WACKEN OPEN AIR METAL BATTLE 2019 – SEMIFINALE 1: Genova 17\05\2019

Nella cornice dello storico Crazy Bull, Genova ha ospitato la prima semifinale del Wacken Open Air Metal Battle 2019, il concorso che porterà un gruppo italiano ad esibirsi sul palco dello storico e blasonato festival tedesco.

A questa semifinale sono arrivati gruppi davvero validi, e siamo sicuri che per i giurati scegliere i due gruppi per la finale nazionale del 25 maggio all’Arci Tom di Mantova non deve essere stato facile. Come non facile è suonare solo mezz’ora per ogni band, con un quarto d’ora per il cambio palco, tutti gestiti dallo stesso fonico.
I primi a calcare le assi del palco genovese sono stati i Game Zero, gruppo di una certa esperienza con un nuovo disco di prossima uscita, che segue il successo di pubblica e critica di Rise. I romani sono molto rodati ed offrono uno spettacolo che è già stato portato in giro per l’Europa, sono sicuri e il loro hard rock bordato di heavy metal è una garanzia.
Dopo i Game Zero salgono sul palco i concittadini Blodiga Skald, e qui si cambia totalmente: la band offre un folk metal molto godibile e sul palco, fra travestimenti e mosse, offrono davvero uno spettacolo inusuale, con violino e tastiere sugli scudi. Si vede che dietro questo modo di suonare e stare sul palco c’è molto lavoro.
Chiusa la parentesi folk metal, è il turno dei ventimigliesi Shockin’ Head, che con una performance davvero convincente e piena di energia, piena di metal a tutto tondo, tra power, thrash e hard rock, ci ricordano quanto siano importanti e ancora contundenti le origini del metal. Degno di nota particolare il cantante Daniele Sedda, un animale da palco che colpisce in fronte l’ascoltatore, risentiremo ancora parlare di lui e del suo gruppo.
Chiudono la serata i Big Hate, anch’essi provenienti da Roma, un combo che sparge un letale mix di death, thrash e groove metal, guidati dalla potenza e dalla presenza della cantante Heleonore. La loro mezz’ora risulta piacevole e ben strutturata.
Finisce la serata, piena di passione e di gruppi validi che dimostrano che il sottobosco metal è vivo e colpisce anche vedere tutti i gruppi in competizione bere e ridere assieme.
Alla fine a spuntarla sono la spuntano i Blodiga Skald e i liguri Shockin’Head, che andranno alla finale di sabato 25 maggio a Mantova, ma segnatevi tutti questi nomi e soprattutto ascoltateli perché sono tutte band davvero meritevoli.

Infernal Forces Festival – Live Music Club 27/10/8

Il report della prima edizione dell’Infernal Forces, festival dedicato appositamente all’estremo tenutosi sabato 27 ottobre 2018 a Trezzo sull’Adda, nella bellissima e collaudata location del Live Club.

Sabato 27 ottobre 2018, a Trezzo sull’Adda, nella bellissima e collaudata location del Live Club, si è svolta la prima edizione dell’Infernal Forces, festival dedicato appositamente all’estremo. I cancelli sono stati aperti poco dopo le due.

Ricchissimo il merchandising presente e nutritissimo, e di elevata qualità, l’elenco delle otto band che hanno reso indimenticabile la giornata e la serata. Fuori la pioggia incessante, dentro la grande musica.
I primi a salire sul palco sono stati i tedeschi The Spirit, ottimo gruppo di black-death, volutamente scelto dai co-headliners Hypocrisy e Kataklysm per la tournée. Il combo germanico, con all’attivo il validissimo esordio Sounds From the Vortex su Nuclear Blast, non ha purtroppo avuto quel pubblico che avrebbe meritato (alle 14,30 la platea era ancora da riempire), ma ha eseguito una performance impeccabile e molto professionale, con una scelta di brani dal debutto eseguiti con una sicurezza già alquanto pronunciata, che fa ben sperare in vista di quello che poi sarà – ci auguriamo presto – il secondo lavoro.

Una breve pausa – come anche in seguito, ovviamente, tra un act e l’altro – e si sono presentati gli storici Distruzione. Vera grande cult-band (sono nati nel 1990), seguitissima da uno zoccolo duro di fans scatenati, gli emiliani hanno sfoderato una prestazione decisamente muscolare, con una scelta di pezzi da pressoché tutti i loro lavori, primariamente dallo storico Endogena (1996) e dall’ultimo e notevole disco omonimo. Dal vivo, il loro thrash-death ha rivelato tutta la propria attitudine di tipo hardcore-punk, in stile Sepultura-Cavalera Conspiracy, come a volerci ricordare che l’extreme metal non è nato per fare atmosfera, ma per portare a grande velocità violenza, morte – casino, ha voluto, coerentemente, rammentare il singer – e appunto distruzione. Un set davvero incandescente, caldo e rumoroso.

Gli Antropofagus si sono confermati una stella di prima grandezza del nostro panorama musicale. I musicisti liguri hanno oramai compiuto – e la loro esibizione ne è stata una brillante conferma – la transizione definitiva dal death-grind a tinte gore dei primi anni (ne hanno ben 21 sulle spalle) ad un brutal efficacissimo e chirurgico, velocissimo e marziale, supportato da una una tecnica veramente fuori dal comune, in linea con le nuove leve del genere pubblicate in America da Unique Leader. Se fossero statunitensi, avrebbero probabilmente altri riconoscimenti.

Altro cambio di scena, altra grande band italiana: i romani Hour of Penance. Autori di svariati ed eccellenti dischi – fenomenali gli ultimi due, Cast the First Stone e Regicide – i laziali hanno sfoderato una prestazione davvero maiuscola, tutta all’insegna d’un brutal death tecnico ed eseguito in maniera formidabile. Anche per loro si può giustamente parlare di una caratura artistica a tutti gli effetti internazionale, come il set ha attestato in maniera inequivocabile e ammirevole.

La seconda parte della giornata – intanto, fuori si è fatta sera – si è aperta cogli Enthroned. I belgi hanno confermato tutto il proprio valore. Lo storico (attivo da un quarto di secolo) quintetto di Bruxelles è stato il primo gruppo di puro black metal della giornata ad esibirsi e non ha certo deluso le aspettative (anzi), con una performance maligna e cattivissima che ha rinunciato del tutto alle aperture sinfoniche, per abbeverarsi alla fonte del BM primigenio di scuola nordeuropea, freddo ed evocativo.

A ruota sono venuti gli Impaled Nazarene, grandiosi e pieni di energia. Unici al mondo nella loro originale e personalissima commistione di black metal, crust punk e grindcore, sempre orgogliosi di essere finlandesi, hanno eseguito per intero il loro capolavoro Suomi Finland Perkele con una carica a dir poco impressionante, non senza divertirsi e divertire il pubblico, oltre a una scelta di altri loro brani storici (ricordiamoci che sono in pista da oltre ventotto anni, sempre coerenti con sé stessi). Il loro è stato un set di grind-metal alla velocità della luce, tra provocazione e squarci melodici con un sostrato punkeggiante che dal vivo emerge e si fa strada prepotentemente, molto più che in studio e con un impatto granitico. Mika Luttinen, neanche a dirlo, si è dimostrato ancora una volta frontman incredibile. L’Udo Dirckschneider dell’estremo. E gli Impaled Nazarene hanno lasciato intendere, tra le loro note, di essere stati – forse inconsapevolmente, ma le etichette sono del resto venute dopo – i padri fondatori di ciò che oggi si chiama war metal. Questo dicono in fondo i loro show.

L’emozione di assistere allo show di Mr. Tägtgren, la voglia di poter presenziare all’esibizione degli Hypocrisy ci conduce intanto quasi alla pazzia; la spasmodica attesa di veder ascendere (perché Loro non salgono sui palchi, ascendono) la band di Peter e soci provoca tachicardia e fibrillazioni…
Ore 22.10: avviene il miracolo. Salgono sul palco, scatenando applausi, esaltanti cori, scene di delirio di massa e ogni qualsivoglia sorta di solenne celebrazione, i Signori del Death Svedese.
La presenza scenica è all’altezza: i nostri irrompono nel nostro campo visivo, attraverso l’arte comunicativa di un vero showman, quale è Tägtgren. Gesti e movenze ci appaiono come pura estensione spontanea della voce e degli strumenti. Un suono pulito, terso come una fresca, limpida giornata primaverile. La potenza e la ferocia compositiva espressa dai nostri, saggiamente guidate da un ingegno musicale non comune, raggiunge apici stratosferici. Competenze strumentali, interpersonali e sistemiche, tra cui la grande abilità di dialogare col pubblico, non solo grazie alla voce, ma anche a gesti, posa e movimento, trasformano un semplice show in un affresco sociale della scena Death moderna, dove attori e spettatori agiscono univocamente, quasi fossero un’entità singola e non – come, spessissimo, accade – i differenti astanti di un evento musicale. La scelta di uno show Best of, cuore pulsante dell’attuale Death… is just the beginning tour 2018 (in onore della famosissima serie di compilation della Nuclear Blast, a cui i Nostri hanno sempre aderito, sin dal Volume II), sicuramente determinata dalla mancanza di un nuovo album, non ha fatto che enfatizzare il legame tra gli Hypocrysy e i loro fan, enunciando pubblicamente l’amore reciproco. Trenta anni esatti di carriera (ricordiamo che i nostri nacquero nel 1988 come Seditious, solo project di Peter), sciorinati con sapiente cura dei dettagli, in poco più di un’ora di musica (da Penetralia sino ad Osculum Obscenum, da Abducted a Virus e a Catch 22, e così via) ci hanno donato ricordi memorabili e scaldato i nostri cuori, nella spasmodica attesa del nuovo album, promesso (e quindi segnato col sangue), recentemente dallo stesso Tägtgren.

Esaltante chiusura in bellezza con i canadesi Kataklysm, forti del loro ultimo lavoro, Meditations – dal quale sono state estratte molte songs, con, in più, i classici del repertorio – e gruppo di assoluta prima classe, esaltante e grandioso, nella sua capacità (più unica che rara) di unire brutal americano (e in effetti la performance è stata realmente devastante, oltre che tecnicamente ineccepibile) e il più melodico death di matrice svedese. Il cantante, originario del nostro paese, non ha mancato mai di esprimere tutto il suo sincero amore per la nostra terra, alla quale è sentimentalmente legato dall’età di sedici anni. Per tutta la durata dell’esibizione – che i collaboratori presenti di MetalEyes hanno potuto comodamente seguire, ospiti allo stand dei gentilissimi ragazzi della Punishment 18 Records – si è rivolto in italiano al pubblico, coinvolgendolo e mostrando una naturale carica di simpatia. La sua frase finale – “noi siamo insieme in un mondo solo nostro, che nessuno ci può toccare” – resta il suggello, non solamente del concerto dei Kataklysm e di un indimenticabile evento, ma di tutto un movimento musicale. Perché la musica è la colonna sonora della nostra vita.

Dazagthot – Michele Massari

Doom Heart Fest. II con Evadne, Tethra, Lying Figures e The Holeum

Credo che tutti convengano sul fatto che bisognerebbe erigere un monumento a chi, rischiando anche del proprio a livello economico, si lancia nell’impresa di organizzare concerti doom in Italia, visto un ritorno di pubblico quasi sempre non altezza delle aspettative e soprattutto del valore del band proposte.

A maggior ragione, personalmente, lo faccio quando la persona in questione è un amico come Alberto Carmine, con il quale condivido una passione quasi (anzi, del tutto …) patologica per il genere in questione: è proprio grazie a “Morpheus”, anima della pagina facebook Doom Heart, che è stato possibile rivedere all’opera in Italia dopo diversi anni gli spagnoli Evadne, autori con A Mother Named Death di uno dei migliori dischi degli ultimi anni in ambito death doom melodico.
Il Doom Heart Festival è arrivato dunque alla sua seconda edizione (nella prima, tenutasi l’anno scorso al Blue Saloon di Bresso, gli headliner erano stati i Marche Funebre) rilanciando a livello di presenze internazionali con la chiamata anche degli altri iberici The Holeum e dei francesi Lying Figures, e con i padroni di casa Tethra nuovamente a completare il cast.
L’onere (e l’onore) di ospitare la serata è stato questa volta The One di Cassano d’Adda, locale che si è rivelato adatto per questo target di concerti, anche grazie alle buone sonorità delle quali hanno potuto godere tutta le band.
Purtroppo il poco agevole viaggio, di questi tempi, dalla nostra Genova (dalla quale mi sono mosso assieme ad altri due partner di MetalEyes come Massimo e Alberto, e ad un appassionato di musica a 360° come Roberto) mi ha consentito di vedere solo la seconda metà dell’esibizione dei The Holeum, sotto forma di due lunghi brani davvero di grande spessore dal punto di vista esecutivo ed emotivo.
Questa band, di formazione recente ma composta da musicisti piuttosto esperti, ha finora all’attivo il solo full length Negative Abyss, uscito due anni fa e senz’altro convincente nel suo combinare la malinconia del doom con il cupo incedere del migliore post metal; il valore di quel lavoro è stato confermato anche nei venti minuti di esibizione alla quale abbiamo assistito, nel corso dei quali è emersa l’imponente presenza scenica del vocalist Pablo.
A seguire è stato il turno dei Lying Figures, band di Nancy postasi prepotentemente all’attenzione degli appassionati con il magnifico album The Abstract Escape: la proposta dei transalpini si è rivelata molto più aspra e nervosa rispetto a chi li ha preceduti e il tutto, unito ad una spasmodica intensità, ha davvero avvolto il locale di un’aura quanto mai oscura ed opprimente.
Il sound dei Lying Figures non è certo di immediata assimilazione, quindi a maggior ragione va dato loro atto d’essere stati in grado di coinvolgere anche chi, tra i presenti, probabilmente non ne conosceva la produzione: anche qui il contributo di un frontman interpretativo e versatile come Thibault si è rivelato il classico valore aggiunto.

Il compito di precedere gli headliner è toccato ad una realtà consolidata della scena nazionale come i Tethra, i quali, purtroppo, hanno dovuto affrontare diversi contrattempi sopraggiunti a ridosso della data, per cui, tra defezioni, infortuni e quant’altro hanno deciso di onorare comunque la serata pur dovendosi esibire in formazione necessariamente rimaneggiata. Questo non ha impedito a Clode e ai suoi compagni di offrire un set breve ma valido, improntato più sull’album d’esordio che non sul più recente Like Crows On The Earth. Nonostante tutto il vocalist non intende affatto mollare la presa ma, anzi, rilancia, con il reclutamento di nuovi musicisti che sembra essersi concluso con l’imminente ingresso nella line-up di nomi piuttosto noti nella scena.

A questo punto mancavano solo gli Evadne per mettere il punto esclamativo su una serata di ottima musica e i ragazzi spagnoli non hanno certo deluso le aspettative: del resto era difficile aspettarsi qualcosa di differente dagli autori di dischi magnifici come The Shortest Way e, soprattutto, A Mother Named Death.
Certo, chi vuole trovare il pelo nell’uovo ha gioco facile nel rinvenire nel suond degli Evadne diversi richiami ai maestri Swallow The Sun, ma chi pensa di anteporre la ricerca dell’originalità alla profusione di emozioni in un genere come il doom direi che ha decisamente sbagliato indirizzo.
Cioè che conta sono le canzoni, e autentiche gemme sonore come Abode of Distress, Heirs Of Sorrow e Colossal sono in grado di condurre chiunque in una sorta di deliquio emotivo che è, ovviamente, un qualcosa che non potrà mai essere prerogativa di un semplice copista.
Albert, Jose è e compari sono dei magnifici musicisti, capaci di interpretare al meglio il genere nella sua veste più melodica ed evocativa, e chi era presente sabato sera al The One lo ha potuto constatare di persona, godendo di un set dedicato quasi per intero all’ultimo lavoro, con la sola One Last Dress for One Last Journey a rappresentare il precedente full length.
Detto ciò, a livello di coinvolgimento posso dire d’aver provato sensazioni del tutto simili a quelle conseguenti ai concerti dei Saturnus o dei Clouds, e credo che questo spieghi tutto più di tante altre parole.

In definitiva, questo ennesimo sforzo organizzativo da parte di Alberto ha fornito i frutti sperati a livello qualitativo ma, purtroppo, non dal punto di vista della risposta del pubblico e tutto questo, nel bene e nel male era ampiamente prevedibile.
E’ grazie alla pervicacia che rasenta la visionarietà di persone come lui che chi ama un genere di nicchia come il doom ha la possibilità di vedere dal vivo le proprie band preferite, ma è chiaro che con questo andazzo tali opportunità rischiano di farsi sempre meno frequenti (con quale spirito i Saturnus, per esempio, tornerebbero in Italia dopo che nel loro ultimo concerto a Collegno – giusto 3 anni fa – i presenti erano a malapena una ventina?), fino a costringere gli appassionati a doversi sobbarcare qualche viaggio oltre confine; al riguardo sono curioso (o forse sarebbe meglio dire timoroso) di scoprire quel potrà essere la risposta del pubblico in occasione del concerto dei Mournful Congregation programmato il 5 dicembre a Milano.
Vi saprò dire …

A Night Of Doom And Death In Rome – 6 Maggio – Monk – Roma

Il report del concerto che ha visto impegnati In Mourning, Clouds, Anktartis ed Ars Onirica.

La prima volta in Italia dei Clouds di Daniel Neagoe rappresentava un’occasione troppo importante per non pensare di fare una trasferta di un migliaio di chilometri, tra andata e ritorno, per assistere al concerto organizzato al circolo Monk di Roma dalle due Dark Veil, Floriana e Simona.

Il resto del bill, peraltro, non era affatto da sottovalutare, visto che dalla Svezia erano in arrivo i notevoli Anktartis ed i più famosi In Mourning, ai quali era stata aggiunta un’altra ottima band di casa come gli Ars Onirica.
Sono stati proprio questi ultimi, tornati in attività dopo oltre un decennio di silenzio, ad aprire la serata con un set breve ma intenso, con il quale i ragazzi della capitale hanno messo in mostra un black doom di ottima fattura che fa presagire frutti prelibati in occasione del nuovo lavoro in programma quest’anno, rendendo peraltro evidente un aspetto di fondamentale importanza come l’acustica pressoché perfetta offerta dal locale.

Alessandro Sforza (ARS ONIRICA)

Di questo valore aggiunto, non così scontato purtroppo in molti altri locali frequentati ultimamente, hanno goduto anche gli Anktartis, band reduce da un notevole lavoro come Ildlaante, uscito nello scorso autunno per Agonia. Questo quartetto svedese, che per la sua metà ha membri in comune con gli In Mourning, nelle persone di Tobias Netzell e Björn Pettersson, ha proposto il suo sludge doom di spasmodica intensità e in una veste contaminata da pulsioni post metal che ne avvicina il sound a soliti noti come Isis, Rosetta e co.
Al di là dei riferimenti, utili per inquadrare le coordinate dell’offerta della band, la prova del combo svedese ha convinto non poco per l’intensità esibita, oltre ad una spiccata personalità, aspetti capaci di fare la differenza non solo su disco ma soprattutto in ambito live.

Daniel Jansson (ANTARKTIS)

Arrivava così sotto i migliori auspici quello che almeno per me era il momento più atteso, la possibilità di vedere all’opera sul palco una delle mie band preferite, guidata da un musicista come Daniel Neagoe che, come pochi altri, ha saputo interpretare il lato più funereo e malinconico della musica in quest’ultimo decennio: i Clouds hanno esibito un set incredibile per contenuti emotivi, colpendo i presenti con il loro death doom melodico che ha pochi eguali oggi. Daniel è l’interprete ideale di tutta la gamma di sensazioni funeste che sono la conseguenza della perdita, e lo fa sia utilizzando evocative clean vocals sia soprattutto quel growl unico, che dal vivo ti entra nell’anima facendola vibrare, non solo metaforicamente.
Il musicista rumeno riesce trasmettere al pubblico le proprie emozioni con tale intensità  da apparire a tratti quasi prosciugato, vera e propria guida di un gruppo che dimostra una totale condivisione di intenti.

Daniel Neagoe (CLOUDS)

Se già così la configurazione dei Clouds è apparsa efficace, l’ingresso sul palco di Gogo Melone per duettare con Daniel nella splendida In This Empty Room, tratta dall’ultimo ep Destin, ha elevato a dismisura il pathos: questa minuta e timida ragazza greca, allorché inizia cantare, assume dimensioni gigantesche alla luce di un timbro vocale unico, versatile e lontano anni luce dalle spesso stucchevoli sirene pseudo liriche del gothic metal. Anche per questo invito caldamente ogni appassionato a fare proprio l’album d’esordio degli Aeonian Sorrow, progetto che Gogo porta avanti assieme ad alcuni musicisti finlandesi.
You Went So Silent, Nothing But A Name, When Was Blind To My Grief erano stati i brani eseguito in precedenza, mentre il finale ha regalato altre due tracce capolavoro come How Can I Be There e e If These Walls Could Speak, viatici ideali per il congedo da un pubblico che ha tributato il meritato applauso alla performance dei Clouds.

Gogo Melone (CLOUDS)

Headliner della serata erano gli In Mourning, band che gode di una certa notorietà che, se appare meritata per le prove offerte in studio, incluso l’ultimo album Afterglow del 2016, lo è ancora di più per quello che abbiamo potuto ammirare in questa specifica occasione, non lesinando sudore, forza e convinzione per circa un’ora di death progressivo ma dal buon gusto melodico, percepibile nonostante il muro di riff prodotto dai tre chitarristi presenti sul palco, tra i quali il vocalist Tobias Netzell, coadiuvato anche qui dal sempre bravo e puntuale Petterson.

Tobias Netzell (IN MOURNING)

Il quintettto svedese non si è perso in preamboli e, più o meno senza pause, ha sciorinato brani provenienti da un po’ tutti i full length pubblicati, lasciandoci la sensazione concreta d’essere stati al cospetto di musicisti di elevato spessore, tra i quali non si può fare a meno di citare un drummer come Daniel Liljekvist che, tra tutti, era quello dal curriculum più illustre, vista la sua lunga militanza nei mitici Katatonia.

Daniel Liljekvist (IN MOURNING)

Attorno a mezzanotte e mezza, dopo quattro ore di ottima musica, si chiudeva così la serata tra la soddisfazione dei non troppo numerosi presenti.
E qui diviene doveroso aprire una parentesi sullo stato dell’arte dei concerti metal in Italia.
Arrivando da una realtà piuttosto problematica come quella genovese dove, di fatto, a proporre musica dal vivo con buona puntualità è rimasto un solo locale che non sia uno scantinato ai limiti dell’agibilità nel centro storico, immaginavo che nella capitale, per ovvi motivi legati ad una scena piuttosto importante anche numericamente, l’afflusso ad un evento di questo genere fosse ben diverso.
Nonostante un’organizzazione impeccabile che ha lasciato soddisfatte le band coinvolte, la possibilità di accedere ad una struttura davvero ideale per concerti di medio cabotaggio come quella del Monk, e la presenza di band di comprovato livello e piuttosto diversificate dal punto di vista stilistico, la risposta del pubblico non è stata all’altezza delle attese, facendo intendere che neppure la scena della capitale è immune a quella pigrizia di fondo che affligge mediamente il metallaro italiano (musicista o semplice appassionato che sia), sempre pronto ad offrire il proprio supporto stando dietro ad una tastiera ma, alla prova dei fatti, piuttosto restio ad alzare il culo dalla sedia per fornire un contributo anche “fisico”.
Detto questo, resta negli occhi e nella memoria una serata bella e spero ripetibile in futuro, che oltre alla musica ci ha consentito di conoscere piacevoli persone che fino a quel momento erano solo amicizie “virtuali”, a partire dalle benemerite organizzatrici Floriana e Simona, passando per Gianluca e Valerio dei Rome In Monochrome ed altri presenti dei quali non so o non ricordo il nome, per finire con l’incontro diretto con gli stessi musicisti: nel mio caso specifico, l’aver potuto constatare che dietro ad uno dei musicisti che più ammiri – Daniel Neagoe – c’è soprattutto una persona degna di altrettanta stima è stato davvero qualcosa di impagabile.

Un ringraziamento particolare va a Floriana Ausili per aver fornito le fotografie utilizzate nell’articolo e ad Alberto Centenari per avermi tenuto compagnia in questa lunga trasferta.

DOOM HEART FEST. – Bresso 11/11/2017

Il racconto della prima edizione del Doom Heart Fest., con Marche Funèbre, Tethra, Hadal e Theta.

La prima edizione del Doom Heart Fest. ha radunato al Blue Saloon di Bresso alcune realtà di grande interesse della scena internazionale ed italiana.

From left to right: Arne Vandenhoeck (Marche Funèbre), Alberto Carmine (Doom Heart), Alberto Esposito (Hadal), Clode (Tethra), Dennis Lefebvre (Marche Funèbre)

L’evento, ottimamente organizzato dalla RED MIST Booking & Management e da Doom Heart, pagina Facebook italiana di riferimento per gli appassionati di doom metal, nonché patrocinato anche da MetalEyes IYE, ha avuto il merito di portare in Italia i belgi Marche Funèbre, band attiva da diversi anni ma decisamente consacratasi quest’anno con il bellissimo album Into the Arms of Darkness.
A completare il bill sono stati chiamati i Tethra, anch’essi ormai assurti ad uno status superiore dopo l’ottimo Like Crows For The Earth, i triestini Hadal, autori del notevole Painful Shadow e la one man band Theta, fattasi notare sempre quest’anno con il sound sperimentale di Obernuvshis’.

THETA

E’ toccata proprio a Mattia Pavanello, ideatore di quest’ultimo progetto, l’apertura della serata: un compito non facile il suo, quello di rompere il ghiaccio con sonorità di complessa fruizione di fronte ad una platea ancora abbastanza diradata e disattenta e non ancora abbastanza numerosa, come sarebbe avvenuto in seguito.
Il giovane musicista milanese è salito sul palco, ha fatto partire le proprie basi e, senza dire una parola, nascosto dal cappuccio della sua felpa ha imbracciato la chitarra offrendo una mezz’ora di interessante doom drone. Chiaramente la proposta di Theta non è certo un qualcosa che possa coinvolgere con immediatezza e quindi, dal vivo, tutto ciò si rivela ancor più difficile: eppure, dopo alcuni minuti ci si è ritrovati del tutto accerchiati da questi accordi dilatati e distorti, poggiati su una base dronica volta a creare un flusso musicale che trova la sua forza e ragion d’essere nell’annullamento dei concetti di spazio e tempo.

HADAL

Sicuramente un’introduzione ideale per un set come quello dei triestini Hadal, band composta da musicisti esperti e capaci di offrire una prova convincente, pervasa da uno stile versatile che fa delle sonorità doom le fondamenta sulle quali erigere un metal allo stesso tempo robusto ed evocativo, comunque piuttosto sfaccettato aprendosi di volta in volta ad influenze che riportano anche al migliore alternative rock/metal.
Soprattutto si rivela vincente una spiccata componente grunge che, andandosi a fondere con le ritmiche e gli umori del gothic/death doom, conferisce al sound un certo tiro pur mantenendone intatte le malinconiche caratteristiche di fondo.
Molto vario ed efficace è apparso l’uso delle voci, con un Alberto Esposito a suo agio alle prese con le diverse gamme vocali e ben coadiuvato nel controcanto in growl dai suoi compagni d’avventura (tra i quali cito il simpaticissimo bassista Teo, una di quelle rare persone con cui parlare di musica, e non solo, è tempo speso benissimo), abili nel costruire un’impalcatura sonora solida e precisa in ogni frangente.

TETHRA

A rappresentare ulteriormente il doom tricolore sono stati successivamente i Tethra, la cui salita sul palco era piuttosto attesa giocando in qualche modo in casa: della band guidata oggi da Clode ho già ampiamente parlato nel corso di quest’anno sia in sede di recensione, sia con una successiva intervista ed infine raccontando del release party di Like Crows for the Earth, per cui non posso che ribadire quanto di buono scritto in quelle occasioni, trovando anzi, come è normale, la band ancora più incisiva nella trasposizione live dei propri brani: infatti, specialmente quelli più datati sono parsi ancor meglio assimilati da una line up che, vocalist a parte, non ha più nulla in comune con quella che incise Drown into the Sea of Life. A proposito di formazione, va segnalato che rispetto all’ultimo full length il bravo chitarrista Luca Mellana ha dovuto abbandonare la band per problemi di lavoro ed è stato rimpiazzato dall’altrettanto valido Federico Monti.
La band ha sciorinato nel tempo a propria disposizione i brani miglior di un repertorio di qualità, decisamente graditi da un pubblico che, con il passare delle ore , è decisamente aumentato, raggiungendo un dato numerico soddisfacente, almeno se rapportato al normale afflusso agli eventi doom sul suolo italiano.

MARCHE FUNEBRE

Il gruppo più atteso della serata erano senz’altro i belgi Marche Funèbre, non fosse altro perché per la prima volta si spingevano a suonare all’interno dei nostri confini: va detto però che la data di Bresso non è stata in assoluto una primizia visto che il giorno prima Arne e compagni, sempre con i Tethra a precederli sul palco, si erano esibiti a Collegno, in questo caso purtroppo di fronte ad un pubblico più esiguo.
Forte di un album di grande spessore come il recente Into the Arms of Darkness la band fiamminga ha nettamente elevato la potenza di fuoco della serata, in virtù di un death doom che dal vivo diviene ancora più ruvido e di impatto: la scaletta ha oscillato tra brani recenti ed altri più datati, spesso superiori ai dieci minuti di durata, interpretati con vigore e convinzione da un gruppo di musicisti che ha senz’altro lasciato il segno.
In tal senso non si può non citare la prestazione del frontman Arne Vandenhoeck, capace di passare con buona disinvoltura dal growl allo screaming fino ad una evocativa voce pulita, ed arricchendo il tutto con una presenza scenica ed un’espressività che non è proprio consueta per i suoi colleghi di genere.
Ovviamente il momento clou dell’esibizione è stata l’esecuzione di Lullaby Of Insanity, quello che a mio avviso è uno tra i migliori brani death doom del 2017: trattasi di una traccia che supera il quarto d’ora di durata e nella quale i Marche Funèbre sono riusciti a far confluire tutte le loro anime, racchiuse tra le dolenti melodie tessute dalla chitarra solista di Peter Egberghs e le violente accelerazioni di matrice death, con la band capace davvero di viaggiare a pieno regime senza mai andare fuori giri.
Il set è stato chiuso da Crown Of Hope, brano manifesto che racchiude al suo interno il riferimento al monicker della band con la ripresa, nella parte conclusiva, della celeberrima Marcia Funebre di Chopin, il tutto tra i meritati applausi e ringraziamenti dei presenti.

Applausi e ringraziamenti che devono essere estesi, senza ombra di dubbio, ad Alberto “Morpheus” Carmine, motore di Doom Heart e portatore (in)sano di una passione per il doom che trova il suo naturale corrispettivo nel sottoscritto e in tutti quelli che, fottendosene delle mode e delle convenienze, continuano a promuovere un genere che “parla della morte ma è suonato ed ascoltato da persone che amano la vita”.
Resta lo spazio per un auspicio, ovvero che questa sia stata solo la prima edizione di un evento che, senza ambire ad assumere le dimensioni di un “Doom Over Kiev”, possa comunque trasformarsi un appuntamento fisso e tradizionale per tutti gli amanti del doom italiano.

PAIN OF SALVATION + PORT NOIR – 6/4/17 Circolo Magnolia

Il racconto del concerto del 6 aprile al Magnolia.

Cinque anni sono trascorsi da quando vidi per l’ultima volta dal vivo i Pain Of Salvation: quel concerto, tenutosi al Live di Trezzo sull’Adda, mi aveva soddisfatto solo parzialmente perché incentrato fondamentalmente sui due Road Salt, dischi senza dubbio di buon livello, ma a mio avviso inferiori per impatto ed intensità alla produzione precedente .

Dopo le varie vicissitudini, di cui tutti sappiamo, che hanno afflitto per un lungo periodo Daniel Gildenlöw, è arrivato il recente In The Passing Light Of Day a risistemare le cose e, soprattutto, a ricollocare la band svedese al posto che le compete tra le più esaltanti espressioni musicali dell’ultimo ventennio.
Il buon pubblico accorso al Circolo Magnolia di Segrate testimonia l’approvazione dei fans nei confronti dell’ultima svolta stilistica, nonché l’attesa per rivedere all’opera Daniel con una band quasi del tutto rinnovata rispetto a quella che incise l’ultimo album di inediti (fa eccezione solo il batterista francese Leo Margarit).

Ad aprire la serata sono stati chiamati i Port Noir, giovane band svedese che accompagna i più famosi connazionali per l’intero tour europeo, della quale ammetto colpevolmente d’aver sentito parlare per la prima volta in questa occasione. Come spesso accade, quindi, si spera essenzialmente che il tempo a disposizione della band di supporto non sia troppo e che, soprattutto, passi più o meno piacevolmente.
E, invece, avviene l’inaspettato … questi tre ragazzi di Södertälje sono una vera folgorazione: il loro alternative metal, che sicuramente prende diversi spunti dagli altri famosi conterranei Katatonia, ammantandoli di una vena più moderna e meno malinconica, rifulge per intensità e compattezza, grazie ad un affiatamento perfetto tra i vari membri e l’ottimo utilizzo delle voci, con quella del chitarrista Andreas Hollstrand a supportare con continuità quella principale e più suadente di Love Andersson. I Port Noir riescono a rendere magicamente fresco ed avvincente un genere che troppo spesso viene afflitto dal manierismo, anche da parte dei suoi più famosi interpreti: così il loro set scorre via tra l’approvazione di un pubblico per lo più entusiasta e probabilmente sorpreso quanto il sottoscritto e chi lo accompagna .
Tutti sanno quanto sia difficile la vita per le band di supporto, specialmente in Italia e soprattutto quando c’è un’attesa fremente nei confronti degli headliner: ebbene, la possibile insofferenza è stata del tutto cancellata da una totale approvazione, tanto che se i Port Noir fossero rimasti sul palco per proporre altri due o tre brani nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire, anzi … Questi ragazzi sono da tenere monitorati con estrema attenzione, perché in un futuro prossimo lo stesso numeroso pubblico che accompagna le tappe di questo tour potrebbe ritrovarsi lì solo per loro.

Dopo questo graditissimo antipasto, è con un piccolo ritardo sull’orario previsto che si presenta in scena il solo Daniel Gildenlöw in abiti ancora “borghesi”, per annunciare che la serata sarà dedicata ad Alberto Granucci, fondatore del fan club italiano dei Pain of Salvation, scomparso tragicamente pochi giorni fa e per la cui sorte non possiamo che unirci al cordoglio di parenti ed amici.
Una breve pausa ed ecco i nostri presentarsi al gran completo mettendo da subito a ferro e fuoco il palco con Full Throttle Tribe, uno degli episodi più duri dell’ultimo album: le bordate metalliche condotte dalle chitarre di Daniel e di Ragnar Zolberg e dal basso di Gustaf Hielm (uno che ha grande familiarità con suoni estremi avendo militato nei Meshuggah e ricoprendo il ruolo di bassista live nei Dark Funeral), sono sferzate di energia per un pubblico che può così testare la bontà dell’impianto sonoro del Magnolia e dell’ottimo lavoro dei fonici.
E’ la volta poi di Reasons e Meaningless, le due canzoni scelte per essere abbinate ad un video, diverse tra loro ma indubbiamente complementari, mentre è poi Linoleum, con il suo chorus killer, a rappresentare il primo passo indietro nella ricca discografia dei Pain Of Salvation.
Il trittico tratto da Remedy Lane eleva ad dismisura il pathos dell’esibizione, perché non si può nascondere che quell’album incarna, assieme al duo predecessore The Perfect Element I, uno dei momenti creativi più elevati della band, almeno fino all’uscita di In The Passing Light Of Day, che ne insidia il valore molto da vicino: A Trace Of Blood, Rope Ends e Beyond The Pale, un po’ come per tutta la restante scaletta, dal vivo si accendono di una luce diversa e ancora più vivida, capace di accentuare sia la robustezza delle basi ritmiche, sia le ampie ed incancellabili aperture melodiche.

Ashes, che segue subito dopopuò essere considerato il classico cavallo di battaglia per i Pain Of Salvation: forse non è il brano più bello che abbiano mai inciso, ma sicuramente il più noto, quello che li ha portati all’attenzione di un pubblico più vasto dopo due dischi magnifici ma passati un po’ sottotraccia; con questa canzone si tocca il punto più datato tra quelli toccati dalla scaletta, ed è un peccato, perché sia dallo stesso The Perfect Element I che da EntropiaOne Hour By The Concret Lake ci sarebbe stato molto da cui attingere.
Finita questa entusiasmante parentesi retrospettiva si ritorna all’ultimo album e, dopo aver sviscerato i momenti più metallici, è la volta dei brani caratterizzati da passaggi intimisti, quelli che fanno svoltare l’audience dall’headbanging alla commozione: la carezza di Silent Gold e la drammaticità di On a Tuesday, dove le violente accelerazioni sono i soprassalti vitali di un organismo che non vuole arrendersi all’ineluttabile, conducono alla parte conclusiva del concerto, che viene affidata a The Physics of Gridlock, traccia emblematica con il suo chorus dai rimandi western di quell’anima alternative rock che era stato il tratto comune di Road Salt Two.
L’uscita dal palco, dopo circa un’ora e tre quarti di concerto, chiama ovviamente un bis che non può essere che la title track dell’ultimo album: The Passing Light of Day è una splendida, sentita e commovente canzone d’amore che Daniel interpreta per buona parte da solo, per poi essere raggiunto dall’intera band nell’ideale chiusura di una serata pressoché perfetta.

Certo, quando ci si trova dinnanzi ad una band che, come i Pain Of Salvation, ha alle spalle una discografia cosi ricca, qualitativa e soprattutto stilisticamente sfaccettata, a seconda di quale sia la fase della loro carriera che si predilige, ognuno può essere più o meno soddisfatto della scelta della scaletta.
Così, chi ha amato la band nei due Road Salt forse avrebbe sperato in qualcosa di diverso, mentre chi invece considera In The Passing Light Of Day un nuovo apice della carriera della band svedese avrà senz’altro approvato, considerando che poi l’altro album più rappresentato, Remedy Lane, è uno di quelli che mette d’accordo tutti.
C’è anche il fan più di vecchia data, come il sottoscritto, che come detto avrebbe apprezzato il recupero di qualche brano dai primi lavori, o chi dall’ultimo nato avrebbe voluto ascoltare dal vivo uno dei suoi momenti più intensi dal punto di vista emotivo, come If This Is The End e chi, infine, pensa che nel complesso tre brani in più ci sarebbero potuti stare, accontentando così tutte queste istanze.
Ma questi sono ovviamente i discorsi che si possono fare solo se si vuole cercare il pelo nell’uovo ad un concerto magnifico, una delle rare occasioni in cui la compenetrazione tra band e pubblico si rivela massimale, e questo è ciò che conta maggiormente, assieme al fatto d’aver ritrovato Daniel Gildenlöw in una forma smagliante, e per questo ognuno di noi deve ringraziare una divinità a sua scelta, o semplicemente il fato, per avercelo riconsegnato intatto in tutto il suo talento artistico ed umano.

TETHRA – PLATEAU SIGMA – TENEBRAE – ABYSSIAN – The One, 11/2/17

Cronaca del release party del nuovo album dei Tethra, Like Crows For The Earth.

La presentazione dell’ultimo album dei Tethra, Like Crows For The Earth, in quel di Cassano d’Adda, è stata contraddistinta da una forte presenza ligure, essendo stati chiamati a partecipare alla serata anche i genovesi Tenebrae e gli imperiesi Plateau Sigma, oltre ai lombardi Abyssian: mi sia concesso, quindi, un piccolo moto d’orgoglio campanilistico, visto che anche MetalEyes ha la sua base nell’aspra lingua di terra compressa tra l’Appennino ed il mare.

L’occasione si prospettava irrinunciabile per gli appassionati di sonorità oscure e gravitanti nei dintorni del doom, considerando che tutte le band presenti erano in qualche comodo collegabili al genere, sia pure ciascuna caratterizzata da un diverso approccio.
La location scelta dai Tethra è stata il The One Metal Live, locale che si trova nell’ampio seminterrato di un centro commerciale della cittadina lombarda, il che consente di poter suonare fino a tarda ora senza rischiare di disturbare la pubblica quiete, stante la notevole distanza dalle abitazioni (basta non abusarne, però … iniziare una serata con quattro band alle 22 porta inevitabilmente l’ultima ad esibirsi in orari improbabili, con tutte le controindicazioni del caso); lo spazio davanti al palco è sufficientemente ampio per ospitare un buon numero di persone, e il fatto che il bar si trovi in un’area separata consente di godere dei concerti rigorosamente al buio e senza il nocivo disturbo degli schiamazzi tipici di chi preferisce bere e parlare anziché ascoltare la musica (problema che affligge i locali piccoli strutturati, invece, su un unico ambiente).

Abyssian – Foto di Chiara Bonanno

Ad aprire la serata sono stati i milanesi Abyssian, dediti ad un buon gothic dark/doom ispirato, tra gli altri, dai Paradise Lost, ed autori nel 2016 di Nibiruan Chronicles, un album capace di ottenere ottimi riscontri a livello di critica. Purtroppo l’esibizione della band lombarda, guidata da un musicista di grande esperienza come Rob Messina, ex membro di una delle band storiche del death tricolore come i Sinoath, è stata complicata in primis dall’assenza di un batterista, condizione con la quale i nostri stanno convivendo da qualche tempo, ed anche da alcuni problemi tecnici complicati ulteriormente dalla necessità di ricorrere a percussioni campionate.
La band ha comunque onorato al meglio l’impegno facendo intravedere le proprie notevoli potenzialità e mi auguro, pertanto, di avere al più presto l’opportunità di rivedere all’opera gli Abyssian in una situazione “di normalita”.

Tenebrae – Foto di Chiara Bonanno

Il secondo gruppo previsto nelle serata erano i Tenebrae, i quali, per fortuna, non sono stati afflitti dagli stessi problemi di chi li ha preceduti sul palco.
Inutile sottolineare come la conoscenza del repertorio e la frequentazione abituale delle esibizioni del gruppo genovese mi abbia consentito di godere appieno dell’esibizione, potendola più agevolmente parametrare rispetto al passato: ebbene, posso affermare tranquillamente che quella dell’altra sera è stata la migliore performance dei Tenebrae alla quale abbia mai assistito.

Tenebrae – Foto di Chiara Bonanno

Complice l’accresciuta coesione tra i componenti (in questo caso i due mesi dalla presentazione del nuovo disco non sono trascorsi invano) e anche una maggiore cattiveria dovuta, forse, al fatto di non suonare “in casa” (cosa che magari mette a proprio agio, ma inconsciamente fa smarrire qual pizzico di adrenalina in grado di fornire una marcia in più), il set è filato via in maniera travolgente, estraendo il meglio dallo splendido My Next Dawn.

Tenebrae – Foto di Chiara Bonanno

La title track, The Fallen Ones e As The Waves sono tracce magnifiche che non si finirebbe mai di ascoltare e, in quest’occasione Marco Arizzi, Pablo Ferrarese e compagni le hanno rese in maniera impeccabile e coinvolgente. Una gran bella iniezione di consapevolezza ed autostima per una band che ha dovuto soffrire, in passato, di tutte le problematiche connesse all’instabilità della line-up.

Plateau Sigma – Foto di Chiara Bonanno

Ancora Liguria, spostandoci però verso l’estremo ponente, con la salita sul palco dei Plateau Sigma, altra band che ho potuto vedere già più volte dal vivo grazie alla vicinanza geografica. Il quartetto imperiese ha dovuto un po’ comprimere il proprio set per il già citato slittamento in avanti dell’orario, ma ciò non ha pregiudicato un’esibizione che, questa volta, ha privilegiato il volto aggressivo ed orientato al funeral/death doom, piuttosto che i momenti più rarefatti e le pulsioni post metal che fanno ugualmente parte del background della band, come ampiamente riscontrabile dall’ascolto del magnifico Rituals.

Plateau Sigma – Foto di Chiara Bonanno

Il fulcro dell’esibizione è stato, comunque, un brano dall’alto tasso evocativo come Cvltrvm, contornato da altre tracce cariche di tensione, riversate sul pubblico da un gruppo caratterizzato da una proposta resa peculiare dall’alternanza vocale e chitarristica di Francesco Genduso e Manuel Vicari; le sonorità offerte dai Plateau Sigma non sono fruibili con immediatezza da chi non ne conosca già il repertorio, ma riescono a convincere ugualmente al primo impatto per l’intensità e la voglia di osare esibite sul palco.

Plateau Sigma – Foto di Chiara Bonanno

E finalmente arrivò il momento della presentazione del nuovo album da parte dei Tethra. Clode, vocalist e membro della band fin dagli esordi, nei quattro anni trascorsi dall’uscita di Drown Into The Sea Of Life, ha dovuto far fronte ad uno stravolgimento della line-up che lo ha visto quale unico superstite della formazione accreditata su quel disco.

Tethra – Foto di Chiara Bonanno

Un elemento, questo, che non può certo essere estraneo ai cambiamenti abbastanza sostanziali a livello di sonorità riscontrati nel nuovo e bellissimo Like Crows For The Earth (album che ho avuto occasioni di ascoltare più volte nei giorni precedenti e del quale parlerò più diffusamente nei prossimi giorni): il doom death granitico che era la base portante del sound si è stemperato in un gothic doom, sempre robusto ma senz’altro più fruibile, specie per la presenza di alcuni brani contenenti soluzioni capaci di trascinare il pubblico, uno su tutti Deserted, definibile quale una potenziale hit, se questo non fosse un termine che non dovrebbe mai stare nella stessa frase che contiene la parola doom …

Tethra – Foto di Chiara Bonanno

Clode, a mio avviso, è ulteriormente migliorato anche a livello vocale (benché fosse assolutamente all’altezza della situazione anche in precedenza, sia chiaro): specialmente le clean vocals sono oggi ancor più profonde ed evocative, e questo si rivela fondamentale in un lavoro nel quale tale soluzione ricorre più frequentemente che in passato.
I musicisti dei quali il vocalist novarese si è circondato sono apparsi perfettamente a loro agio, sobri e precisi, con nota di merito per Luca Mellana, capace di trasmettere le giuste vibrazioni con i suoi misurati ma efficaci assoli.
Anche se potrà sembrare un aspetto marginale, è stato interessante constatare un cambiamento anche a livello di immagine, con i Tethra passati ad una più elegante camicia color nero grafite al posto del saio sfoggiato in precedenti occasioni; la scaletta non ha seguito fedelmente quella del nuovo disco ma è stata rimescolata, inserendo anche a metà del set due brani tratti dal precedente lavoro.

Tethra – Foto di Chiara Bonanno

In questo modo la magnifica The Groundfeeder, altro esempio eloquente  dell’evoluzione del sound dei Tethra, è stata proposta nella parte iniziale, pur essendo la traccia che, di fatto, apre la seconda metà di Like Crows For The Earth, mentre comunque il finale è stato rispettato in pieno con la chiusura affidata all’altrettanto splendida title track.
Tra gli incitamenti di un pubblico non numerosissimo (in linea con le tendenze degli eventi doom in Italia) ma sicuramente partecipe, Clode e compagni hanno riproposto come bis la “catchy” Deserted, brano destinato a diventare un loro cavallo di battaglia in sede live, mettendo la parola fine ad una serata di musica che, personalmente, mi ha consentito di rivedere in un colpo solo, sia tra i musicisti che tra il pubblico, un consistente numero di belle persone con le quali è sempre un piacere condividere il tempo e le proprie passioni.

P.S. Un sentito ringraziamento a Chiara per il prezioso contributo fotografico.

TENEBRAE + CHECKMATE : Genova 3/12/2016

Alcuni mesi dopo l’uscita in digitale del nuovo album, i Tenebrae hanno scelto la data del 3 dicembre 2016 per la presentazione dal vivo di My Next Dawn, presso la tradizionale location dell’Angelo Azzurro, quello che ormai è rimasto, di fatto, il solo avamposto genovese per gli amanti del rock e del metal.

Come già scritto in sede di recensione, i Tenebrae, con il loro ultimo lavoro, hanno trovato la probabile quadratura del cerchio di un percorso musicale che, con i due precedenti full length Memorie Nascoste e Il Fuoco Segreto, affondava le sue radici nella scuola progressive tricolore ammantandone le atmosfere di un’aura a tratti gotica: con My Next Dawn, invece, Marco “May” Arizzi sposta decisamente la barra su una forma di metal oscura ed atmosferica, dai molti richiami al doom, che si va a completare con l’uso della lingua inglese anziché di quella madre.
Ero molto curioso di scoprire quale sarebbe l’accoglienza del pubblico nei confronti della nuova opera, alla luce di una sua dimensione più ortodossamente metal: ho sempre ritenuto, infatti, che un elemento penalizzante nei confronti della band genovese fosse, per assurdo, proprio il fatto di muoversi all’interno della scena metal pur proponendo un genere che lo stesso leader in passato ha sempre preferito definire art rock: con My Next Dawn l’equivoco (ammesso che fosse tale) pare essersi definitivamente risolto, pur senza disconoscere l’enorme valore artistico delle due precedenti prove, ed il numero considerevole di persone accorse per l’occasione ha suffragato questa mia sensazione.

Veniamo quindi al racconto della serata: il compito di aprire è stato affidato ai milanesi Checkmate, band che onestamente non conoscevo, sia perché di recente formazione, sia per la proposta di un genere che non rientra tra i miei ascolti abituali: mi sono imbattuto, quindi, in un metal alternativo piuttosto grintoso e convincente in più di un passaggio, contraddistinto dall’alternanza tra voce femminile e growl maschile, ma forse non ancora abbastanza peculiare per riuscire a fare breccia nell’attenzione di ascoltatori distratti da miriadi di uscite. Le potenzialità per riuscirci però paiono esserci tutte, alla luce di quanto offerto nel corso della breve esibizione, dimostrandolo anche con la rielaborazione piuttosto personale di un brano storico come You Spin Me Round dei Dead Or Alive, dedicata alla memoria del recentemente scomparso Pete Burns.
Nel 2017 i Checkmate hanno pianificato l’uscita del loro album d’esordio, prova alla quale li attendiamo con un certo interesse.

checkmate

Dopo un cambio di palco piuttosto rapido sono entrati in scena i Tenebrae, alla prima uscita dal vivo con la formazione che ha registrato My Next Dawn – Paolo Ferrarese (voce), Marco Arizzi (chitarra), Fabrizio Garofalo (basso), Fulvio Parisi (tastiere) e Massimiliano Zerega (batteria).
Come in ogni release party che si rispetti, la band ha presentato dal vivo per intero la nuova opera, con la sola eccezione della riproposizione, a metà del set, della title track dell’album d’esordio Memorie Nascoste, per la quale stato chiamato sul palco l’originario tastierista Flavio Bignone. La resa on stage di My Next Dawn è stata decisamente ottimale, partendo comprensibilmente un po’ in sordina per poi snodarsi in un costante crescendo, grazie alla buona coesione dimostrata dai vari componenti e da suoni piuttosto buoni che hanno consentito di godere appieno di tutte le sfumature contenute nell’album.
Il nuovo corso dei Tenebrae ha senz’altro riscosso i favori dei presenti, ma non si trattava certo di una previsione azzardata: proprio l’orientamento più metallico del sound ha senza dubbio favorito l’assimilazione, da parte di un pubblico con un simile background, di brani splendidi come The Fallen One, Careless, My Next Dawn e As The Waves, solo per citare gli episodi migliori di una scaletta inattaccabile per qualità.

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Paolo Ferrarese ha dimostrato ancora una volta le sue doti di vocalist versatile, riuscendo a passare con disarmante semplicità da evocative clean vocals ad un growl profondo, incisivo e sempre intelligibile, ed ha visto valorizzata ancor più la sua convincente prestazione dal prezioso controcanto femminile prestato per l’occasione da Ilaria Testa, tastierista della band sul precedente Il Fuoco Segreto, mentre Marco Arizzi non apparterrà probabilmente alla categoria dei virtuosi delle sei corde, ma possiede la dote non comune di riuscire a comunicare emozioni con il suo strumento, una peculiarità questa che, a mio modo di vedere, è ben più importate rispetto a quello che per altri chitarristi troppo spesso si rivela un arido sfoggio di tecnica esecutiva.

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Il resto della band ha ben sorretto il lavoro dei due, contribuendo in maniera decisiva alla riuscita di una serata che ha visto, finalmente, un locale piuttosto affollato da un pubblico partecipe e desideroso di far sentire ai Tenebrae la propria approvazione relativa ad una svolta stilistica che, sicuramente, poteva presentare qualche rischio. Nonostante tutto, infatti, il trademark caratteristico della band genovese non viene meno, cambia solo il modo con il quale viene veicolato al pubblico e questo si è potuto cogliere appieno proprio quando è stata proposta Memorie Nascoste, una canzone che, pur nella sua evidente diversità rispetto ai brani di My Next Dawn, ha dimostrando senza ombra di dubbio che l’impronta compositiva è rimasta immutata.
Dopo diversi periodi carichi di dubbi e di incertezze è probabile che i Tenebrae, sia grazie all’accordo raggiunto con la Black Tears di Daniele Pascali, sia dopo aver potuto toccare con mano l’affetto e la vicinanza dei propri estimatori, possano trovare nuovo impulso ed ulteriore convinzione nel proporre la propria musica, perché, è inutile girarci attorno, My Next Dawn è stato in assoluto uno dei migliori album usciti quest’anno in Italia in ambito metal e si tratta solo di fare in modo che se accorga un numero di presone sempre maggiore.
Nel nostro piccolo noi di MetalEyes IYE la nostra parte la stiamo facendo, il resto è compito degli appassionati della buona musica.

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KING CRIMSON – 5/11/2016 Milano

Sono passati ben tredici anni dall’ultima apparizione dei King Crimson in Italia, occasione in cui toccarono anche la mia città, Genova; stranamente, nonostante l’evento riguardasse una delle band che hanno segnato indelebilmente i miei gusti musicali, possiedo solo ricordi sbiaditi di quella serata, sintomo del fatto che, all’epoca, la fredda e chirurgica precisione esibita da Fripp e soci non riuscì a rendere memorabile l’evento.

Così, al momento di partire per Milano, recarmi nuovamente a vedere i King Crimson sembra più un doveroso rito che non la finalizzazione di un qualcosa atteso da tempo, forse anche perché condizionato dall’ascolto di un album come Radical Action (sul quale mi ero espresso in questa sede qualche settimana fa), capace di trasmettermi solo a intermittenza le emozioni che cerco da sempre nella musica, pur con la riproposizione di gran parte dei brani storici.
Dopo aver preso posto nell’accogliente sede milanese del concerto, il Teatro degli Arcimboldi, la prima prova da superare per gli spettatori è quella di scendere a patti con l’idiosincrasia frippiana verso qualsiasi dispositivo audio o fotografico: una richiesta che ai più credo appaia bizzarra, se non addirittura fuori dal tempo e frutto dei capricci e delle bizzarrie di una vecchia star (chi era a Genova nel 2003 ricorderà il nostro avvolto per l’intero concerto da una luce violetta che ne celava di fatto le sembianze …), ma che, ripensandoci, finisce invece per rendere a tutti un gran bel servizio.
Infatti, oggi sembra impensabile partecipare ad un qualsiasi evento senza riprenderne o fotografarne diversi momenti, quasi che chiedessimo alla memoria del supporto tecnologico di sostituirsi alla nostra; in realtà, non credo sia un caso se i concerti che meglio ricordo sono proprio quelli che vidi quando la parola cellulare evocava solo l’immagine di furgoni blu o celesti …
Obbligati, quindi, obtorto collo, a guardare direttamente ciò che avviene sul palco anziché tramite il display di un tablet o di uno smartphone (pena il cazziatone preventivo dei solerti addetti), gli spettatori possono godersi senza distrazione alcuna circa tre ore di musica che dimostreranno come il vero extraterrestre, “l’uomo che cadde sulla terra”, risponda al nome di Robert Fripp, con tutto il rispetto per il compianto Bowie.
Quella dei King Crimson è appunto arte aliena perché inimitabile in ciascuna delle diverse sembianze che il musicista inglese ha voluto donare alla sua creatura e, sabato scorso, persino chi l’ha sempre ritenuta una snobistica e fredda espressione di pura tecnica sarebbe stato costretto a ricredersi. L’uomo sembrerebbe aver fatto pace con il mondo e forse con sé stesso, visto che non ha lesinato un solo cavallo di battaglia, affidando ai fiati del sempreverde Mel Collins il compito di riscaldarne le note, anche se, come vedremo, tale scelta racchiude anche qualche controindicazione; nulla a che vedere, quindi, con quanto accadde nella serata del Carlo Felice, in cui venne perfidamente offerta al pubblico la sola produzione più recente, relegando ai bis tre brani ottantiani (Three Of A Perfect Pair, Frame By Frame ed Elephant Talk) e gettando in pasto ad un famelico pubblico di nostalgici il contentino finale di Red, quale briciola dei capolavori del passato.

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Con un quarto d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto si parte, e l’incipit di Larks’ Tongues in Aspic Part I è una sferzata emotiva violenta, quasi stordente per quanto inattesa: la bizzarra band che si esibisce sul palco, composta da una linea di tre batteristi piazzati in prima fila con alle spalle un quartetto di eleganti signori dall’età media piuttosto elevata, è in realtà un orologio di alta precisione in cui tutto funziona alla perfezione, anche in quelle parti che parrebbero frutto di improvvisazioni e che, invece, sono esito di una meticolosità certosina oltre che di un talento superiore.
Pictures Of A City è la conferma che questo viaggio a ritroso è appena iniziato e Dawn Song, frammento di Prince Rupert Awakes, rafforza la sensazione che questa volta nulla o quasi della produzione passata verrà lasciato indietro.
Red è il secondo momento topico, e qui devo ribadire l’impressione avuta ascoltando il live, ovvero che l’inserimento dei fiati in un brano così asciutto e squadrato lascia più di una perplessità. Poco male, quando una band subito dopo può offrire un‘altra pietra miliare come Cirkus, traccia d’apertura di un disco magnifico, anche se un po’ sottovalutato rispetto agli altri, quale Lizard. In questo caso, come in Dawn Song, Jakko Jakszyk fatica il giusto nel riprodurre le tonalità di Gordon Haskell, che era già di suo un cantante molto atipico, ma tutto sommato ne esce piuttosto bene, mentre Mel Collins può sfogare le sue doti senza apparire troppo invadente.
L’ascolto delle prime note dell’ossessivo giro di chitarra di Fracture fa compiere a molti un altro salto sulla poltroncina: sia Lizard che Starless And Bible Black erano stati del tutto ignorati in Radical Action, per cui si immaginava che avvenisse altrettanto in quest’occasione: qui, oltre alla velocità sempre innaturale delle dita di Fripp, si fanno apprezzare le tre piovre in prima fila (da sinistra verso destra, guardando il palco: lo storico Pat Mastelotto, Jeremy Stacey, subentrato a Bill Rieflin e alle prese anche con le tastiere, e Gavin Harrison, protagonista in passato con gli ottimi Porcupine Tree).
Epitaph, subito dopo, riporta a quelle atmosfere, definibili in maniera più appropriata come progressive, che ammantavano l’intero album d’esordio, mentre, dopo uno dei molti intermezzi strumentali di gran pregio, l’andamento beffardo e più catchy di Easy Money si prende giustamente la scena: qui va detto che, nonostante le mie perplessità, Jakszyk regge bene il confronto con un brano cantato originariamente da John Wetton, pur possedendo una timbrica decisamente diversa.
Ancora altre tracce di destrezza esecutiva preludono, prima, al percussivo crescendo di The Talking Drum e, dopo, alla spettacolare seconda metà di Larks’ Tongues In Aspic.
Si conclude così la prima parte dello show e, visto che la speaker, in sede di presentazione, l’aveva definito “primo set”, volendola leggere in maniera tennistica si può dire che i King Crimson abbiano inflitto all’ipotetico avversario al di là della rete un bel 6-0 …

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Dopo una tale scorpacciata di pezzi storici, al rientro la band fa subito intendere, con Fairy Dust, che in questa sessione dell’esibizione verranno proposti meno brani “monumento”, anche se dopo l’evocativa Peace, è la delirante Indiscipline ad infiammare nuovamente il teatro, rivelandosi non solo una gradita apertura alla trilogia ottantiana ma offrendo al trio di percussionisti un terreno ideale per esibire la loro sopraffina tecnica.
L’inconfondibile melodia di In The Court Of The Crimson King si palesa senza preavviso, facendo temere una imminente conclusione della serata, visto che nell’immaginario collettivo il brano manifesto della band sarebbe potuto essere posizionato in coda allo show.
Così con è, per fortuna, e si prosegue con un mix tra la produzione più recente e quella storica un po’ meno incisiva (Letters e Sailor’s Tail, che facevano parte di Islands, gran disco, per carità, ma a mio avviso il più debole della prima parte dell’epopea crimsoniana), il che fa leggermente scemare la tensione emotiva in questa fase del concerto, fino ad arrivare alla convincente doppietta di inediti in studio  Radical Action / Level Five, dall’impostazione non dissimile da quella che Fripp introdusse con Discipline.
Si creano così tutti i presupposti per arrivare all’autentica esplosione emotiva costituita da Starless, un brano capace di provocare quel turbamento che è prerogativa solo delle opere destinante all’immortalità: l’assimilazione della melodia prodotta dal peculiare tocco chitarristico di Fripp è un qualcosa che segna la linea di demarcazione tra l’uomo ed il bruto e, insomma, per farla breve, è impossibile non commuoversi nell’ascoltare per la prima volta dal vivo un simile capolavoro.
Fine del secondo set (conclusosi stavolta con un punteggio meno netto ma con un ultimo game memorabile …) e ritorno sul palco dei nostri per un bis il cui titolo era già scolpito nella pietra: 21st Century Schizoid Man, un brano profetico che, a 47 anni di distanza, ribadisce una volta di più la visionarietà del talento frippiano: del resto qui si parla di qualcuno che, con il senno di poi, tra pause prolungate, decisioni apparentemente illogiche e repentine infatuazioni mistico-filosofiche, ha forse prodotto meno di quanto avrebbe potuto fare, riuscendo ugualmente ad imprimere il suo geniale marchio sull’arte musicale della seconda metà del novecento.
Il momento in cui Tony Levin (a proposito, sempre un piacere per occhi e orecchie vederlo alle prese con il suo stick) imbraccia la macchina fotografica è il segnale stabilito per il libero scatenamento dei flash degli smartphone, oltre che il momento in cui si realizza la fine definitiva di queste tre ore di magia; la sensazione è quella d’aver assistito ad un evento in cui i primi a divertirsi siano stati proprio i musicisti, cosa non del tutto scontata in simili frangenti e conditio sine qua non per il completo coinvolgimento degli spettatori.
Considerazioni finali: Fripp si avvia alla settantina, io ho scollinato il mezzo secolo già da un po’ e tutto ciò che mi sta attorno (affetti, amici, animali e cose) porta impresso il segno inesorabile del tempo che scorre.
Così, poter assistere ancora una volta ad un concerto dei King Crimson si rivela in fondo un’arma a doppio taglio: in quegli attimi il tempo letteralmente si ferma ma, quando tutto finisce, il piacere lascia spazio al rimpianto verso tutto ciò che è stato e non potrà più essere, specie se ciò a cui si assiste è la fulgida rappresentazione di musica composta per la maggior parte più di quarant’anni fa, suonata oggi e che, tra altri quarant’anni, anche se purtroppo non ci potranno più essere Fripp a suonarla né gran parte dei presenti agli Arcimboldi ad ascoltarla, continuerà ad apparire sempre un passo avanti rispetto a chi si voglia cimentare con le sette note.

kc

TIBIA NIGHT – Genova CSOA Pinelli – 10/9/16

Fabio Cuomo, Søndag, Muschio, Plateu Sigma

Per un appassionato di musica, di quella fuori dai canoni commerciali ma intrisa di sudore, passione e talento, un evento come il Tibia Night, organizzato presso il CSOA Pinelli in quel di Genova, dovrebbe essere un occasione imperdibile visto che, oltre alla qualità e la varietà della musica offerta, c’è anche la possibilità di passare una serata mangiando e bevendo a prezzi “sociali”, senza cioè la necessità di accendere un mutuo per riuscire a sostenere la spesa di due birre .
L’uso del condizionale (“dovrebbe”) lo spiegherò alla fine, nel frattempo provo a riassumere quanto accaduto nel corso della serata: il programma prevedeva quattro esibizioni, quella del padrone di casa Fabio Cuomo, dei piacentini Søndag, dei verbanesi Muschio e degli imperiesi Plateau Sigma.

Fabio Cuomo non è solo il batterista che i più conoscono come mente degli ottimi Eremite, ma è soprattutto un musicista la cui voglia di sperimentare e di percorrere strade che travalicano l’idea di rock e metal, lo ha portato a creare una forma espressiva davvero sorprendente. Prendendo le mosse dalla musica ambient (quella di Eno, da solo o in compagnia di Fripp) e dal kraut rock (Klaus Schulze), Fabio costruisce musica che non cessa mai di perseguire un’idea melodica, tramite passaggi pianistici lontani per fortuna anni luce dalla stucchevolezza neoclassica che pare andare tanto di moda di questi tempi.
Ciò che colpisce, al di là del mero valore artistico, è l’idea di proporre musica di questo tipo, che presupporrebbe un’audience silenziosa ed assisa compostamente in un ambiente ovattato e magari elegante, in un centro sociale o in luogo dove, comunque, si sono raccolte persone con l’intento di ascoltare sonorità pesanti. Il fatto stesso di non esibirsi sul palco, ma di collocarsi in maniera defilata in un angolo della sala, non è certo un atto di snobismo ma semmai, l’idea di raggiungere gli ascoltatori con un flusso sonoro che giunga dallo stesso livello e non dall’alto. L‘effetto conclusivo è straniante quanto del tutto convincente.

Il compito di iniziare a far piovere dallo spazioso palco del Pinelli infuocati lapilli sonori spetta ai Søndag, quartetto che fa propria con grande convinzione la lezione passata del grunge e del rock alternativo di questi ultimi anni, fornendone un’interpretazione fragorosa e di sicuro impatto. Peccato solo che i suoni non sempre ottimali abbiano impedito di cogliere più efficacemente le strutture melodiche di brani apparsi, comunque, di buona levatura.
I ragazzi emiliani sono prossimi alla pubblicazione in ottobre del loro primo full length: anche se manca ancora l’ufficialità, il lavoro dovrebbe godere del supporto di un’etichetta di un certo peso, per cui le aspettative per la loro prossima prova non sono poche.

I Muschio fanno parte invece della scuderia dell’Argonauta ed appartengono a quella categoria di strane creature musicali che, con una formazione non usuale (due chitarre e la batteria), riescono a fare un discreto baccano attingendo alla pesantezza dello sludge, alla ruvida intensità del post hardcore e imbastardendo il tutto con ampie digressioni psichedeliche.
Il risultato è una mazzata non indifferente, più per la densità del sound che non per la sua effettiva pesantezza: le due chitarre lavorano quasi all’unisono, facendo dimenticare la rinuncia alle parti vocali a chi, come il sottoscritto, non è propriamente un sostenitore di questa particolare scelta.
Indubbiamente influisce sulla resa finale anche la presenza sul palco di un trio di musicisti di notevole esperienza, nonostante il nome Muschio sia relativamente nuovo. Una conferma, senza dubbio, delle ottime referenze che accompagnavano una band confermatasi di assoluta qualità.

La chiusura del Tibia Night è affidata ai Plateau Sigma, band per la quale ho esaurito ogni aggettivo fin dalla recensione del loro recente Rituals, vertice assoluto di una produzione di elevato livello medio. Rivisti dal vivo a qualche mese di distanza rispetto al concerto di Imperia, dove presentavano per la prima volta il nuovo materiale, i quattro ponentini hanno dato vita ad una esibizione di rara intensità emotiva, resa impeccabile anche dall’essersi rodati con le diverse date sostenute nel corso di quest’anno, accompagnando sovente nomi di spicco della scena metal (senza dimenticare il concerto del prossimo 27 novembre a Misano Adriatico con Ahab, The Foreshadowing e Weeping Silence). Il genere proposto è doom (perché tale resta, sia chiaro) ai massimi livelli, reso peculiare da una componente postmetal e progressive, esaltato dalla costante alternanza delle voci e, conseguentemente, delle diverse sfumature sonore espresse.
Potrei dire che oggi i Plateau Sigma, assieme a Doomraiser, Caronte, (Echo) e Abysmal Grief, occupano stabilmente le parti alte di un’ideale scala di valori del doom tricolore, ma nel farlo si rischia di sminuire la portata di una band la cui creatività male si adatta ai ristretti confini di genere.

Concludo con la promessa spiegazione di quel “dovrebbe essere un occasione imperdibile” che ho scritto nell’introdurre il report: inutile far finta di nulla, anche questa serata, nonostante ci fossero tutti i presupposti per attrarre un pubblico numeroso (sabato, nessuna delle due squadre di calcio impegnate nel vicino stadio, una location ampia e persino raggiungibile con i mezzi pubblici anche a tarda ora) è stata onorata da pochi intimi, perché, al netto dei musicisti, sotto il palco non ci saranno mai state più di 20-25 persone.
Considerando che questa è ormai una costante in tutti i concerti ai quali ho assistito negli ultimi anni, è evidente quanto una tale tendenza sia preoccupante, non essendoci sentore di una sua possibile inversione. Genova è storicamente poco ricettiva, ma non è che altrove, all’interno dei nostri confini, le cose vadano meglio quando si tratta di presenziare a concerti di band dedite a generi che necessitano d’essere un minimo “lavorati” all’atto dell’ascolto.
Peggio per gli assenti, mi chiedo però dove siano tutti quelli che, a parole, si definiscono appassionati di metal, ma che quando si tratta di supportare tangibilmente le band se ne guardano bene dal farsi vivi …

tibiabig

PLATEAU SIGMA + (ECHO) – Imperia 2/4/2016

Nel piccolo ma accogliente locale dell’Arci Camalli di Imperia, situato nella zona portuale di Oneglia, sabato 2 aprile è andato in scena un concerto che ha visto all’opera due delle migliori realtà doom (anche se molto sui generis) italiane, i padroni di casa Plateau Sigma ed i bresciani (Echo).
In realtà alla serata avrebbero dovuto partecipare anche i romani Fish Taco, i quali all’ultimo momento hanno dovuto rinunciare; un peccato, ma non c’era alcun dubbio sul fatto che le due band citate sarebbero bastate ed avanzate per dar vita ad una serata di ottima musica.

Gli (Echo) sono giunti nell’estremo ponente ligure freschi dell’incisione del loro secondo full length Head First into Shadows, l’atteso successore del magnifico Devoid Of Ilusion, la cui pubblicazione è prevista il prossimo 23 maggio sotto l’egida della BadMoodMan (sub label della russa Solitude).
I ragazzi bresciani hanno colto l’occasione, pertanto, per presentare in anteprima quattro dei sei brani che andranno a comporre la tracklist del nuovo album; non posso negare che da parte mia c’era anche una certa curiosità per verificare come fosse stata assorbita la dipartita di Antonio Cantarin alla voce e devo dire, con soddisfazione, che il giovane Fabio Urietti non ha fatto rimpiangere affatto il suo predecessore rispetto al quale ha mostrato forse una minore propensione per le clean vocals, mentre screaming e growl sono apparsi di primissimo livello per cui, complessivamente, non si può che convenire su questa scelta.
Dopo aver inaugurato il set con Summoning the Crimson Soul, brano che di fatto apriva anche Devoid of Illusion, gli (Echo) sono passati alla presentazione delle nuove tracce; per quanto possa valere un primo ascolto, per di più live, si può ragionevolmente ritenere che il lavoro di prossima uscita sarà del tutto all’altezza delle aspettative: la particolare commistione tra doom e post metal, che aveva stupito per maturità nell’unico full length finora prodotto, pare ulteriormente destinata a consolidarsi, raggiungendo picchi già ragguardevoli al primo impatto in tracce come Gone (che su disco vedrà il contributo vocale di Jani Ala-Hukkala dei Callisto) e Order of the Nightshade (magnifica nella sua parte finale), ma non da meno sono apparse A New Maze e Beneath This Lake (qui invece troveremo a prestare la propria voce Daniel Droste degli Ahab).
La stupenda The Coldest Land ha chiuso teoricamente l’ottimo set prima dell’esecuzione, con la partecipazione di Francesco Genduso dei Plateau Sigma, della terremotante cover della sabbathiana Electric Funeral: dopo aver citato il nuovo vocalist è doveroso un plauso al resto della band, per la notevole prova fornita dalla coppia di chitarristi Simone Saccheri e Mauro Ragnoli e da quella ritmica composta da Agostino Bellini al basso e Paolo Copeta alla batteria.

Dopo una breve pausa la scena è stata presa dai Plateau Sigma, attesi alla presentazione dal vivo della loro ultima fatica Rituals, uno dei migliori album pubblicati in questo primo scorcio del 2016 per Avantgarde Music. Giocando in casa, come detto, i nostri hanno catturato l’attenzione di un pubblico competente che, quasi da prassi per qualsiasi concerto che abbia a che fare con il doom nella nostra penisola, non era purtroppo numeroso ma comunque sufficiente a riempire il locale, creando un’atmosfera di grande coinvolgimento.
L a band dell’imperiese, come detto in sede di recensione, con il proprio recente album ha travalicato il concetto di doom proponendo un sound fresco e personale, nel quale parti acustiche ed evocative, caratterizzate dalle clean vocals di Manuel Vicari, trovano il loro contraltare nelle brusche impennate di matrice estrema segnate dal profondo growl di Francesco Genduso. E’ proprio la costante alternanza tra i due cantanti/chitarristi, così diversi per timbrica vocale e per tocco, eppure così naturalmente complementari, la grande peculiarità ed il vero valore aggiunto dei Plateau Sigma, senza dimenticare ovviamente l’ottimo supporto della base ritmica fornita da Maurizio Avena al basso e dai Nino Zuppardo alla batteria.
Rituals è stato presentato nella sua interezza, partendo quindi dalla breve intro The Nymphs e passando per la splendida Palladion, la più robusta The Bridge and the Abyss, la rituale Cvltrvm (traccia che, più di altre, viene esaltata dal contesto live) per arrivare alle due parti della title track, mentre la chiusura è stata affidata alla riproposizione di Maira and the Archangel, tratta dall’Ep d’esordio White Wings of Nightmares. Proprio quest’ultimo e bellissimo brano è un ideale indicatore dello spessore artistico dei Plateau Sigma, capaci di evolversi nel corso degli anni senza snaturare la propria matrice doom, arricchendola di diverse sfumature e rifuggendo schemi compositivi rigidi senza precludersi alcun tipo di traiettoria musicale.

Tirando le somme, una serata perfetta sia dal punto di vista musicale, sia da quello prettamente personale, visto che ho avuto l’occasione di incontrare e fare la conoscenza di ottimi musicisti e soprattutto splendidi ragazzi, cosa che peraltro accade puntualmente in queste occasioni, con buona pace di chi considera chiunque graviti nell’ambiente del metal alla stregua di un’accozzaglia di barbari da confinare ai margini della civiltà …

platecho

SATURNUS + HELEVORN – 20/9/15 Collegno, Padiglione 14

Tre ore di musica magnifica; peccato per chi non c’era …

Nel raccontare una giornata di questo tipo la cosa più complessa è scegliere da che parte iniziare: quindi, seguendo un po’ l’istinto, un po’ le convenzioni, darò prima la notizia cattiva rispetto a quella buona.

La cattiva notizia è che organizzare concerti doom in Italia si sta rivelando un cimento per temerari (rappresentati nello specifico da Alex e Simone della House Of Ashes) che antepongono la passione al mero interesse economico, e se la cosa può valere in senso lato per molti di coloro che ci provano con buona parte del metal underground, lo è a maggior ragione con un genere che, in particolare dalle nostre parti, riscuote l’interesse di un numero davvero limitato di persone.
Josep Brunet, vocalist degli splendidi Helevorn, nonché ennesima bella persona che ho avuto la ventura di conoscere tra coloro che calcano i palchi metal, mi confidava d’essere più stupito che amareggiato non tanto per la propria band quanto per il fatto che ad assistere ad un concerto dei Saturnus (cosa che per chi ama il doom dovrebbe costituire un appuntamento imperdibile) ci fossero circa 30 persone, che erano ancora meno durante l’esibizione della band maiorchina.
Non è un dogma assoluto, sia chiaro, ma il fatto che per ascoltare doom, specialmente quello più estremo pur se dai connotati melodici, sia necessario possedere una buona dose di sensibilità, mi porta a pensare, alla luce delle scarse presenze (peraltro confermate in qualche modo nella precedente data bresciana), che la deriva del nostro paese verso un protervo ed edonista menefreghismo sia del tutto inarrestabile.
Del resto, in una nazione in cui nessuno pare abbia voglia di muovere il proprio culo per andare ai concerti e, anzi, da più parti si invoca persino la chiusura degli spazi all’aperto dedicati alla musica rock e metal (successo a Genova quest’estate), folle oceaniche si spostano solo quando il tutto viene insignito del marchio dell’evento epocale, al quale non si può mancare pena l’oblio eterno sui social network, che pare essere la peggiore delle condanne; aggiungiamo poi che, per organizzare l’ultimo di questi (il campovolo ligabuesco), pare addirittura che un intero quartiere di Reggio Emilia sia stato di fatto messo sotto sequestro, impedendo ai residenti di uscire o ancor peggio di entrare a casa propria: cosa dobbiamo pensare od aspettarci ancora ? Non lo so, fatto sta che, al netto di queste tristi ma dovute considerazioni, la serata al Padiglione 14 di Collegno (ecco la notizia positiva) resterà a lungo impressa nella mia memoria.
Diciamoci la verità, se da una parte constatare la sordità della maggior parte delle persone fa rabbia, dall’altra, egoisticamente, si trasforma in un vantaggio non da poco potersi godere una delle proprie band preferite (i Saturnus) ed un’altra che è sulla buonissima strada per diventarla (gli Helevorn) come se si fosse nel salotto di casa propria, a stretto contatto con i musicisti e con quelle altre poche anime unite dalla comune passione per sonorità inimitabili sotto l’aspetto evocativo.
Tre ore di musica magnifica, quindi, resa tale anche da suoni tarati ottimamente, che i pochi ma buoni della famiglia doom (come ha simpaticamente detto Josep all’inizio dell’esibizione degli Helevorn di fronte allo sparuto gruppo di spettatori) si sono goduti alla faccia di chi, nel contempo, altrove stava partecipando ad un rituale di massa con il solo scopo di poter dire “io c’ero …”, probabilmente osservando il proprio intoccabile idolo a centinaia di metri di distanza.
Gli Helevorn provenivano da un album entusiasmante come Compassion Forlorn e sul palco hanno confermato ampiamente il loro valore come musicisti e performer: Josep Brunet ha padroneggiato con disinvoltura le clean vocals che forniscono un tocco decisamente più gothic al sound degli spagnoli, mantenendo peraltro inalterato il proprio eccellente growl, Samuel Morales ha offerto una fondamentale impronta melodica con la chitarra solista, il tutto sopra il tappeto atmosferico creato dalle tastiere di Enrique Sierra; non da meno sono stati il simpaticissimo Sandro Vizcaino alla chitarra ritmica, Xavi Gil alla batteria e Guillem Calderon al basso.
I nostri hanno proposto, in un set purtroppo breve ma intenso, alcune delle perle tratte dall’ultimo album (su tutte il singolo Burden Me ed il capolavoro Delusive Eyes) oltre alla ben nota From Our Glorious Days, uno dei picchi assoluti della loro precedente discografia.
Dopo una breve pausa, l’incipit di Litany Of Rain ha annunciato la salita sul palco dei Saturnus, band per la quale ho già sprecato in passato tutti gli elogi e gli aggettivi a disposizione del mio limitato vocabolario. Posso solo aggiungere che poter ascoltare dal vivo brani capaci già di indurre alle lacrime quando si sta comodamente seduti sul divano di casa, può avere un impatto emotivo davvero devastante, ovviamente in senso positivo.
Credo che l’assunzione di nessuna droga al mondo possa esser capace di farmi provare lo stesso livello di estasi raggiunta quando i Saturnus, a circa 5 metri da me, hanno suonato quello che è il brano più bello mai composto, il cui titolo, inutile dirlo, è I Long
Devo trovare un difetto ai grandi danesi ? Eccolo: I Long meriterebbe il posizionamento come ultimo brano in scaletta, magari come bis, perché il climax che si raggiunge al termine di quelle note non può più essere ricreato successivamente dagli altri brani, per quanto ugualmente magnifici.
Altro da aggiungere ? Thomas Jensen aveva la solita aria di chi è capitato lì per caso, poi quando si è palesato il suo growl dal timbro unico si è capito che, invece, è stato lì collocato per qualche disegno superiore, e lo stesso è accaduto con i passaggi in recitato (come nella coinvolgente All Alone); i lungocriniti Gert Lund (chitarra ritmica) e Brian Hansen (basso), oltre al preciso contributo musicale hanno fornito anche una notevole presenza scenica, Henrik Glass ha picchiato il giusto senza esagerare, come il genere richiede, ed il giovane Mika Filborne si è rivelato il tastierista che fino a qualche anno fa mancava on stage ai Saturnus.
Ma il protagonista, non me ne vogliano gli altri, è stato come sempre Rune Stiassny, chitarrista che senza tecnicismi circensi, sa far parlare al cuore il proprio strumento (“You make me cry too much” gli ho confidato scherzando, ma non troppo, al termine del concerto): le linee melodiche del musicista nordico sono realmente indimenticabili, dal vivo come su disco, e sono capaci di far sprofondare la mente in un pozzo di malinconia dal quale, solo al termine, se ne verrà fuori depurati finalmente dalle brutture di un’attualità allarmante e dalle nequizie di un’umanità dai tratti ripugnanti.
Litany Of Rain, Wind Torn, I Love Thee, Christ Goodbye, ovviamente I Long e il gradito bis A Father’s Providence, sono state solo alcune delle gemme che i Saturnus hanno regalato ai pochi ma davvero fortunati presenti.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito, anche se non è certo una novità in simili occasioni, è la convinzione ed il piacere di suonare che ogni musicista ha dimostrato, nonostante un’audience così risicata: non uso volutamente il termine “professionali” perché preferisco associarlo a persone che svolgono con impegno un compito loro malgrado: nulla a che vedere con volti che apparivano rapiti dalla loro stessa musica, un atteggiamento che ha accomunato Helevorn e Saturnus con la trentina di appassionati che, immagino, mai come questa volta abbiano avuto la percezione di sentirsi un tutt’uno con chi si trovava sul palco.
A proposito di professionalità, un’avvertenza: quando parlo dei Saturnus la mia obiettività è uguale a zero, ma se chi legge queste righe ama come me tali sonorità non faticherà a ritenermi del tutto attendibile ….

P.S. Un ringraziamento speciale ai “temerari” della House Of Ashes, ai miei compagni di viaggio e a chi ha ripreso con mano ferma le immagini che potete vedere sotto.