Into The Arcane – Het Verlangen der Geest

Nel complesso, trattandosi di un primo passo vi sono diversi segnali positivi, anche se per ora paiono mancare quegli spunti in grado di lasciare davvero il segno.

Ep d’esordio per gli Into the Arcane, band formata da quattro musicisti appartenenti alla scena death doom olandese.

Ed è appunto questo il genere trattato in Het Verlangen der Geest, lavoro composto di quattro brani per poco più di venti minuti nel corso dei quali viene esibita una buona padronanza del genere, privilegiando comunque un’approccio piuttosto catchy e, quindi, talvolta prossimo ad una death riconducibile a quello dei seminali connazionali Gorefest: tutto sommato ad emblema dell’album si può prendere la più composita The Innocent Hunter che, appunto, vive di saliscendi ritmici, con una parte centrale davvero accattivante ed un finale dai tipici accenti doom melodici.
Nel complesso, trattandosi di un primo passo vi sono diversi segnali positivi, anche se per ora paiono mancare quegli spunti in grado di lasciare davvero il segno, in quanto l’operato degli Into The Arcane è gradevole in virtù anche di una certa varietà che, per converso, fornisce talvolta l’impressione di una direzione stilistica non ancora del tutto definita. Con un sound oscillante tra momenti incalzanti e passaggi più interlocutori, appare evidente l’intento da parte della band olandese di offrire una versione del genere melodicamente aggressiva piuttosto che malinconicamente oscura, ma l’operazione riesce per ora solo a fasi alterne.
Non male, comunque, in attesa di in attesa di prossime e più probanti uscite.

Tracklist:
1. The Slumber of Man
2. The Innocent Hunter
3. What Lies Beneath the Shroud
4. The Glass King

Line-up:
Erik Noten – Vocals, Lyrics
Jeroen van Riet – Guitars, Songwriting
Alwin Roes – Bass, Vocals (backing), Songwriting
Günther Weerepas – Drums
David van Heijnsbergen – Keyboards

INTO THE ARCANE – Facebook

Chalice Of Suffering – For You I Die

I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità.

Come già fatto in altri frangenti, la riedizione in diverso formato da parte un etichetta diversa ci ci offre l’occasione di riportare all’attenzione interessanti lavori usciti in tempi relativamente recenti e recensiti all’epoca per In Your Eyes.
Questa volta tocca ai Chalice Of Suffering, band del Minnesota autrice di un ottimo album di funeral doom atmosferico, con l’esordio intitolato For You I Die, edito nello scorso aprile in CD dalla russa GS Productions ed ora riproposto, nel sempre più diffuso e gradito formato in cassetta, dall’attiva label portoghese War Productions.

Il gruppo guidato da John McGovern (vocalist che, più che cantare, si esibisce in un semi recitato in stile Mythological Cold Towers) convince grazie ad un approccio diretto ed efficace, puntando su un lato melodico molto lineare ma sempre volto ad catturare l’attenzione dell’ascoltatore, avvolgendolo con un mood invero più malinconico che plumbeo.
I Chalice Of Suffering, in fondo, non fanno altro che assemblare con sapienza gli influssi principali del genere, attingendo per lo più alle sonorità novantiane (primi Anathema e My Dyng Bride) e ammorbidendole ulteriormente con una spiccata indole atmosferica.
For You I Die parte forte, mostrando subito il suo volto migliore con Darkness, brano dotato di armonie splendide che la band sfrutta a dovere piazzando a più riprese un assolo dal grande potenziale evocativo, per poi proseguire su questa falsariga, magari senza ritrovare quegli stessi spunti ma garantendo sempre uno standard elevato, specialmente in Who Will Cry e Screams Of Silence.
Subito dopo quest’ultimo brano si palesa un’improvvisa vena folk celtica, con le cornamuse che dominano la strumentale Cumha Do Mag Shamhrain, per arrivare poi all’incipit di Fallen, dove è invece il flauto ad introdurre una traccia piuttosto rarefatta, contraddistinta dal recitato in gaelico dello stesso suonatore di bagpipes, Kevin Murphy.
Void chiude un album ricco di contenuti e tutto sommato neppure troppo dispersivo, nonostante l’ora e tre quarti di durata, mostrando nuovamente il volto più canonico del death doom, questa volta sfruttando il buon growl dell’ospite Allen Towne.
I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità. Tutto sommato è apprezzabile l’ ortodossia nell’approcciarsi al funeral death doom melodico, al netto delle citate puntate nel folk di matrice celtica (un po’ fuori contesto per quanto gradevoli) e, trattandosi comunque di una band di nuovo conio, non si può che salutarne con favore questo disco d’esordio.

Tracklist:
1.Darkness
2.Who Will Cry
3.For You I Die
4.Alone
5.Screams Of Silence
6.Cumha Do Mag Shamhrain
7.Fade Away
8.Fallen
9.Void

Line-up:
John McGovern – Vocals, Lyrics
Will Maravelas – Guitars, Bass, Songwriting
Aaron Lanik – Drums
Robert Bruce – Tin Flute
Nikolay Velev – Keyboards, Guitars, Songwriting
Kevin Murphy – Bagpipes, Vocals (Gaelic)

Guest:
Allan Towne – Vocals

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

The Eyes Of Desolation – Awake In Dead

Derivativi ma talentuosi, i The Eyes Of Desolation convincono e sorprendono per la qualità esibita in questo ep.

Se, all’ascolto delle prime note di Awake in Dead, viene da pensare istintivamente all’operato di una band nordeuropea, alle prese con un gothic rock/metal d’autore, è notevole la sorpresa nel constatare che gli autori del lavoro, i The Eyes Of Desolation, provengono dalle ben più assolate lande costaricensi.

Di certo gli influssi centroamericani non fanno mai capolino in questo breve lavoro, che segue l’esordio sulla lunga distanza del 2013, Songs for Desolated Hearts: i quattro brani proposti, infatti, si muovono nel solco della tradizione europea del genere, tra rimandi a Sentenced e NFD, oltre ad attingere agli imprescindibili Type O Negative.
Se il sound sviluppato dai The Eyes Of Desolation non apporta certo chissà quali novità ad un genere che, in fondo, neppure ne ha bisogno, potendo vivere tranquillamente di schemi ben definiti e sempre graditi agli appassionati, convince e sorprende non poco, invece, la qualità esibita in questi venticinque minuti scarsi offerti dall’ep.
Le quattro tracce sono tutte ugualmente godibili (con preferenza personale per la conclusiva Fighting for Your Cause), sufficientemente diversificate tra loro, e si fissano nella mente con un certo agio, riportandoci alla mente i ben tempi andati, quando alcune delle band citate erano ancora attive e capaci di dare alla luce grandi album. Il vocalist Carlomagno Varela prende le mosse da una timbrica alla McCoy/White, arricchendola con un utilizzo vario e sapiente delle sue sfumature più estreme, ben assecondato da una band preparata e conscia del proprio notevole potenziale.
Derivativi ma talentuosi, i costaricensi meritano il massimo supporto da parte di chi ama questo genere, attendendoli alla prova di un nuovo full length che, dopo aver posto queste solide basi, potrebbe espandere la loro fama al di là dell’Atlantico.

Tracklist:
1. Waking Death
2. Crimson Sky
3. I Found My Place
4. Fighting for Your Cause

Line-up:
Javier Murillo – Bass
Chus Mora – Guitars
Carlomagno Varela – Vocals
Mario Vega – Drums
Carlos Carazo – Keyboards

THE EYES OF DESOLATION – Facebook

Morphinist – Terraforming

Questi trentacinque minuti intensi ed convincenti mettono il nome Morphinist tra quelli da cerchiare con circoletto rosso, nel novero di coloro che si muovono nello stesso ambito musicale.

Abituati ad esaminare dischi pubblicati da band o musicisti che fanno trascorrere anni tra un’uscita e l’altra, fa sempre un certo effetto trovarsi al cospetto di un tipo come il tedesco Argwohn, che con il suo progetto solista Morphinist, ha già prodotto 10 full length a partire dal 2013 (!), senza contare le restanti band in cui, da solo o in compagnia, è attualmente coinvolto

Difficile, quindi, immaginare il nostro alle prese quotidianamente con qualcosa che non sia uno strumento musicale, anche se dobbiamo ammettere che una tale prolificità di solito fa pensare a una possibile dispersione di energie a discapito della qualità complessiva.
Proprio a causa di questo pregiudizio e non conoscendo il pregresso dei Morphinist, (anche perché ci vorrebbe qualche settimana per ascoltare tutto il materiale partorito …) devo dire che sono rimasto davvero sorpreso da un lavoro come Terraforming, il nono della serie (infatti, il mese scorso, lo stakanovista di Amburgo ha già dato alle stampe il successivo Giants …) che non lascia nulla per strada in quanto ad intensità e focalizzazione a livello compositivo.
Quello che viene proprosto nell’album in questione è il cosiddetto post black, ovvero una versione molto atmosferica e dalle ampie derive ambient doom del genere nato in Norvegia nei primi ’90, con il quale di fatto i legami sono rinvenibili a livello vocale e per le accelerazioni ritmiche in blast beat ; sia a livello grafico che di sonorità appare evidente un’ispirazione di matrice cosmica, che nelle parti rallentate può avvicinarsi persino ai Monolithe (questo avviene soprattutto in Terraforming I), e tutto ciò rende oltremodo intrigante l’operato di Argwohn, il quale dimostra lungo tutto il disco di possedere anche un notevole gusto melodico.
Terraforming è, infatti, un lavoro che, scremato dei suoi momenti più ruvidi, si lascia ascoltare con un certo agio, contraddistinto da passaggi liquidi e di pregevole esecuzione (splendido per esempio l’incipit della terza parte); questi trentacinque minuti intensi ed convincenti mettono il nome Morphinist tra quelli da cerchiare con circoletto rosso, nel novero di coloro che si muovono nello stesso ambito musicale.
A questo punto sono curioso di ascoltare che cosa Argwohn abbia escogitato in occasione di Giants che, al contrario di Terraforming, non pare godere dello stesso dono della sintesi, visto che consta di ben quattro brani di circa venti minuti ciascuno.
Vi faremo sapere …

Tracklist:
1. Terraforming I
2. Terraforming II
3. Terraforming III

Line-up:
Argwohn – Everything

MORPHINIST – Facebook

Vemod – Venter På Stormene

Venter På Stormene è un album assolutamente da riscoprire in attesa che i Vemod si riaffaccino sul mercato, questa volta però con alle spalle un etichetta in grado valorizzarne al massimo il notevole potenziale.

Sempre alla costante ricerca di musica capace di colpire ed emozionare, la Prophecy attira nel proprio variegato e qualitativo roster i norvegesi Vemod e ne ripropone in un nuovo formato il full length d’esordio Venter På Stormene.

Il duo formato da Jan Even Åsli e Eskil Blix (divenuto nel frattempo un terzetto con l’ingresso del bassista Espen Kalstad) ha mosso i primi passi nel 2004 (quando uscì il demo Kringom fjell og skog) ma è rimasto silente per diverso tempo finché, nel 2011, uno split album con i tedeschi Klage ed un nuovo demo (Vinterilden) hanno preparato il terreno all’uscita di Venter På Stormene l’anno successivo.
Un album, questo, che all’epoca passò inosservato ai più, anche se ben accolto da chi ebbe occasione di parlarne, schiacciato tra la miriade di uscite ed l’incasellamento della band nel calderone black metal, scelta per certi versi obbligata ma per altri piuttosto fuorviante.
Se di black si tratta senza ombra di dubbio, infatti, quello dei Vemod è contraddistinto da caratteri molto eterei ed atmosferici e con una non trascurabile componente ambient e, per di più, racchiude ed amalgama efficacemente diverse fonti di ispirazione, che comprendono ovviamente la matrice di base norvegese, con rimandi alla scuola tedesca ed anche qualche accenno cascadiano proveniente da oltreoceano.
La title track e la successiva Ikledd Evighetens Kappe sono due ottimi brani, contigui nel loro sviluppo, atmosferici ed evocativi ma senza contraddistinti da una gelida asprezza di fondo, mentre Altets Temple è una lunga traccia ambient e Å Stige Blant Stjerner, posta in chiusura, si rivela una magnifica progressione strumentale.
Venter På Stormene (in attesa della tempesta) è un album assolutamente da riscoprire in attesa che i Vemod si riaffaccino sul mercato, questa volta però con alle spalle un etichetta in grado valorizzarne al massimo il notevole potenziale.

Tracklist:
1.Venter på stormene
2.Ikledd evighetens kappe
3.Altets tempel
4.Å stige blant stjerner

Line-up:
E. Blix – Drums, Vocals
J.E. Åsli – Guitars, Bass, Compositions, Lyrics

VEMOD – Facebook

1476 – Wildwood / The Nightside

Per i 1476 il passaggio dallo status di “segreto meglio conservato” a realtà stimolante e di sicuro spessore è ormai cosa fatta.

La Prophecy Productions presenta i 1476 come “il segreto meglio conservato in ambito rock dark e atmosferico”, e noi abitualmente ci fidiamo della label tedesca …

E’ giunto, quindi, il momento di portare alla luce l’operato di questo duo di Salem, composto da Robb Kavjian and Neil DeRosa, che rinverdisce in parte i fasti dei Mission, quella che, nella seconda metà degli anni ’80, è stata la band che meglio ha interpretato e rielaborato l’eredità del post punk e del gothic, facendone emergere il lato più poetico e malinconico.
L’accostamento con il gruppo di Wayne Hussey serve, soprattutto, ad inquadrare meglio i 1476, i quali appaiono comunque molto più europei che non americani (e forse le origini che si desumono dai cognomi dei due musicisti in questo senso possono avere un loro peso), ma ci mettono molto del loro per rendere peculiare la proposta inglobando elementi neo folk ed ambient, rendendola quanto mai fresca pur rifacendosi in parte a sonorità in voga trent’anni fa.
Va detto che questo disco costituisce, di fatto, una parziale summa di quanto realizzato finora dai 1476 (sia l’album Wildwood che l’ep The Nightside, entrambi racchiusi in questa release, risalgono al 2012), aggiungendo che anche il restante operato del duo verrà pubblicato dalla Prophecy, in attesa di un nuovo disco programmato per l’autunno.
Wildwood consta di 11 tracce prive di momenti deboli, capaci di trasportare l’ascoltatore dalla malinconia acustica di Horse Dysphoria e Banners In Bohemia fino ai ritmi più incalzanti di Good Morning, Blackbird, Stave-Fire e An Atrophy Trophy, senza dimenticare altri episodi magnifici quali Black Cross/Death Rune e Watchers.
I quattro brani tatti dall’ep The Nightside (tra i quali c’è una versione più scarna della già citata Good Morning, Blackbird) appaiono invece molto più introspettivi e meno immediati, se vogliamo accostabili a certo neo folk, ed entusiasmano meno, pur restando ad un livello senz’altro soddisfacente.
In buona sostanza, i 1476 riescono in maniera efficace e convincente ad evocare quelle atmosfere misteriose ed ancestrali che sono caratteristiche del New England, regione che, non lo si può certo dimenticare, ha dato i natali a due giganti delle letteratura come Poe e Lovecraft.
E proprio al primo è dedicato il lavoro che uscirà proprio in questi giorni, sempre a cura della Prohecy: “Edgar Allan Poe: A Life Of Hope & Despair”, concepito nel 2014, è una sorta di colonna sonora che dovrebbe mostrare un volto ancora diverso del duo americano.
Insomma, c’è molta carne al fuoco per i 1476, per i quali il passaggio dallo status di “segreto meglio conservato” a realtà stimolante e di sicuro spessore è ormai cosa fatta.
Wildwood / The Nightside è un opera che potrebbe essere apprezzata da appassionati dal background diverso, ma accomunati da una naturale predisposizione a nutrirsi di sonorità oscure ed evocative.

Tracklist:
1.Black Cross/Death Rune
2.Watchers
3.The Dagger
4.Banners In Bohemia
5.Good Morning, Blackbird
6.Horse Dysphoria
7.Stave-Fire
8.Bohemian Spires
9.An Atrophy Trophy
10.Shoreless
11.The Golden Alchemy
12.Mutable : Cardinal
13.Know Thyself, Dandy
14.Good Morning, Blackbird
15.The Nightside

Line-up:
Robb Kavjian
Neil DeRosa

1476 – Facebook

DunkelNacht – Ritualz Of The Occult

Ritualz Of The Occult conferma in pieno quanto scritto due anni fa al riguardo dei DunkelNacht, con la speranza che, comunque, questa breve opera non resti fine a sé stessa ma costituisca piuttosto l’antipasto ad un prossimo album su lunga distanza.

I francesi DunkelNacht, in poco più di un decennio d’attività, si sono segnalati per una produzione piuttosto ricca di uscite (anche se i full-length pubblicati sono solo due) e, soprattutto, per una certa irrequietezza stilistica che sembra essere marchiata a fuoco nel dna delle band transalpine dedite a forme musicali prossime al black metal.

Avevamo già parlato di questo combo di Lille in occasione del loro precedente album, Revelatio, che aveva convinto proprio per una versatilità di fondo che non sconfinava in una resa frammentaria od eccessivamente cervellotica.
La dote principale dei DunkelNacht che emergeva in tale frangente era, in effetti, quella di tenere sempre ben presente quanto la melodia abbia un suo peso anche in una proposta dai tratti estremi, e non fa difetto in tal senso neppure questo breve Ep con il quale i nostri, in meno di venti minuti, ci investono con il consueto approccio caleidoscopico.
Rispetto a Revelatio sembrerebbe che la barra si sia spostata verso un black death che non rinuncia comunque a stupire con qualche colpo ad effetto, come l’incedere catchy dell’intro Unchained o l’approccio tra il teatrale ed il grottesco della conclusiva God to Gold (Gold to God).
La title track è una notevole mazzata nella quale il nuovo vocalist, l’olandese M.C. Abagor, si esprime in maniera convincente sia con il growl che con lo scream, e non da meno è la successiva Pretty Lovesick Funeral, nella quale si fanno apprezzare diversi passaggi rallentati, mentre il delicato arpeggio che inaugura Emblem of a Diluted Deism si rivela quanto mai ingannatorio, vista la piega che prenderà un brano per lo più spigoloso e squadrato, ma capace ugualmente di aprirsi in maniera imprevedibilmente ariosa nella sua parte finale.
Un tratto comune e determinante per la riuscita dell’Ep è, comunque, l’ottimo lavoro alla chitarra solista del leader Heimdall, il quale infarcisce i diversi brani di assoli di ottimo gusto e, soprattutto, mai banali.
Ritualz Of The Occult conferma in pieno quanto scritto due anni fa al riguardo dei DunkelNacht, con la speranza che, comunque, questa breve opera non resti fine a sé stessa ma costituisca piuttosto l’antipasto ad un prossimo album su lunga distanza.

Tracklist:
1. Unchained
2. Ritualz of the Occult
3. Pretty Lovesick Funeral
4. Emblem of a Diluted Deism
5. God to Gold (Gold to God)

Line-up:
Heimdall – Guitars (lead), Programmings
Alkhemohr – Bass, Vocals (backing)
Max Goemaere – Drums
M.C. Abagor – Vocals (lead)

DUNKELNACHT – Facebook

Acheronte – Ancient Furies

In ossequio al titolo, molta furia che meriterebbe d’essere un po’ meglio canalizzata visto che, quando rallentano leggermente il passo, gli Acheronte mostrano un volto migliore rispetto a quando si esibiscono in sfuriate parossistiche.

Dopo una serie di uscite dal minutaggio, ridotto i blacksters marchigiani Acheronte arrivano al full length d’esordio.

Il monicker scelto e le tematiche connesse al lavoro , che vede ciascun brano dedicato a storici e sanguinari condottieri quali, tra gli altri, Alessandro Magno, Vlad Tepes ed Attila, istintivamente farebbero pensare ad una band dedita al lato più epico del genere.
In realtà tale aspetto nel black degli Acheronte è presente in maniera piuttosto sfumata, a favore di un approccio canonico ma privo di elementi peculiari, mettendo in luce più l’attitudine e la convinzione con cui la materia viene trattata che non la presenza di spunti capaci di rendere appetibile il lavoro rispetto ad un’affollata concorrenza.
Ancient Furies mette in mostra un’interpretazione onesta e sincera, devota in tutto e per tutto ai dettami primordiali del genere ma, a tratti, piuttosto ripetitiva e, a mio avviso, a forte rischio di accantonamento a meno che, chi si avvicina all’ascolto, non sia un accanito sostenitore a prescindere di tutto il black metal prodotto sul suolo nazionale.
In ossequio al titolo, quindi, molta furia che meriterebbe d’essere un po’ meglio canalizzata visto che, quando rallentano leggermente il passo, gli Acheronte mostrano un volto migliore rispetto a quando si esibiscono in sfuriate parossistiche poco valorizzate, peraltro, da una resa sonora un po’ caotica.
Ne consegue che, alla prima prova su lunga distanza, gli Acheronte si guadagnano senz’altro la sufficienza ma, oltre ad auspicarne l’ approdo ad una maggiore varietà compositiva, mi piacerebbe che in futuro privilegiassero di più quelle parvenze melodiche capaci di rendere, per esempio, Destroyer for the Glory (Alexander the Great), un brano di buona levatura ed un’ottima base da cui ripartire.

Tracklist:
1. Addicted to War (Assurnasirpal II)
2. Destroyer for the Glory (Alexander the Great)
3. Ancient Persecutor of Christianity (Diocletian)
4. Flagellum Dei (Atilla)
5. The Lame One (Timur Barlas)
6. The Lord Impaler (Vlad III)
7. Bloods for the Gods (Ahuitzotl)

Line-up:
Phobos – Guitars, Vocals (backinng)
Lord Baal – Vocals
A. T. La Morte – Bass
Bestia – Drums

ACHERONTE – Facebook

Deviser – Unspeakable Cults

L’attiva etichetta greca Sleaszy Rider ci offre questa riedizione, a vent’anni dalla sua uscita, del miglior album inciso dai connazionali Deviser.

L’attiva etichetta greca Sleaszy Rider ci offre questa riedizione, a vent’anni dalla sua uscita, del miglior album inciso dai connazionali Deviser, quell’Unspeakable Cults che, all’epoca, andò a collocare la band di origine cretese sulla scia dei migliori act dediti al symphonic black metal.

Correva quindi il 1996, anno in cui le due band che hanno portato ai livelli più alti questo sottogenere, Dimmu Borgir e Cradle Of Filth, uscivano rispettivamente con due pietre miliari quali Stormblåst e Dusk And Her Embrace; va detto, a scanso di equivoci, che lo stile dei Deviser, anche in virtù della loro contemporaneità, non si rifaceva in maniera smaccata a quei lavori, mostrando una vena più gothic e mediterranea ed un afflato melodico superiore a chi, come Rotting Christ (con Triarchy of The Lost Lovers) e Varathron (reduci da Walpurgisnacht), a quei tempi teneva alto il vessillo della fiamma nera nella penisola ellenica, con album dalle sonorità più estreme
Riascoltato oggi, Unspeakable Cults mostra, in tutto e per tutto, le sue sembianze di album novantiano, il che non sminuisce affatto il fascino di una serie di tracce di ottimo livello, che fanno intuire quale fosse il potenziale di una band che però, in seguito, non è più stata in grado di esprimersi agli stessi livelli, se non in parte con il successivo Transmission to Chaos; una traccia come The Rape Of Holiness porta a scuola gran parte dei gruppi che attualmente si cimentano con il black sinfonico, e lo stesso si può dire della bonus track Forbidden Knowledge, sicuramente un elemento che va ad arricchire ulteriormente questa edizione rispetto all’originale.
Lo screaming di Matt Hnaras non è eccezionale ma rimane comunque nella norma, mentre Nick Christogiannis si fa sentire non solo con un tastierismo elegante e non troppo invadente, ma anche con un basso pulsante che, per una volta, non viene fagocitato dal muro sonoro creato dalle chitarre.
Unspeakable Cults è un album che risente inevitabilmente dalla sua anzianità di servizio ma, nel contempo, si rivela uno spaccato ben più che interessante di quelle sonorità che, alla fine del secolo scorso, consentirono al black metal di aprirsi (non senza aver provocato diatribe in merito) ad un audience più ampia; nel frattempo i Deviser sono sempre rimasti attivi, sebbene con una produzione piuttosto diradata (il loro ultimo full-length risale al 2011): vedremo se questa riedizione del loro disco più riuscito fornirà un impulso decisivo per produrre ancora del nuovo materiale di pari livello.

Tracklist:
1. Stand & Deliver
2. Darkness Incarnate
3. Threnody
4. When Nightmares Begin
5. The Rape Of Holiness
6. Ritual Orgy (instrumental)
7. Dangers Of A Real & Concrete Nature
8. The Fire Burning Bright
9. In The Horror Field
10. Forbidden Knowledge (bonus track)
11. Afterkill (outro)

Line-up:
Matt Hnaras – Vocals/Guitars
Nick Christogiannis – Bass/synths
George Triantafillakis – Lead Guitars
Nikos Samakouris – Drums

DEVISER – Facebook

Fyrnask – Fórn

Semplicemente, una delle migliori uscite in ambito black metal ascoltate in questi ultimi anni.

Cominciamo dalla fine: quando le note del gioiello strumentale Havets Kjele sfumano, al termine dell’ennesimo ascolto di Fórn, terzo full-length della one man ban tedesca Fyrnask, posso affermare in tutta tranquillità che, se black metal si deve suonare, questa è la forma in grado di mettere a tacere per sempre critici e scettici per partito preso nei confronti del genere.

In poco più di cinquanta minuti, il buon Fyrn (il quale, in ossequio al verbo black, utilizza nei suoi lavori l’idioma norvegese) mette in mostra tutte le sfaccettature di un movimento musicale che, se per forza di cose ha perso con il tempo la sua carica eversiva, è comunque ben lungi dall’aver esaurito la sua funzione di mezzo espressivo per eccellenza di un sentire pagano, oscuro e introspettivo.
Dopo l’ambient di Forbænir, un brano come Draugr si erge prepotentemente a manifesto della vis compositiva del musicista di Bonn: nel suo interno troviamo l’impulso originario del genere con i suoi natali scandinavi (Emperor), la sperimentazione dai tratti apocalittici che rimanda alla vivace scena francese (Blut Aus Nord) e, ovviamente, la solennità e l’algido rigore della scuola tedesca (Lunar Aurora).
Fórn ha persino il pregio di godere di una buona produzione, capace di esaltare le parti atmosferiche e di scongiurare esiti caotici allorché le tracce vengono lasciate scorrere con il consueto parossismo; a fare la differenza, in effetti, è anche una certa cura de particolari che rende l’ascolto ricco, imprevedibile e sicuramente non banale.
Il crescendo di Agnis Offer, la furia piroclastica di Blótan, lo smarrimento provocato da Kenoma, sono solo alcuni dei numerosi picchi di un disco di rara qualità, che richiede la dovuta predisposizione ad un ascolto attivo e che, senza offesa per nessuno, è lontano anni luce dall’operato di gran parte delle one man band, spesso autrici di opere valide ma, nel contempo, approssimative per esecuzione e produzione.
Impreziosito dal magnifico artwork curato dal grafico irlandese Glyn Smyth, Fórn è, come detto, una delle migliori uscite in ambito black metal ascoltate in questi ultimi anni; questa stessa etichetta, del resto, rischia d’essere riduttiva per un lavoro che esprime con rara efficacia un senso di spiritualità rinvenibile, volendo cercare un paragone calzante con qualche band del passato, soprattutto nei Negură Bunget pre-split, al netto di una componente folk molto meno preponderante: spero che un simile riferimento possa bastare ed avanzare per rendere appetibile l’ascolto di questo splendido album.

Tracklist:
1.Forbænir
2.Draugr
3.Niðrdráttr
4.Vi er dømt
5.Agnis Offer
6.Urðmaðr
7.Blótan
8.Fornsǫngvar
9.Kenoma
10.Havets Kjele

Line-up:
Fyrnd – All instruments, Vocals

FYRNASK – Facebook

Völur – Disir

I non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.

Da una costola dei Blood Ceremony nasce questo interessante progetto denominato Völur.

Lucas Gadke, bassista della nota occult doom band canadese, si avvale dell’aiuto del batterista James Payment e soprattutto della violinista e vocalist Laura Bates, la quale si dimostra elemento decisivo nel conferire peculiarità al lavoro.
L’uscita di Disir, in effetti, risale a poco più di due anni fa in formato cassetta: la sempre attenta Prophecy ripropone il tutto nelle più canoniche versioni in cd e vinile migliorandone nel contempo la reperibilità, specie sul più ricettivo suolo europeo.
I quattro lunghi brani qui contenuti prendono le mosse dal doom per spingersi verso ambiti e sfumature variegate: con il violino a sostituire di fatto la chitarra, il sound dei Völur assume caratteristiche non prive di un certo fascino, andando ad evocare di volta in volta sensazioni oscillanti dalla Mahavishnu Orchestra ai King Crimson con David Cross in formazione, fino a spingersi ai riflessi morriconiani della soffusa White Phantom.
Disir non è un album semplicissimo da assimilare, non tanto per una sua relativa orecchiabilità quanto per il suo andarsi a collocare in un ambito dai confini indefiniti e, quindi, non rivolto ad una specifica fascia di ascoltatori.
Immagino, però, che i non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano, non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.

Tracklist:
1. Es wächst aus seinem Grab
2. The Deep-Minded
3. White Phantom
4. Heiemo

Line-up:
Lucas Gadke – Electric bass, double bass & vocals
Laura C. Bates – Violin & vocals
James Payment – Drums

Völur – Facebook

Moaning Silence – A World Afraid Of Light

Una serie di belle canzoni, eseguite con la dovuta competenza ed ammantate di un sottile un velo di malinconia, ovvero tutto ciò che serve per fare di questi tre quarti d’ora di musica la gradevole colonna sonora di giornate particolarmente uggiose.

I Moaning Silence sono un nuovo progetto proveniente dalla sempre fertile terra ellenica, specie quando si parla di metal oscuro ed atmosferico.

La band creata da Christos Dounis si rende efficacemente protagonista del recupero di quelle sonorità che ebbero una certa risonanza alla fine del secolo scorso grazie ad album come Forever Autumn dei Lake Of Tears e Crystal Tears degli On Thorns I Lay e che, a differenza dell’attuale interpretazione del genere, si distingueva per una ricerca della melodia più diretta ed essenziale e scevra di tecnicismi di sorta.
Avvalendosi dell’aiuto della vocalist Emi Path, del batterista Vangelis X e, soprattutto, di una figura di spicco del metal greco come Bob Katsionis, chiamato ad occuparsi anche della produzione, il buon Dounis mette in scena un lavoro pregno di un romanticismo dolente e malinconico che, pur essendo legato a doppio filo a tutti i cliché possibili del genere, si rivela alla fine gradevolissimo.
I dieci brani scorrono via avvolgenti e ricchi di linee melodiche ben memorizzabili: A World Afraid Of Light parte al meglio con due brani ottimi come l’ideale rappresentazione del gothic doom programmaticamente intitolata Solitude e, soprattutto, la successiva Black Skies, dotata di un notevole finale in crescendo, ma vanno segnalate anche l’ottima cover di Parisienne Moonlight, perla contenuta all’interno di Judgement degli Anathema, la robusta Stay e la ariosa An Elegy For The Crestfallen.
Per i Moaning Silence un primo lavoro di buon livello, che non sposta certo gli equilibri del genere ma che neppure resta inesorabilmente schiacciato dagli inevitabili riferimenti al passato: semplicemente, qui siamo al cospetto di una serie di belle canzoni, eseguite con la dovuta competenza ed ammantate di un sottile un velo di malinconia, ovvero tutto ciò che serve per fare di questi tre quarti d’ora di musica la gradevole colonna sonora di giornate particolarmente uggiose.

Tracklist:
1.Solitude
2.Black Skies
3.On Fragile Wings
4.Parisienne Moonlight (Anathema cover)
5.The Last Days Of December
6.As If It Was Yesterday
7.Stay
8.Just Another Day
9.An Elegy For The Crestfallen
10.Sparks Of Light

Line-up:
Christos Dounis – Electric & Acoustic Guitars/Vocals
Emi Path – Vocals
Bob Katsionis – Keyboards, Bass & add guitars
Vangelis X. – Drums

MOANING SILENCE – Facebook

Nocturnal Streams – Leaden

Al netto di qualche imperfezione, Leaden mette in luce validi spunti uniti ad una buona vena compositiva e, trattandosi di una prima uscita, si può considerare senz’altro più che sufficiente.

Prima uscita discografica per i Nocturnal Streams, nati agli albori del decennio come one man band per volere di Drake Thrim, ed oggi divenuti invece un duo con l’entrata informazione di Dubnòs, chitarrista dei folk metallers Korrigans; questo breve Ep, intitolato Leaden, ci mostra i due musicisti laziali alle prese con un doom death dai tratti piuttosto canonici nel quale vengono messi in evidenza diversi buoni spunti ed altrettanti aspetti perfettibili.

La pecca maggiore è rappresentata dal suono delle tastiere, che appaiono troppo artificiali e scolastiche nei loro interventi, venendo meno peraltro in determinati passaggi che ne avrebbero richiesto la presenza quale opportuno sottofondo atmosferico. A tutto questo contribuisce anche una resa sonora che, ricordando quello di certi dischi gothic-doom dei primi anni novanta (se si riprende un album come Wisdom Floats dei Decoryah, tanto per fare un esempio, si capisce che cosa intendo), dona un certo fascino al tutto ma non sempre riesce a legare sufficientemente il lavoro dei singoli strumenti.
Detto ciò, Leaden mette in luce validi spunti uniti ad una buona vena compositiva e, trattandosi di una prima uscita, si guadagna senz’altro la sufficienza; chiaramente c’è da lavorare anche sull’originalità del sound proposto però i brani appaiono comunque gradevoli e, soprattutto, non sono affatto pretenziosi, riuscendo a trasmettere, sebbene a intermittenza, quell’emotività che il genere richiede.
Al netto dei poco convincenti suoni di tastiera, spicca l’opener strumentale Wolves’ Rain, mentre va rimarcata la buona esecuzione della cover di Eternal, tratta dal seminale Gothic dei Parasise Lost, nella quale i Nocturnal Streams mostrano di trovarsi a loro agio con sonorità tipicamente novantiane, benchè si tratti di un brano non del tutto rappresentativo dello stile proposto nel resto dell’ep, nel quale prevale invece una componente doom dalle sfumature black/death (in particolare nelle due tracce centrali, Shine of Life e Cult of Mortification).
Fatto il primo passo, i Nocturnal Streams vanno rivisti alla prossima occasione per verificarne un’auspicabile progressione, da ricercare più nella cura dei particolari che non negli aspetti prettamente compositivi.

Tracklist:
1. Wolves’ Rain
2. Shine of Life
3. Cult of Mortification
4. Eternal

Line-up:
Drake Thrim – Lead Vocals, Bass, Programming
Dubnòs – Electric and Acoustic Guitars, Additional Vocals

NOCTURNAL STREAMS – Facebook

Suffer In Paradise – This Dead Is World

Una bellissima sorpresa questo album dei Suffer In Paradise, autori di un funeral doom dal notevole impatto emotivo.

Una bellissima sorpresa questo album dei Suffer In Paradise, autori di un funeral doom dal notevole impatto emotivo.

Il trio russo attinge soprattutto alle sonorità degli Ea per l’afflato melodico, di Skepticism/Profetus per il tocco tastieristico, ricordando a tratti anche gli Ordog di Remorse, e l’esito finale avvince ed affascina nonostante la palese derivatività del sound proposto.
Ma nel funeral, più che in altri generi, non è così importante fare le cose per primi, lo è molto di più farle per bene, ovvero esprimendo la propria sensibilità in modo da coinvolgere emotivamente l’appassionato (al quale, di fronte ad un disco che sa toccare le giuste corde , dell’originalità non può fregare di meno).
This Dead Is World riprende due dei brani presenti sull’unico segnale di vita discografica fornito in precedenza, ovvero il demo auto intitolato risalente al 2010.
Tempi lunghi ma risultati efficaci, quindi, e qui ci sono tutte le carte in regola per tessere trame dolenti ed evocative nel corso di più di un’ora, durante la quale le tastiere creano il tappeto sonoro ideale per poggiarvi un ben delineato lavoro chitarristico.
Un brano meraviglioso come Somnambula depone insindacabilmente a favore del talento compositivo dei Suffer In Paradise, i quali compongono il disco che quelli come me vogliono ascoltare quando vanno alla ricerca di una consolatoria catarsi, tenendosi alla larga da sperimentazioni e tentazioni droniche, da assimilarsi invece con altro spirito, e lasciando spazio ad un sound lineare quanto efficace.
In attesa del ritorno sulla scena dei nomi di punta, questo lavoro è un ottima panacea e dovrebbe rivelarsi senz’altro gradito a chi apprezza le band citate in precedenza.

Tracklist:
1. This Dead Is World
2. Somnambula
3. Suffer in Paradise
4. Insect
5. Archetype
6. Cantus Cycneus

Line-up:
A.V. – Guitars, Vocals
Defes Akron – Keyboards, Drum programming
R. Pickman – Bass

Into Coffin – Into Pyramid of Doom

Gli Into Coffin si rivelano buoni interpreti di sonorità aspre e rallentate che restituiscono sensazioni positive grazie ad un’esecuzione senza fronzoli ma sempre precisa.

Dopo un demo uscito lo scorso anno, i tedeschi Into Coffin esordiscono con questo full length a base di un death doom aderente all’ortodossia del genere, soprattutto per quello che ne riguarda gli aspetti più ruvido e meno melodici.

I ragazzi dell’Assia vanno ad inserirsi alla perfezione nel punto in cui la pesantezza del classic doom si interseca con la virulenza del death, prendendo come possibile riferimento una band come gli Winter, ma arricchendone ulteriormente il sound con più di una sfumatura di stampo black.
Gli Into Coffin nel complesso si comportano decisamente meglio di altre realtà simili trattate di recente, come i connazionali The Fog o i redivivi olandesi Spina Bifida, perché si rivelano buoniinterpreti di sonorità aspre e rallentate che restituiscono sensazioni positive grazie ad un’esecuzione senza fronzoli ma sempre precisa e valorizzata da una buona produzione.
Chiaramente, Into Pyramid of Doom è un lavoro che, al netto di qualche tentazione ambient, tende ad essere piuttosto uniforme nel suo cupo incedere, un aspetto questo che viene accentuato anche dall’attenzione posta dagli Into Coffin più all’impatto sonoro che non alla creazione di atmosfere accattivanti; ne deriva che il gradimento di un lavoro come questo dipende molto dal gusto personale, per cui chi è più propenso al doom-death melodico può anche trascurare questo disco mentre, al contrario, chi predilige sonorità più dirette e limacciose potrebbe trovare non poca soddisfazione.
Peraltro i nostri non si limitano a proporre partiture bradicardiche ma, sovente, si lanciano in efficaci accelerazioni che, se non si possono definire effettivamente elementi peculiari o sintomatici di una particolare varietà compositiva, riescono nell’intento di rompere, almeno in parte, il monolitico incedere dell’album.
Come brano da ascoltare per farsi un’idea più precisa della proposta consiglierei la conclusiva Black Ascension, traccia che in poco più di dieci minuti esibisce in maniera esauriente lo spettro sonoro entro il quale si muove la band tedesca.
Into Pyramid of Doom non è un’opera che lascerà il segno negli anni a venire ma non è neppure trascurabile, alla luce della competenza e della convinzione esibita nel corso del lavoro dagli Into Coffin.

Tracklist:
1. The Entrance
2. Stargate Path
3. Into a Pyramid of Doom
4. The Deep Passage for the Infinity of the Cosmo
5. Black Ascension

Line-up:
G. – basso, voce
S. – chitarra, voce
J. – batteria

INTO COFFIN – Facebook

Cepheide – Respire

I Cepheide raffigurano in maniera credibile una dimensione di afflizione e disperazione che si staglia su un tappeto atmosferico di buona fattura.

Ancora dalla fertile Francia arrivano i Cepheide, band che, con questo Respire, giunge alla seconda uscita dopo il demo d’esordio De silence et de suie, pubblicato nel 2014.

I parigini sono autori di un black metal molto atmosferico che sconfina spesso e volentieri nel depressive, aiutato in questo dalle urla costanti che, più che declamare testi, assumono alla fine la funzione di vero e proprio strumento aggiuntivo.
Tutto ciò raffigura in maniera credibile una dimensione di afflizione e disperazione che si staglia su un tappeto melodico di buona fattura: il lavoro si rivela così molto interessante per la sua intensità anche se, per converso, alla lunga potrebbe pagare dazio a causa della sua uniformità espressiva.
Per sfuggire a questo rischio bisogna considerare Respire (uscito in origine come autoproduzione nel 2015 e riedito oggi dalla Sick Man Getting Sick Records in formato vinilico) quasi come una sorta di flusso sonoro volto a disegnare lo stato d’animo di chi, su questa terra, ha rinunciato a scendere a patti con il modo circostante e, soprattutto, con se stesso.
I due lunghissimi brani, che brillano per un’intensità a tratti spasmodica, differiscono parzialmente in quanto Le souffle brûlant de l’immaculé possiede un incedere più apocalittico ed in qualche modo aderisce agli stilemi del black metal nella sua forma più cupa e depressiva, mentre La chute d’une ombre esibisce passaggi ambient e, anche quando riesplode la furia ritmica, si ammanta di una certa aura cosmica.
Respire è un lavoro decisamente intrigante, anche se non per tutti, in virtù dei suoi pregi, rappresentati in primis dall’elevato impatto emotivo, che superano di gran lunga i difetti, tra i quali si segnala invece una produzione non proprio limpidissima.
I Cepheide hanno posto le basi per produrre prossimamente qualcosa in grado di lasciare un segno profondo, perché il malessere e la disperazione che vengono espressi in quest’opera, ancora perfettibile, assumono quei tratti tangibili che band appartenenti allo stesso segmento stilistico non riescono ad esibire con analoga profondità.

Tracklist:
1. I. Le souffle brûlant de l’immaculé
2. II. La chute d’une ombre

Line-up:
Thomas Bouvier
Gaétan Juif

CEPHEIDE – Facebook

CEPHEIDE – Bandcamp