Come preannunciato all’inizio dell’estate, l’attività di MetalEyes è cessata ufficialmente dal 31 agosto con la pubblicazione dell’ultima recensione.
Il sito rimarrà comunque online ancora per un periodo non quantificabile (la cosa non dipende più da noi ma chi lo cura dal punto di vista informatico) e quindi chi vorrà potrà sempre avere accesso agli oltre tremila articoli ivi contenuti.
Con l’occasione ribadiamo che, ovviamente, qualsiasi richiesta che ci perverrà non verrà più esaudita e che, di conseguenza, se non si risponde non è per mera scortesia ma sostanzialmente solo perché la notizia della nostra chiusura è di dominio pubblico da oltre due mesi e chi di dovere ha avuto tempo e modo d’esserne messo al corrente.
Per quanto ci riguarda, sarà sempre un piacere presenziare ai concerti e ovunque ci sia “musica che gira intorno”, più avanti… chissà.
Grazie di nuovo a tutti i voi per il sostegno fornitoci in questi tre anni.
Esogenesi – Esogenesi
I quattro lunghi brani, inframmezzati da un breve strumentale, testimoniano in ogni frangente lo spessore già ragguardevole raggiunto dagli Esogenesi al loro primo passo, sicuramente non più lungo della gamba in quanto preparato con tempi debitamente lunghi come si conviene a chi si dedica ad un genere per sua natura antitetico a tutto ciò che appare frettoloso o superficiale.
E’ arrivato così il momento di sedersi un’ultima volta davanti a una tastiera cercando di raccontare su MetalEyes, a chi abbia voglia di leggere, tutta la gamma di sensazioni e riflessioni che scaturiscono dall’ascolto di un disco.
Quello in questione è l’esordio dei milanesi Esogenesi, giovane band che sceglie di cimentarsi nel genere più anticommerciale per antonomasia in ambito metal, come è il doom nella sua veste più estrema.
La ricerca di un’espressione artistica “impopolare” conferisce ai nostri quella dose di peculiarità che, per i motivi che ho già spiegato diverse volte, non va ricercata in questa dolente nicchia musicale e, quindi, neppure si evince dal contenuto musicale di un lavoro che trae linfa dalla tradizione del death doom rielaborandone i dettami con una competenza degna dei veterani della scena e con una convinzione ed efficacia che non lasciano mai alcun dubbio sulla riuscita delle operazione.
Infatti Esogenesi è un album roccioso, a tratti crudo, strettamente basato sull’intreccio tra le chitarre ed una base ritmica che viene portata in grande evidenza negli schemi compositivi esibiti dalla band lombarda; se, da un lato, non troviamo particolari concessioni ad aperture atmosferiche, non si rinviene neppure uno sbilanciamento eccessivo verso l’asprezza del death: il risultato è conseguentemente caratterizzato da un magistrale equilibrio delle componenti chiamate in causa, in virtù di un riffing pesante e cadenzato ma non del tutto scevro di una sua idea melodica, sebbene ben racchiusa da uno spesso bozzolo attraverso il quale talvolta si fa spazio tramite notevoli passaggi di chitarra solista (vedere il finale della magnifica Decadimento Astrale) o momenti delicatamente rarefatti (il primo minuto e mezzo di Esilio Nell’Extramondo).
Come si può intuire anche dal titolo del brano appena citato, il concept degli Esogenesi ruota attorno al significato del loro monicker ed è quindi legato a tematiche che che travalicano i confini terreni per veleggiare negli infiniti spazi dell’universo (con testi in italiano violentati dal profondo growl di Jacopo Marinelli); nonostante questo, il death doom proposto non si ammanta di un’aura cosmica o psichedelica, ed è proprio per la sua efficace essenzialità e ortodossia che l’operato del quartetto differisce da quello di altre realtà contigue al genere nella nostra penisola come (Echo), Plateau Sigma, Il Vuoto o Fuoco Fatuo, tutte in un modo o l’altro orientate ad inserire nel proprio sound suggestioni tipiche del post metal oppure pulsioni prossime al funeral (specie gli ultimi).
I quattro lunghi brani, inframmezzati dal breve strumentale …Oltregenesi…, testimoniano in ogni frangente lo spessore già ragguardevole raggiunto dagli Esogenesi al loro primo passo, sicuramente non più lungo della gamba in quanto preparato con tempi debitamente lunghi come si conviene a chi si dedica ad un genere per sua natura antitetico a tutto ciò che appare frettoloso o superficiale: il quintetto milanese si va ad aggiungere ai nomi citati (e ad altri che ho tralasciato) andando a rimpolpare una scena funeral/death doom che in Italia sta finalmente cominciando ad assumere le sembianze di un movimento a tutti gli effetti e non più l’isolato frutto della sensibilità artistica di uno sparuto manipolo di musicisti.
Nota a margine dell’articolo:
Come anticipato nelle prime righe, questa è l’ultima recensione che viene pubblicata sulle pagine virtuali di MetalEyes, e personalmente, mi piace l’idea di aver chiuso questa avventura parlando di una band all’esordio che continua ad alimentare il genere che più amo. Doom on!
Tracklist
1.Abominio
2.Decadimento Astrale
3….Oltregenesi…
4.Esilio Nell’Extramondo
5.Incarnazione Della Conoscenza
Line up
Jacopo Marinelli – Vocals, lyrics
Ivo Palummieri – Lead Guitar
Davide Roccato – Rhythm Guitar
Carlo Campanelli – Bass
Michele Adami – Drums
Hardline – Life
La cover di Who Wants To Live Forever dei Queen come perla incastonata tra la dozzina di tracce che compongono l’album, valorizza, se ce ne fosse bisogno il gran lavoro degli Hardline a conferma dell’ottimo stato di forma dell’hard rock melodico.
Gli Hardline sono sempre stati considerati un supergruppo, fin da quando il debutto Double Eclipse, arrivò sul mercato nel 1992, tempi duri per il classic rock e l’hard rock melodico.
Johnny Gioeli, talentuoso singer con una carriera spumeggiante nel gruppo di Axel Rudi Pell e non solo, continua a capitanare questa congrega di talenti che oggi vede, dopo i contributi nel corso degli anni di musicsti come Deen Castronovo, Neal Schon, Mike Terrana e Rudi Sarzo, una milizia tutta italiana ad accompagnare le gesta dietro al microfono del vocalist statunitense.
Alessandro Del Vecchio (tastiere), Mario Percudani (chitarra), Anna Portalupi (basso) e Marco Di Salvia (batteria) assecondano Gioeli in questo nuovo lavoro, il sesto in studio per la band a tre anni di distanza dal precedente Human Nature, segno di un rinnovato entusiasmo non solo negli Hardline ma in tutto il genere, che il gruppo di Gioeli contribuisce a rappresentare.
Entusiasmo che esce a frotte dai brani di Life, sempre pregni di quell’hard rock melodico e graffiante diventato marchio di fabbrica della band e in cui Gioeli mette la sua firma con un prestazione come sempre sontuosa, carica di feeling, ed ovviamente meno epica che sui lavori degli Axel Rudi Pell.
Il genere rimane ancorato a delle caratteristiche note al pubblico di rockers sparsi per il mondo, quindi non è una novità il trittico di song iniziali, dove la band spara tre hard rock song potenti, melidiche dall’appeal stratosferico, con l’opener Place To Call Home a dare il benvenuto in Life.
Poi la verve si stempera per lasciare spazio a mid tempo e ballads che ci accompagnano sino alla fine mantenendo la solita qualità sopra le righe, sia nel songwritng che nelle prove dei quattro moschettieri tricolori che accompagnano il singer in questa nuova avventuta.
La cover di Who Wants To Live Forever dei Queen come perla incastonata tra la dozzina di tracce che compongono l’album, valorizza, se ce ne fosse bisogno il gran lavoro degli Hardline a conferma dell’ottimo stato di forma dell’hard rock melodico.
1.Place To Call Home
2.Take A Chance
3.Hello’s Sun
4.Page Of Your Life
5.Out Of Time
6.Hold On To Right
7.Handful Of Sand
8.This Love
9.Story Of My Life
10.Who Wants To Live Forever
11.Chameleon
12.My Friend
Johnny Gioeli – Vocals
Alessandro Del Vecchio – Keyboards, Backing Vocals
Mario Percudani – Guitars
Marco Di Salvia – Drums
Anna Poratalupi – Bass
https://www.facebook.com/hardlinerocks/
2019 Hard Rock 8.30
Walkways – Bleed Out, Heal Out
In un momento di scarsa qualità delle proposte alternative rock vicine al metalcore questo gruppo è una bella scoperta e vi regalerà degli ascolti molto piacevoli e duraturi.
I Walkways sono un gruppo alternative rock metal israeliano che riesce ad essere affascinante e radiofonico allo stesso tempo.
Il loro debutto è un disco bilanciato, elegante sebbene piacione. Con un grande lavoro dietro. Il loro suono prende le mossa dal metalcore, dall’alternative rock più vicino al metal e dalla melodia dell’hard rock americano. Questo gruppo è la dimostrazione che si può fare bene e con stile musica che punta a vendere, se qualcuno riesce a vivere di musica di questi tempi è più che giusto, se invece vogliamo cercare qualcosa di maggiormente estremo od alternativo allora sappiamo che qui non è il posto giusto. Qui troviamo melodia, potenza e la ricerca costante di creare qualcosa di aggressivo in maniera bilanciata. Uno dei pregi maggiori dei Walkways è che riescono ad essere melodici senza cadere nell’eccesso di dolcezza di alcuni gruppi a loro contigui, che sembrano esclusivamente per ragazzini brufolosi. La loro capacità musicale è oltre la media dei gruppi di questi lidi musicali, e si sente che sono ben guidati. Il disco ha anche molte facce diverse, livelli differenti che permettono un ascolto duraturo, perché ci sono molte situazioni musicali diverse al suo interno. Questo secondo disco del gruppo di Tel Aviv, che segue il primo del 2013 Safe In Sound, segna la definitiva maturazione di questo gruppo che in patria è molto seguito e si sta facendo notare anche all’estero. Ascoltando il disco non si ha difficoltà a capire perché la Nuclear Blast Records, praticamente una delle poche major metal rimaste in circolazione, abbia firmato questo gruppo israeliano che sa essere potente quando serve e dolce e sinuoso in momenti più lenti. In un momento di scarsa qualità delle proposte alternative rock vicine al metalcore questo gruppo è una bella scoperta e vi regalerà degli ascolti molto piacevoli e duraturi.
1. Till the End
2. Hell Born Shove Impossible
3. Despair for Heaven’s Sake
4. Half the Man I Am
5. Trumpet Call
6. Levitate
7. Bleed Out Heal Out
8. You Found Me
9. Unbearable Days
10. Enough
11. Humane Beings
12. Care in This Together
13. Thank You
14. Bone Deep
Vocals – Ran Yerushalmi
Guitars – Bar Caspi
Guitars – Yoni Menner
Bass – Avihai Levy
Drums – Priel Horesh
Carnal Tomb – Abhorrent Veneration
I Carnal Tomb danno un seguito all’altezza del buon esordio di tre anni fa e come allora noi di Metaleyes ve ne consigliamo l’ascolto, sempre che i vostri gusti in fatto di death metal siano rivolti alla frangia tradizionale del genere.
Apparsi sulle pagine di Metaleyes nel 2016, all’indomani dell’uscita del debutto sulla lunga distanza intitolato Rotten Remains, tornano i Carnal Tomb realtà death metal devota ai suoni old school.
Il quartetto proveniente da Berlino, ritorna sul luogo del delitto e sforna sette brani racchiusi in Abhorrent Veneration, album che conferma le buone impressioni scaturite dall’ascolto del precedente lavoro.
I Carnal Tomb continuano infatti la loro missione nel panorama underground estremo, il loro sound si nutre di quelle caratteristiche che fecero la storia del death metal nord europeo agli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso.
La mano schiaccia sulle ferite imputridite, l’urlo disumano che ne scaturisce è un growl sofferto e rabbioso su di un sound che come da tradizione alterna ripartenze, mid tempo e brusche frenate doom/death, questa volta più marcate rispetto al passato.
Sette brani medio lunghi, dove impera il death metal classico, duro e marcio come da tradizione, rimembrando opere considerati classici di Entombed, Dismember e compagnia famelica.
Abhorrent Veneration risulta quindi un lavoro convincente, la band sforna una serie di tracce che seguono le regole del genere senza sgarrare di una virgola dando vita ad una tracklist che ha nell’opener Putrid Fumes, nel lento discendere nei meandri dell’inferno delle doom/death Dissonant Incubation e Sepulchral Descent le sue armi più micidiali.
I Carnal Tomb danno un seguito all’altezza del buon esordio di tre anni fa e come allora noi di Metaleyes ve ne consigliamo l’ascolto, sempre che i vostri gusti in fatto di death metal siano rivolti alla frangia tradizionale del genere.
Tracklist
1. Putrid Fumes
2. Abhorrent Veneration
3. Cryptic Nebula
4. Amid the Graves
5. Dissonant Incubation
6. Feeding Mold
7. Sepulchral Descent
Line-up
Corpse Ripper – Bass, Vocals
Goat Eviscerator – Guitars
Cryptic Tormentor – Vocals, Guitars
Vomitchrist – Drums
Silenzio – Ep
I Silenzio sono un ottimo gruppo hardcore punk di Vicenza che attinge dalla splendida tradizione italiana del genere e al contempo innova fondendo vari sottogeneri.
I Silenzio sono un ottimo gruppo hardcore punk di Vicenza che attinge dalla splendida tradizione italiana del genere e al contempo innova fondendo vari sottogeneri.
I ragazzi sono di Vicenza e hanno ben chiara la loro missione, ovvero descrivere con la musica ed il sangue ciò che vediamo e viviamo tutti i giorni, con il supporto di una capacità musicale affatto comune. I Silenzio hanno il passo dei grandi gruppi hardcore punk, avendo la grande capacità di cambiare registro musicale a seconda delle emozioni che vogliono descrivere. Ascoltando questo ep si ha la confortevole sensazione di essere tornati vicino a delle ottime vibrazioni hardcore punk, ma il comfort finisce qui, perché oltre quella porta c’è solo dolore e smarrimento. Proprio quest’ultimo è uno dei sentimenti dominanti di questa nostra epoca, avvertiamo nettamente la sensazione di essere fuori posto, sopratutto se cerchiamo di vivere secondo i modelli dominanti, che sono chiaramente fallimentari, ma che più espletano il loro fallimento più ci vengono imposti. Ad esempio la conclusiva Merito è un bellissimo pezzo sulla meritocrazia, una cosa che in Italia non esiste nemmeno di sfuggita, e i Silenzio ne fanno una bellissima canzone mai ovvia. Tutto il disco è bello, è della lunghezza giusta, ci sono atomi che viaggiano velocissimi, e atomi che vanno più lenti, tutto è adeguato e molto ben fatto, e sopratutto è uno di quei dischi che ti fa ragionare e andare oltre le ombre. Musicalmente come composizione ed esecuzione sono molto oltre la media dei gruppi hardcore punk, che è un genere che fa giustamente esprimere anche chi non ha ottime capacità, ma che quando viene fatto da chi sa suonare lo si sente nettamente subito.
Un ottimo ep di esordio per un gruppo che ha tanto da dire e da suonare.
Tracklist:
1 Oro
2 Azione
3 Argento
4 Merito
Line-up
Maksymilian – Voice
Giordano – guitar
Samuele – bass
Francesco – drums
First Signal – Line Of Fire
Line Of Fire è una raccolta di canzoni dove rocciose parti hard rock, si alleano con linee melodiche di rara bellezza, raffinate ed eleganti, sapientemente ruvide ma, allo stesso tempo ruffiane tanto basta per spaccare cuori tra i rockers dai gusti melodici.
Il mondo dell’hard rock melodico è uno scrigno colmo di perle musicali come questo bellissimo lavoro intitolato Line Of Fire, il terzo per la band guidata dal cantante degli Harem Scarem Harry Hess e dal produttore Dennis Ward (Pink Cream ’69, Sunstorm, Place Vendome, tra gli altri).
Dopo i due lavori precedenti (First Signal e One Step Over The Line) e raggiunti dal batterista e produttore Daniel Flores (Mind’s Eye, 7 Days e X Savior), i First Signal tramite la nostrana Frontiers dà vita ad un altro splendido esempio di hard rock melodico di gran classe, scritto da un manipolo di autori fuori categoria come Stan Meissner, Bruce Turgon, Nigel Bailey e Carl Dixon, tra gli altri e valorizzato dal talento melodico del cantante, uno dei migliori singer che l’AOR odierno possa vantare.
Line Of Fire è una raccolta di canzoni dove rocciose parti hard rock, si alleano con linee melodiche di rara bellezza, raffinate ed eleganti, sapientemente ruvide ma, allo stesso tempo ruffiane tanto basta per spaccare cuori tra i rockers dai gusti melodici.
L’album alterna irresistibili brani dove graffianti riff hard rock irrobustiscono e alzano la temperatura di hard rock song a stelle e strisce come l’opener Born To Be A Rebel e A Millions Miles, a classiche ed eleganti melodic song dove Hess da prova di una forma smagliante.
La band segue il singer con una prova senza sbavature e le varie Walk Through The Fire e Never Look Back ribadiscono il valore di questa raccolta di brani che porta i First Signal tra le realtà più quotate dell’hard rock melodico internazionale.
Tracklist
01. Born To Be A Rebel
02. A Million Miles
03. Last Of My Broken Heart
04. Tonigh We Are The Only
05. Walk Through The Fire
06. Never Look Back
07. Line Of Fire
08. Here With You
09. Need You Now
10. Falling
11. End Of The World
Line-up
Harry Hess – Vocals
Michael Palace – Guitars
Johann Niemann – Bass
Daniel Flores – Drums, Keyboards
Heilung – Futha
Cultura vichinga, antiche saghe islandesi e il tocco magico di un altro tempo rendono Futha un lavoro che può competere a disco dell’anno in svariate categorie, ma cosa più importante è un disco femmineo ed oscuro, terminato nell’ora più scura dell’anno, le 21 del 21 dicembre, dopo tre anni di lavorazione per un qualcosa di meraviglioso e tremendo.
Gli Heilung sono un gruppo di folk totale, dove gli altri gruppi ricreano anche in maniera mirabile atmosfere antiche loro sono dentro a quella dimensione temporale e ci parlano da lì.
Definirli metal è azzardato, diciamo che fa parte del loro sostrato, ma qui c’è tantissimo di più. Anche il termine folk non è del tutto esatto qui, dato che gli Heilung fanno musica antica, nel senso che riportano alla luce una musica nordica e primordiale, con ritmi e tempi totalmente diversi dal nostro. Il gruppo danese compie sempre un lavoro immenso per produrre i propri dischi, sia in termini di ricerca, che di composizione e resa, e i risultati sono incredibili. I loro lavori trattano l’epopea dei vichinghi da dentro, specialmente il loro lato più esoterico ed animalesco, ed anche dal vivo l’immedesimazione è totale. Il precedente Ofnir era un album di netto segno maschile, che parlava di rune tracciate sugli scudi, lotte e sangue. Futha è anche un’incisione ritrovata su di un braccialetto, la cui traduzione ha suscitato più di una disputa in ambito accademico, che possiede sa un grande significato magico che un diretto riferimento ai genitali femminili. L’epoca dalla quale proviene il braccialetto era un tempo assai lontano nel quale la donna era molto potente all’interno di una società che si potrebbe tranquillamente definire matriarcale, molto lontana dalla concezione odierna della donna. Tutto ciò si respira all’interno di questo lavoro, che è molto più di un disco, è un trattato di magia, una porta per un passato che vive ancora in noi. Gli Heilung meravigliano per la loro originalità e per il loro disegno musicale, e Futha è davvero difficile da rendere con termini moderni. Il disco non è tutto di musica, e quando c’è il ritmo esso è tribale e si lega in maniera fortissima e magica alle voci che sono polifoniche, o raccontano storie come si usava nelle tribù. Ci sono anche notevoli momenti di dark ambient, ma i pezzi più forti sono quelli che coinvolgono tutte le parti del gruppo, come la immensa Eldansurin, vero e proprio capolavoro musicale, e non è il solo. Cultura vichinga, antiche saghe islandesi e il tocco magico di un altro tempo rendono Futha un lavoro che può competere a disco dell’anno in svariate categorie, ma cosa più importante è un disco femmineo ed oscuro, terminato nell’ora più scura dell’anno, le 21 del 21 dicembre, dopo tre anni di lavorazione per un qualcosa di meraviglioso e tremendo.
1 Galgaldr
2 Norupo
3 Othan
4 Traust
5 Vapnatak
6 Svanrand
7 Elivagar
8 Elddansurin
9 Hamrer Hippyer
Kai Uwe Faust
Christopher Juul
Maria Franz
DJ Vale – Groovin’ Connection
Collaborazione, condivisione, talento musicale e voglia di far star bene la gente, di massaggiare i sederi ma anche i cervelli.
Dj Vale è uno dei nomi storici delle notti torinesi, ha fatto ballare migliaia e migliaia di persone con la sua serata Afrodisiak, tuttora in corso al Circolo Arci Da Giau a Torino.
La sua passione carnale è la musica nera, tutto ciò che attiene ad essa, a partire dai suoni africani per arrivare al funky e all’elettronica, perché il suo scopo è portare nel futuro questo caleidoscopio di suoni, e con questo disco ci riesce perfettamente. Groovin’ Connection è ripieno di ospiti e di bellissime collaborazioni, celebra amicizie, sia musicali che non, dove tutti portano il loro contributo. Il risultato è un disco di rara bellezza, dove il suono è prodotto benissimo, è sensuale e sinuoso e ci fa sentire in musica la sterminata visione musicale di Dj Vale, figlia della sua passione senza confini. Raramente in Italia abbiamo ascoltato qualcosa che ha un respiro musicale così ampio, in passato in Italia hanno cenduto musicisti stranieri di black music che hanno un quarto della classe e del talento di DJ Vale.
Basta ascoltare If You Know Me con la splendida voce di Joy, dentro c’è tantissimo stile ma anche appettibilità radiofonica, figlia di profondità musicale. Le collaborazioni qui non sono di facciata o a fini commerciali, ma sono frutto di visioni musicali affini e complementari, si parte con un’idea e attraverso il confronto si arriva ad altro. La qualità del disco è molto alta, tutte le tracce sono sia da ballare che da ascoltare in cuffia, possono avere tanti usi, a seconda del nsotro stato d’animo, e questo è il marchio della grande musica, la capacità di adattarsi al nostro battito cardiaco. Groovin’ Connection è un viaggio nel passato, nel presente e soprattutto nel futuro del suono nero, della black musci piu potente e visionaria, con il basso sempre in prima fila a macinare chilometri, e dietro tanti mondi diversi. Collaborazione, condivisione, talento musicale e voglia di far star bene la gente, di massaggiare i sederi ma anche i cervelli.
01. Funky Goodness feat. Ciaffo & Piri
02. Spiritual Gangster feat. Mahout
03. Feelin’ Good feat. Parpaglione & Cato
04. Black Out feat. Marcello Coleman
05. Big Wheel feat. Bunna
06. Muchacho feat. Vito Miccolis
07. City Lights feat. Enrico Messina
08. If You Know Me feat. Joy
09. Feel The Funk feat. Ale _Nitro_ Carena
10. The Slap
11. Take Me Home feat. Madaski
12. La Nuit feat. Vena Funk
13. Back To Disco
14. Big Wheel Dub (Madaski Dub Version)
Deepshade – Soul Divider
I Deepshade esibiscono un sound personale, riescono nella non facile impresa di risultare a loro modo originali, pur lasciando che all’ascolto dell’album le loro ispirazioni facciano capolino dalle pareti del tunnel dai mille colori in cui si entra appena si preme il tasto play.
Psych rock, alternative metal ed hard rock stoner, un mix letale di cui si compone il sound di Soul Divider, nuovo full length dei rockers britannici Deepshade.
Licenziato dalla Wormholedeath, label che è una garanzia di qualità per gli amanti del metal e del rock in tutte le loro molteplici rivisitazioni, l’album è un tunnel di luci caleidoscopiche dove una volta entrati ci si perde, confusi ed ipnotizzati dalla musica che segue un fiume di colori travolgente.
Facile perdersi, ma più difficile tornare in sé, dopo il bombardamento ritmico che il trio ha in serbo per l’ascoltatore rapito da un sound a tratti claustrofobico che ha le sue radici nel rock anni settanta, modernizzato e reso potente da iniezioni di psych/stoner letale come il morso di un velenosissimo rettile.
Soul Divider non dà tregua, parte in sordina ma acquista subito forza, drogato di stoner bruciato dal sole della Sky Valley, mellifluo e lascivo come una bella ragazza in trip, mentre si muove al ritmo fluido ed ipnotico del rock psichedelico (Lonley Man) o tellurico e squassante come il miglior alternative metal anni novanta (Sad Sun, Gangzua).
I Deepshade esibiscono un sound personale, riescono nella non facile impresa di risultare a loro modo originali, pur lasciando che all’ascolto dell’album le loro ispirazioni (Kyuss, Nirvana, Black Sabbath, Queens Of The Stone Age, The Doors) facciano capolino dalle pareti del tunnel dai mille colori in cui si entra appena si preme il tasto play.
Tracklist
1.Airwaves
2.City Burns
3.Burning Up
4.Arches Of Innocence
5.Sad Sun (radio edit)
6.Lonley Man
7.Soul Divider
8.MaryLand
9.Monster
10.Ganzua
Line-up
David Rybka – Vocal, Guitar
Tommy Doherty – Bass
Chris Oldfield – Drums
https://www.facebook.com/deepshadeuk/
https://youtu.be/4zvp0QVJB80
DEFLORE & JAZ COLEMAN – Party In The Chaos
Si raggiunge l’apice, perché Jaz è il cantante a loro predestinato, la sua voce tagliente si inserisce benissimo nei loro suoni al contempo freddi e bollenti.
I Deflore sono un duo romano di musica industrial psych metal, una delle cose più interessanti che si possano sentire in Italia nell’ambito musica pesante intelligente.
Per l’occasione hanno unito le forze con un tale che ha scritto alcune delle migliori pagine di musica sovversiva degli ultimi quarant’anni, Mister Jaz Coleman dei Killing Joke, un gruppo che riesce davvero difficile da descrivere a parole. Fondamentalmente Jaz è una delle poche voci che possono permetterci di staccarci dalla matrice e di vedere veramente il mondo come è, e non è facile. Questo ep racchiude in piccolo tutta la parabola musicale dei Deflore che sono sempre stati un gruppo all’avanguardia in Italia, perché sono sempre riusciti a dare una particolare accezione ai loro lavori, riuscendo ad essere originali in un ambito musicale quasi sempre derivativo. Qui poi si raggiunge l’apice, perché Jaz è il cantante a loro predestinato, la sua voce tagliente si inserisce benissimo nei loro suoni al contempo freddi e bollenti. Se siete amanti dei suoni industrial metal con un gran bel tocco di psichedelia qui troverete tutto ciò che amate, ma è comunque un disco ipnotico ed avvolgente per tutti coloro che lo ascolteranno. E poi i testi, parte molto importante. Abbandonate le speranze, giacché la nave non la potete abbandonare, qui si parla del doloroso tramonto della civiltà occidentale, che tra un business e l’altro sta facendo affondare tutto un pianeta che era sopravvissuto benissimo anche senza di noi. Fin dalla prima canzone Party In The Chaos si capisce la potenza di queste tre canzoni, e anche dove vogliono andare a parare, sembra di ascoltare i migliori Killing Joke, con più metal dentro però. La seguente Sunset In The West è strumentale, un bellissimo pezzo industrial psycj metal, dove i Deflore mostrano un altro lato importante della loro musica, che non è affatto secondario, quello di una psichedelia metallica che amplia molto la loro proposta sonora. Si chiude con Transhuman World, un pezzo davvero potente con un Jaz in grandissima forma, che parla dell’incubo transumano che si avvicina sempre di più, anche perché ora al governo in Italia c’è un partito che fra i suoi ideologi aveva un tizio che parlava positivamente del microchip sottopelle.
Un gran lavoro, una combinazione perfetta e assai naturale per un grande gruppo e per un cantante che sembra concepito apposta per loro. L’unica richiesta da fare ai Delfore e a Jaz è di fare un disco intero. Per favore, prima della fine.
1.Party In The Chaos
2.Sunset In The West
3.Transhuman World
Jaz Coleman – Voice
Christian Ceccarelli – Bass, Grooves, Samples and Snyths
Emiliano Di Lodovico – Guitar, Synths and Radio
Glasya – Heaven’s Demise
Heaven’s Demise è composto da una decina di brani che nulla aggiungono e nulla tolgono al mondo potente, elegante del symphonic metal, le influenze sono chiare e perfettamente delineate in una struttura che, pur non offrendo spunti clamorosi, riesce a mantenere una buona dinamica, tra arrangiamenti orchestrali, e forza metallica sempre tenuta imbavagliata dalla gradevole interpretazione della vocalist.
Nel vasto panorama offerto dal metal, quello sinfonico continua a mantenere uno zoccolo duro di fans deliziati dalle opere dei gruppi diventati icone del genere e da quelli che, invece, si presentano al pubblico con esordi più o meno riusciti.
Sinfonie metalliche dalle delicate orchestrazioni, animate da riff potenti e da voci suadenti: il symphonic metal di stampo gothic da anni rappresenta una strada sicura per i suoi ascoltatori, magari non più gratificati dai capolavori del passato, ma attratti come sempre da un ottimo livello qualitativo.
Le nuove leve proposte da un underground generoso offrono lavori di buona fattura come questo esordio dei portoghesi Glasya, sestetto di Lisbona capitanato dalla voce classica della brava Eduarda Soeiro, cantante di genere che mette le sue doti canore al servizio di un sound che non disdegna passaggi heavy, solos taglienti e cavalcate di matrice power.
Heaven’s Demise è composto da una decina di brani che nulla aggiungono e nulla tolgono al mondo potente, elegante del symphonic metal: le influenze sono chiare e perfettamente delineate in una struttura che, pur non offrendo spunti clamorosi, riesce a mantenere una buona dinamica, tra arrangiamenti orchestrali e forza metallica sempre tenuta imbavagliata dalla gradevole interpretazione della vocalist.
Dall’inizio alla fine l’album mantiene quello che promette, e i Glasya senza strafare offrono una buona prova ed una manciata di canzoni da ricordare, guadagnandosi un buon giudizio ed un arrivederci al prossimo passo che, sicuramente, porterà ancora più personalità e convinzione in seno al sestetto portoghese.
Tracklist
1.Heaven’s Demise
2.Ignis Sanctus
3.Coronation of a Beggar
4.Glasya
5.Eternal Winter
6.Birth of an Angel
7.The Last Dying Sun
8.Neverland
9.No Exit from Myself
10.A Thought About You
Line-up
Eduarda Soeiro – Vocals
Davon Van Dave – Keyboards, Orchestrations
Manuel Pinto – Bass
Hugo Esteves – Guitars
Bruno Prates – Lead Guitars
Bruno Ramos – Drums
Desecresy – Towards Nebulae
Un album legato alla tradizione classica, ma con un’anima underground che lo posiziona tra le uscite dedicate a chi dal genere cerca un sound davvero ostico, psicotico ed influenzato da band come Grave, Immolation ed Incantation.
Tornano i finlandesi Desecresy, formatisi inizialmente come un duo ma ora, di fatto, diventati una one man band guidata dal solo Tommi Grönqvist.
Il nuovo lavoro, intitolato Towards Nebulae, continua il viaggio dei Desecresy nel death metal dalle atmosfere abissali, dalla produzione sporca e da un impatto che accentua la vena brutale del suo ormai solitario creatore.
Il nuovo album, il sesto in dieci anni di vita del progetto, non cambia di una virgola il sound, salvo il ritornare parzialmente un approccio assolutamente underground alla materia.
Il suono sporco e nebbioso, le ritmiche caotiche che rallentano a tratti fino ai limiti del doom, racchiude un’attitudine old school che ci riporta ai primi anni novanta; i Desecresy, malgrado la loro nazionalità, non sono la classica band scandinava, ma lasciano che le maggiori scuole del genere ispirino questi nuovi undici brani.
Un album legato alla tradizione classica, ma con un’anima underground che lo posiziona tra le uscite dedicate a chi dal genere cerca un sound davvero ostico, psicotico ed influenzato da band come Grave, Immolation ed Incantation.
Tracklist
1.The Gate
2.Trophies of Death
3.Only Mist Drifts
4.Fringes of Existence
5.Endless Swamp
6.Sediments of Blood
7.The Dead Language
8.The Damned Expedition
9.Transfiguration March
10.Unbeknownst to Mortals
11.Forms in Echos
Line-up
Tommi Grönqvist – Guitars, Bass, Drums, Vocals
The End Machine – The End Machine
The End Machine mette tutti d’accordo, non pretende di essere più di quello che è, un ottimo lavoro pregno di belle canzoni, incentrate sul rock più sanguigno e viscerale che ha passato indenne quarant’anni della nostra storia.
Quando ci si trova davanti a tre icone dell’hard & heavy classico come i tre Dokken George Linch, Jeff Pilson e Mick Brown non si può che inchinarsi a cotanto talento, anche perchè è praticamente scontato che avremo a che fare con un grande album di rock duro.
Se poi i tre piazzano davanti al microfono l’attuale singer dei Warrant Robert Mason e creano undici brani di hard rock tra sonorità classiche e moderne, spaziando tra anni ottanta, novanta con non pochi riferimenti al rock duro del nuovo millennio, il gioco è fatto.
Non aspettatevi quindi un classico album alla Dokken, i The End Machine non dimenticano il loro passato, ma usano l’enorme esperienza accumulata per regalare una track list inattaccabile sotto tutti i punti di vista, pregna di riff ruvidi, ritmiche che non disdegnano groove e feeling, ed un singer che sembra nato per cantare questi brani.
Leap Of Faith apre le danze, grintosa e con quel tocco mainstream anni novanta che risulta irresistibile, così come il mid tempo Bulletproof, dove echi di blues si fanno largo tra riff possenti e solos decisi di un Linch ispiratissimo.
L’urgenza rock’n’roll di Ride It attacca al muro, mentre le armonie acustiche di Burn The Truth, tornano a far sognare tramonti di frontiera come ai tempi di Bon Jovi e Poison.
E qui è il bello, perchè The End Machine cambia pelle in un attimo, salta tra i decenni con la facilità di un grillo musicale, tra gli Europe odierni, i Kings X (clamorosa Hard Road), e Dokken, lasciando al rock’n’roll la sua parte da protagonista (Life Is Love Is Music).
The End Machine mette tutti d’accordo, non pretende di essere più di quello che è, un ottimo lavoro pregno di belle canzoni, incentrate sul rock più sanguigno e viscerale che ha passato indenne quarant’anni della nostra storia.
1.Leap Of Faith
2.Hold Me Down
3.No Game
4.Bulletproof
5.Ride It
6.Burn The Truth
7.Hard Road
8.Alive Today
9.Line Of Division
10.Sleeping Voices
11.life Is Love Is Music
Robert Mason – Vocals
George Lynch – Guitars
Jeff Pilson – Bass
Mick Brown – Drums
Chaos Magic – Furyborn
Questa alternanza tra possente metallo, eleganza melanconica e raffinato rock contribuisce alla riuscita di Furyborn nella sua interezza, i brani si susseguono tra esaltanti scorribande heavy/power e ruffiane melodie.
Un album creato per non fare prigionieri tra i fans del metal sinfonico, power e gotico, il nuovo lavoro dei Chaos Magic, band capitanata dalla singer cilena Caterina Nix, singer bella e brava, scoperta da Timo Tolkki qualche anno fa, ospite nel progetto Avalon prima e poi onorata della presenza del chitarrista e produttore finlandese sul primo album licenziato nel 2015.
Ancora con una manciata di ospiti di prestigio a valorizzare quanto fatto dal gruppo e dal nuovo produttore Nasson, alle prese con chitarra e tastiere, vera icona del metal in patria (anche lui proveniente dal paese sudamericano) che ha donato al sound dei Chaos Magic un tocco moderno, potenete e ammiccante quanto basta per prendere al lazo più fans possibili.
La bellezza della cantante, la sua voce assolutamente perfetta e gli ospiti di livello assoluto come Tom Englund degli Evergrey, Ailyn Gimenèz (ex Sirenia), Ronald Romero (nuovo cantante dei Rainbow) ed il tastierista nostrano Giuseppe Iampieri (Mistheria), contribuiscono a rendere Furyborn un lavoro vincente, la band non le manda a dire e picchia da par suo quando le atmosfere gothic/rock, lasciano spazio a sfuriate di potente power metal di matrice nordica.
Questa alternanza tra possente metallo, eleganza melanconica e raffinato rock contribuisce alla riuscita di Furyborn nella sua interezza, i brani si susseguono tra esaltanti scorribande heavy/power e ruffiane melodie, con la voce della Nix a dispensare valanghe di appeal.
Tra i brani presenti quelli più metallici rendono al massimo e alzano non poco il giudizio sull’intero lavoro, con l’opener You Will Breathe Again, la title track e Path Of The Brave che piaceranno anche ai fans dai gusti relativamente più massicci.
1.You Will Breathe Again
2.Furyborn
3.Like Never Before
4.Beware Of hìThe Silent Waters
5.Falling Apart
6.Bravely Beautiful
7.Throw Me To The Wolf
8.I’d Give It All
9.path Of The Brave
10.My Affliction
11.I’m Your Cancer
Caterina Nix – Vocals
Nasson – Guitars, Keyboards
Franco Lama – Keyboards
Hermaunt Folatre – Bass
Carlos Hernandez – Drums
Dronte – Quelque part entre la guerre et la lâcheté
Un disco importante, che sviluppa un progetto inquieto, musicalmente e politicamente molto valido.
Sette musicisti francesi che si uniscono per dare vita ad una creatura musicale onnivora e che gronda rabbia aggirandosi per molti generi diversi.
I Drone hanno, come affermano loro, un gusto estetico metal ma è solo un punto di partenza, perché le canzoni sono schegge impazzite che sono strutturate come se fosse un free jazz metal. Infatti una grossa importanza nella loro proposta musicale è rappresentata dai fiati, vero e proprio contrappunto. Quelque part entre la guerre et la lâcheté è un disco strabordante e totale, un qualcosa che racchiude tante cose da dire e da far sentire, con la lingua francese che viene usata come codice poetico per raccontare qualcosa di molto interessante. Le canzoni qui avanzano impetuose, suonate da un collettivo che è venuto per sovvertire le regole, per raccontare l’assurdità della vita moderna come in Un Vide Confortable, che potrebbe essere il manifesto poetico e politico del gruppo. Qui non si trova quiete o cose rassicuranti, ma solo asperità e ricerca della verità, sulle cose che ci riguardano tutti. I Dronte portano avanti la loro battaglia dal 2012 e coprono molti generi che possono essere utili ai loro scopi, dal post metal al prog, da una certa vicinanza alla musica etnica, ma il risultato è solo merito loro. Un disco come questo scalda il cuore e amplia la mente, perché al centro di tutto c’è lei, la cosa più importante, la musica. Certi discorsi stilistici sono un collante per legare al meglio, come in cucina l’uovo, certe fasi del discorso più alto che è quello musicale. In questo lavoro si coglie bene se lo si ascolta ad occhi chiusi senza stimoli sensoriali esterni, perché è un flusso musicale che porta l’ascoltatore ad un’altra realtà, un medium per un altro significato. I Dronte sono un’orchestra free metal che racconta storie, in definitiva si possono definire così, ma ovviamente se si sente il discorso c’è molto di più, innanzitutto troviamo il motore primo della rabbia, che muove il tutto. E anche una notevole profondità nei testi, che fanno capire come in Francia stiano molto incazzati e con ragione. Un disco importante, che sviluppa un progetto inquieto, musicalmente e politicamente molto valido.
1.Champion en série
2.Théâtre du vacarme
3.Sarcophage du succès
4.Notre grande machine
5.Un orage…
6.Sagesse gardée
7.Escalade en chute libre
8.Un vide confortable
9….et puis plus rien
Nicolas Aubert : guitare
Benoît Bedrossian : contrebasse
Ève-Rosemarie Boulada : saxophone
Frédéric Braud : chant, shruti et bâton de pluie
Lucas de Geyter : batterie
Camille Segouin : vibraphone et percussions
Grégory Tranchant : guitare
Christophe Lasserre : textes
Valère Brisard : son
Maud Villeval : lumière
Rockin’ Engine – Midnight Road Rage
Midnight Road Rage è un album che si fa ascoltare con piacere e che, in quanto ad attitudine ed impatto, dice sicuramente la sua nell’affollato mondo del rock duro.
Hard & heavy potente e tagliente come un rasoio è quello proposto dal quartetto canadese dei Rockin’ Engine provenienti da Ottawa ed attivi dal 2015.
Il loro debutto autoprodotto si intitola Midnight Road Rage ed è composto da otto esplosive tracce di rock duro che amalgama con buon esito hard rock ed heavy metal old school.
Un grande lavoro chitarristico (Steve O Leff e Ste Vy Leff ) e ritmiche telluriche e pregne di un buon groove (Joel Bilodeau alla batteria e JP Buzzard al basso) sono il leit motiv di Midnight Road Rage, un album classico nel suo approccio (ma ben inserito in questi tempi in cui i suoni classici stanno trovano nuovamente buoni riscontri rispetto a qualche anno fa, merito anche dell’underground e di band come i Rockin’ Engine), che nei suoi quaranta minuti circa di durata non molla la presa grazie ad una ricetta semplice ma assolutamente vincente.
Unj rock duro di origine controllata che tra i solchi di tracce dinamitarde come Let’s Roll The Dice, When Engines Collide e la spettacolare Road Rage Boogie non manca di farci divertire a suon di rock’n’roll potenziato da un’overdose di watt, tra Van Halen, Gotthard e modern hard rock dal groove micidiale.
Midnight Road Rage è un album che si fa ascoltare con piacere e che, in quanto ad attitudine ed impatto, dice sicuramente la sua nell’affollato mondo del rock duro.
Tracklist
1.Shake That Ass
2.Let’s Roll The Dice
3.Livin’ A Lie
4.When Engines Collide
5.Never Surrender
6.The State Of Nature
7.Hiding In Darkness
8.Road Rage Boogie
Line-up
Steve O Leff – Vocals, Guitars
Ste Vy Leff – Guitars
JP Buzzard – Bass
Joel Bilodeau – Drums
Tomb Mold – Planetary Clairvoyance
L’album si avvale di strutture sonore ispirate da Cannibal Corpse, Blood Incantation e Abhorrence, confermando i Tomb Mold come gruppo assolutamente a suo agio nel panorama estremo underground di matrice death metal.
Nuovo lavoro per i canadesi Tomb Mold, band canadese che iniziò la sua avventura nel mondo del metal estremo come duo e col tempo diventata un quartetto.
Con questo devastante lavoro licenziato dalla 20 Buck Spin, siamo giunti al terzo album, confermando le buone cose fatte sul precedente Manor Of Infinite Forms licenziato lo scorso anno.
Planetary Clairvoyance continua l’opera di annientamento a colpi di death metal classico e brutale, una tempesta di suoni estremi dalla forza di cento asteroidi in picchiata sulla terra.
Sette brani per quaranta minuti scarsi in cui il gruppo canadese non lesina mitragliate death potentissime, alternate ai classici rallentamenti vecchia scuola e a tratti valorizzati da ricami progressivi.
Il growl di ispirazione brutal, si unisce ad un sound feroce e senza compromessi, votato all’impatto pur mantenendo una buona dose di elasticità che fa di Planetary Clairvoyance un muro sonoro indistruttibile.
Niente di originale dunque, solo death metal di origine controllata e che amalgama tradizione statunitense ed europea, in un clima da tregenda che trova attimi di quiete in oscuri ricami chitarristici, tra l’armageddon sonoro di brani feroci come l’opener Beg For Life, Planetary Clairvoyance (They Grow Inside Pt 2) e Heat Death.
L’album si avvale di strutture sonore ispirate da Cannibal Corpse, Blood Incantation e Abhorrence, confermando i Tomb Mold come gruppo assolutamente a suo agio nel panorama estremo underground di matrice death metal.
Tracklist
1. Beg For Life
2. Planetary Clairvoyance (They Grow Inside Pt 2)
3. Phosphorene Ultimate
4. Infinite Resurrection
5. Accelerative Phenomenae
6. Cerulean Salvation
7. Heat Death
Line-up
Derrick vella – Guitars
Max Klebanoff – Vocals
Steve Musgrave – Bass
Payson Power – Guitars
Plague Vendor – By Night
Era da tempo che si era tutto orfani di un suono potente e indie punk rock, ma i Plague Vendor sono qui per colmare il vuoto e proporsi per occupare un posto importante nel futuro della musica alternativa, e soprattutto per regalare momenti piacevoli ai loro ascoltatori, e questo disco è pieno di bei momenti.
Indie rock dalla forte attitudine punk in uscita per Epitaph. Prendete i migliori Hives e mischiateli con i Black Keys meno blues e ci sarete vicini.
Il loro incedere è molto convincente, hanno un tiro molto intenso e sono anche orecchiabili senza essere mai banali, una bella scoperta. I Plague Vendor rinverdiscono e scuotono quella tradizione indie punk rock che era ultimamente in difficoltà, vuoi per l’avanzare del tempo, vuoi per mancanza di idee. Queste ultime sono presenti in abbondanza in questo disco, un lavoro molto onesto e diretto, piacevole e mai noioso. Chi ama l’indie americano era da tempo in attesa di un disco così, nervoso, melodico e anche ballabile. I Plague Vendor hanno un cuore new wave post punk affatto indifferente, che è il valore aggiunto di questo disco e della loro poetica musicale. La forza di questo gruppo è creare un suono molto organico, potente e sinuoso al contempo, dalla melodia importante ma anche profondo e mai ovvio. Non è facile avere un suono così di questi tempi, ed infatti i Plague Vendor sono un’affascinante anomalia che la Epitaph non si è lasciata scappare per ampliare il suo ventaglio di proposte. Il gruppo evoca fortemente un immaginario anni ottanta, ma anche i sessanta ed i settanta trovano il loro posto. Riesce molto piacevole ascoltare come n gruppo moderno e giovane arrivi a rielaborare istanze abbastanza antiche ma sempre valide, per fare un disco così il gruppo ha sicuramente una grande ampiezza di ascolti, ed una buona capacità selettiva. Era da tempo che si era tutto orfani di un suono potente e indie punk rock, ma i Plague Vendor sono qui per colmare il vuoto e proporsi per occupare un posto importante nel futuro della musica alternativa, e soprattutto per regalare momenti piacevoli ai loro ascoltatori, e questo disco è pieno di bei momenti.
1.New Comedown
2.Nothing’s Wrong
3.All Of The Above
4.Let Me Get High \ Low
5.Prism
6.White Wall
7.Night Sweats
8.Pain In My Heart
9.Snakeskin Boots
10.In My Pocke
Brandon Blaine – Vocals
Luke Perine – Drums
Michael Perez – Bass
Jay Rogers – Guitar
Rival Sons – Feral Roots
Far passare per semplice attitudine vintage, opere e band di questo valore sarebbe peccato mortale, il genere è vivo e vegeto e si rigenera grazie al talento di gruppi come i Rival Sons.
Prima di avvicinarvi al nuovo lavoro firmato dai Rival Sons, sarebbe opportuno chiarire un concetto: l’hard rock di matrice settantiana è tornato con il suo carico di blues, ad incendiare gli impianti stereo dei fans di Led Zeppelin e compagnia con una serie di band e album che davvero poco avrebbero da invidiare alle opere leggendarie uscite nel decennio d’oro del rock duro.
Ma non saranno certo gruppetti di ragazzini costruiti a tavolino dai mercenari del music biz a cambiare la storia di questo clamoroso ritorno, ma una serie di gruppi che dall’America, al Regno Unito, fino alle fredde terre del nord, hanno conquistato i fans, ognuna con una sua personale visione della materia, ognuna con il talento giusto per rimanere nel mercato, senza farsi dimenticare dopo un paio di lavori.
I Rival Sons sono sicuramente tra questi, giunti al sesto lavoro, continuano con il loro personale tributo agli anni settanta e all’hard rock segnato da stigmate blues, dal chiaro ma a volte semplicistico riferimento agli Zep ed alle loro intramontabili opere.
D’altronde dieci anni di album e live hanno portato i Rival Sons ad avere una reputazione più che consolidata e non sarà certo un album come Feral Roots a far perdere punti alla band tra gli amanti del genere.
Con sempre il fido Dave Cobb dietro al mixer, la band sforna undici spettacolari brani dove, se sicuramente non troverete chissà quali soprese compositive, verrete travolti da una cascata di note sanguigne, tra rock e blues, suonate con grinta ed una teatralità a tratti spropositata.
Il quartetto statunitense parte in quarta con il riff mostruoso dell’opener Do You Worst e non si ferma più con la coppia Jay Buchanan (voce) e Scott Holiday (Chiatarra) a dare letteralmente di matto, coadiuvati dalla solita e precisa sezione ritmica composta da Dave Beste al basso e Mike Miley alla batteria.
Basterebbe il blues ferale di Stood By Me per decretare il nuovo Rival Sons come un altro pezzo da novanta tra le opere di genere degli ultimi tempi, ma Back In The Woods, le armonie acustiche della rupestre Look away che cresce di intensità ed esplode nel finale, la splendida e solare Imperial Joy, non mancano di incantare l’ascoltatore rapito dal sound di questi ottimi interpreti dell’hard rock classico del nuovo millennio.
Far passare per semplice attitudine vintage, opere e band di questo valore sarebbe peccato mortale, il genere è vivo e vegeto e si rigenera grazie al talento di gruppi come i Rival Sons.
1.Do You Worst
2.Sugar On The Bone
3.Back In The Woods
4.Look away
5.freal Roots
6.Too Bad
7.Stood By Me
8.Imperial Joy
9.All Directions
10.End Of Forever
11.Shooting Stars
Jay Buchanan – Vocals
Scott Holiday – Guitars
Dave Beste – Bass
Mike Miley – Drums