Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.
Anche gli Indesinence appartengono al novero delle doom band che tornano sulle scene dopo un lungo silenzio e, come accaduto in altri frangenti, ciò avviene con un lavoro che ripaga ampiamente le attese.
Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico. Vessels Of Light And Decay, dopo la breve intro Flux, inizia ad esibire le sembianze mostruose della creatura Indesinence con Paradigms, prima di una serie di lunghe e maestose tracce: riff granitici si abbattono come un maglio sui timpani dell’ascoltatore, ora con la lentezza esasperante del doom più canonico ora con le accelerazioni tipiche del death; in questo avvio dell’album, nei passaggi più rallentati sorgono spontanei accostamenti con i seminali Cathedral di “Forest Of Equilibrium” e non c’è dubbio che questa sia la perfetta rampa di lancio per un lavoro che non avrà momenti di cedimento per tutta la sua durata. Vanished si palesa con le temibili sembianze dei Morbid Angel epoca “Blessed / Covenant”, per il suo sound “morboso” e avvolgente e per un growl degno del miglior Vincent ad opera di Ilia Rodriguez, mentre Communion accelera ulteriormente l’andatura, segnalandosi come l’episodio più violento del disco. La Madrugada Eterna spezza ad arte la tensione con le sue sonorità di stampo ambient, preparando il terreno alla deragliante Fade dove gli Indesinence macinano instancabilmente, per quasi un quarto d’ora, i loro riff densi e distruttivi come una colata lavica. Unveiled chiude questa splendida prova di compattezza e competenza musicale mostrando un volto più riflessivo del quartetto londinese, grazie alle sue frequenti aperture a sonorità acustiche dissonanti: il brano finisce spesso per lambire territori post-metal, lasciando spazio nella sua parte conclusiva a un crescendo entusiasmante che è il commiato ideale per l’ennesimo album imperdibile partorito dalla scena death-doom in questo prolifico 2012.
Tracklist :
1. 1. Flux
2. Paradigms
3. Vanished Is the Haze
4. Communion
5. La Madrugada Eterna
6. Fade (Further Beyond)
7. Unveiled
Line-up :
Andy McIvor – Bass
Dani Ben-Haim – Drums
John Wright – Guitars, Bass
Ilia Rodriguez – Guitars, Vocals
Monolithe III è un unico brano che pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento e progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
I francesi Monolithe sono da diversi anni un nome piuttosto apprezzato, in ambito funeral doom, grazie ai due omonimi dischi pubblicati nella prima parte dello scorso decennio; dopo l’ uscita dell’ Ep “Interlude Premier” e un silenzio durato cinque anni, interrotto da un nuovo Ep, questo terzo episodio su lunga distanza ci offre una band animata da una ritrovata ispirazione, che la spinge ben oltre i confini del genere pur non smarrendone le caratteristiche peculiari.
Chiaramente le coordinate sonore legate a un sound poderoso e rallentato sono sempre ben evidenti, ma l’elemento innovativo è riscontrabile nella varietà stilistica e ritmica che contrassegna il lavoro in tutti i suoi abbondanti cinquanta muniti, peraltro concentrati in un solo brano.
A tale proposito sorge spontaneo fare un parallelismo con un’altra band funeral che quest’anno ha pubblicato un disco contraddistinto da una sola lunga traccia, ovvero gli Ea, ma appare subito evidente che le due interpretazioni della materia sono piuttosto distanti.
Se da una parte i misteriosi russi continuano imperterriti nello srotolare con la massima lentezza il loro sound incentrato su tastiere maestose e chitarre soliste sempre pronte a tratteggiare stupefacenti passaggi intrisi di malinconia, dall’altra i quattro transalpini donano alla loro lunga composizione una dinamismo che si va a contrapporre a quell’uniformità che, pur costituendone un aspetto positivo, è tratto caratteristico del genere. Monolithe III racchiude in sé momenti psichedelici e sinfonici che, amalgamati con la pesantezza classica del doom e il perfetto growl di Richard Loudin (autore una decina d’anni fa col suo progetto solista Despond dello splendido “Supreme Funeral Oration”), consentono all’ascoltatore di fruire senza particolare fatica di un monolite sonoro di tale portata; l’intero brano pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento ma progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
Un’evoluzione per certi versi inattesa ma evidenziata nel migliore dei modi da Sylvain Begot e soci, grazie a un album che si va a collocare di diritto tra le migliori uscite di questo prolifico 2012.
Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono.
I Daylight Dies sono probabilmente la migliore melodic death-doom band USA e il loro silenzio stava oggettivamente durando da troppo tempo: “Lost To The Living” risale al 2008 ma, lo sappiamo, i tempi delle band dedite alla musica del destino sono lunghi e dilatati come le note sprigionate dai loro dischi.
Così come sta accadendo in quest’autunno, che ha visto ripagate con gli interessi le lunghe attese degli estimatori di Saturnus, Worship e Monolithe, anche la band del North Carolina ritorna con un lavoro superlativo all’insegna di una propensione melodica perfettamente controbilanciata dalle sonorità più robuste.
Ho sempre considerato i Daylight Dies una sorta di risposta d’oltreoceano alla magnificenza degli Swallow The Sun, pur con le dovute differenze derivanti dalla provenienza geografica e quindi da un diverso background musicale: dove però la band finnica, con l’ultimo eccellente lavoro, ha accentuato la propria componente gothic a discapito di quella death, i nostri, salvo un maggiore ricorso a vocals pulite, mantengono intatta la propria coerenza stilistica affidando le costruzioni delle linee melodiche esclusivamente alle chitarre senza fare ricorso alle tastiere o a passaggi particolarmente catchy.
Il devastante growl di Nathan Ellis recita testi che non lasciano spazio alcuno a illusori squarci di serenità e l’opprimente chiusura del disco, affidata al brano più lungo del lotto An Heir To Emptiness, è la pietra tombale depositata sulle speranze disattese, sui sogni mai avveratisi, su una vita forse realmente mai vissuta.
Questo splendido lavoro non conosce momenti di stanca, ogni suo episodio vale da solo l’acquisto del disco, anche se una citazione la meritano autentiche perle quali Sunset, dove il bassista Egan O’Rourke alle clean vocals si contrappone all’asprezza di Nathan, mentre le chitarre pennellano struggenti melodie, A Final Vestige con la sua alternanza tra quiete e tempesta e Hold On To Nothing, contrassegnata da uno spettacolare crescendo culminante in un assolo destinato a restare ben impresso nella memoria.
Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono; consigliato a chi predilige un death-doom dal forte impatto emotivo e ha apprezzato i lavori passati dei già citati Swallow The Sun, ma anche quelli dei nostri Valkiria, con i quali gli ascoltatori più attenti riscontreranno diverse affinità stilistiche.
Tracklist :
1. Infidel
2. The Pale Approach
3. Sunset
4. Dreaming of Breathing
5. A Final Vestige
6. Ghosting
7. Hold on to Nothing
8. Water’s Edge
9. An Heir to Emptiness
“Saturn In Ascension” è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic
E’ passato ormai circa un anno e mezzo ma ho ancora negli occhi, nella mente e nel cuore, come fosse ieri, la magnifica esibizione dei Saturnus al Carlito’s Way nella loro prima data italiana di sempre: pur di fronte a pochi ma entusiasti fan, la band danese, rimessasi in pista dopo un lungo silenzio con un line-up rinnovata, sciorinò, oltre a tutti i propri cavalli di battaglia (tra i quali un’epocale versione di “I Long”) anche due nuove tracce il cui valore intrinseco, ravvisabile già ad un primo ascolto, faceva intuire lo spessore di quello che sarebbe stato il sospirato ritorno discografico intitolato Saturn In Ascension.
Risolti i problemi di carattere contrattuale e accasatisi con la Cyclone Empire, i nostri hanno così mantenuto la loro media di un album ogni cinque-sei anni ma, alla luce dei risultati ottenuti nel passato e nel presente, tali lunghe attese sono sempre state ripagate con gli interessi.
Dopo l’uscita di un disco dal livello apparentemente irripetibile come “Veronika Decides To Die”, datato 2006, Thomas Jensen ha fortunatamente deciso di ridare impulso alla sua band, che si trovava in una fase di stand-by, richiamando a sé due musicisti che erano già stati presenti in formazione nel passato, il bassista Brian Hansen e il batterista Henrik Glass, e individuando una nuova coppia di chitarristi in Rune Stiassny e in Mattias Svensson (quest’ultimo ha abbandonato la band poco dopo la fine delle registrazioni). Dopo un lungo tour, che come detto, ha per la prima volta toccato anche il suolo italico, il combo danese quindi pone fine a un lungo silenzio discografico con un album che, come era facile intuire dalle premesse, non delude affatto andandosi a collocare sui livelli del suo predecessore.
Per chi non conoscesse sufficientemente la musica dei Saturnus, si può provare a sintetizzarne le caratteristiche come una sorta di evoluzione in senso melodico dei My Dying Bride epoca “The Angel And The Dark River” e “Like Gods Of The Sun”; infatti, laddove la poetica della band di Aaron Stainthorpe si ammanta di una decadente morbosità, Thomas e co. portano alle estreme conseguenze l’aspetto malinconico arrivando a toccare costantemente i tasti giusti per indurre alla commozione l’ascoltatore.
Non c’è dubbio che, per amare i Saturnus, sia necessario essere dotati di una particolare predisposizione che consenta di assaporare in maniera assoluta le emozioni che vengono evocate da ogni loro brano, ed è proprio grazie a queste peculiarità che l’ascolto di “Saturn In Ascension” si rivelerà un’esperienza irrinunciabile.
Se “Veronika …” disarmava qualsiasi difesa già con l’opener-capolavoro “I Long”, Saturn … non è da meno grazie alla fantastica accoppiata iniziale Litany Of Rain – Wind Torn, venti minuti complessivi che fanno da ideale ponte tra i due lavori tramite le dolenti pennellate chitarristiche di Rune, alternate al massiccio e caratteristico growl di Thomas; A Lonely Passage e Call Of The Raven Moon costituiscono, all’interno del disco, due parentesi intimistiche nelle quali il vocalist recita i propri testi melanconici adagiandoli su un delicato tessuto di arpeggi chitarristici. A Father’s Providence appartiene alla categoria dei brani più movimentati dei maestri danesi, in questo simile a “Pretend” e “Murky Waters” del precedente disco, mentre Mourning Sun costituisce il picco qualitativo dell’album, con le sue atmosfere leggermente più cupe rispetto al contesto complessivo, graziate da una chitarra solista che ricama melodie di mesta bellezza e con un Thomas che sfodera un’interpretazione di rara intensità. Forest Of Insomnia e Between chiudono il disco così com’era cominciato e l’ultimo minuto di Saturn In Ascension vede Rune ergersi per l’ultima volta sul proscenio con una linea melodica che commuoverebbe anche il più efferato dei serial killer …
Dopo settanta minuti di poesia allo stato puro, bisogna però dire che appare piuttosto opinabile la scelta di inserire come bonus track “Limbs Of Crystal Clear”, primo brano in ordine temporale pubblicato dai Saturnus e presente sul demo d’esordio datato 1994: un’operazione alla quale possiamo assegnare un significato quasi “archeologico” considerando la distanza, non solo temporale, tra questa vecchia traccia e quelle attuali.
A chi dovesse possedere, quindi, questa versione dell’album, consiglio vivamente di staccare il lettore dopo l’ultima nota di Between per conservare il più a lungo possibile la magia indotta dall’ascolto degli otto brani inediti, riservandosi magari di prestare orecchio in un secondo tempo a questa tangibile testimonianza di quella che è stata l’evoluzione stilistica della band. Saturn In Ascension è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic; un altro lavoro superbo per una band straordinaria alla quale chiediamo solo, cortesemente, di non farci attendere fino al 2018 per un nuovo disco …
Tracklist :
1. Litany of Rain
2. Wind Torn
3. A Lonely Passage
4. A Father’s Providence
5. Mourning Sun
6. Call of the Raven Moon
7. Forest of Insomnia
8. Between
Line-up :
Brian Hansen – Bass
Thomas Jensen – Vocals
Henrik Glass – Drums
Rune Stiassny – Guitars, Keyboard
Mattias Svensson – Guitars
I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile
I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile; i tedeschi fanno propria la lezione dei padri Thergothon (sentitevi la loro versione di “Evoken” nello splendido album tributo alla seminale band finlandese) portandone alle estreme conseguenze il rallentamento dei suoni, aspetto, questo, che potrebbe apparire paradossale se pensiamo che la caratteristica peculiare del funeral è proprio la dilatazione ossessiva delle note.
In attività ormai da oltre un decennio, i Worship con Terranean Wake sarebbero in teoria solo al loro secondo full-length, dopo l’ormai lontano “Dooom” del 2007, ma di fatto, il demo d’esordio “ Last Tape Before Doomsday” (1999) viene considerato alla stregua di un album vero e proprio, essendo stato unanimemente individuato come l’autentico manifesto musicale del combo bavarese.
Probabilmente la storia di questa magnifica realtà musicale sarebbe stata diversa se nel 2001 uno dei due membri fondatori, Max Varnier, non si fosse tragicamente tolto la vita. Rimasto senza il suo compagno d’avventura, Daniel “The Doommonger” Pharos ha atteso ben sei anni prima di dare alle stampe il magnifico “Dooom”, che presentava anche le versioni ultimate di alcuni brani incompiuti composti da Max. Dopo aver ricostituito una line-up completa, Daniel in questo Terranean Wake propone materiale del tutto inedito e, soprattutto, di produzione recente.
Nonostante questo, il particolare trademark della band tedesca non viene certamente meno e, a mio avviso, voler paragonare questa uscita a quelle precedenti appare un’operazione tutto sommato superflua: del resto il funeral dei Worship resta, come in passato, quanto di più simile possa esistere in campo musicale alla rappresentazione degli ultimi ansiti vitali di un organismo morente. Note dilatate all’inverosimile paiono essere ogni volta il preludio della fine, offrendo un senso di autentico soffocamento salvo poi arrancare anelando l’ultima particella d’ossigeno nel ripartire per l’ennesimo ciclo di questa interminabile agonia. Personalmente ritengo la creatura di Daniel Pharos qualcosa di unico, non solo nel variegato panorama metal, ma anche in quello più ristretto del doom estremo: chi si cimenta nell’ascolto dovrà percorrere una strada lunga, tortuosa e lastricata di sofferenza; ogni volta si proveranno sensazioni diverse rispetto all’occasione precedente, non sempre in senso positivo, giacché la diversa predisposizione d’animo con la quale ci si approccia ai Worship può determinare indifferentemente una dipendenza assoluta o un rifiuto totale e incondizionato.
Resta comunque, come punto fermo, l’elevato valore di un disco suonato e composto da musicisti perfettamente consci di presentare un lavoro dal target quanto mai ristretto e dedicato a pochi ma devoti appassionati. Tide of Terminus, The Second Coming Apart, Fear Is My Temple e End of an Aeviturne sono solo i diversi titoli che separano in quattro parti un monolite di dolore rappresentato in maniera impietosa, senza alcun intento né effetto catartico: una fine ineluttabile, lenta e spaventosa, attende prima o poi ciascun essere pensante e (apparentemente) vivente su questo pianeta, e i Worship ce lo ricordano utilizzando per i loro testi ben tre lingue diverse (inglese, francese e tedesco) nel corso di Terranean Wake , quasi a voler essere certi che il loro messaggio di desolante rassegnazione giunga più efficacemente a destinazione …
Trackist :
1. Terranean Wake I – Tide of Terminus
2. Terranean Wake II – The Second Coming Apart
3. Terranean Wake III – Fear Is My Temple
4. Terranean Wake IV – End of an Aeviturne
Dal punto di vista dei contenuti, come diceva un compianto allenatore di calcio, qui non si fanno né voli pindarici né poesia, l’intero lavoro è una terrificante mazzata che si abbatte tra capo e collo dell’ascoltatore
Ancora death metal di matrice svedese per la Cyclone Empire: questa volta tocca agli Zombified provare a ritagliarsi uno spazio nell’affollato ambiente del metal estremo.
La band di Vastervik, al secondo full-length, dopo l’esordio risalente a due anni fa, si rende protagonista di un feroce assalto sonoro all’insegna di un death-grindcore di buonissimo livello; le bordate del quartetto si rivelano impietosamente prive di compromessi, senza mai perdere un’oncia di intensità nel corso della dozzina di brani presenti in Carnage Slaughter And Death.
Nonostante, come detto, gli Zombified siano solo alla seconda prova su lunga distanza, i componenti della band sono tutt’altro che inesperti, trattandosi di musicisti già coinvolti da tempo in altre band della scena svedese; tra questi il più noto è forse Roberth Karlsson, cantante anche nei ben più melodici Scar Symmetry, che qui può sfogare, in un ambito che maggiormente gli si addice, il proprio efferato growl.
Patrik Myren e Par Fransson, chitarristi e membri fondatori, assieme al drummer Matthias Fiebig (successivamente alla fine delle registrazioni rimpiazzato da Jacob Johansson) fanno dannatamente bene il loro lavoro, alzando di rado il piede dall’acceleratore senza per questo sacrificare l’aspetto tecnico e la nitidezza del suono.
Dal punto di vista dei contenuti, come diceva un compianto allenatore di calcio, qui non si fanno né voli pindarici né poesia, l’intero lavoro è una terrificante mazzata che si abbatte tra capo e collo dell’ascoltatore e, pur non brillando certo per varietà o spunti innovativi, si rivela di un’intensità mostruosa nonché un’autentica goduria per gli appassionati di queste sonorità.
Insomma, se avete avuto una brutta giornata, al rientro a casa l’ascolto di Carnage Slaughter And Death con volume a undici può contribuire efficacemente a scaricare la rabbia o la tensione accumulata, oltretutto in maniera più rapida e divertente di qualsiasi seduta di yoga, reiki o altre pur nobilissime discipline orientali.
Tracklist :
1. Carnage Slaughter and Death
2. Pull the Trigger
3. Withering Souls
4. Suffering Ascends
5. Endless Days of Wrath
6. Clenched Fist Vengeance
7. Reborn in Sin
8. Corrosive Spiral
9. The Flesh of the Living
10. The Last Stand
11. Slayer Fashion
12. Reign of Terror
Line-up :
Patrik Myrén Guitars
Par Fransson Guitars
Roberth Karlsson Vocals, Bass
Jacob Johansson Drums
Mancan sfrutta quest’occasione per sfogare in maniera più immediata e senza alcuna mediazione il suo retaggio black metal e la sua passione e conoscenza delle tematiche occulte ed esoteriche.
Mancan non è certo tipo che ami stare con le mani in mano: a meno di un anno dall’uscita di “Inferno”, per chi scrive uno dei migliori album incisi in Italia negli ultimi anni, e a pochi mesi dalla pubblicazione della raccolta retrospettiva “Cold Winds From Beyond”, recupera il suo progetto Abbas Taeter dopo averlo accantonato per qualche tempo.
A differenza di quanto avviene nella sua band principale, il musicista lucano sfrutta quest’occasione per sfogare in maniera più immediata e senza alcuna mediazione il suo retaggio black metal e la sua passione e conoscenza delle tematiche occulte ed esoteriche. Abbas Taeter è in pratica una one-man band, in particolare se prendiamo in considerazione il materiale inedito presente su Oblio che, infatti, oltre ai primi sei brani di nuova realizzazione, comprende anche la riproposizione di gran parte delle tracce presenti sul precedente “Infernalia”, album contraddistinto invece dalla presenza di diversi ospiti; va detto che queste due parti si amalgamano in maniera naturale e spontanea, nonostante la composizione dei brani risalga a periodi diversi, consentendo al lavoro di conservare nel suo complesso una sufficiente omogeneità stilistica.
Dal punto di vista musicale il black espresso da Abbas Taeter si riallaccia alla tradizione con suoni diretti, non troppo elaborati, ma sempre di grande efficacia; Mancan riesce nell’intento di interpretare il genere nella sua espressione più genuina, affidandosi ad una produzione essenziale senza cadere nella tentazione di sfruttare al massimo le attuali tecnologie, col rischio di rendere il suono artefatto e plastificato. Dal punto di vista lirico, invece, il musicista potentino esprime in maniera credibile la propria concezione filosofica esaltando la spiritualità e i valori del passato, elementi che contribuiscono alla raffigurazione di quest’opera come (da sua stessa definizione) “l’Antimodernità contro il Nulla che avanza” Oblio inizia con Inverno Eterno che introduce uno degli episodi migliori, Tetro Lamento, dalle linee melodiche coinvolgenti e dalle ritmiche trascinanti. Preda, invece, esula parzialmente dal contesto del lavoro, perlomeno dal punto di vista lirico, trattandosi di una vera e propria invettiva nei confronti di quelle persone che un po’ in tutti i settori praticano una fastidiosa forma di parassitismo esistenziale: non solo rabbia ma anche molto sarcasmo, nel solco della “Chiesa Nera” di “Inferno”. Rito dei Fuochi Pagani è un altro magnifico brano che ci riporta alla raffigurazione di riti esoterici e blasfemi ambientati sulle gelide pendici del nostro Appennino, mentre Dannati Dall’Oblio è un’avvincente traccia dai ritmi maggiormente cadenzati; la parte costituita dagli inediti è chiusa degnamente dall’acustica poesia di Antico Sentiero. Vetusta Abbazia inaugura i brani provenienti da “Infernalia” riportandoci alla descrizione di riti occulti e profanatori, che questa volta vengono officiati all’interno di un luogo normalmente destinato a culti più “tradizionali”; la successiva Sanctus In Tenebris rappresenta la quintessenza del black metal: grandi melodie chitarristiche e una voce abrasiva poggiate su una base ritmica martellante.
In questa seconda parte le altre due tracce da rimarcare sono La Notte del Culto e Vitriol, ulteriori conferme della bontà di un’operazione che sarebbe riduttivo considerare un semplice diversivo per Mancan: Abbas Taeter è un progetto importante, che rappresenta una sorta di riaffermazione delle proprie radici musicali, storiche e filosofiche da parte di un’artista tra i più brillanti del nostro panorama musicale. Oblio, collocandosi su un differente terreno musicale e lirico, potrebbe anche non fare breccia su chi, invece, ha apprezzato “Inferno”; l’errore più grave però sarebbe quello di un approccio superficiale nei confronti di un album che, al contrario, va assaporato con particolare dedizione rivelando così, ascolto dopo ascolto, tutto il suo valore.
Tracklist :
1. Inverno Eterno (Intro)
2. Tetro Lamento
3. Preda
4. Rito dei Fuochi Pagani
5. Dannati dall’Oblio
6. Antico Sentiero
7. Vetusta Abbazia
8. Sanctus in Tenebris
9. Hiemis Sevitia
10. La Notte del Culto
11. La Camera delle Torture
12. Vitriol
13. Obedimus
Ospiti :
Atlos – batteria in “Infernalia”
Ramgval – basso in “Infernalia”
Sicarius – Pianoforte in “Oblio” e tastiere in “V.i.t.r.i.o.l.”
Cabal Dark Moon – voci aggiunte in “Infernalia” e “La camera delle torture”
“A Key To Panngrieb” si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza
I Narrow House appartengono alla nutrita schiera di band dedite a sonorità funeral doom che, in questi ultimi anni, stanno emergendo dai territori dell’ex-Unione Sovietica.
I nostri, nello specifico, arrivano dalla capitale dell’Ucraina, Kiev, e con A Key To Panngrieb pubblicano il loro esordio assoluto; in casi come questi non è infrequente imbattersi in lavori a dir poco minimali oppure suonati in maniera approssimativa e prodotti ancora peggio.
Per fortuna tutto ciò non accade ai Narrow House, che propongono un buonissimo disco ricco di atmosfere tetre quanto eleganti, andandosi a collocare non troppo lontano dalle quanto già fatto dagli ex-connazionali Comatose Vigil e, quindi, mostrando tutta loro devozione verso gli Skepticism, autentici numi tutelari di questa variante atmosferica del funeral.
Nell’esaminare l’album, si nota che i primi tre brani (i titoli in inglese sono frutto di una libera traduzione dal cirillico, quindi non è detto che siano corretti al 100%), nell’arco di mezz’ora abbondante di musica si mantengono abbondantemente all’interno dei binari tracciati da molte altre band, ma non per questo il lavoro del quartetto ucraino deve essere trascurato, tutt’altro: il suono mantiene costantemente un preciso disegno melodico grazie ad atmosfere struggenti sulle quali troneggia il growl maligno di Yegor.
Un discorso a parte va fatto per il quarto e ultimo brano che, in effetti, mostrerebbe interessanti elementi di discontinuità rispetto al resto delle tracce, se non si trattasse della cover (ben camuffata inizialmente dal solito titolo in cirillico) di “Beneath This Face” degli Esoteric.
Complessivamente A Key To Panngrieb si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza; inoltre, considerando che il contenuto di questo lavoro è frutto di una gestazione durata circa due anni e che, nel frattempo, la band ucraina può e deve essere ulteriormente maturata, mi sento di scommettere qualche euro su un prossimo full-length in grado davvero di lasciare il segno.
Tracklist :
1. The Last Refuge
2. Psevdoryatunok
3. The Glass God
4. Beneath This Face
I Ragnarok rappresentano l’integrità e l’essenza primaria del black metal: suoni diretti e penetranti, testi improntati al livore anti religioso e al paganesimo, nessuna concessione a contaminazioni o sperimentazioni stilistiche, tutto questo, tra l’altro, esibendo una tecnica di prim’ordine.
Chiariamo subito che poco ci importa dell’annoso dibattito incentrato su quale sia il black metal vero e quale quello finto: le progressioni verso suoni talvolta lontani dai canoni definiti negli anni’90 sono gradite e apprezzate quanto lo è la riproposizione coerente e competente di un sound che, in questo caso specifico, mantiene intatto il suo carico di malvagità e il suo colore nero pece come impone la sua “ragione sociale”.
Tre quarti d’ora di musica dalla grande intensità che risollevano le sorti dell’asfittico black norvegese di questi tempi, tanto da dover cedere progressivamente la supremazia scandinava ai vicini svedesi: questa è la fotografia di Malediction, che fin dalla copertina blasfema al punto giusto, fa capire che Jontho e co. non sono disposti a fare alcuno sconto.
Non aspettatevi però una sequela di brani brutali ai limiti del parossismo: non di rado le chitarre di DezeptiCunt e Bolverk si librano in brevi ma efficaci passaggi di matrice classica o in riff che seguono linee melodiche ben distinguibili, pur se incuneate tra il blast beat furioso di Jontho e lo screaming abrasivo di HansFyrste; Demon in My View, Necromantic Summoning Ritual e Dystocratic sono solo alcuni dei brani che sono esplicativi del tipo di sonorità che bisogna attendersi dai Ragnarok.
Prova maiuscola, quindi, per una band che, nonostante il livello costantemente alto delle proprie uscite discografiche in una carriera quasi ventennale, ha forse sofferto in passato in termini di popolarità della presenza ingombrante di nomi più reclamizzati. Oggi, invece, tra split, produzioni non entusiasmanti e approdi a sonorità avanguardistiche da parte di tutte queste band, i nostri si issano allo status di portabandiera del movimento,
Se qualcuno pensa che il black metal, nella sua accezione originaria, sia morto e sepolto provi ad ascoltare con attenzione questo disco: non è mai troppo tardi per rivedere le proprie convinzioni ….
Tracklist :
1. Blood of Saints
2. Demon in My View
3. Necromantic Summoning Ritual
4. Divide et Impera
5. (Dolce et Decorum est) Pro Patria Mori
6. Dystocratic
7. Iron Cross – Posthumous
8. The Elevenfold Seal
9. Fade into Obscurity
10. Sword of Damocles
I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di “Tell Tale Heart”.
Uno dei lati positivi dello scrivere recensioni é quello d’essere “costretti” ad ascoltare dischi che altrimenti si sarebbero bellamente ignorati: questo lavoro dei WildeStarr appartiene per l’appunto alla categoria di quelli che, indipendentemente dai gusti personali, sarebbe delittuoso snobbare.
Nonostante sia solo al secondo full-length, la band californiana non è certo composta da musicisti di primo pelo (non me ne voglia la bravissima ed affascinante London Wilde) sebbene l’unico realmente noto al grande pubblico sia il chitarrista e bassista Dave Starr.
Detto della vocalist e tastierista, dal consistente passato di tecnico del suono e di turnista in studio, Dave è stato per circa vent’anni il bassista dei Vicious Rumours e credo che tanto basti per definirne il curriculum musicale, mentre il drummer Josh Foster è, almeno per me, un nome relativamente nuovo.
La proposta del gruppo è inevitabilmente orientata a un power metal melodico ma ugualmente robusto, caratterizzato dalla pazzesca voce di London, una sorta di versione femminile del primo Rob Halford, tanto per capirci: anche chi è meno avvezzo a questa timbrica piuttosto acuta, superata una prima fase di ambientamento, non potrà fare a meno d’apprezzare la tecnica esibita dalla bionda cantante.
Così, pur restando nei canoni tipici del power d’oltreoceano (Crimson Glory e, ovviamente, Vicious Rumours), il sound dei WildeStarr non può che trarre linfa dai Judas Priest, senza tralasciare i primi Queensryche.
L’opener Immortal vale come manifesto dell’album, trattandosi di un brano che resta impresso in maniera immediata per le sue azzeccate linee melodiche e una prestazione d’assieme di assoluta eccellenza. Transformis Ligeia conferma che il livello qualitativo del primo brano non è stato un evento sporadico e lo stesso avviene per tutte le tracce successive con menzione d’obbligo per la splendida The Pit Or The Pendulum (uno dei titoli che mostrano la dedizione di London per l’opera di E.A.Poe).
I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di Tell Tale Heart. Ottimo disco, che gli appassionati del power più genuino non dovrebbero farsi sfuggire.
Tracklist :
1. Immortal
2. Transformis Ligeia
3. A Perfect Storm
4. Valkyrie Cry
5. Last Holy King
6. In Staccata
7. Not Sane
8. Seven Shades of Winter
9. The Pit or the Pendulum
10. Usher in the Twilight
Line-up :
Dave Starr – Bass, Guitars
London Wilde – Keyboards, Vocals
Josh Foster – Drums
I Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico
L’ennesimo gruppo symphonic gothic metal con voce femminile ? I francesi Whyzdom sono senz’altro molto di più: in attività dal 2008 la band parigina ha al suo attivo un disco d’esordio come “From The Brink Of Infinity” che li ha portati all’attenzione di pubblico e critica; questo Blind? conferma tali impressioni positive anche se, forse, per il salto definitivo nell’empireo del genere manca ancora qualcosina.
In effetti, i Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico; altro elemento di distinzione è la voce di Elvyn, che, pur non possedendo doti superiori alla media, si rivela una gradita alternativa alle velleità liriche, spesso fuori registro, di molte sue colleghe.
Il resto della band non si limita a svolgere il semplice ruolo di “supporting cast” nei confronti della protagonista femminile, come avviene sovente quando ci si limita a copiare senza correre alcun rischio e addirittura, in certi casi, i ragazzi francesi osano qualcosa in più di quanto dovrebbero, intento più che lodevole che dimostra la voglia di non accontentarsi dell’esecuzione del classico compitino.
Proprio per questo, però, qualche passaggio talvolta non convince sia perché forse troppo intricato sia in buona parte per una produzione non sempre limpidissima, specie nei momenti in cui dovrebbe venire esaltata la coralità del suono: succede, per esempio, che un brano come Paper Princess finisca per soffrire di certi passaggi nei quali l’assieme degli strumenti invece di enfatizzare il sound finisce per affossarne il pathos nonostante un ritornello coinvolgente, e lo stesso difetto si manifesta anche nella successiva The Spider.
Inoltre, la decisione di presentare ben undici brani della durata media di circa sette minuti ciascuno si rivela alla lunga controproducente, quando una maggiore sintesi avrebbe sicuramente giovato alla causa: brani di grande efficacia come The Lighthous, Cassandra’s Mirror,On the Road to Babylon e The Foreseer, se inseriti in un contesto meno dispersivo, avrebbero potuto portare Blind? a una valutazione ben più elevata.
Ma già così l’operato dei Whyzdom dovrebbe convincere anche i meno predisposti all’ascolto di questo genere, facendo compiere ai nostri un altro importante passo verso quell’eccellenza che, oggi, non appare davvero un miraggio irraggiungibile.
Tracklist :
1. The Lighthouse
2. Dancing With Lucifer
3. Cassandra’s Mirror
4. On the Road to Babylon
5. Paper Princess
6. The Spider
7. The Wolves
8. Venom And Frustration
9. Lonely Roads
10. The Foreseer
11. Cathedral of the Damned
Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto
I The Howling Void, progetto funeral doom del musicista statunitense Ryan, apparvero sulle scene nel 2009 con lo splendido “Megaliths Of The Abyss” sorprendendo per la capacità di amalgamare alla perfezione le sonorità plumbee che il genere richiede con eccellenti aperture melodiche.
Il successivo “Shadows Over the Cosmos” segnò una stagnazione nel processo creativo della one-man band americana, un po’ perché, dopo un esordio di tale livello, le aspettative erano decisamente alte ma, soprattutto, lo sviluppo dei brani denotava una certa staticità, quasi come se la progressione sonora fosse stata inibita dalla volontà di creare un suono affidato ad atmosfere maggiormente oppressive e allo stesso tempo più ponderate.
Nel frattempo Ryan è ulteriormente migliorato nell’esecuzione strumentale e l’attuale produzione rende i suoni decisamente più puliti; questa premessa farebbe presagire, per questo full-length, quel definitivo salto di qualità che ci si attendeva: purtroppo ciò non avviene, nonostante The Womb Beyond The World si riveli comunque di maggior spessore rispetto alla precedente uscita.
La sensazione è che la freschezza dell’esordio sia andata definitivamente perduta, a scapito di una scelta compositiva che ha portato i The Howling Void a focalizzare l’attenzione su partiture di tastiera ripetute in maniera quasi ossessiva, con frequenti sconfinamenti nell’ambient (ne sia prova il brano di chiusura Eleleth).
Le tre lunghe tracce che costituiscono l’ossatura del disco presentano un andamento in fotocopia: un’affascinante parte iniziale, che si protrae per diversi minuti, lasciandoci sospesi fino all’epilogo nella vana attesa della scintilla, di un qualcosa che renda il brano memorabile.
Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto; a conti fatti finisce per collocarsi in una sorta di terra di nessuno privo com’è, da un lato, del dolente senso melodico degli Ea e, dall’altro, troppo atmosferico per avvicinarsi al tetro incedere dei Krief De Soli, tanto per citare due maniere diametralmente opposte di ma ugualmente efficaci di interpretare il funeral doom.
A Ryan sembra essere venuto meno ciò che gli era riuscito con “Megaliths …” ovvero la realizzazione di una comunicazione empatica con l’ascoltatore; è probabile, temo, che la strada intrapresa con The Womb Beyond The World sia quella definitiva ma, il fatto che il musicista texano sia stato capace di produrre un disco intenso e del tutto convincente solo tre anni fa, consente di sperare che quanto mostrato nelle due uscite successive sia riconducibile a un momentaneo calo di ispirazione e che i The Howling Void siano, in futuro, nuovamente in grado di stupire.
Tracklist :
1. The Womb Beyond the World
2. The Silence of Centuries End
3. Lightless Depths
4. Eleleth
La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, aspettiamo con fiducia i Forgotten Thought alla prima prova su lunga distanza.
Interessante Ep d’esordio per i Forgotten Thought, realtà nostrana dedita a un cupo depressive black dalle sfumature funeral.
La band è, di fatto, un duo composto da Rodolfo e Nephastal: questi due giovani musicisti, brillantemente sfuggiti alla lobotomizzazione musicale alla quale sono state sottoposte le ultime generazioni nel nostro “bel” paese, hanno deciso di abbracciare un genere che definire di nicchia è forse persino generoso, e questo non fa che aumentare il mio apprezzamento nei loro confronti. Grey Aurasi rivela un frutto forse ancora un po’ acerbo ma ugualmente piacevole; i due ragazzi romani evitano di avvitarsi in passaggi eccessivamente complessi mantenendo un ritmo sempre piuttosto moderato, riuscendo in tal modo a valorizzare sia il piano che la chitarra, che si alternano nell’imprimere ai brani quel mood dolente e malinconico che il genere richiede.
La traccia strumentale, autointitolata, si rivela emblematica in tal senso, mettendo sul piatto melodie davvero efficaci e dal notevole impatto emotivo, ma bisogna dire che tutti i brani non sono da meno sotto questo aspetto.
A far da contraltare a questi aspetti positivi vanno presi in considerazione alcuni difetti che il tempo contribuirà senza’altro a limare, se non ad eliminare del tutto: sia pure con tutte le giustificazioni del caso, se la produzione ha in particolare il difetto di affossare, rendendole ancora più inintelligibili, le scream vocals, e in qualche passaggio strumentale l’esecuzione appare ancora un po’ scolastica.
Ma, tenendo ben presente che nel DSBM, l’aspetto che maggiormente importa è la capacità da parte dei musicisti di trasportare l’ascoltatore alla condivisione delle proprie emozioni, quantunque impregnate di negatività, bisogna ammettere che questo obiettivo viene sicuramente centrato dai Forgotten Thought.
La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, li aspettiamo con fiducia alla prima prova su lunga distanza.
Tracklist :
1. Grey Aura
2. The Endless Path
3. Forgotten Thought
4. Black Ink Soaked Page
5. Just For a Moment… (Austere cover)
I General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di “Raiders Of The Evil Eye”
Quando si cita il Generale Lee i più colti penseranno subito al comandante delle forze confederate durante la guerra di secessione, mentre i meno colti e meno giovani (come il sottoscritto) andranno con la mente alla mitica auto usata dai protagonisti del telefilm anni ’80 Hazzard; quale che sia la derivazione del monicker, i General Lee sorprendentemente non arrivano dal profondo sud degli States ma da Bethune, cittadina di provincia situata nel nord della Francia.
Dopo questa amena digressione storico geografica, arriviamo al dunque dicendo subito che questo disco è semplicemente favoloso e il fatto che, nonostante questo, nessuna etichetta si sia presa la briga di produrlo è uno degli ennesimi misteri da affidare a “Kazzenger” …
I sei ragazzi transalpini si muovono nei vasti territori, dai confini piuttosto labili, del post-metal ma il tutto avviene in maniera così fresca, spontanea ed intensa che i brani finiscono per sgorgare con un’immediatezza rara per le abitudini del genere .
Prendendo come termine di paragone un altro dei dischi più riusciti negli ultimi tempi in tale ambito, “Faemin” dei Process Of Guilt, risalta subito la diversa matrice delle due band: mentre i portoghesi affondano le proprie radici nel death doom, i francesi inglobano nella loro proposta evidenti influssi hardcore.
Dato che l’esito finale è eccellente in entrambi i casi, si può tranquillamente affermare che le vie per arrivare all’eccellenza possono essere sì differenti, ma sempre accomunate dal talento e dalla costante voglia di evolversi.
I General Lee esprimono tutto il loro livore nei confronti del mondo che li circonda in sette tracce di media durata tre le quali risplende come una supernova l’anthemica The End Of Bravery, da cantare a squarciagola come del resto fa il bravo Arnaud. Non che il resto del disco sia da meno, basta ascoltare l’opener The Witching Hour dove l’aggressione vocale e sonora viene bilanciata da una chitarra solista che traccia linee melodiche da brividi, Medusa Howls With Wolves prosegue sulle medesime coordinate, mentre sia Alone With Everybody sia la strumentale Overwhelming Truth rallentano decisamente l’andatura, collocandosi su terreni meno abrasivi. Già detto di The End Of Bravery, anche LVCRFT presenta atmosfere più introspettive pur mantenendo sempre elevata l’intensità emotiva, mentre Running With Sharp Scissors, dopo una sparata iniziale chiude l’album con un bel finale intriso di malinconia.
Francamente questo lavoro è una vera sorpresa, oltre che un’autentica ventata d’aria fresca, in un genere che vede troppe band esprimere un sound che implode al proprio interno, senza riuscire a rappresentare in maniera compiuta il malessere che ne costituisce le fondamenta.
Cosa che non succede ai General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di Raiders Of The Evil Eye, confermando che il dono della sintesi è un valore aggiunto in qualsiasi attività, artistica e non.
Da ascoltare e supportare, assolutamente !
Tracklist :
1. The Witching Hour
2. Medusa Howls With Wolves
3. Alone With Everybody
4. Overwhelming Truth
5. The End of Bravery
6. LVCRFT
7. Running With Sharp Scissors
Line-up :
Arnaud – vocals
Vincent – bass
Paul – drums
Fabien – guitar
Martin – guitar
Alex – guitar
Questo è il classico lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine e con la giusta predisposizione mentale, pena l’impossibilità di insinuarsi nella sua spessa coltre di impenetrabilità
Capita, a volte, di avere un rapporto complesso con un disco fin dal suo primo ascolto: nella grande maggioranza dei casi le difficoltà nel riuscire a cogliere appieno i contenuti musicali che racchiude lasciano spazio alla soddisfazione d’essere riusciti a trovarne finalmente la giusta chiave di lettura.
Tutto ciò mi è capitato in parte anche nell’avvicinarmi a questo Inhibition, opera d’esordio dei francesi Decline Of The I; infatti, nonostante i ripetuti ascolti ci sono ancora diversi aspetti di quest’opera che non riesco a mettere del tutto a fuoco.
Del resto un genere particolare come l’avantgarde metal dalle svariate sfumature (black, depressive, sludge, post-metal, elettronica) messo in scena dalla band guidata da A.K. (attivo anche in Vorkreist e Merrimack, per citare solo i gruppi più noti) nasce proprio con l’intento di spiazzare e sorprendere l’ascoltatore più che cullarlo con sonorità rassicuranti.
Il disco costituisce il primo atto di una trilogia incentrata sul disagio esistenziale e sulle forme di reazione messe in atto da ciascun individuo per svincolarsi da una realtà opprimente: a Inhibition dovrebbero seguire, quindi, “Rebellion” e “Escape”.
Bisogna dire che il sound dei Decline Of The I veste alla perfezione i contenuti lirici dell’album grazie al suo incedere disturbante, apparentemente schizofrenico, ma che in realtà ricopre tutti i brani di una patina fatta di soffocante angoscia.
Questo è il classico lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine e con la giusta predisposizione mentale, pena l’impossibilità di insinuarsi nella spessa coltre di impenetrabilità entro la quale A.K. ha pensato bene di custodire la sua creatura; tra episodi affascinanti e sconcertanti nello stesso tempo ne citerei due oggettivamente sopra la media: Art or Cancer, uno sludge catramoso screziato da estemporanee quanto efficaci derive elettroniche, e la conclusiva Keeping The Structure, traccia degna degli Shining più claustrofobici.
Il voto potrebbe essere anche più elevato ma, come detto, l’esito finale del mio personale duello con le sonorità dei Decline Of The I è rimandato all’ascolto del loro prossimo lavoro; al riguardo cito con piacere la massima dell’indimenticato Peter Steele riportata sul retro di copertina di “Bloody Kisses”: “don’t mistake lack of talent for genius”.
Ecco, per me Inhibition al momento va catalogato alla voce “genius” ma, per averne la certezza assoluta, preferisco attendere il prossimo giro ….
Tracklist :
1. Où Se Trouve La Mort ?
2. The End of a Sub-Elitist Addiction
3. Art or Cancer
4. The Other Rat
5. Mother and Whore
6. Static Involution
7. L’indécision d’être
8. Keeping the Structure
Line-up :
A.K. – guitars, keyboards, programming, samples, vocals
N. – drums
G. – vocals
S. – vocals
A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.
A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.
Per l’occasione Mist recupera e rielabora alcuni dei brani presenti in forma strumentale nel demo del 2010 “The Heart Of Autumnsphere” arricchendoli con la voce di Trismegisto (Cult Of Vampyrism), già ospite nel recente lavoro: il risultato è una piccola gemma di gothic doom che non fa che confermare quanto già recentemente espresso in sede di recensione sulla bontà dell’operato del musicista molisano.
Chiaramente, l’operazione non può discostarsi dal quadro complessivo fornito dalle precedenti uscite, pertanto ci troviamo di fronte a composizioni nelle quali, spesso, ai delicati arpeggi di Mist fanno da contraltare un abrasivo screaming o una profonda voce pulita, il tutto funzionale alla creazione di atmosfere intense ed emozionanti. The Heart Of Autumnsphere e la title track sono brani emblematici in questo senso e, nonostante la loro natura di brani metal, si rivelano in realtà due preziosi affreschi sonori che non ci si stanca mai di ascoltare; leggermente diversa Army Of Winter (che nell’occasione è oggetto di una terza rielaborazione visto che il brano faceva parte anche di “Visions From A Thousand Lives”) per il suo andamento ritmico che richiama, almeno inizialmente, gli inarrivabili Katatonia di “Brave Murder Day”. Endless è un breve strumentale, dalle iniziali pulsioni elettroniche, posto in chiusura di un lavoro breve ma che lascia intravvedere le enormi potenzialità dei Dead Summer Society; attendiamo quindi con fiducia la prossima prova su lunga distanza.
Tracklist :
1. The Heart of Autumnsphere
2. My Days through Silence
3. Army of Winter (March of the Thousand Voices)
4. Endless
Line-up :
Mist – All Instuments
Trismegisto – Vocals
Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma
Fuoco Fatuo è un gran bel nome per una band, soprattutto quando questo si addice allo stile musicale prescelto: l’immagine delle fiamme che scaturiscono da terreni paludosi si sposa alla perfezione col sound fangoso del trio varesino; ma anche il senso di precarietà che questo monicker simboleggia, alla fine, costituisce une dei temi portanti del doom metal, con la sua eterna rappresentazione del dolore e della caducità dell’esistenza.
I tre brani contenuti in questo breve Ep costituiscono un efficace esempio del potenziale di questa band di recente formazione: in 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero (anche il titolo non è niente male …) confluiscono diverse influenze, dal black metal, che si evidenza in certe accelerazioni e nell’uso delle voci, al dark e all’heavy di stampo esoterico tipico della scuola italiana (Malombra, Death SS), fino allo sludge, pesante e grumoso come deve essere. L’abisso ci porta (e non poteva essere diversamente) nei gorghi più oscuri della psiche con le sue chitarre ronzanti e i repentini rallentamenti prima di lasciare spazio in chiusura a un conturbante hammond. Vuoto Nero è una traccia che, pur essendone l’ideale continuazione, risulta molto più opprimente del brano che la precede, caratterizzata com’è da un doom scarno e quasi primordiale; il viaggio dilaniante e allucinato si chiude con la title track che si mantiene su coordinate devote a un’oscurità totalizzante, squarciata sporadicamente da efficaci parti di tastiera volte a spezzare temporaneamente l’accerchiamento prodotto da sonorità ruvide e minacciose.
Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma; peccato solo che il growl e lo scream del bravo Milo non sempre rendano sufficientemente comprensibili i testi redatti in italiano.
In definitiva questo Ep si rivela un assaggio esaustivo di quella che potrà essere in futuro la proposta dei Fuoco Fatuo, in special modo se, come ci auguriamo, riscuoteranno l’attenzione di qualche etichetta specializzata del settore.
L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.
L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.
La prima coppia di brani è ad opera degli olandesi Officium Triste, con i quali viene esplorato il versante più melodico del genere; avendo a che fare con una band formatasi a metà degli anni ’90, ascoltando tracce come Repent e Bittersweet Memories non si può certo relegare i nostri al semplice ruolo di epigoni, in considerazione di un percorso musicale pressoché parallelo a quello dei Saturnus, tanto per citare un nome a caso ….
Il secondo dei due brani, in particolare, appare senza dubbio il migliore, grazie alle atmosfere malinconiche e decadenti che la band guidata da Pim Blankenstein riesce a proporre con buon gusto e grande perizia tecnica.
Si potrebbe obiettare che nulla è cambiato rispetto all’ultimo full-length, risalente ormai a cinque anni fa, ma in ambito doom questo non sempre è un difetto, anzi; è lecito affermare, quindi, che gli olandesi consolidano il loro status di band equilibrata, affidabile e mossa da una genuina passione per questo genere musicale.
Diverso, invece, il discorso per i più giovani tedeschi Ophis, i quali hanno all’attivo due ottimi dischi pubblicati in epoca relativamente recente che mostrano una lenta ma costante evoluzione stilistica.
Qui le melodie evocative dei loro compagni d’avventura lasciano il posto a partiture più massicce, contraddistinte da riff granitici e dall’uso costante di vocals ruvide, con l’alternanza di growl e screaming: Storm of Shards si spinge talvolta su territori post-metal analogamente a quanto fatto qualche mese fa dai Process Of Guilt, pur conservando in maniera più marcata rispetto ai portoghesi la propria matrice death-doom, mentre The Mirthless presenta rallentamenti più canonici ma non meno claustrofobici, senza disdegnare l’inserimento di funerei passaggi di chitarra solista.
Ottima prova, quindi, peccato solo per la resa sonora differente dei brani degli Ophis rispetto a quelli degli Officium Triste, aspetto che si percepisce maggiormente proprio potendo fare un confronto immediato nel passaggio dalla seconda alla terza traccia.
Traendo le conclusioni ci troviamo di fronte a un interessante esempio di come si possa produrre musica di uguale valore affrontando un genere simile ma con un diverso approccio. Non ci resta che attendere le due band a una nuova prova su lunga distanza per ricevere un’ennesima conferma delle buone impressioni fornite da questo split album.
Tracklist :
1. OFFICIUM TRISTE – Repent
2. OFFICIUM TRISTE – Bittersweet Memories
3. OPHIS – Storm of Shards
4. OPHIS – The Mirthless
Line-up : OFFICIUM TRISTE
Lawrence Meyer – Bass
Niels Jordaan – Drums
Pim Blankenstein – Vocals
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard – Guitars
Bram Bijlhout – Guitars
OPHIS
Philipp Kruppa – Vocals, Guitars, All instruments
Nils Groth – Drums
Oliver Kröplin – Bass
Martin Reibold – Guitars
Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.
Tempestuous Fall è la nuova incarnazione del musicista australiano Dis Pater, conosciuto finora nell’ambiente per il suo progetto principale Midnight Odyssey.
Se i lavori pubblicati con questo monicker sono sempre stati all’insegna di un affascinante black ambient, The Stars Would Not Awake Youesplora gli oscuri meandri dei territori funeral-death doom, dando libero sfogo a quelle influenze primigenie che, a detta dello stesso autore, per qualche insondabile motivo fino a oggi non avevano trovato il loro naturale sbocco.
Il risultato è davvero apprezzabile anche perchè, nonostante il dichiarato riferimento ai lavori di My Dying Bride e Anathema degli anni ’90, l’album si sviluppa su coordinate tutt’altro che scontate nel corso della sua ora abbondante di durata distribuita su cinque lunghi brani, trovando i suoi picchi qualitativi nell’opener Old & Grey e nel brano di chiusura A Cold Stale Goodbye.
Nel primo caso colpiscono il grande gusto melodico e le clean vocals evocative, mentre nel secondo le atmosfere si fanno maggiormente plumbee e chiaramente di stampo funeral, con un sound che riporta direttamente ai mitici Thergothon.
In questo senso anche la title-track si rivela traccia di grande qualità, soprattutto quando un solenne assieme di chitarra, tastiere e growl irrompe brutalizzando letteralmente i delicati passaggi pianistici, mentre sia Beneath a Stone Grave che Marble Tears contribuiscono a mantenerne elevato il livello medio dell’intero lavoro.
Tenendo conto del fatto che Dis Pater si cimenta per la prima volta con questo genere e che l’album è uscito contemporaneamente a un lavoro immenso come “Atra Mors” degli Evoken, si può tranquillamente affermare che The Stars Would Not Awake You non esce affatto schiacciato dal confronto, inserendosi, invece, sulla scia dei maestri statunitensi grazie a un songwriting ispirato e tutt’altro che di maniera.
Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.
Tracklist :
1. Old & Grey
2. Beneath a Stone Grave
3. Marble Tears
4. The Stars Would Not Awake You
5. A Cold Stale Goodbye
La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.
Visto che, mentre scrivo questa recensione, ci troviamo in pieno periodo olimpico, mi è venuto spontaneo pensare che gli Evoken siano, assieme ai Mournful Congregation e agli Skepticism, i più autorevoli candidati a un ipotetico podio nella specialità del death-doom.
La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.
La capacità di immergere l’ascoltatore in atmosfere plumbee e soffocanti, senza risultare mai noiosi o ripetitivi, è privilegio di pochi eletti dei quali gli Evoken fanno parte a buon diritto.
Rispetto a quanto fatto lo scorso inverno con “The Book Of Kings” dai succitati australiani, i nostri accentuano, come da attitudine, la componente death, privilegiando un impatto maggiormente basato sui riff di chitarra pur non disdegnando passaggi acustici, per lo più racchiusi nei due brevi strumentali A Tenebrous Vision e Requies Aeterna.
Se le chitarre assumono un ruolo preponderante nel sound dei maestri statunitensi, le tastiere svolgono un sapiente lavoro di raccordo caratterizzando con rara efficacia i momenti di maggiore intensità e pathos. Atra Mors viene inaugurato dalla title-track facendo capire sin dalle prime note che, nonostante nulla sia cambiato, il dolore continua a rinnovarsi in maniera costante alimentando in una catena senza fine i rimpianti, le disillusioni e la disperazione per un cammino che, giorno dopo giorno, si avvicina sempre più alla sua fine.
Questo terrificante viaggio nei recessi più profondi della psiche umana prosegue con la meraviglia rappresentata da Descent Into Chaotic Dream, il cui assolo di chitarra finale è poesia allo stato puro. Grim Eloquence e An Extrinsic Divide proseguono con il loro lento incendere verso il momento del definitivo distacco, ma è con le atmosfere a volte dissonanti di The Unechoing Dread che le tenebre finiscono per avvolgerci impietosamente, con il magistrale growl di John Paradiso a infierire definitivamente sul nostro spirito già sufficientemente provato. Into Aphotic Devastation conclude, passeggiando senza misericordia sui nostri miseri resti mortali, questo percorso lastricato di sofferenza al termine del quale provo a immaginare la domanda che formulerebbe spontaneamente chi non è avvezzo a questo tipo di musica: per quale motivo dovrei sopportare tutto questo ?
La risposta è che il death-doom non è solo una forma artistica caratterizzata da una rara integrità e aliena a qualsiasi tipo di compromessi: ascoltare opere del valore di Atra Mors ci ricorda in modo costante e senza remissione il carattere aleatorio della nostra esistenza, invitandoci così ad affrontarla quotidianamente con la giusta consapevolezza e il necessario disincanto, prima che tutto si concluda ineluttabilmente con l’approdo in “… a soundless realm, an unforgiving place where time seems endless …”
Un disco imperdibile.
Tracklist :
1. Atra Mors
2. Descent into Chaotic Dream
3. A Tenebrous Vision
4. Grim Eloquence
5. An Extrinsic Divide
6. Requies Aeterna
7. The Unechoing Dread
8. Into Aphotic Devastation
Line-up :
John Paradiso Guitar, Vocals
Chris Molinari Guitar
Nick Orlando Guitar
Dave Wagner Bass
Don Zaros Keyboards
Vince Verkay Drums