The Royal – Deathwatch

Talento e consapevolezza nei propri mezzi, ma anche una grande conoscenza di ciò che possa far saltare il pubblico ad un concerto, questi sono tutti elementi che depongono a favore dei The Royal, per uno degli album metalcore migliori del 2019.

I tanti che affermano che il metalcore è un metal depotenziato e per ragazzini dovrebbero ascoltare questo ultimo lavoro degli olandesi The Royal, un concentrato di mazzate spaccaossa.

Giunti con Deathwatch al loro secondo disco, i nostri ne hanno fatta di strada dall’uscita del debutto Seven, che li ha portati in giro per il mondo e, specialmente, per quattro settimane fra Cina e Giappone. Deathwatch è quanto di meglio possa offrire la scena metalcore attuale, è un lavoro molto potente, versatile e curatissimo in tutti i suoi aspetti. Il suono dei The Royal parte dal metalcore per poi generare un groove davvero importante e che è devastante in sede live. Rispetto al precedente e già buono Seven, qui il suono acquista maggiore potenza ed uno scorrevolezza maggiore. Nel loro magma sonoro le chitarre sono molto precise e taglienti, il basso supporta in maniera puntuale una batteria devastante, e gli inserti di tastiere sono molto originali e arricchiscono notevolmente il tutto. Il nuovo lavoro è inoltre molto più oscuro del precedente, scandagliando in maniera più approfondita l’animo umano, e il buio arriva subito. Inoltre si sente distintamente che questi ragazzi provengono dall’underground e sono abituati alla logica del do it yourself, e tutto ciò è una spinta notevole al miglioramento. L’energia sprigionata in questo disco è notevole e non lascia spazio a fraintendimenti. I The Royal sono qui per dominare la scena e con dischi come questo ci riusciranno sicuramente. Rispetto alla media degli altri dischi metalcore questo è un massacro dall’inizio alla fine, e le parti più melodiche sono ancora più inquietanti di quelle più veloci. Talento e consapevolezza nei propri mezzi, ma anche una grande conoscenza di ciò che possa far saltare il pubblico ad un concerto, questi sono tutti elementi che depongono a favore dei The Royal, per uno degli album metalcore migliori del 2019.

Tracklist
1. Pariah
2. Savages
3. State of Dominance
4. Soul Sleeper
5. Deathwatch (feat. Ryo Kinoshita)
6. Exodus Black
7. Nine for Hell
8. Lone Wolf
9. Avalon
10. Glitch

Line-up
Sem Pisarahu – Vocals
JD Liefting – Guitars
Pim Wesselink – Guitars
Youri Keulers – Bass
Tom van Ekerschot – Drums

THE ROYAL – Facebook

Gorgon – Elegy

Un lavoro riuscito questo Elegy, il cui sound ripropone i cliché usati a suo tempo dai gruppi più famosi, ma non manca di regalare momenti pregni di epiche sinfonie perfettamente incastonate tra le trame estreme del gruppo parigino.

I Gorgon sono una band transalpina attiva da una manciata d’anni e con un debutto alle spalle uscito tre anni fa (Titanomachy).

Capitanati dal polistrumentista Paul Thureau, arrivano al loro secondo lavoro con Elegy, un’opera che al metal estremo aggiunge parti sinfoniche ed atmosfere melodiche orientali.
Ne esce un buon esempio di quel lato sinfonico del death/black portato agli onori da Bal Sagoth e Dimmu Borgir, anche se l’anima esotica del sound differenzia la band dai loro più illustri colleghi.
In un opera del genere è forte un approccio progressivo che si evince tra le trame di brani dal piglio magniloquente come Nemesis o The Plague, con il concept che venera la donna come creatrice di vita dedicando a Eva e Pandora, a Ecate e Maria Vergine alcune delle tracce dell’album.
Ottimo è il lavoro vocale di Safa Heraghi (Dark Fortress, Devin Townsend Project, Schammasch) e di Felipe Munoz (Finntroll, Frosttide): la voce eterea della cantante, presente su tutti i brani, dona crea un’atmosfera ancora più epica e sognante all’album che non teme lo scorrere dei minuti ed arriva alla sua conclusione tra sinfonie e cavalcate metalliche dal buon impatto emotivo.
Un lavoro riuscito questo Elegy, il cui sound ripropone i cliché usati a suo tempo dai gruppi più famosi, ma non manca di regalare momenti pregni di epiche sinfonie perfettamente incastonate tra le trame estreme del gruppo parigino.

Tracklist
1.Origins
2. Under a Bleeding Moon
3. Nemesis
4.The Plagues
5.Into The Abyss
6.Ishassara
7.Of Divinity and Flesh
8.Elegy

Line-up
Aurel Hamoniaux – Bass, Vocals (backing)
Julien Amiot – Guitars
Paul Thureau – Vocals, Guitars, Bouzouki, Orchestrations
Charles Phily – Drums, Vocals (choirs)

GORGON – Facebook

Steve Hackett – At The Edge Of Light

At The Edge Of Light è probabilmente uno dei migliori album di Hackett da diversi anni a questa parte in virtù di un tocco chitarristico non solo unico, come sempre, ma anche ispirato e capace di evocare in maniera costante quelle emozioni che ogni ascoltatore ricerca.

Non c’è dubbio che tra gli eroi dell’epopea prog settantiana Steve Hackett sia oggi uno dei più amati, non solo per ciò che ha rappresentato ma anche e soprattutto perché è rimasto uno dei pochi che continua ed essere in piena attività, non limitandosi a portare in giro per il modo le immortali sonorità dei Genesis ma offrendo anche con una certa regolarità nuovi album, sempre di ottimo livello e contraddistinti da una classe innata.

Non fa eccezione questo ultimo At The Edge Of Light, quello che viene considerato ufficialmente il venticinquesimo full length di inediti della serie, che anzi è probabilmente uno dei migliori da diversi anni a questa parte in virtù di un tocco chitarristico non solo unico, come sempre, ma anche ispirato e capace di evocare in maniera costante quelle emozioni che ogni ascoltatore ricerca.
Infatti Steve, pur non rinunciando alle parti cantate, delle quali si occupa in prima persona, almeno per quanto riguarda la voce maschile, si lascia andare senza particolari remore ad una serie di brani in cui vengono spesso rievocati i fatti del passato asservendo le composizioni allo strumento principe e sfruttando, come sempre, la tecnica sopraffina dei  compagni di viaggio di turno.
Non mancano neppure qui, in ogni caso, quegli accenni etnici alla cui fascinazione Hackett non si sottrae, esibendoli specialmente in un brano come Shadow And Flame, ai quali vengono in altri frangenti associate sfumature tra il gospel ed il country/blues che vengono racchiuse in Underground Railroad, a dimostrazione di quanto questo magnifico musicista non rinunci a ricercare diverse soluzioni espressive, nonostante un’età ed uno status che gli potrebbero consentire di viaggiare agevolmente con il pilota automatico inserito, all’interno del genere che ha contribuito a portare al successo.
La musica per questo grande artista è anche il veicolo ideale per diffondere un messaggio di pace e fratellanza, un qualcosa del quale mai come di questi tempi si sente un forte bisogno, specialmente quando giunge da una voce così autorevole e, in effetti, nelle sonorità contenute in At The Edge Of Light non è difficile cogliere un senso di ecumenismo che va oltre i già citati richiami etnici.
Non è quindi solo un sentore nostalgico quello che spinge a farsi cullare senza troppe remore dal tocco unico di Steve, messo al servizio di brani più lineari e sognanti come Hungry Years (con la voce di Amanda Lehmann) oppure dall’incedere solenne di Descent (nella quale si colgono accenni dell’intro di Watcher Of The Sky), o da quello più drammatico di Conflict, che va a formare con quella precedente una magistrale coppia di tracce strumentali.
Se a questo quadro aggiungiamo altre canzoni splendide come Beasts In Our Time, Under The Eye of the Sun (brano che sembra quasi omaggiare gli Yes, e conseguentemente l’amico scomparso Chris Squire) e Those Golden Wings, a livello di consuntivo non resta altro che ringraziare il chitarrista inglese per averci donato ancora un’altra prova del suo smisurato talento artistico, e pazienza se poi, durante la sua incessante attività dal vivo, il nostro alla fine cede alla tentazione di offrire al pubblico ciò che più vuole ascoltare, ovvero i cavalli di battaglia dei Genesis: le leggende si possono solo amare, e per quanto mi concerne la libertà di critica in casi simili andrebbe abolita per decreto …

Tracklist:
1 Fallen Walls and Pedestals
2 Beasts In Our Time
3 Under The Eye of the Sun
4 Underground Railroad
5 Those Golden Wings
6 Shadow and Flame
7 Hungry Years
8 Descent
9 Conflict
10 Peace

Line-up:
Steve Hackett – chitarre elettriche e acustiche, dobro, basso, armonica, voce
Gulli Briem – batteria, percussioni
Dick Driver – contrabbasso
Benedict Fenner – tastiere e programmazione
John Hackett – flauto
Roger King – tastiere, programmazione e arrangiamenti orchestrali
Amanda Lehmann – voce
Durga McBroom – voce
Lorelei McBroom – voce
Malik Mansurov – tar
Sheema Mukherjee – sitar
Gary O’Toole – batteria
Simon Phillips – batteria
Jonas Reingold – basso
Paul Stillwell – didgeridoo
Christine Townsend – violino, viola
Rob Townsend – sax tenore, flauto, duduk, clarinetto
Nick D’Virgilio – batteria

STEVE HACKETT – Facebook

The Shiver

Il video di “Light Minutes live @ Manchester Academy”, dall’album “Adeline” (Wormholedeath).

Il video di “Light Minutes live @ Manchester Academy”, dall’album “Adeline” (Wormholedeath).

I rocker italiani The Shiver sono orgogliosi di annunciare la ripubblicazione del loro album “Adeline” via Wormholedeath.
“Adeline” sarà disponibile su tutti gli stores digitali a partire dal 15 Marzo 2019 e conterrà la bonus track “Light Minutes live @ Manchester Academy”.

1.Awaiting
2.Adeline
3.Rejected
4.Wounds
5.How Deep Is Your Heart, How Dirt Is Your Soul
6.Light Minutes
7.High
8.Pray
9.Miron-Aku
10.Electronoose
11. Light Minutes live @ Manchester Academy***

Hiss From The Moat – The Harrier

The Harrier è di fatto un bombardamento sonoro dove tradizione e sfumature moderne trovano la loro perfetta alchimia, in un metal estremo di matrice death/black, derivativo quanto si vuole ma che lascia comunque una sensazione di forte personalità in chi l’ha creato e suonato.

Tornano con un nuovo devastante lavoro gli Hiss From The Moat, band che vede l’ex Vital Remains e Hour Of Penance James Payne insieme ad un trio di musicisti nostrani (Carlo Cremascoli al basso, Giacomo “Jack” Poli alla chitarra ed il neo arrivato Massimiliano Cirelli alla chitarra e alla voce).

Un gruppo dal taglio internazionale a tutti gli effetti, tornato dopo sei anni dal precedente Misanthropy, album che ne vedeva il debutto sulla lunga distanza, ed ora sul mercato estremo con The Harrier, opera che continua la crescita del gruppo in una notevole realtà death/black metal.
Registrato, mixato e masterizzato allo SPVN Studio di Milano con Stefano Orkid Santi, The Harrier è di fatto un bombardamento sonoro dove tradizione e sfumature moderne trovano la loro perfetta alchimia, in un metal estremo di matrice death/black, derivativo quanto si vuole ma che lascia comunque una sensazione di forte personalità in chi l’ha creato e suonato.
Un gruppo che sa quel che vuole e trasmette questa sensazione di convincente sicurezza in chi ascolta: non male davvero per questi paladini del death/black devastante e nero come la pece.
Politica, religione ed altre piaghe che nei secoli hanno distrutto l’umanità e la sua storia, vengono raccontate attraverso un metal estremo appesantito da uno strato di catrame musicale, nero, viscido ed impermeabile a qualsivoglia forma di pentimento, in una corsa verso l’abisso a colpi di violento metallo che se continua ad ispirarsi alla scena dell’est europeo trova una sua precisa identità in brani apocalittici come la title track, nella nera epicità smossa dall’epica Slaves To War e nel black metal alla Behemoth di God Nephasto.
In conclusione, un ritorno assolutamente da non perdere che conferma le buone qualità del gruppo transcontinentale, una delle più convincenti realtà della scena estrema degli ultimi anni.

Tracklist
1.The Badial Despondency
2.The Harrier
3.I Will Rise
4.The Passage to Hell
5.Slaves to War
6.Sine Animvs
7.The Abandonment
8.The Allegory of Upheaval
9.God Nephasto
10.Unperishing
11.The Decay of Lies

Line-up
Max Cirelli – Vocals/Guitar
James Payne – Drums
Jack Poli – Guitar
Carlo Cremascoli – Bass

HISS FROM THE MOAT – Facebook