mayfair che ne elargiscono a profusione, bentornati.

TRACKLIST
1. Loss
2. My Ghosts Inside
3. Desert
4. Blinded By Your Light
5. When Angels And Demons Meet
6. Our Fire Starts Here
7. Ghostrider
8. Boom
9. Andermal
10. Schrei Es Raus
11. Until We Meet Again

LINE-UP
Mario – vocals
René – guitars
Johannes – bass
Jolly – drums

MAYFAIR – Facebook

Camel Of Doom – Terrestrial

Gli inglesi Camel of Doom sono una band attiva ormai dagli inizi del nuovo millennio e Terrestrial è la loro quarta prova su lunga distanza.

Come da ragione sociale, il genere trattato è ovviamente il doom, ma questo viene maneggiato con sperimentale padronanza ed un’aura cosmica che in certi momenti avvicina il suono a quello dei Monolithe.
La proposta dei britannici è, però, molto più inquieta, sfuggendo più di una volta all’orbita del genere per poi rientrarvi repentinamente con rallentamenti mortiferi.
Terrestrial , con queste premesse, non può essere quindi un album di agevole fruizione ma è decisamente un’opera di grande spessore; qui il sentimento prevalente che scaturisce è l’inquietudine piuttosto che il dolore o la commozione e, a differenza di questi ultimi due stati d’animo, tende a stabilizzarsi senza trovare alcuno sfogo.
Una sorta di implosione che si protrae per oltre un’ora senza provocare stanchezza, grazie a un livello di tensione costantemente alta e ad un sempre eccellente lavoro del leader Kris Clayton (con un passato negli Imindain e, come chitarrista dal vivo, negli Esoteric), il quale si occupa di tutti gli aspetti ad esclusione della base ritmica. A livello vocale, Clayton opta per uno screaming/growl di matrice sludge, mentre gli altri strumenti vengono utilizzati per un risultato d’insieme che è antitetico a protagonismi di matrice solista.
Anche se soggiace ad una suddivisione per brani, di fatto Terrestrial va inteso come un flusso sonoro continuo, in cui la malinconia lascia spazio ad uno sgomento ora rabbioso, ora rassegnato: i Camel Of Doom non mollano mai la presa, un malessere cosmico aleggia in ogni passaggio rendendo persino difficile una catalogazione certa del sound proposto; dovendo scegliere un momento dell’album, direi che Pyroclastic Flow svetta grazie anche al terrificante contributo del basso di Simon Whittle e al misurato gusto elettronico conferito alla traccia dalle tastiere di Clayton.
Un grande disco che mi lascia in eredità un senso di straniamento che, solo di rado, la musica mi provoca (per esempio con gli album più sperimentali dei Blut Aus Nord, anche se potrebbe sembrare una accostamento ardito vista la diversità dei generi trattati): dannatamente pericoloso ed altrettanto efficace.

Tracklist:
1. Cycles (The Anguish of Anger)
2. A Circle Has No End
3. Pyroclastic Flow
4. Singularity
5. Nine Eternities
6. Euphoric Slumber
7. Sleeper Must Awaken
8. Extending Life, Expanding Consciousness

Line-up:
Simon Whittle – Bass
Ben Nield – Drums
Kris Clayton – Guitars, Vocals, Keyboards

CAMEL OF DOOM – Facebook

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Fungus – The Face of Evil in the Sealed Room

Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete

Cominciamo con un mea culpa: nonostante siano miei concittadini ho scoperto l’esistenza dei Fungus solo in seguito ad una loro breve esibizione risalente alla scorsa estate, in occasione del Festival delle Periferie in quel di Genova Cornigliano.

Vero è che la scena progressive/rock la seguo ormai da tempo un po’ a macchia di leopardo, ma la lacuna resta, specie in questi tempi bizzarri, nei quali magari si finisce per conoscere vita morte e miracoli di gruppi della Papuasia ma si ignora l’esistenza di chi vive ed opera a pochi chilometri da casa tua, nel senso vero del termine se pensiamo che uno dei primi parti discografici dei Fungus è la registrazione di un concerto tenutosi nel 2005 a Murta, amena frazione collinare del comune di Genova limitrofa a quella dove risiedo.
Detto questo, mi concedo un ultimo (spero) luogo comune piazzando un bel “meglio tardi che mai”: per fortuna l’arte non conosce prescrizione ed avvalersi della bellezza di un disco come The Face of Evil, a due anni abbondanti dalla sua uscita, non sminuisce affatto il piacere dell’ascolto e della scoperta.
L’occasione per parlarne deriva dalla pubblicazione in doppio vinile dell’album in questione, arricchito del lungo brano The Sealed Room, uno degli ultimi lasciti dell’indubbio genio compositivo di Alejandro J Blissett, chitarrista e fondatore della band, prematuramente scomparso nel 2014.
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete: se vogliamo fare un parallelismo, magari audace, con una band dei giorni nostri, qualche similitudine la si può trovare con i Bigelf, rispetto ai quali le sonorità sono sicuramente meno robuste a fronte di affinità notevoli nel saper maneggiare con gusto ed inventiva certi suoni del passato (in primis quelli tastieristici).
E’ chiaro che hard rock, progressive ed una spruzzata di folk sono gli ingredienti di base di una ricetta vincente, che potrà scontentare solo chi pensa che volgere lo sguardo all’indietro sia esclusivamente una soluzione nostalgica e priva di sbocchi: nulla di più falso, la bravura dei Fungus nell’elaborare il tutto in maniera piuttosto personale è innegabile e se qualcuno li vorrà snobbare trovandoli derivativi o eccessivamente retrò è affar suo.
In realtà ogni brano nasconde sviluppi ben poco prevedibili e direi che questo compensa non poco qualsiasi altra perplessità che possa sorgere nei confronti del lavoro: certo, magari The Sun (brano conclusivo della versione originale di The Face Of Evil) non è forse la traccia ideale per chiudere un album così impegnativo, a causa dei suoi continui cambi di scenario conditi di improvvisazioni e sperimentalismi vari, uniti ad una lunghezza considerevole, e la stessa bonus track, di durata ancor più corposa, nulla aggiunge alla bontà di un’opera che vede altrove i suoi picchi. Al termine dell’ascolto, infatti, a restare impresse sono soprattutto la magnifica Rain, con la chitarra di AJ Blissett a livelli di assoluta eccellenza, la folkeggiante The Key of the Garden, ma anche Better Than Jesus e la title track, senza dimenticare la delicata Gentle Season, traccia che ricorda non poco il Peter Hammill più intimista.
Detto dello scomparso chitarrista e della bontà del suo operato, da rimarcare il tocco tastieristico del bravissimo Claudio Ferreri e le doti interpretative di Dorian Deminstrel, vocalist magari non dotato di un’estensione fuori dal comune, ma sicuramente versatile e, soprattutto, capace di trasmettere adeguatamente all’ascoltatore le sensazioni e le emozioni connesse ad una proposta musicale decisamente affascinante, benché talvolta intricata.
Senz’altro un bella (ri)scoperta in attesa del prossimo lavoro con il quale, peraltro, andrà verificato come i Fungus siano riusciti a metabolizzare, sia dal punto di vista compositivo che da quello prettamente personale, una perdita pesante come quella del loro compagno di avventura.

Tracklist:
1. The Face of Evil
2. Gentle Season
3. The Great Deceit
4. Rain
5. The Key of the Garden
6. Shake Your Suicide III
7. Angel with No Pain
8. Better than Jesus
9. Requiem
10. The Sun
11. The Sealed Room

Line-up:
Dorian Deminstrel – voce, chitarre acustiche
Alejandro J Blissett – chitarre, theremin
zerothehero – basso, flauto
Claudio Ferreri – tastiere
Caio – batteria

FUNGUS – Facebook

Osanna – Palepolitana

Gli Osanna, con questo sentito atto d’amore verso la loro città, regalano agli appassionati un meraviglioso nuovo disco di inediti che ristabilisce le gerarchie attuali all’interno del sempre vivo progressive italiano.

Un nuovo disco degli Osanna deve essere considerato necessariamente un evento: stiamo parlando infatti di uno dei nomi di punta della scena prog italiana degli anni settanta, anche se i più tendono a ricordare il solito trio formato da PFM, Banco e Le Orme.

La band napoletana ha avuto una carriera meno continua, con un lungo stop negli ultimi due decenni dello scorso secolo, e anche per questo non ha mai goduto, a differenza delle altre, di picchi di popolarità dovuti a brani più orecchiabili e commerciali.
Il ritorno ad un disco di inediti (il settimo della carriera, a quattordici anni dal precedente e, addirittura, a trentacinque dal penultimo) da parte di Lino Vairetti e della sua creatura avviene con la funzione ben precisa di offrire un atto d’amore tangibile nei confronti di Napoli; ovviamente, con questo, Vairetti non si nasconde dietro a un dito negando l’esistenza di un cancro come la camorra o del degrado che opprime certi quartieri ma, semplicemente, sostiene che questi mali sono comuni a tutte le grandi metropoli e che la presa di coscienza delle negatività non deve equivalere, necessariamente, a rinunciare ad esaltare le bellezze di un luogo che è anche e soprattutto culla di arte e di cultura. Con una canzone come Ciao Napoli, questo pensiero viene espresso in maniera esplicita e senza indugi, sposando quello di non pochi intellettuali partenopei i quali, ben lungi dall’essere collusi con la malavita, contestano la stereotipata rappresentazione cinematografica e televisiva che viene fornita della città, un aspetto che finisce per svilire e mettere in secondo piano molti altri dal segno positivo che sarebbe opportuno invece evidenziare.
Un atto d’amore, quindi, che si traduce in un album che, per buona parte, viene cantato in dialetto, e se questo di primo acchito potrebbe rappresentare un ostacolo per i neofiti, in effetti si tratta di un ulteriore valore aggiunto: qui la musica di matrice napoletana, quella che ha partorito giganti come Pino Daniele, per intenderci, si sposa alla perfezione con l’anima prog degli Osanna che, quando emerge, si dimostra ancor più esaltante.
Palepolitana è un titolo che fonde il nome Palepoli (ovvero la città sorta prima della “Neapolis”) con la parola Metropolitana e non è un caso, visto che il concept racconta di un androide che, percorrendo le viscere della città attraversando le stazione d’arte dell’underground partenopea, compie un ideale viaggio nelle radici culturali e popolari di uno dei luoghi più controversi ed affascinanti dell’intero pianeta.
Non dimentichiamo, inoltre, che Palepoli è anche il titolo dell’album più noto degli Osanna: pubblicato originariamente nel 1973, in occasione dell’uscita del nuovo album è stato ri-registrato con l’attuale formazione ed offerto come cd bonus .
Peraltro l’intero album non può essere neppure considerato una semplice opera musicale, vista la sua stretta connessione e collaborazione con le altre forme d’arte visiva sviluppate nel produrre l’artwork del lavoro, che troveranno la loro sublimazione al momento della realizzazione della versione in vinile prevista per l’autunno.
Va detto che la differenza tra gli Osanna attuali e quelli di quarant’anni fa non è da poco e viene evidenziata proprio dall’abbinamento delle due opere, benché venga parzialmente attenuata dalla realizzazione da parte della stessa line up.
Palepoli era un disco nervoso, composto da una band giovane che fondeva mirabilmente la tradizione musicale partenopea con le pulsioni prog dell’epoca; la rivisitazione targata 2015 smussa alcune asperità rispetto alle registrazioni originali, come è naturale che sia, ma non perde in efficacia, facendo godere gli appassionati dell’ascolto di un album storico, completato in alcune sue parti e gratificato da suoni e prestazioni perfette.
Laddove, in Oro Caldo, si auspicava la fuga dalla grande città (“Fuje ‘a chistu paese, fuje ‘a chistu paese. Parole, penziere, perzone, nun vanno ddaccordo nemmanco nu mese”), in Palepolitana un Vairetti che non ha certo smarrito il proprio spirito critico preferisce però esaltare la bellezza piuttosto che rimarcare le criticità, tramite un lotto di brani splendidi e sufficientemente immediati, difficili solo da scacciare dalla mente dopo averli ascoltati e riascoltati.
Coadiuvato da musicisti eccellenti, tra i quali il figlio Irvin alle tastiere e alla voce, e da ospiti di pregio come l’icona David Jackson e la magnifica Sophya Baccini, il leader con la sua voce ancora ferma e carismatica ci conduce in questo viaggio sotto il Vesuvio tra melodie ora malinconiche (Marmi e la meravigliosa Canzone Amara, con la preziosa partecipazione  della Baccini), ora devote alla tradizione (la taranta di Michelemmà), ora intrise di pathos e drammaticità (Fenesta Vascia e Profugo),
Brani inizialmente lineari e dal grande afflato melodico si aprono sovente in crescendo strumentali esaltanti (Santa Lucia, Palepolitana, Ciao Napoli) affiancati da omaggi all’epopea prog che fu (lo strumentale Anto Train).
Mentre tra disgrazie, abbandoni e divorzi, le altre band storiche del movimento si barcamenano apparendo talvolta le cover band di sé stesse, gli Osanna con questo splendido lavoro si svincolano da questa insidia mostrando al mondo che il progressive italiano è sempre vivo e vegeto e che è possibile ottenere simili risultati volgendo lo sguardo al passato, ma tenendo i piedi ben saldi nel XXI secolo.

Tracklist:
CD 1 – Palepolitana
1. Marmi
2. Fenesta Vascia
3. Michelemmà
4. Santa Lucia
5. AntoTrain
6. Anni di Piombo
7. Palepolitana
8. Made in Japan
9. Canzone Amara
10. Letizia
11. Ciao Napoli
12. Profugo

CD 2 – Palepoli
1. Oro Caldo
2. Stanza Città
3. Animale Senza Respiro

Line-up:
Lino Vairetti – vocals, acoustic and 12-string guitars, harmonica
Gennaro Barba – drums
Pako Capobianco – electric, acoustic and 12-string guitars
Nello D’Anna – bass
Sasà Priore – piano, Fender Rhodes, organ, synth
Irvin Vairetti – vocals, mellotron, synth

Guests:
David Jackson – sax & flute
Sophya Baccini – voice
Gianluca Falasca – violin
Angelo Salvatore – flute
Falasca String Quartet

OSANNA – Facebook

Helfir – Still Bleeding

Per chi ama le sonorità oggi simboleggiate dai vari Moss, Patterson e dai fratelli Cavanagh, Still Bleeding è un album assolutamente imperdibile.

Non è così frequente riscontrare una perfetta corrispondenza tra le influenze dichiarate da un musicista e ciò che confluisce poi nei suoi dischi: tutto questo accade, invece, in occasione dell’ esordio un veste solista del salentino Luca Mazzotta con il suo progetto Helfir.

Nella relativa pagina Facebook si fa riferimento ad Antimatter, Anathema, Katatonia, Porcupine Tree e Alternative 4, ed effettivamente in Still Bleeding Mazzotta prima assimila, per poi amalgamare mirabilmente, quanto prodotto da tutte queste magnifiche band.
Indubbiamente, in percentuale è l’impronta fornita da Mick Moss quella che si manifesta in maniera più evidente, ma Luca ha il grande merito di non limitarsi ad una citazione sbiadita o didascalica, mettendoci invece del proprio a livello compositivo e presentando un lotto di brani pressoché inattaccabile.
Certo, del musicista inglese manca l’inconfondibile timbro che da solo rende speciale qualsiasi canzone, ma l’interpretazione di Mazzotta è ugualmente efficace e, soprattutto, capace di toccare le giuste corde disseminando l’album di momenti dal grande spessore emotivo, anche in virtù di un eccellente lavoro chitarristico.
Se vogliamo dirla tutta, due tra le band che Luca colloca tra i propri numi tutelari, sto parlando di Porcupine Tree (e dello stesso Wilson solista) e Katatonia, da diverso tempo non riescono a produrre lavori coinvolgenti come questo magnifico esordio targato Helfir.
Un disco da godersi immergendosi in toto nelle sue note che non tradiscono mai, con l’unica punta di opacità riscontrabile nel sentore folk di Dresses Of Pain; nient’altro che il classico pelo nell’uovo di un disco che meraviglia ed avvince con la bellezza non comune di My Blood, Alone, Black Flame, decisamente all’altezza degli Antimatter e degli Alternative 4 più ispirati, e di Night And Deceit, splendido brano dai suoni più robusti e dal flavour dark, per certi versi accostabile agli ultimi The Foreshadowing, che chiude nel migliore dei modi l’ispirato lavoro di questo bravissimo musicista nostrano.
Per chi ama le sonorità oggi simboleggiate dai vari Moss, Patterson e dai fratelli Cavanagh, Still Bleeding è un album assolutamente imperdibile.

Tracklist:
1.Oracle
2.My Blood
3.In The Circle
4.Alone
5.Dresses Of Pain
6.Black Flame
7.Portrait Of A Sun
8.Where Are You Now?
9.Night And Deceit

Line-up:
Luca Mazzotta – Vocals, Guitars, Bass, Keyboarrds, Drums Programming

HELFIR – Facebook

Code – Mut

Un gran bel disco, consigliato a chi non vuole accontentarsi di musica dall’approccio melodico troppo convenzionale.

Nell’arco di un decennio, attraverso quattro dischi differenti tra loro, la metamorfosi dei Code si è compiuta, almeno fino al prossimo passo, visto che da una band dall’indole così cangiante è lecito attendersi di tutto.

Il black avanguardistico di “Nouveau Gloaming” ha prima assunto i tratti più oscuri di “Resplendent Grotesque” per giungere poi al progressive death di “Augur Nox”: in Mut sparisce qualsiasi connotazione estrema nel sound della band inglese, che approda infine ad un progressive nervoso quanto si vuole, ma del tutto ripulito dalle asperità presenti nel suo predecessore.
Le atmosfere vagamente tooliane dell’opener On Blinding Larks sono parzialmente ingannevoli, perché nell’idea compositiva della band guidata da Aort confluiscono diversi input oltre a questo, alcuni noti e per certi versi inevitabili (Opeth e Anathema), altri meno scontati, specie dal punto di vista dell’interpretazione vocale (Muse, Jeff Buckley) o probabilmente neppure consapevoli (qualcuno si ricorda dei tedeschi Dark Suns dello splendido “Existence” ?).
Il risultato complessivo è un album che non perde un’oncia a livello di profondità rispetto a “Augur Nox”, restando comunque un oggetto da maneggiare con cura e pazienza prima di godere pienamente dei suoi contenuti: nove brani dallo spesso rivestimento che racchiudono un nucleo sovente morbido e gustoso, tra i quali spiccano meraviglie quali Inland Sea, Affliction e la più movimentata Numb, An Author, esaltata anche dalla buonissima prova vocale di Wacian, in un contesto complessivo comunque elevatissimo che non potrà che risultare gradito agli estimatori di tutte la band citate in precedenza.
Il pregio maggiore dei Code è quello d’essere riusciti ad assimilare tutti questi spunti offrendo una riproposizione del tutto personale di un genere che, in assenza di un particolare scintillio compositivo, rischia seriamente di mostrare solo il suo lato più tedioso.
Come già accennato in apertura, sarà interessante capire quale potrà essere la prossima mossa, visto che, allo stato attuale, il metal appare più un’attitudine che non la base su cui poggia la proposta della band britannica.
Un gran bel disco, consigliato a chi non vuole accontentarsi di musica dall’approccio melodico troppo convenzionale.

Tracklist:
1. On Blinding Larks
2. Undertone
3. Dialogue
4. Affliction
5. Contours
6. Inland Sea
7. Cocoon
8. Numb, an Author
9. The Bloom in the Blast

Line-up:
Aort – Guitars
Andras – Guitars
Lordt – Drums
Syhr – Bass
Wacian – Vocals

CODE – Facebook

6:33 – Deadly Scenes

“Deadly Scenes” è un’autentica bomba pronta a deflagrare e a conquistare il mondo, solo se chi di dovere (ovvero il pubblico) avesse orecchie per intendere …

“Che cos’è il genio?” si chiedeva uno dei protagonisti in uno dei film culto della commedia all’italiana, “Amici Miei”, e la risposta era: “È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione”.

Chiaramente la genialità in questione era rivolta alla messa in scena delle “zingarate” che sono passate alla storia della cinematografia nostrana ma, in fondo, buona parte di quella definizione si può tranquillamente applicare al disco di questi folli (e quindi geniali, le due cose, si sa, vanno spesso di pari passo) francesi chiamati 6:33.
Certo che, quando nelle note introduttive prodotte dalla Kaotoxin Records, ho letto riferimenti a Mike Patton e Devin Townsend, ovvero due dei massimi emblemi di “genio e sregolatezza” in ambito musicale, un po’ di paura l’ho avuta: in questi casi è un tutt’uno pensare: “oh mamma, chissà che minestrone indigeribile di vari generi dovranno sorbirsi le mie orecchie abituate al molto più lineare doom …”.
Niente di quanto paventato è finito tra i solchi di questo Deadly Scenes, anzi, le promesse della brillante label di Lille sono state mantenute alla grande: questo disco è un’autentica bomba pronta a deflagrare e a conquistare il mondo, solo se chi di dovere (ovvero il pubblico) avesse orecchie per intendere …
Bisogna tenere conto, inevitabilmente, della pigrizia mentale che equivale ad una sorta di Ebola per la maggior parte dei potenziali ascoltatori: proprio qualche giorno fa, parlando di musica con un mio coetaneo, ho dovuto sorbirmi la solita teoria secondo la quale, rispetto alle grandi band di 30-40 anni fa, non ci sia oggi più nulla meritevole d’essere ascoltato e bla bla bla; eppure, paradossalmente, questa persona conosce a menadito l’opera di un certo Frank Zappa, ovvero l’emblema di chi è diventato un mito facendo dell’imprevedibilità e della costante ricerca del melting pot musicale il proprio marchio di fabbrica.
Penso che il mai abbastanza compianto artista italo-americano sarebbe oggi tra i primi estimatori dei 6:33 : era infatti da molto tempo che non mi capitava d’ascoltare qualcosa di così fresco, accattivante, rutilante e innovativo; dove talvolta anche i nomi di grido falliscono, i cinque parigini riescono a tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore per quasi un’ora di balzi senza soluzione di continuità tra soul, funky, metal, pop, prog, swing e qualche altra mezza dozzina di generi musicali a caso che vi possano venire in mente, il tutto senza che vi sia una minima parvenza di frammentarietà o di forzatura.
Dopo poco più di venti minuti, questa congrega di malati di mente ha già sparato quattro brani epocali, capaci di farvi oscillare la capoccia e battere i piedi in maniera incontrollabile, roba che centinaia di musicisti venderebbero i propri cari per rubare almeno una delle innumerevoli intuizioni ivi contenute.
Ed il bello è che, arrivati all’ultima nota della clamorosa I’m a Nerd, col il suo delirante refrain sorretto dal suono di un banjo, non siamo nemmeno a metà di un percorso asimmetrico, solo apparentemente caotico, ma stracolmo invece di TALENTO, quello che, scritto in maiuscolo, è essenziale possedere per poter solo immaginare di comporre un album simile.
Ma alla fine, che vi sto a raccontare, intanto a parole non è possibile descrivere in maniera esauriente quanto contenuto in Deadly Scenes; vi invito caldamente, pertanto, a guardarvi qui sotto il video di Black Widow (il brano vero e proprio parte dopo 1:40), traccia che costituisce una sorta di compendio del disco, oltre che il pretesto per accompagnare la musica con immagini che, in ossequio all’imponderabilità della canzone, non avrebbero potuto in alcun modo essere banali.
Nel segnalare che, anche per cotanto spiegamento di creatività, i tredici minuti della conclusiva title-track risultano forse eccessivi, pur attestandosi ugualmente su livelli qualitativi che i più possono solo sognare, non resta che fare i complimenti a questo dinamico quintetto, capace di trasporre musicalmente nel migliore di modi le tonnellate di idee affiorate in sede compositiva; una particolare menzione va sia alla cura degli arrangiamenti vocali, grazie ad intrecci corali che ricordano ora la buonanima di Prince (ah, mi dicono che è ancora vivo, ma io lo intendevo deceduto musicalmente, scusate …), ora i Queen, ora addirittura i Gentle Giant (per chi se li ricorda), sia alle aperture melodiche repentine che, in certi passaggi, possono richiamare alla mente anche i migliori Pain Of Salvation (e, come nel caso della band di Daniel Gildenlöw, per i 6:33 si può parlare a pieno titolo di musica progressive, nel senso più letterale del termine).
Questi sono solo alcuni minimi accenni di tutti i riferimenti che a ciascuno potranno venire in mente durante l’ascolto (vi cito tra gli altri, doverosamente, il basso pulsante alla “Born To Be Alive” di Ego Fandango), all’interno di un lavoro che non esito a definire entusiasmante e che sta facendo proseliti anche nella clinica psichiatrica dove sono tuttora ricoverato per il mio pervicace rifiuto di spegnere il lettore MP3, bloccato in modalità repeat su Deadly Scenes
Primo botto discografico del 2015 !

Tracklist:
1. Hellalujah
2. Ego fandango
3. The walking fed
4. I’m a nerd
5. Modus operandi
6. Black widow
7. Last bullet for a gold rattle
8. Lazy boy
9. Deadly scenes

Line-up:
Rorschach – vocals
Niko – guitars
S.A.D. – bass
Howahkan Ituha – keyboards
# – keyboards

6:33 – Facebook