Gandalf’s Owl – Winterfell

Decisamente apprezzabile questo esperimento, proprio perché Gandolfo Ferro, rivolgendosi ad una fascia di ascoltatori sostanzialmente diversa da quella degli Heimdall, si mette coraggiosamente a nudo rinunciando alle sue più riconosciute peculiarità,

In ambito metal, i musicisti provenienti dal power o dall’heavy metal più classico non sono certo noti per le loro propensioni sperimentali, che spesso si ritrovano maggiormente nei colleghi dediti ai generi più estremi.

Sorprende piacevolmente, quindi, ritrovare Gandolfo Ferro, vocalist degli Heimdall nel loro ultimo lavoro Eneid, alle prese con un ep di musica strumentale di matrice dark ambient.
Parafrasando il nome di battesimo del musicista siciliano, Gandalf’s Owl è un progetto che si mette in luce presentando un quarto d’ora di musica davvero interessante e per nulla tediosa; l’impressione è che Ferro, con questo primo assaggio, intenda esplorare varie sfaccettature della musica ambient, quasi a voler trovare una direzione ideale in occasione di un possibile lavoro su lunga distanza.
Così, ci imbattiamo nell’accattivante e ritmata The Wall, pervasa da pulsioni elettroniche che ritroviamo in maniera più soffusa anche in Winterfell, il brano a mio avviso meglio riuscito del trittico, in virtù anche del prezioso lavoro chitarristico offerto da Gaetano Fontanazza. Chiude questo quarto d’ora di pregevole fattura una White Arbour (…The North Remembers) che, tra passaggi recitati ed campionamenti a sfondo naturalistico, fa approdare l’ascoltatore in un più avvolgente e confortevole sound ambient dai tratti evocativi e paesaggistici.
Decisamente apprezzabile, in definitiva, questo esperimento, proprio perché Gandolfo Ferro, rivolgendosi ad una fascia di ascoltatori sostanzialmente diversa da quella degli Heimdall, si mette coraggiosamente a nudo rinunciando alle sue più riconosciute peculiarità, dimostrandosi raffinato compositore a 360 gradi. Restiamo quindi in curiosa attesa del prossimo volo del gufo di Gandalf …

Tracklist:
1. The Wall
2. Winterfell
3. White Arbour (…The North Remembers)

Line-up:
Gandolfo Ferro: all instruments

Guitar ambient on “Winterfell” by Gaetano Fontanazza

GANDALF’S OWL – Facebook

Sepvlcrvm – Vox In Rama

Il rito dei Sepvlcrvm è un convolgere piani diversi della nostra esistenza.

Cosmogonie di una musica che si fa contemporaneamente religione e logos.

Il duo che risponde al nome Sepvlcrvm arriva al secondo disco, dopo Hermeticvm del 2010. Con quest’ultimo avevano fatto un deciso ingresso nella musica rituale, o nel rito musicale qual dir si voglia. I droni si allacciano ad una intelaiatura di improvvisazioni con un gusto kosmische. Il rito dei Sepvlcrvm è un coinvolgere piani diversi della nostra esistenza. Il duo opera una seria ricerca esoterica sia musicale che religiosa, perché l’aspetto ritualistico della musica è quello più antico, e qui viene recuperato in toto. Le cinque canzoni in realtà sono due, poiché I e III sono più intermezzi funzionali alle due tracce più lunghe II e IV che vanno oltre i venti minuti. Il percorso dei Sepvlcrvm è un continuum di passaggi debitori ad un sapere antico che abbiamo rifiutato, svendendolo per una falsa sapienza. In questo disco ognuno può ricercare ciò che vuole, ma l’unica condizione è lasciarsi andare a questo flusso, questa forza che nasce e che sembra inerte, ma in realtà è fortissima. Vox In Rama è un’esperienza che si fonda sull’immutabilità e la forza di credenze e coscienze pagane forti come querce. Non ci sono molti paragoni per i Sepvlcrvm, se non loro stessi. Ad impreziosire il tutto l’artwork è a cura di Marco Castagnetto.

TRACKLIST
I
II
III
IV

LINE-UP
Marcvs F
Marcvs Ioannes

SEPVLCRVM – Facebook

Wöljager – Van’t Liewen Un Stiäwen

Un capolavoro in grado rendersi appetibile anche a chi, pur non frequentando in maniera assidua questo genere, sia in grado di assimilare le emozioni offerte da una musica solo apparentemente semplice ma che arriva dritta al cuore, trovandovi una sua stabile dimora.

Marcel Dreckmann è un musicista tedesco che i più attenti identificheranno nello Skald Draugir degli Helrunar e nel Marsél degli Árstíðir Lífsins, due band autrici di una musica estrema obliqua e colta che, solo per comodità, sono sempre state inserite nel calderone black metal.

Non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che Dreckmann avesse già da tempo in canna questo colpo magnifico, sotto forma di un’opera di matrice folk che avrebbe dovuto costituire, peraltro, il supporto musicale di una rappresentazione teatrale.
Come spesso accade in situazioni analoghe, la trasposizione scenica non è mai stata realizzata e così il musicista tedesco ha pensato giustamente di pubblicare il tutto in formato audio con il monicker Wöljager, e menomale, aggiungerei, perché un lavoro di tale spessore qualitativo non poteva certo essere lasciato a languire in attesa di tempi migliori.
Con l’aiuto dei due compagni d’avventura negli Árstíðir Lífsins, il connazionale Stefan Drechsler e l’islandese Árni Bergur, Marcel sciorina una prova maiuscola esibendo il lato più cupo e meditabondo del folk e, a rendere ancor più particolare e degna di attenzione la proposta, a livello lirico viene utilizzato il Münsteran Platt, ovvero il dialetto basso tedesco parlato ancora in alcune regioni del nord ovest della Germania e che, come si può notare, ha non poche similitudini anche con l’idioma dei vicini Paesi Bassi.
Insomma, non sono pochi i motivi di interesse che l’ascoltatore può rinvenire in Van’t Liewen Un Stiäwen, ma ovviamente il principale è il contenuto musicale, fatto di un folk altamente evocativo nel quale vengono banditi del tutto i toni caciaroni a favore di un mood tra il drammatico ed il malinconico che sovente induce alla commozione: difficile che gli occhi non si inumidiscano di fronte a gioielli intrisi di aulico splendore come la title track, Summer e Vettainachtain, o ancora una Üöwer de Heide in odore del Nick Cave più intimista.
Le uniche concessioni ad una musica popolare dall’andamento relativamente più allegro sono la trascinante Kuem to Mi e Junge Dään, non a caso collocate l’una dopo l’altra nella parte centrale del disco, quasi a costituire una parentesi di leggerezza all’interno di un mood complessivo che lascia ben poco spazio alla gioia e all’ottimismo.
Qui ci troviamo di fronte a musicisti di statura superiore alla media e la produzione cristallina restituisce alla perfezione le minime sfumature, esaltando all’ennesima potenza ogni singolo arpeggio chitarristico della coppia Drechsler – Bergur, le carezze degli archi suonati magistralmente da quest’ultimo e il timbro caldo e profondo della voce di Dreckmann.
Uno degli intenti dichiarati di Marcel era quello di dimostrare che un dialetto come quello basso tedesco non deve essere necessariamente associato all’immaginario del folklore da sagra paesana, ma che, invece, può costituire tranquillamente la base linguistica per opere di elevato spessore artistico e dagli umori plumbei come quella rappresentata da Van’t Liewen Un Stiäwen.
La missione è stata compiuta, forse andando anche oltre le iniziali previsioni, perché non esito a definire questo disco un autentico capolavoro in grado rendersi appetibile anche a chi, pur non frequentando in maniera assidua questo genere, sia in grado di assimilare le emozioni offerte da una musica solo apparentemente semplice ma che arriva dritta al cuore, trovandovi una sua stabile dimora.

Tracklist:
1.Vüörgeschicht
2.Van’t Liewen un Stiäwen
3.Swatte Äer
4.Summer
5.Magdalene
6.Kuem to mi
7.Junge Dään
8.Üöwer de Heide
9.Up’n Likwäg
10.Deaolle Schwatters föert to’n Deibel
11.Vettainachtain
12.Dat Glas löp rask
13.Aomdniewel

Line-up:
Marcel Dreckmann – Vocals, Lyrics, Compositions
Stefan Drechsler – Acoustic Guitars
Árni Bergur Zoega – Acoustic Guitars, Viola, String arrangements

Wöljager – Facebook

Blackwood – As the world rots away

Elettronica e noise, rumori e silenzi in negativo, riverberi maledetti e tanto altro, quello dei Blackwood è un disco importante, intimo e allo stesso tempo catartico e malevolo dannatore.

Odio, fastidio, dolore, paura, non adatto, inabile, coltelli sulla gola, fitte dietro il cuore.

Suoni e rumori instabili, graffianti e pesantemente e diversamente vivi, ecco a voi anime belle il debutto dei Blackwood su Subsound Records . Tutto ciò è opera del cervello e del corpo di un uomo solo, Eraldo Bernocchi, sperimentatore ed agitatore sonoro da tanto tempo in corsa verso le nostre orecchie. Dal drone, all’industrial, da cose in quota Sunn O))) ad altre prettamente ansiogene, questo disco ha un raggio d’azione ampissimo ma è claustrofobico come una panic room economica. Si rimane rasenti al suolo, per evitare i demoni interiori che Bernocchi ci e si scatena contro. Il suono è pesante, intermittente e curatissimo, una presa di posizione geometrica contro il nulla che ci avviluppa, la colonna sonora dei nostri fallimenti e dei nostri ancora più miseri tentativi. Elettronica e noise, rumori e silenzi in negativo, riverberi maledetti e tanto altro, As the world rots away è un disco importante, intimo e allo stesso tempo catartico e malevole dannatore. Davvero un debutto incredibile per una nuova avventura di un musicista che ha tanto da dire.

TRACKLIST
1.Breaking God’ Spine
2.Santissima Muerte
3.Sodom
4.Purtridarium
5.Vulture
6.Unrecoverable Mistakes

LINE-UP
Eraldo Bernocchi: electronics, guitars.
Jacopo Pierazzuoli: live drummer.

BLACKWOOD – Facebook

Les Discrets – Live At Roadburn

Per chi sta scoprendo lo shoegaze e colpevolmente non conoscesse ancora i Les Discrets, Live At Roadburn potrebbe rappresentare il pretesto per colmare tale lacuna

La band di Fursy Teyssier dopo una lunga gavetta ha finalmente ottenuto la sua consacrazione: dopo aver vissuto per qualche anno nell’ombra degli Alcest dell’amjco Neige, il versatile artista francese ha visto i suoi Les Discrets ottenere la meritata attenzione verso una proposta che, tenendo fede al monicker, accarezza l’ascoltatore con i propri suoni tenui e sognanti.

Rispetto agli Alcest il sound appare meno emozionale, forse anche meno malinconico, probabilmente perché diverso è il tragitto musicale percorso dai due progetti, il cui approdo però, oggi, si può definire del tutto comune, visto che di post rock o shoegaze sempre si tratta,  pur con tutte le differenze del caso .
In occasione di questo Live At Roadburn, risalente al 2013, i due si ritrovano ancora fianco a fianco sul palco rendendosi protagonisti di una testimonianza audio di grande qualità, benché la dimensione live per band di questo tipo non è detto che sia sempre quella ottimale.
Lo spettacolo, anche a giudicare dalle reazioni di un pubblico molto composto,  sembra più affine ad una rappresentazione teatrale, il che forse fa perdere un po’ di calore alla resa finale del documento;  certo è che l’ascolto di brani meravigliosi come Le Mouvement Perpétuel e Song for Mountains riconcilia sempre e comunque con la musica e con il mondo circostante in senso lato.
Per chi sta scoprendo lo shoegaze e colpevolmente non conoscesse ancora i Les Discrets, Live At Roadburn potrebbe rappresentare il pretesto per colmare tale lacuna ascoltando in un colpo solo il meglio della produzione della band di Teyssier, in attesa di un nuovo lavoro che sta cominciando a farsi attendere un po’ troppo …

Tracklist:
1. Linceul d’hiver
2. L’Échappée
3. Les Feuilles de l’olivier
4. Au Creux de l’hiver
5. Le Mouvement perpétuel
6. La Nuit muette
7. Chanson d’automne
8. Song for Mountains

Line-up:
Fursy Teyssier – vocals guitar
Winterhalter – drums
Neige – bass
Zero – guitar, background vocals

LES DISCRETS – Facebook

THE MAGIK WAY – CURVE STERNUM

A differenza di quanto accade sovente, in occasione di reunion che per motivi di marketing vengono contrabbandate come eventi epocali, per i The Magik Way si può invece tranquillamente affermare che di un ritorno di questa levatura se ne sentiva davvero il bisogno.

Il nome dei The Magik Way era balzato nuovamente alla ribalta dopo diversi anni di oblio, grazie alla riedizione delle due uniche testimonianze discografiche della loro prima parte di carriera.

Curve Sternum è il naturale passo che segue questo tipo di operazioni, propedeutiche a riportare l’attenzione su una band in procinto di tornare sulla scena dopo un lungo silenzio; decisamente meno prevedibile è, invece, il modo in cui Nequam e Azach si ripropongono al pubblico: il dark ambient dalla forte componente esoterica lascia spazio ad una sorta di neo folk dai contenuti orrorifico-rituali, esaltati da testi a volte disturbanti, altre volte grotteschi, recitati con voce da crooner dal primo dei due.
I Corpi Pesanti, in apertura di lavoro, è un brano che fatica a decollare in prima battuta a causa delle forzature metriche che contraddistinguono il comparto lirico, senza dimenticare un timbro vocale comunque poco convenzionale; ci vuole infatti un po’ di tempo e, quindi, diversi ascolti per venire a patti con un approccio musicale volto, più che ad attrarre, a disorientare prima e ad avvolgere poi l’ascoltatore con i suoi testi che rifuggono ogni banalità ed un sound solo apparentemente semplice e minimale.
Forse anche per questo, il disco si rivela come una delle uscite più originali degli ultimi tempi, rendendo credibile un accostamento audace, soprattutto per attitudine, alle opere di personaggi quali Mr.Doctor o Malleus.
Rispetto ai citati geni musicali qui troviamo indubbiamente un minore slancio melodico ed atmosferico e una maggiore voglia di sperimentare un suono che, talvolta, diviene quasi ossessivo nel suo per lo più lento incedere.
Curve Sternum è la perfetta espressione artistica esibita da un gruppo di musicisti che oltre vent’anni fa ritennero troppo angusti i confini espressivi del black metal, avviando senza alcuna fretta un percorso di ricerca musicale e filosofica privo di vincoli temporali ed espressivi: ne è testimonianza il cospicuo periodo di stand by al quale sono stati appunto soggetti i The Magik Way.
Con calma e consapevolezza, come creature sotterranee che si nutrono con pervicace regolarità di tutto ciò che proviene dalla superficie, nulla escluso, il duo alessandrino giunge ad offrire un album difficile e che necessita di molta pazienza ed altrettanta voglia di conoscenza da parte degli ascoltatori: superati questi ostacoli, sul piatto resta un lavoro forse per pochi ma sicuramente di gran pregio.
A differenza di quanto accade sovente, in occasione di reunion che per motivi di marketing vengono contrabbandate come eventi epocali, per i The Magik Way si può invece tranquillamente affermare che di un ritorno di questa levatura se ne sentiva davvero il bisogno.

Tracklist:
1.I corpi pesanti
2.La mano raccoglie
3.A curva di sterno
4.Yod-He-Vau-He
5.Nel tempo restare
6.L’orrore
7.Scuotiti, oh vita!
8.In alto come in basso

Line-up:
Nequam – vocals, acoustic guitars, programming
Azàch – drums and percussions, backing vocals

Maniac of Sacrifice – electric guitars
Old Necromancer – electric guitars
Tlalocàn – doublebass

THE MAGIK WAY – Facebook

Fallen – Secrets Of The Moon

Un bellissimo lavoro, capace di rievocare in maniera del tutto personale le sonorità che furono portate alla ribalta negli anni ’70 dalla florida scena tedesca, con nomi quali Klaus Schulze, Tangerine Dream e Popol Vuh, tra gli altri.

Nel novembre dell’anno scorso avevo avuto l’occasione di parlare di un interessante progetto solista denominato The Child Of A Creek, creatura musicale di Lorenzo Bracaloni.

All’epoca i dischi presi in esame erano stati ben due: il primo,”Quiet Swamps”, andava a tastare i territori del neo folk in una forma molto personale, mentre il secondo, “Hidden Tales And Other Lullabies”, vedeva il nostro cimentarsi in una manciata di brani ambient dall’ampio respiro melodico.
Proprio da quest’ultimo lavoro prende le mosse Fallen, nuova espressione musicale del buon Lorenzo che, con Secrets Of The Moon, regala agli ascoltatori un lavoro capace di rievocare abilmente le sonorità che, negli anni ’70, furono portate alla ribalta dalla florida scena teutonica (parliamo quindi di Klaus Schulze, Tangerine Dream e Popol Vuh, tra gli altri).
Va detto subito che la forma ambient in questo disco appare lontana anni luce dalle espressioni più minimali e cervellotiche che il genere in questione tropo spesso offre: qui ogni brano è dotato di una struttura melodica portante che, se per sua natura tende a reiterarsi, si rivela sempre e comunque gradevole ed avvolgente e quindi del tutto provvista di un’autonomia musicale svincolata dall’eventuale utilizzo di supporti visivi.
Nonostante si spinga molto vicino all’ora di durata, Secrets Of The Moon non mostra mai la corda e bandisce ogni forma di noia, anche se è implicito il fatto che chi non è avvezzo a sonorità di questo tipo potrebbe non trovarsi d’accordo con questa mia affermazione.
Eppure bisognerebbe ogni tanto provare a fermare la nostra folle corsa quotidiana, chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da note limpide, eteree, capaci di raggingere le pieghe più nascoste del nostro spirito, facendoci recuperare quella sensibilità nei confronti dei piccoli particolari e di tutto ciò che, circondandoci quotidianamente, finisce per apparire banale e scontato nonostante la sua oggettiva bellezza.
Una morbida base elettronica che si stende su un soffuso tappeto percussivo: questo è a grandi linee ciò che ci si deve attendere dal lotto di brani compresi in questo magnifico album: Golden Dust e Ravenhand vi stupiranno per la loro eterea bellezza, Cosmos già dal titolo fa capire quanto l’autore sia devoto cultore di quella Kosmische Musik (sentite come questa definizione in lingua madre suoni più solenne rispetto all’orrendo “krautrock” … ) della quale i musicisti poc’anzi citati sono stati i numi tutelari, e At The End Of The World chiude il lavoro così come aveva preso avvio con la title track, lasciandoci in eredità solo gradite vibrazioni positive.
Peraltro, l’inevitabile gioco dei rimandi mi ha portato a riscoprire dischi che avevo acquistato quand’ero decisamente più giovane, in particolare “Cluster & Eno”, primo frutto della collaborazione tra il genio britannico ed il duo formato dai musicisti tedeschi Dieter Moebius e Hans-Joachim Roedelius, a conferma di quanto questo primo lavoro targato Fallen possieda anche un discreto potere “taumaturgico”: un buon motivo in più per lasciarsi cullare dalle note di Secrets Of The Moon …

Tracklist:
1. Secrets of the Moon
2. Golden Dust (The Vanishing)
3. Ravenhand
4. Of Dreams (and Wounds)
5. Cosmos
6. At the End of the World

THE CHILD OF A CREEK – Facebook

Olam Ein Sof – Reino De Cramfer

Il lavoro è nel suo complesso pregevole, anche se talvolta affiorano diversi cali di tensione sotto forma di brani meno ispirati che finiscono per appesantire inevitabilmente l’ascolto

Nuovo album del duo brasiliano Olam Ein Sof, attivo da oltre un decennio nel proporre il proprio folk dai tratti medievali.

Reino De Cramfer si snoda, quindi, per lo più su queste coordinate, con qualche digressione neofolk ed una puntatina su sonorità di stampo andino (Invocando a Lua Azul), grazie ai diversi strumenti a corda suonati da Marcelo Miranda, il quale viene coadiuvato in tale compito da Fernanda Ferretti, che presta anche la propria voce in alcuni brani.
Il lavoro è nel suo complesso pregevole, anche se talvolta affiorano diversi cali di tensione sotto forma di tracce meno ispirate che finiscono per appesantire inevitabilmente l’ascolto (in particolare Jornada Etérea), con l’aggravante di una durata non indifferente per le abitudini di chi si cimenta con il genere.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che Miranda è un buonissimo chitarrista ma non è certo un virtuoso alla Paco De Lucia, per intenderci, mentre la voce della Ferretti è nella norma, adeguata in certi passaggi e meno in altri: anche questi aspetti finiscono per incidere sulla resa complessiva dell’album, specie quando viene meno quella brillantezza sul versante compositivo esibita in brani quali Vimana, Glaskar, la title-track e la già citata Invocando a Lua Azul.
Gli Olam Ein Sof, comunque, in virtù di una carriera già abbastanza lunga e disseminata di diversi album, sono assolutamente credibili nella loro sincera riproposizione del genere; la resa un po’ altalenante rende però Reino De Cramfer un lavoro dedicato agli aficionados del genere piuttosto che ad ascoltatori occasionali, proprio perché la sua piena fruizione è strettamente connessa ad una certa dimestichezza con la materia.
Gradevole ma non imprescindibile.

Tracklist:
1.Mar Cósmico
2.Vimana
3.A Caminho das Montanhas de Nuvens
4.Murmúrio das Águas
5.Reino de Cramfer
6.Jornada Etérea
7.Invocando a Lua Azul
8.Glaskar
9.Dança da Floresta

Line-up:
Marcelo Miranda – steel and nylon acoustic guitars, mandolin, charango, cistre, eletric guitar and treble recorder
Fernanda Ferretti – vocals, nylon acoustic guitar, cuatro venezoelano, citara vox e jaw harp

OLAM EIN SOF – Facebook

Mirna’s Fling – For The Love Of Me

Arjan Hoekstra ci guida in un mondo dai colori tenui ma tendenti invariabilmente a rivestirsi di una cappa di grigio, stante il mood malinconico che pervade anche episodi ingannevolmente più spensierati.

Mirna’s Fling è il progetto solista del musicista olandese Arjan Hoekstra (The Good Hand, Alvenrad) e For The Love Of Me ne è la prima testimonianza discografica edita dalla piccola ma qualitativa Trollmusic.

Se dovessi cominciare ad elencarvi tutte le influenze, i riferimenti, gli accostamenti che fa scaturire l’ascolto di questo lavoro mi ridurrei ad elencare un arido elenco di artisti più o meno noti, quindi per l’occasione mi limiterò a dire che, per farvi un’idea di ciò che vi dovrete attendere nell’approcciarvi a questo disco, è sufficiente pensare a chiunque, negli ultimi trent’anni, sia stato in grado di emozionarvi solo con la propria voce accompagnata da una chitarra acustica, dal pianoforte e qualche altro strumento non elettrico collocato sapientemente e sobriamente all’interno dei singoli brani.
Qualsiasi nome vi sia venuto in mente in prima battuta, senz’altro lo ritroverete tra le note di questa raccolta, siano esse racchiuse in brani dalle sfumature dark, dalle reminiscenze neo folk o in semplici ballate: la voce di Arjan ci guida in un mondo dai colori tenui ma tendenti invariabilmente a rivestirsi di una cappa di grigio, stante il mood malinconico che pervade anche episodi ingannevolmente più spensierati.
La produzione di Markus Stock (Empyrium, The Vision Bleak) valorizza al massimo le undici perle elargite da Hoekstra, a fronte di una struttura compositiva apparentemente semplice che, al contrario, racchiude diversi passaggi ricchi di particolari che una registrazione non ottimale avrebbe finito per occultare.
Misery, Goodbye, Winter’s Breeze e il capolavoro assoluto World of Make Believe sono solo i picchi di un lavoro che non conosce cali e che sussurra all’anima di ciascuno lasciandole in eredità più di una ferita, nonostante le armi utilizzate sembrino a prima vista poco affilate.
Del resto, “che cosa succede alla vostra anima quando un rapporto ha causato distruzione e disperazione per troppo tempo”? Questo è quanto ci chiede Arjan Hoekstra nelle note di presentazione: non ho una risposta vera e propria a questa domanda, di sicuro For The Love Of Me giunge a spargere ulteriore sale laddove ci sono già state frequenti lacerazioni.
Contro ogni previsione sto letteralmente consumando questo disco, che per certi versi mi procura un senso di malinconico smarrimento più insanabile di quanto non riescano a fare molti album del mio amato doom.
Melancholy is not a sickness …

Tracklist:
1. Misery
2. Goodbye
3. Surreal
4. Rendez-vouz
5. Lost in light
6. World of make believe
7. Trouble
8. Winter`s Breeze
9. The final mourning song
10. For the love of me
11. Stranded

Line-up:
Arjan Hoekstra – All Instruments, Vocals

MIRNA’S FLING – Facebook

Oberon – Dream Awakening

Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio.

Il secondo full-length del solo project Oberon arriva dopo ben tredici anni di silenzio, nel corso dei quali colui che ne è l’artefice, il norvegese Bard Oberon, è rimasto ai margini dell’ambiente pur continuando a comporre musica.

Molta di questa è confluita poi in Dream Awakening, il disco che, in fondo, costituisce la chiusura di un cerchio, giacché l’etichetta che lo licenzia è quella stessa Prophecy che, nel 1997, tra le prime produzioni immesse sul mercato, pubblicò proprio l’omonimo mini di Oberon. Diciamo subito che questo album è l’ennesimo centro da part di una label che, da anni, continua a proporre musica sempre contraddistinta da un incommensurabile valore artistico. Devo ammettere, senza particolari remore, che prima di oggi il nome Oberon mi era del tutto sconosciuto; ne deriva, quindi, che la valutazione di questo lavoro e le sensazioni scaturite dall’ascolto esulano inevitabilmente da qualsiasi raffronto con la produzione passata. Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio. Una voce limpida ed evocativa conduce l’ascoltatore lungo un percorso disseminato di momenti incantevoli, un qualcosa di avvicinabile alla purezza dell’acqua che sgorga da una fonte; caratteristica, questa, che non viene meno neppure quando i suoni si irrobustiscono, ma che semmai viene ulteriormente esaltata dal gioco di luci ed ombre. Empty And Marvelous inaugura questo magnifico album con umori folk, soppiantati dal successivo brano capolavoro Escape nel quale, a tratti, viene evocato nientemeno che Jeff Buckley e, tutto sommato, il mai abbastanza compianto singer statunitense può costituire un valido punto di riferimento per capire meglio ciò di cui è capace Bard in Dream Awakening. Certo, la voce del musicista norvegese, pur pregevole, non è comparabile con quella di Jeff, ma la sensibilità compositiva e la capacità di tratteggiare brani dell’enorme impatto emotivo non sono affatto da meno. Anche quando è il folk ad impadronirsi del songwriting il risultato merita il nostro plauso, ma è certo che gli episodi che restano più impressi sono quelli in cui vengono messe in evidenza sia una più spiccata anima melodica (Flight Of Aeons), sia un’impronta di stampo prog/rock (I Can Touch The Sun With My Heart ). Le atmosfere sottilmente inquietanti di Machines sono la penultima perla di un lavoro che regala in chiusura un altro brano splendido (Age Of The Moon) nel quale la chitarra elettrica si ritaglia un ultimo spazio all’interno di suoni che, se trasposti visivamente, assumerebbero delicati color pastello. Oberon è stata un autentica folgorazione con la scoperta di un musicista rimasto per anni in una sorta di oblio: questo è un altro buon motivo, tra i tanti, per il quale nessuno dovrebbe mai ritenersi appagato di ciò che ha ascoltato in passato. Per chi come me , si è innamorato a prima vista di questa eccellente entità musicale, sarà cosa gradita sapere che la Prophecy ha programmato anche la ristampa dell’intera produzione targata Oberon, una buona occasione per approfondire la conoscenza e magari scovare altre gemme dimenticate composte dall’ottimo Bard.

Tracklist:
01. Empty And Marvelous
02. Escape
03. In Dreams We Never Die
04. Dark World
05. Flight Of Aeons
06. Dream Awakening
07. I Can Touch The Sun With My Heart
08. Phoenix 09. Secret Flyer
10. Machines That Dream
11. Age Of The Moon

OBERON – Facebook

OvO – Averno / Oblio

Ritornano gli abissi sonori di uno dei migliori gruppi italiani che ripesca due eccellenti pezzi dalle sessioni di registrazione del suo ultimo album.

Ritornano gli abissi sonori di uno dei migliori gruppi italiani che qui ripesca due eccellenti pezzi dalle sessioni di registrazione di “Abisso”.

Continua la discesa del magnifico duo Dorella – Pedretti verso gli inferi, con due brani davvero oscuri e preoccupanti.
Il primo, Averno, è proprio quello che sembra già dal titolo e proprio il lago dell’Inferno è il luogo dove ci porta il ritmo marziale e sincopato della canzone, con una voce satanica che ci guida in mezzo ai fumi.
Il secondo, Oblio, è un pezzo che spiega benissimo ciò che gli  OvO sono ora: un grande gruppo che fa molto bene musica che nessun altro suona.
Nelle loro composizioni ci sono droni, loops, atmosfere molto piene e vuoti lancinanti, si sente anche l’indiscutibile attitudine metal di Dorella.
Addirittura Oblio potrebbe essere un pezzo dei Sunn O))), e uno dei migliori anche.
Corpoc rilascia questi due pezzi in un vinile serigrafato e a tiratura limitata, oppure in download.
Scendere a sud del paradiso è piacevolissimo.

Tracklist:
1. Averno
2. Oblio

Line-up:
Bruno Dorella – tamburi, E-pad, synth
Stefania Pedretti – voce e chitarra

Riccardo Gamondi – estratti sonori

OvO – Facebook

Negura Bunget – Gind A Prins

L’unica maniera per apprezzare pienamente i dieci minuti di musica contenuti in Gind A Prins è quello di liberarsi dell’ingombrante pregiudizio che può derivare dal nome della band stampato sulla copertina.

Non volendo prendere le parti di alcuno, l’unica osservazione che si può fare è che forse sarebbe stato meglio che anche Negru, così come i suoi ex-compagni che in seguito allo split hanno dato vita ai Dordeduh, avesse scelto di utilizzare un nome diverso per il suo attuale progetto, a maggior ragione ora che ha nuovamente rivoluzionato la line-up rispetto a “Poarta de Dincolo”; del resto la qualità della musica espressa è comunque innegabile e, in caso contrario, mantenere un monicker già affermato non sarebbe servito a coprire eventuali pecche.

Ma tant’è … , i Negura Bunget, come anticipazione del loro secondo album nella versione “mark II”, pubblicano questo incantevole 7” che, in linea con le tendenze già manifestate nelle uscite più recenti, è costituito da un folk ambient dal sapore ancestrale e che reca impressa a fuoco la propria provenienza geografica.
Curgerea Muntelui e Taul Fara Fund sono due brani piuttosto brevi in ossequio al formato prescelto, il che non fa che aumentare il desiderio di sentire al più presto nuove composizioni; mentre la prima delle due possiede un struttura canzone più tradizionale e si rivela un episodio maestoso ed emozionante , con la bella voce di Tibor Kati a declamare i consueti testi in lingua madre adagiati su un tappeto di tastiere e strumenti a fiato, la seconda è un esempio ben riuscito di ambient dalla forte componente etnica, dove una litania corale diviene un tutt’uno con il flauto di Petrica Ionutescu.
La magnificenza di “Om” è un ricordo lontano, un paragone improponibile e pure ingiusto, e l’unica maniera per apprezzare pienamente i dieci minuti di musica contenuti in Gind A Prins è quello di liberarsi dell’ingombrante pregiudizio che può derivare dal nome della band stampato sulla copertina.

Tracklist:
1. Curgerea Muntelui
2. Taul Fara Fund

Line-up:
Negru – drums / percussion / dulcimer / xylophone / horns
Tibor Kati – vocals / guitars / keyboards / programming
Adrian Neagoe – guitars / vocals / keyboards
Petrică Ionuţescu – pipes / horns / traditional instruments
Ovidiu Corodan – bass
Vartan Garabedian – percussions / vocals

NEGURA BUNGET – Facebook

Vàli – Skogslandskap

Musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene.

Dimenticate l’inconcludente ripetitività di certo ambient o la spiritualità a buon mercato di gran parte della musica new age; se volete provare ad ascoltare composizioni strumentali in grado di accarezzare il vostro udito facendovi riappacificare con l’universo intero, anche se farete un pò di fatica nel pronunciarlo, Skogslandskap fa al caso vostro.

Risulta senza dubbio più semplice memorizzare il nome dell’artista che si cela dietro l’omonimo progetto, il norvegese Vàli che, con la sua chitarra acustica supportata di volta in volta da altri quattro magnifici musicisti, ci regala tre quarti d’ora di musica delicata quanto emozionante. Skogslandskap è suddiviso in quindici brevi tracce che si susseguono senza che affiori nemmeno per un attimo il senso di noia o di assuefazione ad un tipo di sound normalmente a rischio da questo punto di vista; basta ascoltare l’opener Nordavindens Klagesang , un gioiello che dà il via a questo viaggio all’interno delle foreste norvegesi nell’arco di tempo compreso tra il tramonto e l’alba successiva, per percepire quanto la musica prodotta da Vàli rifugga stucchevoli tecnicismi rivelandosi, invece, una magica successione di suoni capaci di muoversi all’unisono con la natura circostante. Il cammino per il quale Vàli ci conduce, si snoda armonioso tra i mormorii delle piante, lo zampettare frenetico degli animali notturni, l’effluvio inebriante della terra bagnata dall’umidità notturna per concludersi con i quattro minuti finali di Morgenry, un concentrato di pura magnificenza e di commovente poesia che rende ineluttabile la necessità di riascoltare dalla prima traccia questo capolavoro. Skogslandskap riprende il discorso laddove si era interrotto ben nove anni fa con “Forlatt”, facendo apparire breve come un soffio di vento un lasso di tempo oggettivamente piuttosto lungo. Riscoprire quel disco è pertanto doveroso, come pure lo è ascoltare questa musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene.

Tracklist:
1 Nordavindens Klagesang
2 I Skumringstimen
3 Gjemt Under Grener
4 Langt I Det Fjerne
5 Mellom Grantraer
6 Himmelens Groenne Arr
7 Et Teppe Av Mose
8 Sevjedraaper
9 Dystre Naturbilder
10 Flytende Vann
11 Stein Og Bark
12 Lokkende Lyder
13 Skyggespill
14 Roede Blader
15 Morgengry

Line-up : Vàli – All Instruments

Guests:
Rosamund Brown – Cello
Marit Charlotte Steinum – Flute
Kjetil Ottersen – Piano
Mira Ursic – Violin

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