Phobonoid – Phobonoid

Una tempesta perfetta di metal cosmico, drammatico ed apocalittico.

Poco meno di due anni fa mi ero imbattuti nell’ep d’esordio di questa intrigante one man band denominata Phobonoid.

Quei 20 minuti di black metal dai connotati industrial facevano intuire ma non ancora esplodere del tutto il potenziale che il musicista trentino Lord Phobos dimostrava di possedere.
Questo primo full length autointitolato, invece, scardina definitivamente ogni dubbio investendoci con una tempesta perfetta di metal cosmico, drammatico ed apocalittico.
Se il concept resta sempre incentrato su storie che vedono come scenario la più grande delle due lune di Marte, il sound si è evoluto, come personalmente avevo auspicato, sulle coordinate che erano state già evidenziate nella parte finale dell’ep Orbita.
Se all’epoca mi ero lanciato in un accostamento con una band avanguardista come i Blut Aus Nord, in quest’occasione il respiro cosmico ed il senso di tregenda che scaturiscono dai suoni dell’album mantengono sempre oltralpe eventuali termini paragone, anche se, stavolta, il nome da citare sono i Monolithe: è chiaro, qui la base non è il funeral doom ma uguale è il senso di smarrimento di fronte ad avvenimenti che vedono come teatro uno spazio i cui limiti sono ben al di là della nostra umana comprensione.
Fuga nel vuoto, La risonanza della sonda, Kairos, la conclusiva title track e la clamorosa Frammenti di luce sono gli episodi più significativi di un insieme che annichilisce nel suo incedere più rallentato e che non lascia spazio a spunti melodici che poco si addirrebbero agli eventi apocalittici che ci vengono descritti in musica.
Come nell’opera precedente, la voce resta in sottofondo, quasi strumento tra gli strumenti, accentuando l’impatto straniante di suoni che non lasciano scampo.
Phobonoid è un ottimo album, magari non proprio alla portata di tutte le orecchie, ma che sicuramente chi apprezza sonorità come quelle citate dovrebbe far proprio senza particolari esitazioni.

Tracklist
1.Crono
2.Alpha Centauri
3.La sonda di Phobos
4.Fuga nel vuoto
5.Eris
6.Vento stellare
7.La risonanza della sonda
8.Kairos
9.Pulse
10.Frammenti di luce
11.Tachyon
12.Phobonoid

Line-up:
Lord Phobos

PHOBONOID – Facebook

Raven Mocker – Livid Flame

I Raven Mocker offrono un’interpretazione del genere ortodossa quanto coinvolgente, con un buon lavoro di tastiera ad arricchire di pathos suoni prodotti ed eseguiti in maniera soddisfacente.

Altra band proveniente dagli USA dedita al funeral doom e della quale non si possiedono altre notizie se non quelle correlate a monicker e titoli dei brani, i Raven Mocker esordiscono con questo EP intitolato Livid Flame.

Le due tracce, denominate in maniera piuttosto essenziale e II, si snodano per una decina di minuti ciascuna offendo un’interpretazione del genere ortodossa quanto coinvolgente, ovvero con un buon lavoro di tastiera ad arricchire di pathos suoni prodotti ed eseguiti in maniera soddisfacente.
Tra i due brani, il primo vive di una solennità quasi liturgica conferita dall’eccellente operato dei nostri (o nostro ? ) ai tasti d’avorio, mentre il secondo lascia che sia prevalentemente la chitarra a disegnare le dolenti e struggenti melodie che, comunque, vengono riversate con buona continuità all’interno di questi venti minuti di funeral intenso ed emozionante.
Un lavoro davvero convincente, e consigliato senza remore a chi ama collezionare musica poco convenzionale proposta tramite supporti altrettanto particolari, visto che Livid Flame è stato pubblicato dalla Atrum Cultus nel formato della musicassetta in tiratura limitata a 100 copie; il tutto costa 5 dollari e, alla luce dell’ottima musica regalata dai Raven Mocker, per un amante del funeral il rapporto qualità/prezzo è senz’altro conveniente.

Tracklist
1. Livid Flame I
2. Livid Flame II

 

Sepultus Est – En el marmoreo laberinto donde sueñan los muertos

Lord Sepultus non si è certo risparmiato nel suo intento di scaraventarci nei baratri più profondi con la propria funerea ispirazione, così l’album sfiora il massimo consentito dalla lunghezza di un cd

Un disco di funeral doom proveniente dal Perù è per certi versi un’anomalia, ancor più se pensiamo che sovente, quando questo genere viene proposto da musicisti residenti in nazioni senza una tradizione consolidata nel settore, i risultati sono spesso infarciti di ingenuità e di imperfezioni in fase di esecuzione e produzione.

Non è certo questo il caso dei Sepultus Est, band di Lima guidata da Lord Sepultus, il quale, pur costituendone il fulcro artistico e compositivo, non si adagia alla condizione striminzita di one man band ma si fa aiutare nella stesura della propria opera da un manipolo di musicisti: proprio una certa cura dei particolari e una scrittura ottimale lanciano questo En el marmoreo laberinto donde sueñan los muertos tra le potenziali soprese dell’anno appena iniziato, in ambito funeral (il disco, infatti, è stato da poco pubblicato dalla label russa GS Productions).
Lord Sepultus non si è certo risparmiato nel suo intento di scaraventarci nei baratri più profondi con la propria funerea ispirazione, così l’album sfiora il massimo consentito dalla lunghezza di un cd (78 minuti) con l’iniziale title track che, a sua volta supera i 40 minuti di durata: già da questi freddi numeri si può intuire quanto il lavoro sia estremo, non tanto dal punto di vista delle sonorità quanto per l’impegno che viene richiesto all’ascoltatore per coglierne al meglio ogni sfumatura.
Musicalmente siamo nell’alveo del funeral più melodico, con la tastiera del mastermind a guidare le trame di ogni brano, ora con dolenti aperture melodiche, ora con passaggi pianistici che, tutto sommato, rappresentano un elemento piuttosto peculiare.
Si diceva della traccia iniziale, che mette a dura prova la resistenza degli appassionati, a causa di una parte centrale che ferisce con la propria deriva depressive, compresi vocalizzi estremi che vanno rimpiazzare il growl dominante invece nel resto del lavoro: il giusto premio giunge negli ultimi dieci minuti, a dir poco meravigliosi nella loro reiterata ed evocativa melodiosità.
Nella più breve (20 minuti … ) Funebres estatuas en el jardin de la muerte spicca un bellissimo lavoro pianistico che è fondamentalmente ciò che lo distingue dal brano precedente, mentre Paisajes depresivos, bonus track tratta da un demo uscito nel 2013, differisce per un suo incedere a tratti romantico, per quanto sempre pervaso da quella vena di tristezza che si spegne solo con l’ultima nota di questo lunghissimo lavoro.
Un altro nome da appuntarsi per chi ama queste sonorità.

Tracklist
1. En el marmoreo laberinto donde sueñan los muertos
2. Funebres estatuas en el jardin de la muerte
3. Paisajes depresivos

SEPULTUS EST – Facebook

[P.U.T] – Like Animals (Reissue)

Like Animals è la riedizione, a cura della Cimmeran Shade Recordings, dell’album uscito nel 2012 e si rivela utile per riportare l’attenzione su una band oggettivamente interessante.

I [P.U.T] sono fondamentalmente un affare di famiglia, visto che da ormai quindici anni i fratelli Beyet lo portano avanti proponendo una forma aspra e per nulla amichevole di industrial/sludge metal.

Like Animals è la riedizione, a cura della Cimmeran Shade Recordings, dell’album uscito nel 2012 e si rivela utile per riportare l’attenzione su una band oggettivamente interessante anche se, probabilmente a causa del mio retaggio, ne prediligo il sound quando si sposta maggiormente verso lo sludge.
Non a caso ritengo Zoo una vera e propria traccia killer, emblematica di come i nostri sappiano fare male quando sparano senza misericordia riff fangosi e rallentati, corredati da una sirena in sottofondo che sembra proprio quell’ambulanza che sta per venirti a raccogliere dopo esser stato annientato da cotanta pesantezza.
Per il resto i nostri si muovono sulla nobili tracce di Godflesh e Ministry, con buoni risultati come nella squadrata Exuvia e nella bizzarra IT, anche se rispetto a queste band e agli interpreti maggiori del genere restiamo comunque un gradino sotto, ma ugualmente su livelli in grado di attrarre l‘attenzione degli appassionati, in virtù di un approccio che spesso va a lambire per attitudine territori punk.
Rispetto alla versione originale, il lavoro contiene tre bonus track sotto forma di remix, l’ultimo dei quali è proprio la riproposizione dub di Zoo, piuttosto inoffensiva in questa sua veste.
Resta comunque lodevole l’idea di ripubblicare l’album, anche se inevitabilmente si parla di brani la cui stesura risale a 4 anni fa; a coloro che fossero interessati a verificare lo stato di salute attuale dei [P.U.T] consiglierei, quindi, di andarsi ad ascoltare anche i brani contenuti nello split con i Grünt-Grünt, uscito l’anno scorso.

Tracklist
01. In The Lake
02. Zoo
03. Exuvia
04. There’s A Mammoth In This Room
05. IT
06. Like Animals
07. Broke A Line
08. It Ain’t Gonna Be Fun
09. Rapture Of The Deep “In The Lake” (Remake By Azuki)- Bonus Track
10. Broke A Line (Remix by Garlic.wav)- Bonus Track
11. Zoo (Dub mix by NE555)- Bonus Track

Line-up:
Lionel Beyet: Bass/Voice/Rythms
Nicolas Beyet: Guitar/Voice/Rythms
Loïc Beyet: additional guitar&rythm on 8

[P.U.T] – Facebook

Monolithe – Epsilon Aurigae

Epsilon Aurigae  è ricco di momenti dall’elevato tasso emozionale, racchiusi in un contesto sonoro maturo e nel contempo peculiare e, in definitiva,  è l’ennesimo grande album di una band che, assieme  a poche altro in ambito doom, è capace di esibire una cifra stilistica pressoché unica.

Il quinto album dei francesi Monolithe  mostra il suo elemento di novità  già dal titolo, che va ad interrompere la sequenza numerica che si protraeva fin dall’esordio risalente al 2003.

Inoltre,  anche in questo caso per la prima volta, abbiamo tre brani  di un quarto d’ora ciascuno al posto della canonica ed interminabile traccia unica, ma anche dal punto di vista prettamente musicale le novità sono significative, per quanto meno evidenti.
L’evoluzione iniziata con Monolithe III ha progressivamente allontanato la band parigina dal funeral più ortodosso, rendendo il sound man mano più peculiare ed aumentando in maniera esponenziale quella componente cosmica che, in precedenza, era rinvenibile più a livello concettuale che non nella sostanza.
La musica dei Monolithe possiede oggi un incedere solenne, che istintivamente riconduce all’immensità dell’universo piuttosto che al male di vivere, come le coordinate del genere vorrebbero, ma certo non viene meno il senso di caducità dell’esistenza, rappresentato dallo sgomento  dell’uomo di fronte a dimensioni spazio temporali che all’intelletto di un insignificante essere mortale è impedito immaginare.
Come sempre, la voce di Richard Loudin interviene  in maniera efficace  senza mai debordare, lasciando che sia soprattutto la musica ad avere il sopravvento sulle parole.
Epsilon Aurigae  è ricco di momenti dall’elevato tasso emozionale, racchiusi in un contesto sonoro maturo e nel contempo peculiare e, in definitiva,  è l’ennesimo grande album di una band che, assieme  a poche altro in ambito doom, è capace di esibire una cifra stilistica pressoché unica.

Tracklist
1.Synoecist
2.TMA-0
3.Everlasting Sentry

Line-up:
Benoît Blin – Guitars
Richard Loudin – Vocals
Sylvain Bégot – Guitars
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums

MONOLITHE – Facebook

Arche – Undercurrents

Splendide progressioni ammantate di pathos si alternano a passaggi più rarefatti o a repentine aperture melodiche, poste quasi a simboleggiare un’effimera quanto illusoria attenuazione del dolore che pervade l’intero lavoro.

Che la Finlandia sia la patria del funeral non ci sono dubbi, visto che i Thergothon prima e gli Skepticism poi hanno di fatto inventato e codificato questo meraviglioso sotto genere del doom metal.

Nel corso degli anni altre band provenienti dalla terra dei mille laghi hanno fornito prove indimenticabili, citiamo solo Shape of Despair, Colosseum e Profetus tra le più note; proprio da questi ultimi proviene Eppu Kuismin, che ha formato da poco questa nuova band denominata Arche e il cui esordio si rivela una nuova dolorosa perla.
Il musicista finnico di fatto si mette in proprio, componendo, suonando la chitarra ed occupandosi anche delle parti vocali, coadiuvato da Panu Raatikainen a basso e chitarra e Ville Raittila alla batteria: il sound proposto dagli Arche non ricalca però più di tanto quello della band madre ma, semmai, si avvicina maggiormente a quanto fatto dai Colosseum.
In qualche modo questa nuova creatura, infatti, va a comare il vuoto creato dall’inevitabile split dovuto alla prematura dipartita di Juhani Palomäki, ripercorrendone le orme con una scrittura contraddistinta da una costante tensione emotiva, optando per un gravoso incedere guidato da riff diluiti e distorti sui quali si vanno ad appoggiare arpeggi che disegnano melodie struggenti, come accade in particolare nel finale della magnifica Plains Of Lethe.
Ma nel sound del trio di Tampere confluiscono, alla fine, anche influenze provenienti sia dal centro Eyropa (Worship, per certi passaggi dalla lentezza soffocante), sia dall’emisfero australe (Mournful Congregation, per un certo gusto nell’utilizzo delle soluzioni acustiche), a denotare una conoscenza della materia da primo della classe da parte di Kuismin.
Funereal Folds è la seconda delle due lunghe tracce che vanno a comporre questa mezz’ora di funeral doom ai suoi massimi livelli: anche qui le splendide progressioni ammantate di pathos si alternano a passaggi più rarefatti o a repentine aperture melodiche, poste quasi a simboleggiare un’effimera quanto illusoria attenuazione del dolore che pervade l’intero lavoro.
Undercurrents è nutrimento fondamentale per chi nella musica cerca emozioni durature e non canzoncine da fischiettare sotto la doccia …

Tracklist
1. Plains of Lethe
2. Funereal Folds

Line-up:
Eppu Kuismin – Guitars, Vocals
Panu Raatikainen – Guitars, Bass
Ville Raittila – Drums

ARCHE – Facebook

https://vimeo.com/131759482

Excruciation – Twenty Four Hours

Ep che sembra segnare una svolta dark per gli esperti elvetici Excruciation, in attesa di verificarne l’impatto con l’album di prossima uscita.

Twenty Four Hours è un breve ep che segna, almeno in apparenza, una svolta importante nel sound di un band dalla storia ormai trentennale come gli svizzeri Excruciation.

Nati come fautori di un thrash piuttosto canonico proposto nella prima parte della loro carriera (dal 1985 al 1991), dopo una lunga pausa durata quasi tre lustri gli elvetici si sono ripresentati spostandosi in maniera decisa verso il death doom piuttosto plumbeo che ha contraddistinto i tre full length finora incisi (“Angels to Some, Demons to Others”, “[t]horns” e “[g]host”); quest’ultima uscita, invece, farebbe presupporre un ulteriore cambio di direzione stilistica facendoli approdare su lidi più dark, con sconfinamenti frequenti in un gothic/post punk reso robusto dal persistente scheletro metallico.
Non a caso, l’ep prende il titolo dal singolo omonimo pubblicato poco prima che altro non è se non la cover del capolavoro targato Joy Division. Ovviamente, riuscire a trasmettere lo stesso senso di dolente alienazione provocato dalla voce di Ian Curtis era impensabile, per cui i nostri, avvalendosi invece del gotico vocalismo di Eugenio Meccariello, irrobustiscono non poco le trame fornendo una versione decisamente condivisibile di un brano-monumento della storia della musica (almeno per quanto mi concerne).
Le altre due tracce ci mostrano gli Excruciation alle prese con questa commistione di doom e darkwave abbastanza convincente: il sound è decadente e, come accadeva alla band ottantiane, bada molto di più alla sostanza che non alla forma: quello che ne scaturisce ha così sembianze meno artefatte, consentendo al gruppo zurighese di sfuggire al rischio di apparire eccessivamente fuori tempo massimo.
L’attesa è quindi per la prossima prova su lunga distanza, che ha già un titolo (“[c]rust”) ed una label pronta a pubblicarlo (la nostrana WormHoleDeath), con la curiosità di osservare se questa variazione rappresenti solo un fatto occasionale legato alla coverizzazione dei Joy Division oppure, al contrario, costituisca la nuova via maestra seguita dagli Excruciation.

Tracklist
1.Twenty Four Hours
2.Olympus Mons
3.Borderline (extended)

Line-up:
Eugenio Meccariello – vocals
HNS Reitze – guitars
Marcel Bosshart – guitars
D.D. Lowinger – bass
Andy Renggli – drums

EXCRUCIATION – Facebook

Absent/Minded – Alight

Una band compatta, che svolge in maniera ottimale il proprio compito senza lasciarsi tentare da voli pindarici ma neppure limitandosi ad una calligrafica riproposizione dello sludge: per quanto mi concerne, va benissimo così.

Magari avrò la memoria corta, ma lo sludge/doom non è un genre tra i più battuti in assoluto nelle metallicamente fertili lande teutoniche.

Anche per questo il terzo album degli Absent/Minded, intitolato Alight, è una piacevole sorpresa, pur senza apportare chissà quale novità alla materia trattata.
Il lavoro del quartetto bavarese spicca, sostanzialmente, grazie al suo incedere monolitico ma nel contempo abbastanza accessibile, dove le sole parti più ortodossamente doom appaiono come veri e propri muri invalicabili; al contrario, allorché il sound alza seppur di poco i ritmi, i fangosi riff inducono ad uno scapocciamento convinto e tutt’altro che meccanico.
L’opener Light Remains è un perfetto esempio della disinvoltura con la quale gli Absent/Minded riescono a mettere in scena in maniera accattivante trame ampiamente conosciute: alla fine il segreto, che poi non è neppure tale, si riduce al non appesantire ulteriormente con soluzioni cervellotiche un genere che, già di suo, è lieve come un granitico macigno.
Da notare anche il crescendo di un brano come Arrivers, con un basso che si ritaglia un ruolo importante nel delinearne l’andamento, e l’incipit acustico della conclusiva di So Dark, The Con Of Man che, successivamente si allinea al contesto nel macinare riff distorti e dannatamente efficaci.
Per concludere, sono felice che gli Absent/Minded non si siano allineati ad una tendenza che non mi convincerà mai al 100%, pur non essendo deprecabile a prescindere, che è quella di proporre un genere così pesante in versione esclusivamente strumentale: il buon Steve punteggia i brani con il suo growl nella media, ma tanto basta per tenere a debita distanza il rischio noia, autentica iattura per chi si avvicina all’ascolto di qualsiasi disco.
Una band compatta, che svolge in maniera ottimale il proprio compito senza lasciarsi tentare da voli pindarici ma neppure limitandosi ad una calligrafica riproposizione dello sludge: per quanto mi concerne, va benissimo così.

Tracklist
1. Light Remains
2. Stargazin’
3. Clouds
4. Arrivers
5. Skies Of No Return
6. So Dark, The Con Of Man

Line-up:
Steve – Vocals
Uwe – Guitars
Andreas – Bass
Jürgen – Drums

ABSENT/MINDED – Facebook

Abysskvlt – Thanatochromia

Un solo album non consente ancora di poterlo dire con certezza, ma Thanatochromia introduce una band che appare ampiamente in grado di ripercorrere le orme degli Ea.

Magnifico esordio per i misteriosi russi Abysskvlt, con un funeral doom melodico degno dei migliori Ea.

E sono proprio questi ultimi a fungere come punto di riferimento per i nostri, sia per l’approccio mediatico che lascia ben poco spazio agli ego dei musicisti, mettendo in luce esclusivamente il prodotto musicale, sia soprattutto per uno stile analogamente evovativo, basato su un incedere lento ma sempre focalizzato su un impatto emotivo creato dal muro di chitarre e tastiere.
Quattro brani per un totale che sfora i settanta minuti, sono l’eloquente biglietto da visita di una band che darà soddisfazione a chi ama questo particolare segmento stilistico del funeral, che ovviamente annovera tra i propri esempi più fulgidi i seminali Shape Of Despair.
Immagino e spero che la citazione di questi punti di riferimento sia sufficiente per capire di quale spessore sia Thanatochromia: gli Abysskvlt non vogliono riscrivere la storia del genere ma, essenzialmente, fanno nel migliore dei modi ciò che si aspetta di ascoltare chi ama le band menzionate; forse, a voler cercare il pelo nell’uovo, mancano quei picchi emotivi che altrove vengono regalati a profusione, ma per converso l’album non presenta mai cali di tensione o momenti interlocutori.
Un dolore soffuso ma ininterrotto sovrasta i brani nella loro interezza, anche se House Of Woe, rispetto alle altre tracce, grazie ad una scrittura ancor più volta ad accentuarne la drammaticità con il corollario di voci singhiozzanti in sottofondo, regala una ventina di minuti di livello del tutto all’altezza delle migliori espressioni del genere.
Abysskvlt come nuovi Ea, quindi ? Un solo album non consente ancora di poterlo dire con certezza, ma Thanatochromia introduce una band che appare ampiamente in grado di ripercorrere le orme degli altrettanto misteriosi campioni del funeral doom.

Tracklist
1. Over Cold Tombs
2. Between Two Mirrors
3. House of Woe
4. The Dawn My Unawakening

Wildernessking – Mystical Future

Mystical Future è molto vicino allo stato dell’arte dell’atmospheric/post black attuale, e il fatto che tutto ciò provenga da una nazione al di fuori della consueta cerchia, è un’ulteriore conferma dell’universalità della musica, in ogni sua forma e stile.

L’allargamento geografico del metal e di tutti i suoi sottogeneri è un fatto consolidato, ma fino ad oggi il Sudafrica, nonostante gli ovvii e pesati influssi culturali provenienti dall’Europa, non aveva ancora prodotto realtà davvero significative, almeno in ambito più estremo.

I giovani Wildernessking arrivano a spezzare questo trend con un album di grande spessore, pressoché perfetti nel loro rielaborare la materia black metal addomesticandola a pulsioni melodiche e malinconiche.
Dopo un già apprezzato album d’esordio datato 2012, il quartetto di Città del Capo ritorna in questi primi giorni dell’anno nuovo con Mystical Future, offerto al pubblico anche in una accattivante versione in vinile a tiratura limitata (500 copie a< cura della Sick Man Getting Sick Records), oltre che nell’immarcescibile formato in musicassetta (Monotonstudio Records) ed il più canonico cd (Les Acteurs de l'Ombre Productions) Il disco presenta circa tre quarti d’ora di musica spalmata su 5 brani nei quali, il virtuale isolamento dei nostri rispetto alle scene principali, pare aver consentito loro di sviluppare una forma del tutto personale nell’approcciare la materia, per quanto l’etichetta post black alla fine le calzi a pennello. In fondo un ascoltatore distratto potrebbe sostenere che in Mystical Future non c’è nulla di più oltre ad una sapiente alternanza tra sfuriate black ed ariose e liquide aperture melodiche, ma in realtà la differenza i Wildernessking, rispetto a molte altre band dedite al genere, riescono a farla riducendo al minimo i passaggi interlocutori, quelli che spesso si rivelano solo uno stratagemma per allungare il brodo fino a riempire il piatto fino all’orlo.
Così, Wild Horses e I Will Go To Your Tomb si snodano nel loro andamento oscillante tra pulsioni oniriche e repentine iniezioni di vetriolo, mentre To Trascend è placida come una superficie lacustre, increspata di tanto in tanto da minacciose voci in sottofondo.
Il lato B del vinile presenta With Arms Like Wands, il brano che i Wildernessking hanno scelto come singolo e che, come spesso accade, è il più canonico del lotto, senza che ciò significhi che non sia all’altezza della situazione, e la lunga If You Leave, conclusivo manifesto musicale della band sudafricana, in cui una prima parte contraddistinta da una soave voce femminile viene progressivamente sovrastata da una robusta progressione melodica, per poi cambiare ulteriormente e poi ancora, in un saliscendi emotivo che definisce ampiamente il livello raggiunto da questi quattro ragazzi.
Mystical Future è molto vicino allo stato dell’arte dell’atmospheric/post black attuale, e il fatto che tutto ciò provenga da una nazione al di fuori della consueta cerchia, è un’ulteriore conferma dell’universalità della musica, in ogni sua forma e stile.

Tracklist
Side A
1. White Horses
2. I Will Go to Your Tomb
3. To Transcend
Side B
4. With Arms like Wands
5. If You Leave

Line-up:
Dylan Viljoen – Guitars
Jason Jardim – Drums
Jesse Navarre Vos – Guitars
Keenan Nathan Oakes – Bass, Vocals

WILDERNESSKING – Facebook

Intra Spelaeum – Забыто давно (Long Forgotten)

Забыто давно è un album che ogni appassionato di death doom dovrebbe ascoltare: il trio russo esibisce una solida preparazione regalando un’interpretazione del genere sempre varia ed efficace.

Gli Intra Spelaeum sono l’ennesima band, proveniente dalle sterminate lande russe, affascinata dal lato più oscuro del doom.

A fronte dell’oggettiva difficoltà nel proporre in quest’ambito qualcosa che, oltre ad essere coinvolgente dal punto di vista compositivo, contenga qualche elemento di peculiarità, i nostri conferiscono al loro sound un’aura particolare sicuramente caratterizzata dalla loro provenienza, indipendentemente dall’uso della grafica in cirillico e della lingua madre a livello lirico.
Più che in altre occasioni, infatti, una band russa dedita ad un genere dai tratti estremi sembra trarre linfa dall’importante tradizione musicale del proprio paese, e così, sia la solennità di certe orchestrazioni sia l’inserimento di una spiccata componente folk arricchiscono non poco un lavoro che si snoda senza mostrare particolari fasi di stanca.
Come detto, nonostante il monicker latino, gli Intra Spelaeum optano per una scelta autarchica a livello di linguaggio e, inevitabilmente, tutto ciò rende la fruizione più complessa, ma se ci limitiamo a ciò che ci dice la musica, non si può che farsi coinvolgere da quest’ora scarsa ricca di contrasti e di passaggi intrisi del giusto pathos.
Se la base del sound è un robusto death doom melodico di stampo nordeuropeo, l’ottimo lavoro tastieristico ne cuce ed ammorbidisce non poco l’impatto, esaltando lo struggimento di brani come Ветер, Волна e della lunghissima Дом; peraltro il lavoro si chiude con la cover di In A Dream, storico brano dei Tiamat, reso in maniera piuttosto rispettosa della seminale band svedese, pur se leggermente rallentata.
Забыто давно è senz’altro un album che ogni appassionato di death doom dovrebbe ascoltare: il trio russo esibisce una solida preparazione regalando un’interpretazione del genere sempre varia ed efficace.

Tracklist:
1. Сны (Dreams)
2. Забыто давно (Long Forgotten)
3. Ветер (Wind)
4. Дождь из слез (Rain of Tears)
5. Брошенный мир (Fallen World)
6. Волна (Wave)
7. Дом (House)
8.In a Dream (Tiamat cover bonus track)

Line-up:
Kron – vocals, guitars, keyboards
Geralt – bass
Zahaar – drums

INTRA SPELAEUM – Facebook

Paid Charons Fare – Mourn

Altra one man band dedita al death doom, questa volta proveniente dalla Germania con il monicker Paid Charons Fare.

Mourn è il primo full-length per il musicista di Treviri Heiko Borkowski, ed esce dopo il singolo d’assaggio Alone, datato 2014: la prima impressione è stata quella d’essere al cospetto di un progetto nato con le idee chiare e soprattutto volto ad imprimere al sound tutte le caratteristiche che si richiedono al genere.
Inoltre, a differenza di altre one man band, l’utilizzo della chitarra solista si rivela sempre appropriato senza mostrare particolari crepe, consentendo così alle melodie di impadronirsi della scena in maniera convincente; sia la title track, sia The Mourners Anthem sviluppano armonie dolenti che rendono l’ascolto piuttosto scorrevole, fatta eccezione per qualche passaggio in clean nella seconda delle due tracce che merita ancora qualche aggiustatina.
Va detto anche che, proprio in questo brano, si possono osservare le intuizioni più brillanti sotto forma di linee evocative e nel contempo ben memorizzabili.
Dopo la breve When Time Turns Minutes To Days, brano acustico ma ugualmente plumbeo, che può ricordare qualcosa dei primi Novembers Doom, viene riproposto il singolo Alone, anch’esso decisamente di buon livello ed in linea con la traccia di apertura, prima della convincente chiusura con Dead Inside, con la quale si vanno invece a lambire territori funeral.
Mourn è sicuramente un buon debutto, all’insegna di sonorità che talvolta possono riportare ad un ben più noto progetto solista come quello dei Doomed di Pierre Laube, anche se Borkowski tende a levigare quelle asperità che ritroviamo nei lavori del suo connazionale.
Pur senza far gridare al miracolo, questo primo lavoro targato Paid Charons Fare è un disco di buona levatura che merita d’essere preso in considerazione dagli appassionati.

Tracklist
1.Mourn
2.The Mourners Anthem
3.When Time Turns Minutes To Days
4.Alone
5.Dead Inside

Line-up:
Heiko Borkowski – All instruments, Vocals

PAID CHARONS FARE – Facebook

Motus Tenebrae – Deathrising

In Deathrising il gothic doom viene espresso a livelli ottimali da un gruppo di musicisti esperti e competenti

Togliamoci subito il dente: a chi obietterà che i Motus Tenebrae assomigliano in maniera spiccata ai Paradise Lost non si può che rispondere affermativamente.

Detto questo, e messa una pietra tombale sopra ogni desiderio o ricerca di originalità, quello che resta di questo Deathrising, quinta fatica su lunga distanza della band pisana, non è ne poco né tanto meno trascurabile.
Gli 11 brani che compongono la tracklist dell’album faranno sicuramente la gioia di chi ama questo tipo di sonorità e, ovviamente, stravede anche per le ultime uscite della premiata ditta Mackintosh/Holmes.
Ribadisco il mio pensiero: l’originalità, se non é accompagnata da una scrittura all’altezza, rimane un esercizio di stile coraggioso ma fine a sé stesso, mentre, al contrario, anche un lavoro fortemente influenzato da quanto fatto da altri in passato (a patto di non scadere nel mero plagio) può risultare assolutamente efficace se composto e suonato da musicisti adeguatamente ispirati.
E questo il caso di Deathrising, dove il gothic doom viene espresso a livelli ottimali da una band esperta e competente, con alcuni picchi non indifferenti raggiunti nelle tracce contraddistinte da linee melodiche più accentuate, mentre risultano un po’ meno avvincenti le canzoni caratterizzate da riff più pesanti: fa eccezione in tal senso un episodio magnifico come Light That We Are, che ci teletrasporta all’epoca di Icon, senza neppure sfigurare al confronto.
È chiaro, però, che la malinconica opener Our Weakness e Black Sun, sorta di Forever Failure dei giorni nostri, aprono come meglio non avrebbero potuto un lavoro indubbiamente bello, che vede almeno un’altra perla come Haunt Me, senza dimenticare l’ambientazione oltremodo cupa della title track ed una For A Change che mostra uno svincolo dalle influenze lostiane per approdare sui territori dei Novembers Doom più aggressivi.
Del resto la voce di Luis McFadden, fondatore dei Motus Tenebrae assieme al chitarrista Andreas Das Cox, e al ritorno in formazione dopo qualche anno di assenza, finisce per accentuare ulteriormente le affinità con i maestri di Halifax per la sua intonazione contigua a quella di Nick Holmes, ma il vocalist toscano, in quest’occasione, fornisce una prova ancor più convincente di quanto fatto su The Dark Days dei Disbeliever, in quanto a mio avviso maggiormente a suo agio con le più robuste sonorità di Deathrising.
E’ nella natura delle cose il fatto che artisti seminali creino uno stuolo di seguaci, alcuni bravi e preparati, altri meno: i Motus Tenebrae appartengono sicuramente alla prima di queste categorie, dall’alto di un’esperienza ultradecennale che depone indubbiamente a loro favore, visto che qui non si parla certo di un manipolo di ragazzini folgorati da un giorno all’altro sulla via di Damasco …
Se mi si concede il parallelismo, i Motus Tenebrae stanno ai  Paradise Lost come gli NFD stanno ai Fields Of The Nephilim: penso che neppure lo stesso Peter White abbia mai negato (anche per la presenza di ex FOTN in line-up) di attingere dall’immenso patrimonio musicale lasciato dalla band di McCoy, ma nonostante ciò Waking The Dead è stato considerato a ragione uno dei migliori album usciti lo scorso anno in ambito gothic metal, un motivo in più per mantenere lo stesso metro di giudizio rispetto a quanto offertoci dai Motus Tenebrae con Deathrising.

Tracklist:
1. Our Weakness
2. Black Sun
3. For a Change
4. Light That We Are
5. Faded
6. Deathrising
7. Haunt Me
8. Grace
9. Cold World
10. Cherish My Pain
11. Desolation

Line-up:
Luis McFadden – Vocals
Andreas Das Cox – Bass
Daniel Cyranna – Guitars
Omar Harvey – Keyboards, Synth
Andrea Falaschi – Drums

MOTUS TENEBRAE – Facebook

Urania – Hieros Gamos

Gli Urania propongono un interpretazione ortodossa ma non per questo meno stimolante del genere, riuscendo a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore grazie al ricorso ad una scrittura lineare, efficace e talvolta anche piuttosto evocativa.

Buon debutto per questi portoghesi dei quali abbiamo ben poche notizie salvo, appunto, la loro nazionalità.

Hieros Gamos è un assaggio, non essendo particolarmente lungo visto il minutaggio ridotto rispetto agli standard del genere, di un death doom di stampo piuttosto tradizionale ma senz’altro ben eseguito nonché ricco di buoni spunti, disseminati nelle quattro tracce che compongono il lavoro.
Se le prime due di queste, fondamentalmente, sono ascrvibili alla tradizione novantiana, con le loro ritmiche sicuramente rallentate ma non ai limiti dell’asfissia, la terza, A Mantra For A New Found Hope, vede un incremento deciso dell’utilizzo dell’organo che spinge i lusitani talvolta su terreni affini agli Abysmal Grief.
La traccia conclusiva è invece la più lunga ed anche la più rallentata, con il suo incedere ai limiti del funeral ed alcune dolenti aperture melodiche degne delle migliori band del settore.
Gli Urania, indipendentemente da chi e quanti siano, propongono un interpretazione ortodossa ma non per questo meno stimolante del genere, riuscendo a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore grazie al ricorso ad una scrittura lineare, efficace e talvolta anche piuttosto evocativa.
Buona la prima, per ora, in attesa di ulteriori sviluppi.

Tracklist:
1.To Walk And Learn The Path To Endless Bliss
2.Floating Above The Immense Emotional Mountain Of Self Esteem
3.A Mantra For A New Found Hope
4.Upon The Clouds Lays The Strenght Of The Soul

Fungus – The Face of Evil in the Sealed Room

Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete

Cominciamo con un mea culpa: nonostante siano miei concittadini ho scoperto l’esistenza dei Fungus solo in seguito ad una loro breve esibizione risalente alla scorsa estate, in occasione del Festival delle Periferie in quel di Genova Cornigliano.

Vero è che la scena progressive/rock la seguo ormai da tempo un po’ a macchia di leopardo, ma la lacuna resta, specie in questi tempi bizzarri, nei quali magari si finisce per conoscere vita morte e miracoli di gruppi della Papuasia ma si ignora l’esistenza di chi vive ed opera a pochi chilometri da casa tua, nel senso vero del termine se pensiamo che uno dei primi parti discografici dei Fungus è la registrazione di un concerto tenutosi nel 2005 a Murta, amena frazione collinare del comune di Genova limitrofa a quella dove risiedo.
Detto questo, mi concedo un ultimo (spero) luogo comune piazzando un bel “meglio tardi che mai”: per fortuna l’arte non conosce prescrizione ed avvalersi della bellezza di un disco come The Face of Evil, a due anni abbondanti dalla sua uscita, non sminuisce affatto il piacere dell’ascolto e della scoperta.
L’occasione per parlarne deriva dalla pubblicazione in doppio vinile dell’album in questione, arricchito del lungo brano The Sealed Room, uno degli ultimi lasciti dell’indubbio genio compositivo di Alejandro J Blissett, chitarrista e fondatore della band, prematuramente scomparso nel 2014.
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete: se vogliamo fare un parallelismo, magari audace, con una band dei giorni nostri, qualche similitudine la si può trovare con i Bigelf, rispetto ai quali le sonorità sono sicuramente meno robuste a fronte di affinità notevoli nel saper maneggiare con gusto ed inventiva certi suoni del passato (in primis quelli tastieristici).
E’ chiaro che hard rock, progressive ed una spruzzata di folk sono gli ingredienti di base di una ricetta vincente, che potrà scontentare solo chi pensa che volgere lo sguardo all’indietro sia esclusivamente una soluzione nostalgica e priva di sbocchi: nulla di più falso, la bravura dei Fungus nell’elaborare il tutto in maniera piuttosto personale è innegabile e se qualcuno li vorrà snobbare trovandoli derivativi o eccessivamente retrò è affar suo.
In realtà ogni brano nasconde sviluppi ben poco prevedibili e direi che questo compensa non poco qualsiasi altra perplessità che possa sorgere nei confronti del lavoro: certo, magari The Sun (brano conclusivo della versione originale di The Face Of Evil) non è forse la traccia ideale per chiudere un album così impegnativo, a causa dei suoi continui cambi di scenario conditi di improvvisazioni e sperimentalismi vari, uniti ad una lunghezza considerevole, e la stessa bonus track, di durata ancor più corposa, nulla aggiunge alla bontà di un’opera che vede altrove i suoi picchi. Al termine dell’ascolto, infatti, a restare impresse sono soprattutto la magnifica Rain, con la chitarra di AJ Blissett a livelli di assoluta eccellenza, la folkeggiante The Key of the Garden, ma anche Better Than Jesus e la title track, senza dimenticare la delicata Gentle Season, traccia che ricorda non poco il Peter Hammill più intimista.
Detto dello scomparso chitarrista e della bontà del suo operato, da rimarcare il tocco tastieristico del bravissimo Claudio Ferreri e le doti interpretative di Dorian Deminstrel, vocalist magari non dotato di un’estensione fuori dal comune, ma sicuramente versatile e, soprattutto, capace di trasmettere adeguatamente all’ascoltatore le sensazioni e le emozioni connesse ad una proposta musicale decisamente affascinante, benché talvolta intricata.
Senz’altro un bella (ri)scoperta in attesa del prossimo lavoro con il quale, peraltro, andrà verificato come i Fungus siano riusciti a metabolizzare, sia dal punto di vista compositivo che da quello prettamente personale, una perdita pesante come quella del loro compagno di avventura.

Tracklist:
1. The Face of Evil
2. Gentle Season
3. The Great Deceit
4. Rain
5. The Key of the Garden
6. Shake Your Suicide III
7. Angel with No Pain
8. Better than Jesus
9. Requiem
10. The Sun
11. The Sealed Room

Line-up:
Dorian Deminstrel – voce, chitarre acustiche
Alejandro J Blissett – chitarre, theremin
zerothehero – basso, flauto
Claudio Ferreri – tastiere
Caio – batteria

FUNGUS – Facebook

Without Dreams – Rejected by Angel, Betrayed by Demon

L’ascolto di Rejected by Angel, Betrayed by Demon regala diversi attimi di funeral doom magari un po’ ruspante nella forma, ma sicuramente genuino negli intenti e capace di toccare, sia pure a intermittenza, le giuste corde.

Ancora una one man band russa si presenta sulla ormai piuttosto affollata scena funeral death doom.

Il nostro Thanataur, da quanto ci è dato sapere, dovrebbe essere al suo passo d’esordio ufficiale con il monicker Without Dreams, e di certo non si è fatto intimorire dalla cosa, visto che Rejected by Angel, Betrayed by Demon consta di soli due brani ma della durata complessiva ben superiore all’ora.
Questo lavoro può essere preso ad emblema di come, non sempre, far tutto da soli si riveli un vantaggio: l’album dal punto di vista prettamente compositivo è decisamente valido, alla luce delle atmosfere plumbee ma sempre intrise di melodia che il musicista di Ekaterinburg mette sul piatto; purtroppo, tutto ciò non viene sorretto costantemente da una tecnica strumentale all’altezza, specie nei passaggi di chitarra solista che, se affidati a mani più sapienti, avrebbero potuto fare davvero la differenza. Così il disco offre il meglio nei momenti più ruvidi, quando un buon growl sovrasta riff pesanti adeguatamente supportati dalle tastiere, mentre negli altri frangenti, inclusi quelli pianistici, l’esecuzione appare cosi scolastica da rendere il tutto alla stregua di un buon demo e nulla più.
Di positivo c’è sicuramente da rimarcare che, quando il sound si muove su territori affini a Comatose Vigil ed Ea, Thanataur è in grado di produrre con disinvoltura momenti senz’altro evocativi, il che fa rimpiangere davvero altri strutturati in maniera troppo minimale o approssimativa.
Per un appassionato del genere, più propenso per sua natura a passare sopra certe imperfezioni, Rejected by Angel, Betrayed by Demon risulterà comunque un lavoro gradevole, ma lo stesso non potrà verificarsi per chi approda in questi lidi ricercando aspetti più formali che non prettamente emotivi,
In sintesi, se Thanataur riuscisse a reperire un chitarrista capace di riprodurre al meglio le sue buone intuizioni melodiche, oppure se egli stesso facesse un passo avanti in tal senso sfruttando anche in maniera più adeguata il lavoro di produzione, il prossimo album dei Without Dreams potrebbe rivelarsi ben più convincente, anche se alla fin fine l’ascolto di Rejected by Angel, Betrayed by Demon regala diversi attimi di funeral doom magari un po’ ruspante nella forma, ma sicuramente genuino negli intenti e capace di toccare, sia pure a intermittenza, le giuste corde.

Tracklist
1.Demon of Suicide
2.Fallen Angel

Line-up:
Thanataur – Everything