Caligula’s Horse – In Contact

Licenziato da Inside Out, una garanzia nei suoni progressivi, In Contact risulta un album con più luci che ombre ma con diversi dettagli da registrare per la band australiana, che a mio parere ha da fare ancora un po’ di strada prima di arrivare ad ambire ad un posto al sole nel panorama progressivo odierno.

Questa volta non posso esimermi da fare una considerazione per alcuni antipatica: il progressive moderno, che poi in molti casi non è altro che rock/metal alternativo dilatato e con soluzioni ritmiche prese in prestito dal tanto vituperato prog metal (alla Dream Theater, per intenderci) che ormai si può tranquillamente definire classico, sta arrivando ad un punto di non ritorno.

Mentre viene sempre più accettato nell’ambiente del prog che conta, le band che veramente fanno la differenza si contano sulle dita di una mano: il resto è buona musica, a tratti intimista e lasciata in balia delle tempeste alternative.
Gli australiani Caligula’s Horse si posizionano perfettamente tra le realtà che ambiscono ad un posto di primo piano nel nuovo progressive mondiale e quelle che rischiano inevitabilmente di cadere in uno stagno da dove rimane difficile riemergere, musicalmente e concettualmente parlando.
Attivi da ormai sette anni, i nostri arrivano al traguardo del quarto album con In Contact, un lavoro che come si diceva rimane incastrato tra il progressive moderno ed il metal, un palazzo di note che crolla ed imprigiona il sound in schemi ormai abusati da gruppi più o meno noti e giunti alla ribalta negli ultimi tempi.
Grande preparazione strumentale, ghirigori ritmici, qualche buona idea ma un sentore di già sentito pervade l’ascolto già dalle prime note dell’opener Dream the Dead.
Non fraintendetemi, In Contact è un buon lavoro e non mancherà di trovare estimatori negli amanti del rock progressivo e di band come Karnivool e Tesseract, però manca l’ispirazione vincente, quella che porterebbe a giudicare con più entusiasmo brani già di per sé buoni come Songs For No One, Fill My Heart o la conclusiva suite Graves.
Licenziato da Inside Out, una garanzia nei suoni progressivi, In Contact risulta un album con più luci che ombre ma con diversi dettagli da registrare per la band australiana, che a mio parere ha da fare ancora un po’ di strada prima di arrivare ad ambire ad un posto al sole nel panorama progressivo odierno.

Tracklist
01. Dream the Dead
02. Will’s Song (Let the Colours Run)
03. The Hands are the Hardest
04. Love Conquers All
05. Songs for No One
06. Capulet
07. Fill My Heart
08. Inertia and the Weapon of the Wall
09. The Cannon’s Mouth
10. Graves

Line-up
Jim Grey – lead vocals
Sam Vallen – lead guitar
Adrian Goleby – guitar
Dave Couper – bass & vocals
Josh Griffin – drums

CALIGULA’S HORSE – Facebook

Steven Wilson – To The Bone

Detto senza alcuna remora, To The Bone è rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti.

Steven Wilson condivide la sorte di quelli che, quando eravamo ragazzini, venivano costantemente elogiati da professori o dagli altri genitori come esempi di dedizione allo studio, educazione ed ulteriori virtù assortite, finendo loro malgrado per risultare antipatici a più di qualcuno.

Del resto il suo stesso aspetto professorale e la nomea di nuovo Re Mida del prog rock fanno sì che la voglia di coglierlo in fallo superi talvolta la speranza di ascoltare buona musica: con questo suo nuovo album solista, intitolato To The Bone, il musicista inglese prova a fornire altri spunti ai suoi abituali detrattori, abbandonando del tutto o quasi ogni ortodossia di stampo progressive per concedersi digressioni verso i generi più disparati, spingendosi in qualche caso persino ad un utilizzo del falsetto degna della disco music dei tempi d’oro.
La mia impressione è che Wilson, dopo aver ammaliato noi appassionati (anche) di metal con il formidabile In Absentia, nella restante produzione con i Porcupine Tree e in altri progetti abbia sempre goduto di una buona stampa che andava ben oltre l’effettivo valore di album ricchi di forma più che di sostanza, sebbene fosse dotato di una classe superiore alla media non sempre sfruttata a dovere per colpire ed emozionare realmente gli ascoltatori; così, con il fucile ben carico e spianato, mi sono immerso nell’ascolto di quest’album che, come da copione quando si parte armati di cattive intenzioni, mi è piaciuto invece molto proprio in virtù della sua varietà e di una certa voglia di osare.
In sede di presentazione dell’album è stato ipotizzato un parallelismo tra Wilson e Peter Gabriel, accomunando l’approccio stilistico del primo in To The Bone alla svolta che fece a suo tempo l’ex vocalist dei Genesis con So: un paragone, questo, che lì per lì può sembrare quasi un delitto di lesa maestà ma che, a ben vedere, ci può stare a livello di attitudine, ferme restando la diversa caratura complessiva dei due musicisti e soprattutto una differente incisività a livello interpretativo; poi, se la splendida Pariah è un po’ la Don’t Give Up gabrieliana, con relativo supporto di una voce femminile e tematiche non del tutto dissimili, Permanating, con il suo incedere danzereccio può equivalere a Sledgehammer, anche se in realtà sembra trovare più le sue radici nei migliori Style Council.
Qui, in fondo, finisce il gioco dei parallelismi e comincia invece la necessità di valutare con onestà l’operato di un musicista che, effettivamente, possiede la capacità innata di creare melodie fruibili, apparentemente leggere ma capici invece di occupare più a lungo del previsto ampi spazi nella memoria di chi ascolta.
Oltre alle canzoni citate, anche la title track, la hogarthiana Refuge, la tenue Blank Tapes, secondo duetto dopo quello di Pariah con un’interprete entusiasmante come Ninet Tayeb (sempre sia lodato Steven per averci fatto scoprire questa meravigliosa cantante israeliana), la progressiva nel senso più autentico del termine Detonation e la conclusiva Song Of Unborn vivono di un’intensa luce propria, perché se è vero che Wilson in più di un frangente può ricordare questa o quella band più in singoli passaggi che per interi brani (per esempio alcuni break vocali in The Same Asylym richiamano gli Yes di 90125), è innegabile che grazie al suo talento il tutto appare ben lontano dall’essere solo un abile lavoro di taglio e cucito.
Forse l’unico momento dell’album nel quale il nostro esce fuori dal seminato è una inoffensiva Song Of I, con il suo pseudo trip hop, mentre il resto è, diciamolo pure senza remore, una rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti (con esclusione forse delle fasce più retrive di progsters che vedevano in Wilson un possibile successore dei grandi del passato).
To The Bone non è un’opera che lascerà segni profondi nella storia della musica ma è un disco brillante e a suo modo onesto, proprio perché Steven Wilson non si nasconde dietro ad un approccio cervellotico o intellettualoide per giustificare (perché mai dovrebbe?) una svolta decisa verso sonorità più dirette ma tutt’altro che di valore trascurabile.

Tracklist:
1.To The Bone
2.Nowhere Now
3.Pariah
4.The Same Asylum As Before
5.Refuge
6.Permanating
7.Blank Tapes
8.People Who Eat Darkness
9.Song Of I
10.Detonation
11.Song Of Unborn

Line up:
Steven Wilson – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Paul Stacey – Guitars
Adam Holzman – Hammond, Piano
Pete Eckford – Percussions
Jeremy Stacey – Drums
Ninet Tayeb – Vocals on 3. 7.
Sophie Hunger – Vocals on 9.
Mark Feltham – Harmonica on 1. 5.

STEVEN WILSON – Facebook

The Great Discord – The Rabbit Hole

Non ci sono pause in The Rabbit Hole, nel senso che la musica di altissimo livello non concede distrazioni all’ascoltatore lasciando che la band di Linköping ci travolga e ci scaraventi nel suo mondo portatore sia di tempeste estreme che di splendide aperture melodiche.

Sono sempre più convinto, nel mio ormai mezzo secolo di vita abbondante, che le persone che non amano la musica non abbiano mai sviluppato emozioni ed una sensibilità che permetta loro di far proprie le brutture che sconvolgono sempre più l’umanità

Ci sono ovviamente le eccezioni che confermano la regola, ma come si può amare un lavoro come The Rabbit Hole se non si possiedono quelle corde emozionali per cui dopo tanti anni le braccia si riempiono di pelle d’oca all’ascolto delle note alternative/progressive create dai The Great Discord, sentendosi più ricchi?
Perché, e questo invece non è un semplice punto di vista ma un’assoluta verità, ci vuole un’animo sensibile per godere delle trame del gruppo svedese, all’apparenza semplici ma splendidamente intricate come nella migliore tradizione progressive, estreme come un ottimo esempio di death metal melodico e a tratti addirittura dall’appeal pop alternative.
Fia Kempe è la straordinaria interprete della musica dei The Great Discord, una cantante che fa dell’interpretazione il suo punto di forza, ora grintosamente metallica, poi splendidamente melodica ed evocativa, al servizio di un sound alquanto originale e mai ripetitivo.
Ispirato concettualmente al’opera di Lewis Carrol, l’album si sviluppa in quaranta minuti di musica rock/metal a 360°, progressivamente sopra le righe, dark senza essere gotica come di moda di questi tempi ed assolutamente letale, mentre metal e pop si danno battaglia dentro di noi, ora strattonati da braccia metalliche dure come il ferro e poi cullati da atmosfere dark/rock o melodie radiofoniche che si fanno spazio in un lavoro ritmico sopraffino.
Non ci sono pause in The Rabbit Hole, nel senso che la musica di altissimo livello non concede distrazioni all’ascoltatore lasciando che la band di Linköping ci travolga e ci scaraventi nel suo mondo portatore sia di tempeste estreme che di splendide aperture melodiche.
Il singolo Darkest Day è solo un piccolo punticino nel vasto mondo dei The Great Discord, mentre mai come questa volta il consiglio è di fermarsi, concedersi un po’ di tempo e lasciarsi rapire dalla magia della musica.

Tracklist
1.Dimman
2.Noire
3.Gadget
4.Darkest Day
5.Tell-Tale Heart
6.The Red Rabbit
7.Neon Dreaming
8.Downfall
9.Cadence
10.Omen
11.Persona

Line-up
Fia Kempe – Vocals
Aksel Holmgren – Drums
André Axell – Guitars
Gustav Almberg – Guitars
Rasmus Carlson – Bass

THE GREAT DISCORD – Facebook

Lonely Robot – The Big Dream

The Big Dream è un album che, pur non posizionandosi tra i migliori lavori di Mitchell, è sicuramente un buon ascolto per chi ama il rock elegante e progressivo della scena britannica.

MetalEyes IYE vi porta a viaggiare su strade progressive con il secondo lavoro dei Lonely Robot, ennesimo progetto di John Mitchell, un’icona del prog inglese, polistrumentista, cantante e produttore al servizio di Arena e Frost*, tra gli altri.

Seguendo concettualmente il primo album (Please Come Home) Mitchell licenzia The Big Dream, opera ispirata dal Sogno di una Notte di Mezza Estate di Shakespeare, con un astronauta che si sveglia da un sogno criogenico e si ritrova al cospetto di persone con teste di animali in un mondo surreale.
Accompagnato da Craig Blundell, con lui nei Frost*, Steve Vantsis al basso (Fish) e Lisa Holmes alle tastiere, Mitchell dona agli appassionati un’altra ora abbondante tra le note progressive del rock britannico, a tratti sognante ed elegante, in altre più deciso, ma senza mai uscire dai sicuri binari di una formula collaudata, perfetta per accontentare i propri fans che troveranno nell’album tutte le caratteristiche attese.
Si potrebbe tranquillamente passare oltre, visto che gli amanti dei suoni progressivi avranno già inquadrato cosa aspettarsi da un album come The Big Dream: songwriting di indubbio valore, straordinarie e limpide melodie che si sovrappongono, fughe sui tasti d’avorio e chorus di scuola Arena, il tutto su un tappeto progressivo che continua imperterrito la tradizione del genere.
Quando il sound si lascia trasportare da un’elettricità più marcata escono le cose migliori, come nel super singolo Sigma, nella splendida Everglow e nella title track dai tratti settantiani e lievemente psichedelici.
Rimane da notare come il mastermind inglese confermi la sua indiscutibile maestria nel saper comporre brani dalla spiccata vena melodica e (non così facile nel genere) un’ottima predisposizione a regalare opere di facile ascolto, anche per chi non ha troppa confidenza con il rock di estrazione progressiva.
In conclusione The Big Dream èun album che, pur non posizionandosi tra i migliori lavori di Mitchell, è sicuramente un buon ascolto per chi ama il rock elegante e progressivo della scena britannica.

Tracklist
01. Prologue (Deep Sleep)
02. Awakenings
03. Sigma
04. In Floral Green
05. Everglow
06. False Lights
07. Symbolic
08. The Divine Art Of Being
09. The Big Dream
10. Hello World Goodbye
11. Epilogue (Sea Beams)

Line-up
Joni Mitchell – Guitars, vocals
Craig Blundell – Drums
Steve Vantsis – Bass
Liam Holmes – Keyboards

LONELY ROBOT – Facebook

Bob Oliver Lee – Flying Music

Flying Music è un buon lavoro, al quale manca solo un pizzico di personalità e qualche brano trainante in più per poter richiamare l’attenzione di un maggior numero di appassionati.

Bob Oliver Lee non è il nome di un musicista in carne ed ossa bensì il monicker scelto dal francese Bob Saliba per il suo progetto progressive, giunto con questo Flying Music al suo secondo episodio discografico.

Il poliedrico musicista marsigliese si è ritagliato un suo discreto spazio con altre band come Galderia e Debackliner, oltre che attraverso la collaborazione con John Macaluso per una riedizione dei brani degli Ark, e con questo lavoro va ad esplorare il versante più pacato ed acustico del progressive, prendendo come riferimento stilistico le band d’oltreoceano piuttosto che quelle europee.
Infatti, fin dall’opener Everything’s Gone, la memoria va ai Kansas dei brani più evocativi (Dust In The Wind) o ad altre band minori ma comunque di un certo spessore qualitativo come Everon o Echolyn, tanto per citarne due che ho apprezzato non poco in passato, per arrivare ai giorni nostri con un fuoriclasse del genere come Neal Morse: questo finisce in qualche modo per rendere meno scontato un lavoro che non stravolge le gerarchie del genere ma si rivela un ascolto piacevole.
Saliba è un buon cantante, magari non in possesso di doti sopra la media ma, comunque, in possesso di un timbro piuttosto caldo e adatto al sound proposto in Flying Music, mentre il suo lavoro chitarristico si rivela efficace,  così come l’operato del manipolo di musicisti che lo accompagna.
Tra i brani spicca senza dubbio l’intensa Forbidden Ways, momento emotivamente più elevato di un lavoro che dubito possa ottenere particolari favori dagli abituali fruitori del progressive, normalmente poco propensi a dare credito a musicisti giovani (e dal background metal) che approdano nel loro ristretto perimetro musicale.
Sarebbe un peccato se fosse così, visto che al di là di qualche scelta non del tutto condivisibile (per esempio appare troppo marginale il contributo delle tastiere che, invece, in certi frangenti sarebbero risultate utili per “riempire” maggiormente il suono), Flying Music è un buon lavoro al quale manca solo un pizzico di personalità e qualche brano trainante in più per poter richiamare l’attenzione di un maggior numero di appassionati.

Tracklist:
01. Everything’s Gone
02. Dead Heart
03. Flying Music (instrumental)
04. These Wings
05. Thoughts & Regrets
06. River Of The Temple
07. Rising
08. Forbidden Ways
09. Sailors From The Crying Planet
10. From The Pyramid Rises The Flying Spirit Of The Pharaoh (instrumental)

Line up:
Bob Saliba: Lead, Acoustic Guitars & Vocals
Pascal Garell: Bass
Olivier Tijoux: Drums
Franck Capera: Keyboards
François Albaranes: Piano

BOB OLIVER LEE – Facebook

Closet Disco Queen – Sexy Audio Deviance for Punk Bums

Dopo il debut album omonimo del 2015, i Closet Disco Queen tornano in pista con questo nuovo lavoro che certo non può rendere giustizia alle loro capacità in soli tre brani.

Sexy Audio Deviance for Punk Bums è un EP di sole tre canzoni, di puro prog-rock sperimentale carico di influenze di vari generi.

I Closet Disco Queen sono un duo di recente formazione composto dal chitarrista Jonathan Nido e dal batterista Luc Hess, decisi a creare un progetto insieme. Dopo il debut album omonimo del 2015, tornano in pista con questo nuovo lavoro che certo non può rendere giustizia alle loro capacità in soli tre brani. La opening track Ninjaune inizia con l’atmosfera tipica dell’ambient (che potrebbe fuorviare gli ascoltatori) per poi crescere gradualmente d’intensità e volume dando spazio ad un più rude e rozzo metal, per poi calare di nuovo nel finale. Si passa poi a El Moustachito, secondo brano dall’intro quasi punkeggiante, che continua con uno stoner influenzato da chitarre heavy che non dà modo all’ascoltatore di annoiarsi. A chiudere l’EP, il brano Délicieux che ci trasporta nelle atmosfere di settantiana memoria, un mix di blues e hard rock con influenze tipiche del prog che rende giustizia all’intero lavoro, rivelandosi una degna conclusione. Nel complesso, i Closet Disco Queen si sono costruiti un’ottima base di lancio creando qualcosa di nuovo, un prog di stampo “antico” ma proiettato nel futuro grazie ad influenze che attingono dal moderno. Il duo è perfettamente amalgamato ed in sintonia, e riesce a creare un ibrido che spazia da atmosfere tipiche del rock anni ’70 ad un più rude metal con caratteristiche dell’heavy, e non solo. Insomma, una band della quale sentiremo ancora parlare.

Tracklist
1. Ninjaune
2. El Moustachito
3. Délicieux

Line-up
Luc Hess – Drums
Jona Nido – Guitar

CLOSET DISCO QUEEN – Facebook

Subterranean Masquerade – Vagabond

Vagabond è un album splendido, un lavoro progressivo che entusiasma e non può e non deve lasciare indifferenti gli amanti della musica in senso lato.

Ecco un altro album straordinario che valorizza a mio avviso un anno che sta regalando grosse soddisfazioni agli amanti del metal/rock, anche se come afferma qualcuno manca ancora l’opera che dovrebbe smuovere il mercato come avvenne negli anni novanta.

Ma a noi amanti del bello, a prescindere da stadi colmi e classifiche scalate, ci godiamo opere di un’altra categoria come Vagabond, ultimo parto della multinazionale progressiva Subterranean Masquerade, più che una band, un nugolo di talenti al servizio della musica a 360°, capitanata dal chitarrista israeliano Tomer Pink e con il contributo al microfono di Kjetil Nordhus (Green Carnation, Tristania).
Terza meraviglia targata Subterranean Masquerade, dopo il debutto nel lontano 2005 con Suspended Animation Dreams ed il precedente The Great Bazaar di un paio di anni fa, con  una manciata di musicisti che si alternano come ospiti tra le fila del gruppo e tanta musica che, pur strutturata su un progressive rock di ultima generazione, amoreggia con la musica etnica, per poi lasciare che sfumature estreme brutalizzino attimi di musica che risplende di note variopinte come, appunto (prendendo spunto dal titolo del precedente lavoro), se ci si trovasse in un bazaar.
Ogni nota una sorpresa, ogni canzone un viaggio in questa musica che più internazionale di così non si può, mentre non sono poche le ispirazioni del gruppo (King Crimson, Nightingale e Spock’s Beard) che ci appaiono come oasi musicali tra l’opener Place For Fairytales, la decisa e spettacolare Nomad e la splendida Ways .
Gli Orphaned Land sono presenti pure loro, e non potrebbe essere altrimenti  vista la quantità di atmosfere etniche che Vagabond porta con sé, mentre Kippur e  As You Are si specchiano nella musica rock/metal  degli ultimi quarant’anni tra splendide melodie, interventi in growl per niente fuori luogo ed una cover di Space Oddity che lascia senza fiato per intensità, interpretazione ed un inizio drammaticamente doom.
Mixato da Christer Andre Cederberg (Anathema, Tristania, Circus Maximus) e masterizzato da Tony Lindgren ai Fascination Street studio, Vagabond è un album splendido, un lavoro progressivo che entusiasma e non può e non deve lasciare indifferenti gli amanti della musica in senso lato.

Tracklist
1. Place for Fairytales
2. Nomad
3. Ways
4. Carousal
5. Kippur
6. Daled Bavos
7. As You Are
8. Hymn of the Vagabond
9. Space Oddity

Line-up
Kjetil Nordhus – Vocals
Eliran Weizman – Vocals
Tomer Pink – Guitars
Or Shalev – Guitars
Shai Yallin – Keyboards
Golan Farhi – Bass
Matan Shmuely – Drums

SUBTERRANEAN MASQUERADE – Facebook

Eva Can’t – Gravatum

Ascoltando Gravatum più volte con il giusto approccio, memorizzandone i passaggi e lasciandosi compenetrare dalla potenza lirica e drammatica del racconto, si arriverà al punto di non poterne più fare a meno, come è tipico delle opere musicali di livello superiore.

Gli Eva Can’t sono un band bolognese formatasi agli albori del decennio e guidata da Simone Lanzoni, ovvero il clean vocalist protagonista degli ultimi due magnifici album degli In Tormentata Quiete.

Già questo dato potrebbe, da solo, attrarre l’attenzione di molti tra i possibili appassionati smarriti nel labirinto formato dai sottogeneri del metal e del rock e dal relativo flusso oceanico di uscite, ma è bene dire da subito che, con Gravatum, gli Eva Can’t ci hanno omaggiato di un vero e proprio capolavoro di arte musicale, capace di trasportare ai giorni nostri il potenziale evocativo e poetico che fu il tratto distintivo del progressive italiano degli anni ’70, uno dei movimenti musicali più significativi e peculiari nella storia moderna delle sette note, a detta non solo del sottoscritto, ma anche di commentatori ben più quotati e credibili.
Il fatto che il gruppo felsineo sia approdato a questi lidi, pur essendo formato sostanzialmente da musicisti dal robusto background metal, non deve sorprendere, visto che i prodromi di tutto questo sono riscontrabili in un percorso evolutivo che, partendo dall’heavy del debutto L’enigma delle ombre, si è poi snodato senza porsi particolari limiti di stile o di genere.
Quello che sicuramente non è mai cambiata, costituendo uno dei tratti distintivi della band, è la cura nella stesura dei testi, sempre ispirati, dal grande afflato poetico e pervasi da un costate contrasto tra lo smarrimento di fronte alla caducità dell’esistenza e la consapevolezza di quanto questa rappresenti dopotutto un regalo, benché gran parte dell’umanità non ne abbia colto né il senso né, soprattutto, il valore.
In Gravatum, gli Eva Can’t non lesinano comunque sull’espressione di un’amarezza di fondo ben esplicitata da un concept che racconta gli ultimi istanti dell’uomo sulla Terra, in un turbinio inesauribile di emozioni in cui le liriche non rivestono un ruolo affatto marginale, ma appaiono fondamentali esattamente quanto un struttura musicale che, come detto, si muove da una base prog rock per sconfinare nel folk (La Ronda di Ossa), senza dimenticare le radici metal che emergono soprattutto nella splendida title track.
Ma l’album è nient’altro che un percorso emotivo regalatoci da Lanzoni e dai suoi altrettanto bravi compagni d’avventura fin dalla prima ora (Luigi Iacovitti alla chitarra, Andrea Maurizzi al basso e Diego Molina alla batteria), nel corso del quale ci si imbatte in ogni istante in attimi di cristallina bellezza, in una forma d’arte talmente evoluta e perfetta in grado di commuovere lasciando un segno indelebile.
Sfido anche i meno sensibili a non provare qualche brivido quando Simone Lanzoni intona Terra su un toccante tappeto pianistico, un connubio che riporterà chi ha già qualche capello bianco ai momenti perduti nel tempo e ritenuti irripetibili del miglior Banco del Mutuo Soccorso, anche se chiaramente il vocalist non ha nulla in comune stilisticamente con il compianto Di Giacomo, se non una stessa intensità interpretativa ed un’espressività che non vengono mai meno, neppure nelle parti recitate o nei rari passaggi in growl.
In poco più di un’ora gli Eva Can’t rielaborano con grande competenza il meglio della tradizione rock/metal italiana, ammantando il tutto di un’aura poetica in grado di fare la differenza, con il suggello dei sedici minuti di straordinaria varietà e profondità della conclusiva Pittori Del Fulgido Astratto.
Se i tolemaici ascoltatori odierni del progressive avessero ancora orecchie per sentire, con la band bolognese avrebbero trovato finalmente un moderno punto di riferimento e qualcuno degno senza alcun dubbio di soppiantare diversi gruppi storici che, con tutto il dovuto rispetto ed altrettanta riconoscenza, negli ultimi decenni hanno vissuto solo della luce riflessa del proprio illustre passato; purtroppo (anche se spero di sbagliarmi) a gratificare della giusta attenzione un album di tale spessore saranno i soliti e deprecati “metallari” dalla mentalità più aperta, quelli che le emozioni le ricercano anche nel presente,  senza condizionamenti o pregiudizi di sorta.
Comunque sia, ascoltando Gravatum più volte con il giusto approccio, memorizzandone i passaggi e lasciandosi compenetrare dalla potenza lirica e drammatica del racconto, si arriverà al punto di non poterne più fare a meno, come è tipico delle opere musicali di livello superiore.

Tracklist
1. L’Alba Ci Rubò Il Silenzio
2. Apostasia Della Rovina
3. La Ronda Di Ossa
4. Oceano
5. Terra
6. Gravatum
7. Pittori Del Fulgido Astratto

Line-up:
Simone Lanzoni: guitars, vocals
Diego Molina: drums
Luigi Iacovitti: guitars
Andrea Maurizzi: bass

Guests:
keyboards by Andrea Roda
lead guitar on “Oceano” by Andrea Mosconi

EVA CAN’T – Facebook

Gentle Knife – Clock Unwound

Undici musicisti impegnati in quasi un’ora di sublime musica che spazia a 360° nella musica contemporanea, creando uno splendido esempio di musica progressiva.

Nei paesi scandinavi si suonano metal e rock in tutte le loro forme, dal rock ‘n’ roll al metal estremo, con tradizioni ormai consolidate non solo nel death e nel black metal, ma anche nell’hard & heavy e nel progressive, generi che hanno sempre trovato terreno fertile in quelle terre.

Seguendo la tradizione del progressive classico, i norvegesi Gentle Knife tornano con un nuovo album dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal loro primo ed omonimo lavoro uscito un paio d’anni fa.
Il gruppo, che ad oggi vede impegnati undici musicisti, una vera e propria orchestra rock, torna dunque con un’altra bellissima opera progressiva, prendendo spunto ed ispirazione dalla tradizione settantiana, ma tenendo più di un piede in questi primi anni del nuovo millennio.
Una musica cangiante, pregna di atmosfere soffuse, elegantemente rock come hanno insegnato i gruppi storici, ma che non disdegna sfumature moderne, intimiste e malinconiche tipiche dei migliori interpreti odierni.
Le note sprigionate dai Gentle Knife sono come l’acqua di un torrente nel mezzo della foresta norvegese, limpida e fluida nel suo scorrere tra le rocce, giocando con l’angusto letto come gli strumenti con lo spartito, a tratti spumeggianti ed elettrici, in altri melliflui e raffinati.
Poesia in musica come nelle migliori proposte del genere, l’album accoglie ed abbraccia una marea di idee e generi, passando dal progressive rock  ad attimi in cui le jam portano il gruppo su territori jazz e fusion, ad altri dove le trame intimiste creano un alone malinconico attorno al sound creato per Clock Unwonud.
Difficile trovare un brano che non abbia spunti fuori dal comune, anche se le mie preferite sono l’eccellente ed ariosa Smother e la crimsoniana Resignation, sunto del credo musicale dei Gentle Knife.
Undici musicisti impegnati in quasi un’ora di sublime musica che spazia a 360° nella musica contemporanea, creando uno splendido esempio di musica progressiva: quando il genere raggiunge certi livelli, rimane il punto più alto di un certo modo di intendere il rock.

Tracklist
1.Prelude: Incipit
2.Clock Unwound
3.Fade Away
4.Smother
5.Plans Askew
6.Resignation

Line-up
Astraea Antal – flutes, woodwinds and visuals
Pål Bjørseth – keyboards, vocals, trumpet
Odd Grønvold – basses
Thomas Hylland Eriksen – sax and woodwinds
Veronika Hørven Jensen – vocals
Håkon Kavli – vocals, guitars
Eivind Lorentzen – guitars and synths
Charlotte Valstad Nielsen – sax
Ove Christian Owe – guitars
Ole Martin Svendsen – drums, percussion
Brian M. Talgo – samples, words, vocals, visions and artwork

GENTLE KNIFE – Facebook

The Tangent – The Slow Rust Of Forgotten Machinery

Quest’ultimo lavoro dei The Tangent è stato scritto e suonato per progsters d’annata, su questo non c’è il minimo dubbio ed è a loro che è consigliato.

I The Tangent sono uno dei gruppi più importanti della generazione nata con l’arrivo del nuovo millennio, agli inizi di fatto un super gruppo che vedeva all’opera tre Flower Kings e due musicisti provenienti dai Parallel or 90 Degrees.

Il gruppo, capitanato di fatto da Andy Tillson, arriva al traguardo del tredicesimo album , tra full length e live in quindici anni di attività e tanti cambi di formazione che vedono, oltre al mastermind impegnato con le tastiere, il canto e per la prima volta su un album targato The Tangent, la batteria, Jonas Reingold (Karmakanic, The Flower Kings) al basso, Luke Machin alle chitarre e voci, Theo Travis al sax e al flauto e Marie-Eve de Gaultier alle tastiere e voci.
Una formazione che ancora una volta impegna musicisti di prim’ordine del progressive rock odierno e un’opera che riesce a risvegliare emozioni ormai sopite, almeno per quanto riguarda il progressive classico, senza esagerazioni metalliche e con tutta la classe che Andy Tillson e compari possiedono.
Cinque brani per settantacinque minuti di musica, salendo e scendendo per le scale progressive create dal gruppo, magari leggermente prolisse per gli ascoltatori del nuovo millennio, ma a tratti splendidamente eleganti e raffinate, mai troppo elettriche e forse questa caratteristica risulta l’unico tallone d’ Achille di The Slow Rust Of Forgotten Machinery.
L’album infatti alterna momenti di altissima arte musicale ad altri che cedono il passo, travolti dal fiume di note della notevole suite Slow Rust, cuore musicale di un album che a tratti fatica a decollare perdendosi in troppi e dilatati momenti soft al limite del jazz .
E’ un viaggio che l’ascoltatore vive alternando momenti di euforia musicale (Dr. Livingstone) a qualche sbadiglio, specialmente se non si è amanti conservatori del progressive rock classico.
Quest’ultimo lavoro dei The Tangent è stato scritto e suonato per progsters d’annata, su questo non c’è il minimo dubbio ed è a loro che è consigliato, mentre la conclusiva A Few Steps Down The Wrong Road regala piacevoli accordi frippiani e ritorna a disegnare sorrisi sul viso del sottoscritto.
In conclusione tra tante luci e poche ombre, un’ opera in grado di soddisfare gli amanti del genere e quindi i fans del gruppo di Andy Tillson.

Tracklist
1. Two Rope Swings
2. Dr. Livingstone (I Presume)
3. Slow Rust
4. The Sad Story Of Lead and Astatine
5. A Few Steps Down The Wrong Road

Line-up
Andy Tillison – Keyboards, vocals, drums
Jonas Reingold – Bass
Luke Machin – Guitars and vocals
Theo Travis – Saxes and flutes
Marie-Eve de Gaultier – Keyboards and vocals

THE TANGENT . Facebook

Final Coil – Persistence of Memory

I Final Coil hanno creato un mondo di note rock che vivono di tramonti musicali, un sound che risulta come una giornata che volge al termine e all’imbrunire si tirano le somme delle ultime dodici ore alle prese con il mondo circostante.

E’ più difficile di quanto possa sembrare riuscire a combinare ed amalgamare, in un unico sound, rock alternativo, post grunge e progressive, senza diventare delle copie dei soliti e alquanto depressivi Tool, anche se l’atmosfera rimane intimista in tutta la durata dell’album.

I Final Coil, con il primo lavoro sulla lunga distanza ci sono riusciti, creando un mondo di note rock che vivono di tramonti musicali, un sound che risulta come una giornata che volge al termine e all’imbrunire si tirano le somme delle ultime dodici ore alle prese con il mondo circostante.
Provenienti da Leicester (Regno Unito), con due ep alle spalle ed una fresca firma con la nostrana Wormholedeath, il quartetto britannico, si è nutrito di musica rock sparsa per il vecchio millennio e la rigetta nel nuovo, rielaborata sotto forma di un post rock progressivo ed emozionale, raffinato e mai sopra le righe: progressivo nella più moderna concezione del termine, anche se lasciano ad altri mere partiture tecniche per una proposta senz’altro più emozionale e sentita.
Un rock che non sconfina mai nel metal, mantenendo un approccio a tratti indie, mescolandosi così tra le proposte più cool di questo inizio millennio: Persistence Of Memory è pregno di post rock che varia nei suoi sessanta minuti abbondanti di musica e che prova, riuscendoci, a non erigere barriere, passando con disinvoltura tra i generi e le atmosfere citate.
Ci si deve fermare e dedicarvi tutto il tempo necessario perché brani come l’opener Corruption, la lunga e cangiante Failed Light, l’eleganza del post rock adulto di Lost Hope, facciano braccia in noi prolungando un tramonto ormai passato al buio nostalgico di una notte profonda illuminata dalla luna e dalle raffinate note progressive dei Final Coil.

TRACKLIST
1. Corruption
2. Dying
3. Alone
4. You Waste My Time
5. Myopic 6. Failed Light
7. Spider Feet
8. Lost Hope
9. Moths To The Flame
10. In Silent Reproach
11. Alienation

LINE-UP
Phil Stiles – Lead Vocals; Rhythm Guitar; Lead Guitar; Synths & Programming
Richard Awdry – Lead Guitar; Rhythm Guitar; Vocals; Programming
Jola Stiles – Bass Guitar; Flute
Tony ‘Ches’ Hughes – Drums & Programming

FINAL COIL – Facebook

Monnalisa – In Principio

In Principio è un ottimo lavoro di prog rock/metal cantato in italiano, nel quale i testi sono perfettamente inglobati in un personale ed elegante, in grado di soddisfare gli amanti del progressive e quelli del metal.

L’heavy metal classico e di matrice ottantiana si allea con il progressive, conquistando i cuori di entrambe le sponde con l’aiuto dei Monnalisa.

Il quartetto veneto, attivo dal 2009 e con un passato nelle vesti di cover band dei grandi classici da cui traggono ispirazione per comporre il loro materiale, ha raggiunto una stabilità nella line up nel 2013 ed il primo frutto è questo album, licenziato dalla Andromeda Relix,  label  che di buona musica se ne intende.
In Principio è un ottimo lavoro di prog rock/metal cantato in italiano, nel quale i testi sono perfettamente inglobati in un personale ed elegante, in grado di soddisfare gli amanti del progressive e quelli del metal.
Fin dall”opener Specchio si nota subito come il gruppo si affida ai tasti d’avorio di Giovanni Olivieri (anche cantante) per ricamare arabeschi di musica con raffinati scambi tra le tastiere e la chitarra di Filippo Romeo, accompagnati da una sezione ritmica efficace ma mai invadente composta da Manuele ed Edoardo Pavoni (rispettivamente basso e batteria).
La cosa straordinaria di questo lavoro è che, chiunque abbia un minimo di cultura musicale, potrà trovare una nota o una sfumatura che lo portera a riconoscere non solo le influenze del gruppo, ma le proprie preferenze tra il rock progressivo settantiano , l’hard rock ed il metal del decennio successivo, tutti elementi perfettamente inseriti nello spartito sontuoso di In Principio.
L’intro purpleiano di Il segreto dell’alchimista, la metallica epicità di Infinite Possibilità, il prog metal della spettacolare Oltre e la raffinate melodie di Viaggio Di Un Sognatore vanno a comporre la gran parte di questo bellissimo debutto, prodotto negli Opal Arts di Fabio Serra, leader dei Røsenkreütz.
Un album che sembra arrivare da un’altra epoca, ma che per magia è perfettamente a suo agio in questo inizio millennio, con le sue ispirazioni e la voglia di far sognare almeno per una quarantina di minuti, giusto il tempo per vivere le atmosfere di questa bellissima raccolta di canzoni che smette di regalare emozioni solo alla fine della splendida Ricordi.

TRACKLIST
1.Specchio
2.Il Segreto Dell’Alchimista
3.Catene Invisibili
4.Infinite Possibilità
5.Oltre
6.Viaggio Di Un Sognatore
7.Ricordi

LINE UP
Manuele Pavoni – Bass
Edoardo Pavoni – Drums
Filippo Romeo – Guitars
Giò Olivieri – Vocals, Keys

MONNALISA – Facebook

Nad Sylvan – The Bride Said No

Valorizzato da un una serie di ospiti d’eccezione, l’album è un tuffo nella musica progressiva più elegante, dove non mancano teatralità, melodie da pomp rock e tanta poesia.

Progressive rock d’autore sulle pagine di MetalEyes con Nad Sylvan, conosciuto nell’ambiente del genere per essere il cantante di Steve Hackett e degli Agents Of Mercy.

The Bride Said No è il secondo lavoro solista per il vocalist, dopo Courting The Widow uscito un paio di anni fa.
Il progressive rock creato da Sylvan nasce tra lo spartito dei gruppi settantiani, (in particolari i Genesis) per toccare lidi new prog, sempre e comunque di derivazione britannica.
Valorizzato da un una serie di ospiti d’eccezione come Roine Stolt, Steve Hackett, Guthrie Govan, Tony Levin, Jonas Reingold, Nick D’Virgilio, Doane Perry e molti altri, l’album è un tuffo nella musica progressiva più elegante, dove non mancano teatralità, melodie da pomp rock e tanta poesia con un Sylvan ispirato e perfettamente calato nei panni di nuovo Peter Gabriel.
Ed infatti, per chi non conoscesse ancora i lavori del cantante, sia solisti che in aiuto allo storico chitarrista dei Genesis, ricordo che Gabriel rimane la sua fonte primaria d’ispirazione.
Dopo l’intro, The Quartermaster irrompe con le tastiere che seguono strade progressive alla Arena/Pendragon, quindi new prog alla massima potenza, mentre When The Music Dies è più smaccatamente pop.
The White Crown è un bellissimo brano classicamente progressive, tra Genesis e E.L .P, uno dei migliori di questo album assieme alla teatrale Crime Of Passion, sottolineata da una prestazione sontuosa del cantante.
A French Kiss An A Italian Cafe, brano altalenante, fa da preludio ai dodici minuti della title track, perfetto esempio del sound in mano al vocalist, perennemente in bilico tra tradizione settantiana e le sonorità della generazione di prog band inglesi degli anni novanta.
In conclusione, un buon ritorno per Nad Sylvan il quale, pur senza far gridare al capolavoro ed aiutato da una manciata di maestri del genere, esce con un album piacevole e ricco di sfumature ed atmosfere indimenticabili per gli amanti del migliore rock progressivo.

TRACKLIST
1 Bridesmaids
2 The Quartermaster
3 When The Music Dies
4 The White Crown
5 What Have You Done
6 Crime Of Passion
7 A French Kiss In An Italian Café
8 The Bride Said No

LINE-UP
Nad – vocals, guitars, piano, keyboards, acoustic guitar, orchestration, programming
Jade Ell – vocals
Sheona Urquhart – vocals, saxophone
Tania Doko – vocals
Steve Hackett – guitar
Roine Stolt – guitar
Guthrie Govan – guitar
Tony Levin – Chapman stick, upright- and electric bass
Jonas Reingold – bass
Nick D ́Virgilio – drums, percussion
Doane Perry – drums
Anders Wollbeck – additional sound design, keyboards, programming, orchestration
Alfons Karabuda – water phone

NAD SYLVAN – Facebook

Loathe – The Cold Sun

Malato e contagioso il sound di questo gruppo che riesce a nobilitare nella sua terribile vena estrema un genere inflazionato come il metalcore, trasformandolo in una creatura malvagia, sadica e fredda come un sole morto.

La colonna sonora di un apocalisse,  dove il raffreddamento del Sole porta alla salita in superficie dell’inferno e delle sua distruttive fiamme, si chiama The Cold Sun, primo full length dei Loathe, misteriosa creature britannica che fino ad ora aveva licenziato un primo album (Despondent By Design) nel 2010.

Trentacinque minuti di delirio estremo, moderno e progressivo, oscuro e maturo, per un salto nell’atmosfera devastante di una fine del mondo tra sfuriate metalcore violentissime ed attimi di fredda quiete dark.
Ma non solo, nella musica estremamente teatrale del gruppo vivono le anime schiave dell’hardcore e del groove metal, le ritmiche pesantissime che diventano frustate veloci e taglienti, mentre l’elettronica aggiunge atmosfere glaciali al già freddo mood che si respira tra le note di questo originale e quanto mai estremo lavoro.
C’è metalcore e metalcore, quello dei Loathe è pregno di musica disturbante, un groviglio di umori che come serpenti si si avvolgono e si nutrono a vicenda, una musica cannibale, ingorda di suoni e sfumature che si evincono dall’ascolto di brani intensi come It’s Yours, East Of Eden o la tremenda P.U.R.P.L.E.
Malato e contagioso il sound di questo gruppo che riesce a nobilitare nella sua terribile vena estrema un genere inflazionato come il metalcore, trasformandolo in una creatura malvagia, sadica e fredda come un sole morto.
Un ottimo lavoro, non per tutti ma consigliato agli amanti del metal estremo con ampie vedute e non prigionieri di confini tra generi.

TRACKLIST
1. The Cold Sun
2. It’s Yours
3. Dance On My Skin
4. East Of Eden
5. Loathe
6. 3990
7. Stigmata
8. P. U.R.P.L.E
9. The Omission
10. Nothing More
11. Never More
12. Babylon

LINE-UP
Kadeem France – vocals
Erik Bickerstaffe – guitar & vocals
Shayne Smith – bass & vocals
Connor Sweeney – guitar & vocals
Sean Radcliffe – drums

LOATHE – Facebook

Sollertia – Light

I Sollertia colpiscono nel segno al primo colpo, rilasciando un album di rara bellezza ed intensità e che possiede la freschezza di un approccio progressivo unito ad un dolente incedere affine per impatto al doom più melodico.

Da un’altra di quelle etichette europee dalle uscite rade ma sempre di qualità, come è la francese Apathia Records, arriva l’esordio dei Sollertia, intitolato Light.

Il duo è composto dal francese VoA VoXyD (con un passato nei gotici Ad Inferna), che si occupa interamente della parte musicale e compositiva, e dal più noto James Fogarty, vocalist britannico conosciuto anche come Mr.Fog, attualmente titolare del ruolo nei grandi In The Woods, nonché detentore del progetto solista Ewigkeit.
Nonostante alcuni indizi derivanti dal passato dei due musicisti possano farlo pensare, in realtà il sound dei Sollertia si rivela estremo solo in pochi frangenti (The Devil Seethe), andandosi invece a collocare in un ambito che si potrebbe definire, a grandi linee, sotto la sfera di influenza dei Katatonia, e comunque andando ad abbracciare le diverse sfumature che si diramano da quel settore musicale ricco di realtà talentuose e nel quale si possono annoverare, con tutte le distinzioni del caso, anche Anathema ed Antimatter.

Infatti, in maniera affine alle band citate, Light offre una serie di brani per lo più avvolti da linee malinconiche, anche se i Sollertia ci mettono di loro una propensione progressiva ed un notevole carico di tensione che pervade il disco per l’intero sviluppo.
Le undici tracce si snodano, così, sempre in maniera convincente, grazie ad una pulizia sonora volta a solleticare con buona continuità la sfera emotiva dell’ascoltatore, alla quale contribuiscono in maniera decisiva sia l’interpretazione vocale di grande spessore da parte di Fogarty (coadiuvato in tre brani dall’ospite Vanja Obscure), sia lo splendido lavoro chitarristico di VoA VoXyD; non penso di esagerare defininendo Light uno dei migliori album usciti finora nel 2017, in virtù di un sound che, nonostante appia a tratti fruibile, gode contestualmente di una grande profondità.
Qui la luce evocata dal titolo è in realtà quella che, nella copertina, si fa largo tra le nubi e la nebbia: un qualcosa di tenue e soffuso che prelude ad un’oscurità mai del tutto assoluta, derivante da una sensibilità lirica e musicale che assume un sentire cosmico nei suo momenti più alti (le meravigliose Pascal’s Wager, Enter The Light Eternal, Praying At The Chapel Perilous, Mathematical Universe Hypothesis e Sisyphean Cycle).
I Sollertia colpiscono nel segno al primo colpo, rilasciando un album di rara bellezza ed intensità e che possiede la freschezza di un approccio progressivo unito ad un dolente incedere affine per impatto al doom più melodico: difficile chiedere di meglio ad un lavoro che, per il suo valore, si colloca come minimo all’altezza delle ultime uscite delle citate band di riferimento.

Tracklist:
1. Adducantur
2. Abstract object theory
3. Pascal’s wager
4. Enter the light eternal
5. Praying at the chapel perilous
6. The devils seethe
7. Mathematical universe hypothesis
8. Dark night of the soul
9. Sisyphean cycle
10. Positive disintegration
11. Light

Line up:
James Fogarty : Lyrics & Vocals
VoA VoXyD : Instruments & Composition

Vanja Obscure : Vocals on #3, #6 and #10

SOLLERTIA – Facebook

Acid Death – Balance Of Power

Il suono di Balance Of Power non è un mero recupero, ma un’intelligente riproposizione di un prodotto molto valido, ieri come oggi, perché è un disco di valore assoluto, ancor di più se si considera che sarebbe dovuto essere l’esordio degli Acid Death.

Dopo 25 anni di attesa, arriva il disco che sarebbe dovuto essere il debutto dei pionieri greci Acid Death.

Grazie alla Floga Records possiamo ascoltare rimasterizzato questo mini lp che non vide mai la luce. Questa storia a lieto fine cominciò nel 1991 quando si formarono e tutti i componenti erano sotto i venti anni. In quei tempi erano davvero pochi gli studi di registrazione agibili per un gruppo metal, ed il migliore era il Praxis Studios di Atene. Con lo studio pagato per 40 ore e nessuna esperienza nell’uso del registratore analogico a sedici tracce, i ragazzi riuscirono, come possiamo ascoltare oggi, a fare un buon lavoro anche perché dotati di notevole talento. Infatti, riascoltandolo, si rimane francamente stupiti di fronte a questo mini lp di esordio, perché tanti gruppi molto più blasonati al giorno d’oggi fanno molto, ma molto peggio di ciò in cui riuscirono all’epoca questi ragazzini greci. Il lavoro in origine sarebbe dovuto uscire per la greca Black Power Records, ma problemi finanziati ritardarono ed infine ne cancellarono l’uscita. L’anno dopo l’altrettanto greca Molon Lane Records, attiva dal 1990 al 1996, pubblicò due tracce del mini lp in quello che diventò l’esordio del gruppo, l’ep Apathy Murders Hope, che è appunto il titolo di una delle due tracce. Da lì partì il volo di questa band attiva fino al 2001, riformatasi nel 2011 ed ancora attiva. Balance Of Power è un grande disco di death tecnico e fortemente incline al prog, con impalcature sonore molto interessanti, un suono fortemente anni novanta, ma già molto maturo e consapevole delle proprie potenzialità. Il recupero di questo disco aggiunge maggior valore ad un lunga carriera, che ha sempre dato buoni frutti, ma che soprattutto può dare ancora molto. Il suono di Balance Of Power non è un mero recupero, ma un’intelligente riproposizione di un prodotto molto valido, ieri come oggi, perché è un disco di valore assoluto, ancor di più se si considera che sarebbe dovuto essere l’esordio discografico di questi (all’epoca giovanissimi) greci.

TRACKLIST
Side A
1) Psychosis
2) Apathy Murders Hope
3) Civil War
4) Death From Above

Side B
1) Balance Of Power
2) Twilight Spirits
3) State Of Paranoia

LINE-UP
Savvas Betinis – bass & vocals
Dennis Kostopoulos – lead & rhythm guitars
John Anagnostou – lead & rhythm guitars
Kostas Alexakis – drums & percussion

ACID DEATH – Facebook

Dark Ages – A Closer Look

L’incontro tra il progressive rock ed il metal, avvenuto nei primi anni novanta, ha portato una ventata di freschezza al primo, genere tendenzialmente conservatore (più tra gli ascoltatori che tra i musicisti, ad onor del vero) ed un tocco di eleganza e raffinatezza tecnica al secondo, creando di fatto un genere parallelo (il prog metal) anche se non mancano proposte come quella dei veterani Dark Ages,  classica band progressive alla quale, a tratti, non mancano verve e grinta metallica.

Il gruppo fondato da Simone Calciolari, chitarrista ed unico membro rimasto della formazione originale datata 1982, licenzia il suo quarto studio album per l’Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa, dopo le fatiche per aver portato in teatro le due parti del concept Teumman, opera ambiziosa piaciuta non poco nell’ambiente del progressive rock.
Dopo l’entrata in formazione di Roberto Roverselli alla voce e Gaetano Celotti al basso, arriva il momento di A Closer Look, album che conferma quanto di buono i Dark Ages hanno fatto in questi anni.
Non mancano alcuni ospiti, come i cantanti Claudio Brembati (Anticlockwise), Ilaria L’Abbate e Tiziano Taffuri, il sax di Enrico Bentivoglio (Against The Tides) ed il recitato di Paul Crespel in Fading Through the sky, a completare ed impreziosire un’ altra opera rock/metal in arrivo dalla scena nazionale.
A Closer Look, nella sua interezza, è un susseguirsi di tensione emotiva ed atmosfere eleganti, un rincorrersi tra la parte più rock e rilassata del progressive e quella animata dall’irruenza del metal, tra cambi di tempo perfetti ed un lavoro sontuoso sui tasti d’avorio che orchestrano a meraviglia gli umori cangianti di perle progressive come At The Edge Of Darkness, cuore pulsante di questo lavoro, dieci minuti di melodie progressive sapientemente metalliche che sfumano nelle armonie delicate create da sax e piano in Against The Tides.
Il gruppo conosce molto bene la materia e le scale armoniche che riempiono la title track e la bellissima Yours non mancheranno di strappare un sorriso agli amanti del genere collocandosi tra Dream Theater e Yes, due generazioni di musica progressiva che si incontrano senza scontrarsi nella musica dei Dark Ages.
Una velata sfumatura epica aleggia su A Closer Look, particolare di non poco conto, importantissimo per riuscire a far breccia nei cuori ribelli dei progsters dall’anima metal e rendere l’album uno dei migliori esempi di musica progressiva uscita dal nostro paese in questa prima metà del 2017.

TRACKLIST
01. A Closer Look
02. Till the Last Man Stands
03. Yours
04. At the Edge of Darkness
05. Against the Tides
06. The Anthem
07. Fading Through the Sky

LINE-UP
Simone Calciolari – Guitars
Gaetano Celotti – Bass
Roberto Roverselli – Vocals
Carlo Busato – Drums
Angerla Busato – Keyboards

DARK AGES – Facebook

A Closer Look nella sua interezza è un susseguirsi di sali e scendi di tensioni ed atmosfere eleganti, un rincorrersi tra la parte più rock e rilassata del progressive e quella animata dall’irruenza del metal.

From The Dust Returned – Homecoming

Un debutto davvero sorprendente per un gruppo che riesce nella non facile impresa di risultare classicamente progressivo pur usando note, sfumature ed attitudine fuori dai cliché conservatori del genere.

Dopo varie vicissitudini che hanno portato il gruppo a rimodellare la formazione, Homecoming finalmente vede la luce tramite la Sliptrick Records e la carriera di questa ottima band progressive può prendere il via.

Stiamo parlando dei From The Dust Returned, gruppo nostrano che vede all’opera due membri degli storici Graal (Danilo Petrelli e Cristiano Ruggero, rispettivamente tastiere e batteria) e del suo debutto in formato ep, una mezzora di musica progressiva, tra tradizione settantiana, metal estremo ed atmosfere dark.
Ogni brano prende ispirazione da patologie psichiatriche, un viaggio in più di una mente malata di schizofrenia, clinofobia e depressione e la musica che supporta il concept non può che essere cangiante, tragica, oppressivamente estrema e dark, seguendo appunto i deliri provocati dalla sofferenza che malattie del genere comportano.
L’album si apre con Harlequeen, sunto del sound prodotto dai From The Dust Returned, con armonie acustiche post dark ammantate di prog metal teatrale che ci accompagnano in questo viaggio nella mente umana: la voce pulita, a tratti declamatoria, si scontra con il growl, mentre i tasti d’avorio disegnano arabeschi di progressive rock;
l’atmosfera delle varie tracce si può senz’altro dichiarare estrema, perennemente in tensione e attraversata da notevoli cambi di tempo e parti acustiche suggestive.
In un sound in cui l’anima progressiva classica è preponderante, il growl ed i vari toni vocali usati fanno la differenza, così come il gran lavoro delle tastiere, mentre la parte estrema permette a brani come Echoes Of Faces e Wipe Away The Rain di acquistare un tocco di originalità in più, elevando Homecoming al rango di lavoro da apprezzare in tutte le sue sfumature.
Un debutto davvero sorprendente per un gruppo che riesce nella non facile impresa di risultare classicamente progressivo pur usando note, sfumature ed attitudine fuori dai cliché conservatori del genere.

TRACKLIST
01. Harlequeen
02. Homecoming
03. Echoes of faces
04. Glare
05. Wipe away the rain
06. Sleepless

LINE-UP
Alex De Angelis – Vocals, Guitars
Marco del Bufalo – Vocals
Miki Leandro Nini – Bass
Danilo Petrelli- Keyboards
Cristiano Ruggiero – Drums

FROM THE DUST RETURNED – Facebook

Witchwood – Handful Of Stars

Siamo al cospetto di un gruppo straordinario che mette in fila tante realtà molto più blasonate

Con un po’ di ritardo rispetto all’uscita, torniamo a parlare degli Witchwood, i rockers nostrani, nati dalle ceneri dei Buttered Bacon Biscuits, che ci avevano entusiasmato con il loro primo full length, quel Litanies From The Woods che risultava una bellissima jam tra hard rock, folk, psichedelia e progressive, il tutto a formare un arcobaleno di suoni vintage d’alta scuola.

Handful Of Stars è la seconda uscita ufficiale in pochi mesi, un ep della durata di quarantacinque minuti, e la band anche qui non fa sconti con un songwriting che rimane di altissimo livello grazie a cinque perle rock retrò quanto si vuole, ma affascinanti ed attraversate da attimi di pura magia.
Il gruppo vede un primo cambio nella line up, il nuovo chitarrista Antonio Stella, e Handful Of Stars ci offre, oltre alle cinque nuove canzoni, due cover d’autore: Flaming Telepaths dei Blue Oyster Cult e Rainbow Demon degli Uriah Heep.
Gli Witchwood si confermano uno dei gruppi più convincenti nel saper ricreare le atmosfere in voga negli anni settanta, maestri nel saper coniugare una vena hard rock classica ricca di sfumature e suoni che, come strisce di colori nel cielo, formano un arcobaleno musicale ispirato ai gruppi storici ma sapientemente amalgamato in un sound unico.
Ed allora lasciatevi rapire dall’opener strumentale Presentation: Under The Willow, che tanto sa di Jethro Tull, o dall’hard rock classico, sempre velato di un’aura magica, delle bellissime Like A Giant In a Cage e A Grave Is The River, dalle atmosfere folk progressive della stupenda Mother, dalle ottime e personali interpretazioni delle due cover, per finire con la versione alternativa di Handful Of Stars, con le tastiere che, per qualche minuto, ricordano i Goblin, per tornare a jammare tra Pink Floyd e Jethro Tull in un sontuoso e organico fiume progressivo.
Siamo al cospetto di un gruppo straordinario che mette in fila tante realtà molto più blasonate: in questi anni in cui il il ritorno a certe sonorità riscuote grande interesse, specialmente nel nord Europa, l’acquisto di questo lavoro è dunque consigliato e va a comporre, con il primo lavoro, un inizio di carriera qualitativamente folgorante.

TRACKLIST
1.Presentation: Under The Willow
2.Like A Giant In A Cage
3.A Grave Is The River
4.Mother
5.Flaming Telepaths
6.Rainbow Demon
7.Handful Of Stars (New Version)

LINE-UP
Riccardo “Ricky” Dal Pane – Vocals, Guitars, percussion
Antonino Stella – Guitars
Stefano “Steve” Olivi (Hammond, Piano, Synth, Mood
Samuele “Sam” Tesori – Flute
Luca “Celo” Celotti – Bass
Andrea “Andy” Palli – Drums

WITCHWOOD – Facebook