Gli Abigor pubblicano un lavoro molto ben composto e musicalmente vario, con canzoni dalla struttura vicina alle composizioni jazz, dove non si sa mai cosa ci sia dopo la prossima nota, ed è quello che piace a chi vuole che la musica sia scoperta e non assuefazione.
Violento ritorno degli Abigor, uno dei gruppi di punta della scena black metal austriaca e non solo.
Il gruppo è attivo dal 1993, e ha sempre avuto forte peculiarità all’interno della già variegata scena del metallo nero. Höllenzwang (Chronicles of Perdition) è un disco che ribadisce in maniera molto chiara cosa sia la materia per loro. Le chitarre, che sono sempre state uno dei punti di forza del gruppo, dettano le linee melodiche davvero prepotenti ed inusuali. Il duo austriaco disegna un black metal potente e mai conforme, cercando sempre la soluzione migliore e che possa far avanzare l’ascoltatore nella comprensione del black metal. Le vie del black metal possono e devono essere molteplici, e questa è una delle migliori. Le uscite della Avantgarde Muisic non sono mai banali, riescono sempre a cogliere nel segno. Gli Abigor pubblicano un lavoro molto ben composto e musicalmente vario, con canzoni dalla struttura vicina alle composizioni jazz, dove non si sa mai cosa ci sia dopo la prossima nota, ed è quello che piace a chi vuole che la musica sia scoperta e non assuefazione. Rimane molto poderosa la parte oscura, perché questa è musica pesante, figlia delle tenebre e per menti tenebrose, però non per menti ottenebrate che ascoltano ogni cosa venga loro propinata. In definitiva questo lavoro tiene strettamente fede a ciò che afferma a partire dal titolo, questa è la cronaca della perdizione, ed è dolce perdersi in questo pandemonio sonoro, debitore della scena black metal austriaca, per certi versi molto innovatrice e garanzia di qualità. I pezzi sono complessivamente di ampio respiro e la produzione fa rendere al meglio il tutto.
Tracklist
1. All Hail Darkness And Evil
2. Sword Of Silence
3. Our Lord´s Arrival – Black Death Sathanas
4. None Before Him
5. The Cold Breath Of Satan
6. Olden Days
7. Hymn To The Flaming Void
8. Christ´s Descent Into Hell
9. Ancient Fog Of Evil
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.
Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album d’esordio.
Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album. Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico. Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.
Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood
Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.
Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.
Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano. Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!
Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt
L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale.
Il black metal proveniente dall’Islanda continua ad assumere sempre più importanza di pari passo alle varie sfaccettature che ogni band o progetto solista finisce per esibire.
Almyrkvi è uno degli ultimi frutti di una terra apparentemente arida ed ostile, ma terribilmente ricca dal punto di vista artistico: la band nasce da una costola dei già noti Sinamara, il cui chitarrista Garðar S. Jónsson si fa carico di tutto il comparto compositivo e strumentale, con l’eccezione dalla batteria affidata al già collaudato compagno d’avventura Bjarni Einarsson.
Anche la definizione black metal sta assumendo via via significati differenti a seconda dell’angolazione da cui lo si guardi e, forse, talvolta finisce per apparire addirittura riduttiva: in Umbra, infatti, si rinvengono pulsioni cosmiche e sperimentali che possono rimandare ai Blut Aus Nord ma anche ai più recenti Monolithe (che sicuramente black metal non suonano), il tutto però fatto in maniera così avvincente e personale da raccomandare chi legge a prendere queste citazioni solo come un’indicazione di massima del tipo di sonorità contenute nel lavoro.
L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale: qui aleggia costantemente un sentore di gelida minaccia che, quando pare acquietarsi, improvvisamente prorompe in esplosioni repentine, quasi il flusso sonoro corrispondesse a quelle meravigliose anomalie naturalistiche che sono i geyser così diffusi lungo l’irrequieto suolo vulcanico dell’isola.
Parlare delle singole tracce è un esercizio al quale mi sottraggo, ritenendo che Umbra sia un lavoro da ascoltare come se fosse un unico lunghissimo brano; mi limiterò a dire che l’opener Vaporous Flame è forse il momento più morbido e accessibile di un album che, a partire dalla successiva Forlorn Astral Ruins, si trasforma in una terrificante colata di nera lava, alla quale contribuisce il notevole growl di Jónsson, musicista sopraffino al quale il buon Einarsson non fa certo mancare un decisivo supporto ritmico.
Una delle più belle sorprese dell’anno, peccato solo l’aver ascoltato quest’album a classifiche già stilate, perché, per quel che può valere, avrebbe trovato posto davvero molto in alto.
Tracklist:
1. Vaporous Flame
2. Forlorn Astral Ruins
3. Severed Pillars of Life
4. Stellar Wind of the Dying Star
5. Cimmerian Flame
6. Fading Hearts of Umbral Nebulas
Line-up:
Garðar S. Jónsson – All compositions & instruments
Bjarni Einarsson – Drums
Aldrahn, il carismatico leader, afferma “we’re traveling to remote regions of metal music and mental space with this music”. Sono sicuramente sulla buona strada!
La faccia moderna del black metal è quella mostrata dai norvegesi Urarv che esordiscono, dopo un demo del 2016, con Aurum per la Svart Records: band nuova, ma capitanata da una “vecchia” conoscenza come Aldrahn, con illustre passato alle vocals e alle chitarre in Thorns, Dodheimsgard di Kronet Till Longe, Monumental Possession, A Umbra Omega senza dimenticare gli Zyklon-B.
Tutte band di alto livello alle prese con le diverse sfaccettature del black, dall’avantgarde all’ industrial e anche il nuovo progetto proclama con fierezza che l’arte nera ha sempre e ancora molto da dire. Opera potente, a suo modo visionaria, che in otto brani devastanti mostra sotto la superficie tante particolarità che possono essere colte dopo ripetute frequentazioni del disco; i ritmi martellanti carichi di tensione di Ancient DNA fanno da impalcatura per le linee melodiche nervose e spigolose della chitarra e le vocals, vero trademark, passano da veri e propri ululati a scenari deliranti, scagliando invettive piene di sinistro odio. Aldrahn ha un suo particolare stile, non è uno scream classico, ha una capacità interpretativa magnetica che identifica e rende peculiare ogni brano; in Broken Wand le linee vocali sono malevole e per niente rassicuranti, trascinando l’ascoltatore verso un abisso profondo, mentre la musica prodotta dal trio (Sturt al basso e Trish alla batteria) cavalca impetuosa per ricercare “uncharted territories”.
L’ inizio terremotante di Guru, nel suo impressionante divenire, scaglia proiettili incandescenti che annichiliscono il non prudente ascoltatore; le atmosfere gelide di Valens Tempel ricordano pagine indelebili del miglior black nordico, ma proiettano anche il suono verso spazi inesplorati, con vocals istrioniche e cangianti.
I nove minuti della finale Red Circle sublimano la ricerca sonora della band, con un suono teso, carico, dove la linea melodica si deve ricercare nel profondo della struttura e non affiora mai in superficie.
Band strana al di fuori dei normali canoni del genere, ma affascinante nella sua ricerca di un suono personale: credo però che il meglio debba ancora arrivare!
Tracklist
1. Forvitringstid
2. Ancient DNA
3. The Retortion
4. Broken Wand
5. Guru
6. Valens Tempel
7. Fancy Daggers
8. Red Circle
Chapeau a Vindsval, unica mente dei Blut Aus Nord che, dopo venti anni di musica estrema, dimostra una creatività senza pari, presentandoci un’opera breve ma intensa e ricca di stimoli emozionali.
Creatura mutevole i transalpini Blut Aus Nord, attivi ormai sulla scena black metal dal lontano 1995 con “Ultima Thulee”; da qualche album (la trilogia 777) tutto è nelle mani e nel multiforme ingegno di Vindsval, che dimostra anche in questa opera, Deus salutis meae, una grande capacità compositiva ed esecutiva sempre alla ricerca di sensazioni forti.
Nella loro lunga carriera discografica i Blut Aus Nord hanno sempre cercato di rielaborare il verbo black, allargando i confini della musica estrema; non si sono mai persi in derive convenzionali e con un un sacro fuoco interiore hanno dato vita a opere estreme sempre varie e di alta qualità, spingendo l’ascoltatore a continue sfide uditive ed emozionali. E’ il caso anche di questa opera, breve nei suoi trentatré minuti, ma molto intensa e densa nel definire un sound quasi alieno nel fondere death, aromi doom e black nella sua forma più industrial e meno raw; dieci brani, compresi tre intermezzi dai titoli in greco carichi di sonorità dark ambient. Fin dal primo vero brano, Chorea Macchabeorum, il suono è intrigante, sorprendente, distruttivo con fredde linee di synth, taglienti e potente drum machine; le linee vocali, non preponderanti in tutto l’album, sono sommerse dagli strumenti e fuoriescono sinistre e demoniache intessendo raggelanti litanie (Impius). Il suono ha qualcosa di alieno e demoniaco allo stesso tempo, il blend sonoro creato da Vindsval è unico ed è difficile a un primo ascolto, cogliere le tante sfumature nei brani, tutto è fuso in modo vitale e ha un qualcosa di allucinogeno; brani come Apostasis, violenti, carichi di suoni dissonanti ed obliqui, dimostrano che la musica estrema ha ancora molto da dire; i ritmi incalzanti si “ammorbidiscono” in Abisme e lambiscono territori doom titanici e carichi di tensione, dove non vi è alcuna speranza per il genere umano. Le traiettorie sonore che si intersecano in ogni brano danno un tocco avanguardistico, le lobotomizzanti schegge chitarristiche invitano alla catarsi e dimostrano una ricerca non comune, distante dalle recenti opere della band. Una cover virata su varie tonalità di grigio e nero, ad opera della artista ucraina Anna Levytska, dà un tocco visionario alla grande energia dell’opera. Vindsval offre un’ulteriore prova della sua grande vitalità artistica, che è lungi dall’essere esaurita, visto che sono annunciati la IV parte di Memoria Vetusta e un misterioso progetto a nome La lumiere sous le monde. Opera da ascoltare e metabolizzare con molta calma.
I Fleurety continuano bellamente a fregarsene di ogni convenzione e riversano sull’ascoltatore un groviglio di suoni che trovano una loro effettiva ragione d’essere nelle sole occasioni in cui la forma canzone prende realmente corpo.
Un disco dei Fleurety è un qualcosa destinato a produrre reazioni contraddittorie: così troveremo chi ne esalterà il coraggio e la vis sperimentale e chi, invece, lo derubricherà ad una meno nobile “cagata pazzesca” di fantozziana memoria.
Normalmente, nell’affrontare opere di questo genere, tendo a non assumere una posizione definita, in un senso o nell’altro, non tanto per rifugiarmi in un comodo cerchiobottismo, quanto perché spesso, a spunti effettivamente geniali, fanno da contraltare momenti sinceramente difficili da digerire. The White Death è il terzo full lenght degli avanguardisti norvegesi, ed arriva ben diciassette anni dopo il precedente: uno spazio temporale che equivale ad una vita, discograficamente parlando, riempita parzialmente da diversi ep confluiti poi nella compilation Inquietum,uscita qualche mese fa.
Passati ai servizi della Peaceville, Svein Egil Hatlevik e Alexander Nordgaren continuano bellamente a fregarsene di ogni convenzione e riversano sull’ascoltatore un groviglio di suoni che trovano una loro effettiva ragione d’essere solo quando esibiscono una vena poetica vicina al migliore Tony Wakeford (stonature incluse), nelle uniche due occasioni in cui la forma canzone prende realmente corpo (The Ballad of Copernicus e Future Day, oggettivamente entrambe molto belle); il resto è un susseguirsi di dissonanze inframmezzate talvolta dalla viziosa voce di Linn Nystadnes (interessante specialmente in Ambitions of the Dead) , approdando in quella scomoda terra di nessuno nella quale è davvero difficile capire se il risultato che ne scaturisce sia frutto di un’irrefrenabile genialità o di semplice mancanza di idee e di talento.
Personalmente, pur essendo propenso ad ascolti che esulano dai normali canoni, fatico non poco ad entrare in sintonia con il duo norvegese, anche perché, come dimostrano ampiamente i brani citati, la capacità di produrre musica tutt’altro che convenzionale ma di grande impatto, anche emozionale, è senz’altro nelle corde dei Fleurety; nonostante ciò i nostri, invece, continuano pervicacemente a cercare forzature con il solo risultato di annoiare o, comunque, a rendere The White Deathun ascolto tutt’altro che agevole, probabilmente anche per gli stessi propugnatori del “famolo strano”, al di là delle dichiarazioni di facciata.
Detto questo, ognuno faccia le proprie valutazioni al riguardo: la mia, semplicemente, è che questo nuovo lavoro dei dei Fleurety ripasserà di rado nel mio lettore.
Tracklist:
1. The White Death
2. The Ballad of Copernicus
3. Lament of the Optimist
4. Trauma
5. The Science of Normality
6. Future Day
7. Ambitions of the Dead
8. Ritual of Light and Taxidermy
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.
Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.
Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album. Catharsis, infatti, scaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva. Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.
Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus
Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions
Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed
E è uno dei capolavori del genere musicale chiamato metal, è un avanzamento della specie, un immenso universo fatto di note, tenebre, colori e gusti, che va gustato ad occhi rigorosamente chiusi per poter viaggiare nella sua interezza.
Attesissimo ritorno degli Enslaved, uno dei più interessanti gruppi metal degli ultimi anni e non solo, un combo che sta cambiando dalle fondamenta la musica pesante: E è la migliore testimonianza di ciò.
Non sembra, ma sono già passati venticinque anni dal loro esordio Vikingligr Veldi, black metal puro e norvegese, per poi arrivare al secondo Frost, un inno all’orgoglio di essere norvegesi e pagani. Da quel momento gli Enslaved hanno cominciato ad esplorare un orizzonte musicale più vasto di quello originario, che era comunque splendido, arrivando a toccare vette molto alte, mantenendo un percorso artistico molto originale e personale. Tutti i tredici album precedenti degli Enslaved sono meritevoli di attenzione ma, dal disco del 2015, In Times, le cose sono cambiate ulteriormente, poiché per loro quello è stato uno spartiacque, nel senso che può essere considerato un punto di rottura importante, una pietra miliare che ha segnato un prima ed un dopo. In Times è un album di metal estremo progressivo, se si dovesse dare una definizione, nato dall’esigenza di dover chiudere una parte della carriera, unendo il vecchio ed il nuovo per dare poi vita a qualcosa di ancora diverso. E quel qualcosa di nuovo si intitola E: il quattordicesimo disco della più che ventennale carriera di questi musicisti di Bergen può essere considerato quello della libertà totale, nel quale si sono espressi senza aver aver nessun obbligo, se non quello di fare ciò che volevano. Si è parlato e scritto molto intorno alla genesi di questo disco, al cambio operato con In Times che ha fatto perdere parte dei propri fans, dei lunghissimi tour, ma di fronte a questo lavoro tutto viene spazzato. E è uno dei capolavori del genere musicale chiamato metal, è un avanzamento della specie, un immenso universo fatto di note, tenebre, colori e gusti, che va gustato ad occhi rigorosamente chiusi per poter viaggiare nella sua interezza. Fin dalla prima lunga suite Storm Son si rimane affascinati dalla costruzione sonora, pura psichedelia tenebrosa, sempre pienamente e fieramente nordica, come se i vichinghi avessero suonato con i Pink Floyd e Syd Barrett, perché di quest’ultimo qui c’è l’assolutezza di certe soluzioni sonore, un gusto per il surrealismo ed una grazia davvero fuori dal comune. Non volendo assolutamente fare nessuna polemica, posso affermare che avevo apprezzato il precedente In Times solo dopo un po’ di tempo, avendo bisogno di qualche indizio in più per poter assaporare ciò che vi era contenuto. Qui invece è stato amore a prima vista, folgorazione totale, si scappa da Midgard per arrivare direttamente a sentir suonare gli Enslaved in Asgard. La ricchezza strutturale di questo disco è scioccante, in sei pezzi si viene catapultati in quella che a tutti gli effetti un’opera teatrale che travalica la musica, un inno all’unione tra natura e uomo, che è un po’ il sotto testo di tutta la poetica degli Enslaved. E ha al suo interno momenti black metal, cavalcate death, tanta psichedelia, incredibili momenti di organo e sax, in una ricerca totale di un suono altro. Ogni canzone contiene un mondo di generi e sottogeneri al suo interno, tutti legati da un’opera immane di cesellatura perfettamente compiuta. Ascoltando E si apprezza la compiutezza di una visione musicale inedita, perché questo è un disco più estremo anche dei loro esordi black metal, nel quale si osa dalla prima all’ultima nota spingendo la musica estrema in un futuro ancora tutto da costruire, ma che prima non c’era. Magnificenza assoluta per un capolavoro del metal, che potrà non piacere a chi è rimasto tenacemente ancorato alla prima parte della carriera del gruppo di Bergen, e sui gusti non si può davvero discutere, anche perché uno dei motivi della grandezza degli Enslaved è che la loro discografia copre tutta la gamma del metal estremo ed oltre, per cui ognuno può scegliere ciò che gli aggrada maggiormente.
Set the controls for the heart of the sun.
Tracklist
1. Storm Son
2. The River’s Mouth
3. Sacred Horse
4. Axis Of The Worlds
5. Feathers Of Eolh
6. Hiindsiight
Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.
Black metal esoterico, atmosferico e maledettamente affascinante.
I Nyss sono un duo francese che dopo aver pubblicato quattro ep arriva al debutto per Avantgarde Music, ed è un gran disco di black metal moderno e sperimentale. I pezzi sono tre, la presentazione è molto semplice, la musica viene messa in primo piano ed occupa lo spazio più importante del progetto, tanto che si hanno pochissime informazioni sul gruppo, come nella tradizione dei gruppi francesi di black metal. Ascoltando il loro debutto intitolato Princesse Terre (Three Studies Of Silence And Death) si apre un mondo popolato di dolore e di verità negate, un affondare nella nostra maledizione, il tutto reso con un black di taglio atmosferico molto debitore alle origini ed all’ortodossia del genere. Il risultato è un disco eccezionale, moderno e sperimentale ma soprattutto sovraccarico di emozioni, in un continuo rollio di tempi ed atmosfere. I tre pezzi sono altrettante piccole nere sinfonie legate fra loro dal filo comune della sofferenza, mediate da una composizione al di sopra della media, con un piglio che solo i grandi gruppi black hanno, soprattutto nei crescendo con chitarre e tastiere molto presenti nel disco. Le tre lunghe suite hanno migliaia di sorprese in serbo, come un vecchio castello abbandonato infestato dagli spiriti, ma quel vecchio castello è la nostra anima. I Nyss confermano e superano quanto di buono avevano fatto nelle precedenti uscite, ed appartengono di diritto a quell’aristocrazia black metal atmosferica che sta contando ottime uscite, come potete bene vedere nel catalogo della stessa Avantgarde Music. Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.
Tracklist
I
II
III
Line-up
Þórir Nyss ~ Instruments of the art
L.C. Bullock ~ Invocations
I Sangue Nero, i quali hanno senza dubbio il merito di riportare il black metal alla sua funzione originaria, ovvero quella di infrangere incancreniti canoni stilistici, etici e filosofici.
La Third I Rex appartiene al novero di quelle etichette che pongono tra le loro priorità la pubblicazione di album anticonvenzionali o, quanto meno, molto lontani da quello che potrebbe essere definito come un prodotto spendibile a livello commerciale.
Con i Sangue Nero, trio italiano all’esordio con questo Viscere, si viene addirittura scaraventati in una forma di black metal estrema nel senso più autentico del termine: qui, infatti, non vi è alcuna concessione melodica o atmosferica, e il tessuto sonoro è essenzialmente il mezzo per rivoltare come un guanto coscienze assopite, provando con decisione a scuoterle dal loro torpore piuttosto che blandirle.
In poco meno di mezz’ora i Sangue Nero esibiscono un’interpretazione del genere che si potrebbe definire avanguardistica, se non fosse che tale aggettivo non si sposa granché con l’approccio al black tutt’altro che cerebrale del trio: il titolo Viscere non credo sia casuale, proprio perché i suoni, per quanto sghembi e spesso ai limiti dell’improvvisazione (specialmente per quanto riguarda l’interpretazione vocale) sono oltremodo diretti e impattanti.
Il vocalist e bassista T. utilizza anche uno strumento inusuale come il didgeridoo, conferendo un’aura del tutto particolare ai due episodi ambient I e IV, mentre i brani contrassegnati dai numeri II, III e V non risparmiano ruvidezze strumentali e vocali, con una sviluppo che a tratti può anche apparire cacofonico ma che finisce, invece, per conferire al tutto un notevole potenziale ipnotico e straniante.
La decisione di limitare il minutaggio di un lavoro di tali caratteristiche è senz’altro azzeccata, perché oltre un certo limite l’inevitabile calo di tensione potrebbe rendere difficilmente assimilabile l’operato dei Sangue Nero, i quali hanno senza dubbio il merito di riportare il black metal alla sua funzione originaria, ovvero quella di infrangere incancreniti canoni stilistici, etici e filosofici.
Tracklist:
1.I
2.II
3.III
4.IV
5.V
Line up:
T . – Bass, Didgeridoo, Vocals
V . – Guitars
M . – Drums
Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista.
Gli americani In Human Form appartengono a quella categoria di band che, indubbiamente, non hanno tra le loro priorità quella di suonare musica accattivante allo scopo di ricevere consensi immediati.
Il progressive black offerto dal gruppo del Massachusetts è quanto di più ostico e dissonante sia possibile immaginare e non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che sia finito nell’orbita di un’etichetta come la I,Voidhanger.
Patrick Dupras, con il suo screaming aspro, strepita le proprie liriche su un’impalcatura musicale nella quale solo apparentemente ogni strumento sembra andare per proprio conto ma, in realtà, appare evidente che cosi non è, anche se in più di un passaggio sembra di cogliere le stimmate di un’improvvisazione che tale resta a livello di fruibilità, per quanto evoluta.
La stessa struttura dell’album, con tre tracce della durata media attorno al quarto d’ora, inframmezzate da altrettanti brevi iintermezzi strumentali, conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, la volontà di lasciar fluire senza alcun limite un’ispirazione obliqua che, oggettivamente, se respinge al mittente ogni tentativo di approccio benevolo all’opera, pare aprirsi leggermente non dico ad una forma canzone, che resta un idea lontana anni luce dall’immaginario degli In Human Form, almeno a passaggi che vengono resi meno criptici da lampi melodici.
Sia Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis che Through an Obstructionist’s Eye, infatti, sono ampie dimostrazioni di quanto i nostri abbiano la capacità di rendere meno ostica la loro proposta in ogni frangente, ma facendolo perfidamente in maniera ben più che sporadica: nel primo troviamo passaggi meditati assieme a sfuriate di stampo black più canoniche, ma è chiaro che, comunque, il sound resta inquieto e cangiante anche se in questo frangente sembra aprirsi più di un varco nelle spesse recinzioni sonore erette dalla band, mentre nel secondo, posto in chiusura dell’album, trova posto persino un bell’assolo di chitarra, strumento che nell’arco del lavoro viene offerto con un’impronta per lo più jazzistica.
Per quanto mi riguarda, nel lavoro ho riscontrato in eguale misura passaggi davvero eccellenti assieme altri eccessivamente cervellotici e, contrariamente a quanto affermo solitamente, qui la voce appare sovente un elemento di disturbo piuttosto che un completamento del lavoro strumentale.
Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista, caratteristiche che certo non fanno difetto a Opening of the Eye by the Death of the I.
Tracklist:
1. Le Délire des Négations
2. All is Occulted by Swathes of Ego
3. Apollyon Synopsis
4. Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis
5. Ghosts Alike
6. Through an Obstructionist’s Eye
Line up:
Nicholas Clark – Guitars, bass guitar, alto saxophone, keyes, backup vocals
Rich Dixon – Drums, percussion, guitars
Patrick Dupras – Vocals, lyrics
Nelle canzoni di Agonia Black Vomit vi sono tante cose e Cosmosatanic Wisdom è tutto da scoprire, con la sorpresa e la gratificazione dei dischi che vanno oltre la musica e che disegnano altre traiettorie, così poco comuni di questi tempi.
Black metal molto poco ortodosso dall’Italia, pubblicato da una delle migliori etichette della scena.
Se quanto sopra non vi ha convinto, ascoltate direttamente in disco, che merita moltissimo. Il black metal proposto dagli Agonia Black Vomit ha un taglio fortemente mediterraneo, infatti si rifà alla scena italo/greca, che ha le sue belle differenze rispetto a quella scandinava. Qui non troviamo solo velocità, ma molta incisività e ricerca di un giusto equilibrio tra potenza, marcezza, il tutto sotto la nera egida dell’unico Signore possibile. Questa one man band italica, avvolta dal giusto mistero, è debitrice dell’ortodossia black metal, ma si stacca quasi dal nero sentiero per esplorare personalmente le tenebre, e trova efficacemente una via personale. La voce è un growl marcio ma intelligibile, la produzione è molto precisa e rende giustizia della bravura dell’unico membro Agonia. Non vi sono rilevanti novità sonore, e non erano nemmeno richieste, poiché questo è un solido disco di black metal, strettamente per gli amanti del genere. Una delle proprietà migliori del genere è che si può declinare in molti termini e questo è uno dei migliori. Ascoltando Cosmosatanic Wisdom si entra in una visione del mondo che, man mano che si procede, diventa molto chiara e condivisibile, poiché il peggiore satanismo lo abbiamo sotto i nostri occhi tutti i giorni, mentre quello qui contenuto è di livello molto più elevato. Nelle canzoni di Agonia Black Vomit vi sono tante cose e Cosmosatanic Wisdom è tutto da scoprire, con la sorpresa e la gratificazione dei dischi che vanno oltre la musica e che disegnano altre traiettorie, così poco comuni di questi tempi. Per i neri amanti o per chi volesse sviare, ma si sappia che non è la follia di un attimo, bensì una filosofia ben definita e soprattutto difficile e dolorosa.
Tracklist
01. Departure From Degrade
02. Engines Of Hate
03. The Acid Soil
04. Parallel Descanting Visions
05. The Peaceful Solitude
06. Alone
07. Symphony Of Suffering
Destinati a restare comunque una band di nicchia, i Farsot con il loro operato sottolineano con forza la solidità e la profondità dell’intera scena black germanica.
I Farsot appartengono al nutrito sottobosco di gruppi tedeschi capaci di fornire un’interpretazione del black metal in linea con le sonorità tipiche in voga nella loro nazione.
Fail-Lure e solo il terzo full length all’interno di una storia iniziata addirittura alla fine del secolo scorso, un dato che la dice lunga sulla relativa prolificità unita ad un approccio, anche visivo, sicuramente fuori dagli schemi da parte della band della Turingia. Per il resto sorprende affatto ascoltare un lavoro che mantiene al meglio le attese, con il suo sound austero, essenziale, intriso di spinte avanguardiste ma anche di notevoli spunti melodici.
Personalmente ho ricevuto ben poche delusioni dai gruppi tedeschi dediti al black in questi anni, e i Farsot non fanno certo eccezione con questa raccolta di brani mediamente piuttosto lunghi ma sufficientemente ricchi di cambi di forma e ritmo per mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore.
Il settimo ed ultimo di questi, A Hundred to Nothing, fa storia a sé, offrendo oltre venti minuti di musica ambient inquieta e dalle interessanti pulsioni elettroniche nella sua parte centrale.
Destinati a restare comunque una band di nicchia, i Farsot con il loro operato sottolineano con forza la solidità e la profondità dell’intera scena black germanica.
I Progenie Terrestre Pura fanno davvero un genere a sé stante, non valgono i parametri con altri gruppi, perché è tutto speciale.
I Progenie Terrestre Pura non sono umani, vengono dalla nostra vera casa, che è persa lontano nelle stelle.
La Terra è solo un luogo dove soffriamo immensamente, non è il nostro luogo, e lo sentiamo chiaramente quando avvertiamo continuamene che c’è qualcosa che non va. Il gruppo italiano ci conduce in un immenso viaggio interstellare, dove il black e il death metal sono i propulsori per raccontare una storia mai sentita prima. Il suono di oltreLunaè ancora più potente e magnifico di quello dei dischi precedenti, La bravura tecnica e compositiva del gruppo è seconda solo alle sensazioni che suscitano. OltreLuna come e più degli altri dischi è un qualcosa di coinvolgente, come uno sguardo gettato su di un presente futuro che non riusciamo a cogliere imprigionati nelle nostre veste attuali. I Progenie Terrestre Pura con il loro suono monolitico, con sprazzi di black metal atmosferico molto potente ed evocativo, e persino con frequenti intarsi di voce lirica e strumenti antichi, tracciano una traiettoria che non può essere descritta se non tramite l’ascolto. E oltreLuna non è solo un disco ma è molto di più. Le immagini evocate con il cantato in italiano, lo splendido lavoro grafico di Alexander Preuss, e soprattutto la loro musica sono un film, è il racconto di un viaggio che forse l’uomo ha già compiuto ma del quale se n’è persa la memoria. I Progenie Terrestre Pura fanno davvero un genere a sé stante, non valgono i parametri con altri gruppi, perché è tutto speciale. I brani sono composti in maniera progressiva, non esiste la stantia forma canzone, perché questo è un viaggio verso le stelle più lontane. Le esperienze musicali sono molteplici e si basano soprattutto sui gusti dell’ascoltatore, ma oltreLuna è un vissuto musicale e poetico che è vivamente consigliato a chi ha una mente aperta e vuole continuare il viaggio. Forse all’estero hanno capito che questo gruppo è davvero una cosa incredibile e forse irripetibile. Oltre la Luna, perché noi siamo ben più di questo.
La musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre.
Pochi mesi dopo l’ottimo ep Takituum Tootem, ecco giungere l’atteso nuovo full length dei The Ruins Of Beverast.
Alexander Von Meilenwald, il musicista tedesco che è dietro questo progetto, prosegue con questo suo quinto lavoro su lunga distanza l’opera di consolidamento di uno status derivante da un’espressione stilistica peculiare ed in costante evoluzione.
Rispetto all’ep vengono mantenuti i riferimenti etnici riferiti alla cultura dei nativi americani, che in più di un brano si manifestano tramite invocazioni rituali e vocalizzi femminili, il tutto all’interno di una struttura definibile black/doom solo per consentirne un’approssimativa identificazione.
In realtà, la musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre, in virtù di una capacità si scrittura non comune che consente a Von Meilenwald di piazzare, in ogni traccia, passaggi chiave capaci di attrarre fatalmente l’attenzione avvinghiando l’ascoltatore senza alcuna remissione.
Ne è l’esempio più eclatante la lunga title track posta in apertura, magnifico viaggio rituale di oltre un quarto d’ora nel quale le ossessive note in sottofondo si ripetono come un mantra, mentre la musica fluttua sovrapponendosi a voci salmodianti o a quella più canonica dell’autore, che invece in altri frangenti dell’album esibisce tonalità in scream e un growl.
Il resto di Exuvia si dipana così tra sentori sperimentali, sprazzi industriali, dissonanze che difficilmente si dissolvono in melodie compiute ma che mantengono sempre elevatissimo il carico di tensione, spingendosi oltre l’ora di durata, un qualcosa di molto vicino ad un suicidio artistico per chiunque non fosse in grado di esibire la stessa chiarezza d’intenti del musicista di Aachen .
L’album va ascoltato uscendo dalla logica del track by track, perché ne verrebbe sminuito l’impatto avvolgente, ed arrivare alla nuova versione di Takitum Tootem!, posta in chiusura, risulterà impegnativo quanto gratificante.
Così, come l’exuvia (l’esoscheletro abbandonato da diverse specie di crostacei, insetti e aracnidi dopo la muta), la musica targata The Ruins Of Beverast si trasforma dopo ogni ascolto in un involucro testimone di un estro compositivo che, nello stesso momento in cui viene rilevato si sta già trasferendo altrove, pronto ad mostrare ulteriori e visionari bagliori creativi.
Tracklist:
1.Exuvia
2.Surtur Barbaar Maritime
3.Maere (On A Stillbirth´s Tomb)
4.The Pythia´s Pale Wolves
5.Towards Malakia
6.Takitum Tootem (Trance)
Proprio nell’ultimo brano i Nocte Obducta riescono con successo a riavvolgere il nastro creativo, tornando ad impartire lezioni di avanguardismo estremo, ed è da lì che si spera possano ripartire con rinnovato vigore nel loro viaggio che sembra ancora ben lungi dall’interrompersi.
Quando, nell’ottobre dello scorso anno mi ritrovai a parlare di Mogontiacum, espressi una certa perplessità sulle sembianze di black avanguardistico alla quale erano approdati infine i Nocte Obducta, in quanto la forma alla lunga finiva per prevalere sulla sostanza.
Nemmeno un anno dopo, la band di Mainz ritorna con l’undicesimo full length di una brillante carriera iniziata agli albori del nuovo millennio, ed appare subito evidente una decisa sterzata sonora verso lo stile che fece la fortuna dei nostri nello scorso decennio.
Il tessuto black metal è sempre inquieto e cangiante, ed ovviamente i Nocte Obducta in questa catalogazione continuano a starci un po’ stretti, ma Totholz dimostra rispetto alle uscite più recenti una relativa linearità che, quantomeno, impedisce l’eccessiva dispersione delle molte buone intuizioni delle quali i musicisti tedeschi si rendono artefici.
Alcuni elementi, come la durata più breve rispetto alle abitudini recenti (quaranta minuti contro l’ora abbondante di Umbriel e Mogontiacum) e la distanza ridotta tra un’uscita e l’altra, potrebbero anche far pensare all’immissione in Totholz di musica che, in prima battuta, era rimasto fuori dal precedente album, magari integrata da qualche nuova composizione, ma anche se così fosse un materiale talmente valido nel suo insieme non può essere certo definito di scarto; di sicuro, però, c’è un ritorno abbastanza deciso verso una forma più canonica che definire lineare, quando si parla di gruppi come i Nocte Obducta, è forse eccessivo, ma che comunque non obbliga l’ascoltatore a percorrere strade troppo tortuose per goderne appieno l’essenza.
Tutto questo non significa che Totholz rappresenti la definitiva (ri)quadratura del cerchio, perché alla fine il lavoro vive su due episodi decisamente brillanti ed a di sopra della media, come Die Kirche der Wachenden Kinder e Wiedergaenger Blues, a fronte di una manciata di altri brani non altrettanto incisivi pur se disseminati di qualche buono spunto e marchiati da una cifra stilistica che resta sempre piuttosto personale.
Mentre Die Kirche der Wachenden Kinder rappresenta, in qualche modo, la quintessenza del modo di intendere il black da parte dei Nocte Obducta, ovvero con ritmi piuttosto pacati ad assecondare atmosfere e melodie che si estrinsecano in un bel crescendo qualitativo, la conclusiva Wiedergaenger Blues offre oltre un quarto d’ora di musica che va toccare anche l’ambient, fatta di solenni aperture tastieristiche che ben si amalgamano con qualche asprezza senza che, appunto, il tutto appaia mai farraginoso o forzato.
Discrete sono le più brevi Liebster e la title track, ma in definitiva è proprio nell’ultimo brano che i Nocte Obducta riescono con successo a riavvolgere il nastro creativo, tornando ad impartire lezioni di avanguardismo estremo, ed è da lì che si spera possano ripartire con rinnovato vigore nel loro viaggio che sembra ancora ben lungi dall’interrompersi.
Tracklist:
01. Innsmouth Hotel
02. Die Kirche der wachenden Kinder
03. Trollgott
04. Totholz
05. Ein stählernes Liedt
06. Liebster
07. Wiedergaenger Blues
I Fleshpress in poco più di mezz’ora scagliano nell’etere la loro personale visione musicale che non prevede soluzioni banali e neppure sconti particolari a chi si avvicina all’ascolto
I finnici Fleshpress sono una band dalla produzione già piuttosto corposa alle spalle, essendo attivi fin dagli ultimi anni del secolo scorso.
L’approccio musicale del gruppo di Lahti è quanto mai obliquo, vivendo di esplosioni di matrice black che si vanno ad intersecare con rallentamenti doom e disturbi sonici assortiti, risultando così di ardua definizione per la sua natura sperimentale.
Del resto in questa band milita in veste di drummer Mikko Aspa, meglio conosciuto invece come vocalist degli sperimentatori estremi Deathspell Omega, e un tale indizio non va affatto trascurato.
I Fleshpress in poco più di mezz’ora scagliano nell’etere la loro personale visione musicale che non prevede soluzioni banali e neppure sconti particolari a chi si avvicina all’ascolto: il loro black/doom è dissonante, carico di tensione, con diversi sconfinamenti dronici ai limite della cacofonia, quindi destinato per lo più a chi apprezza il versante avanguardistico del genere rappresentato, appunto dai vari Deathspell Omega, Blut Aus Nord, eccetera.
Pur essendo relativamente di breve durata, Hulluuden Muuri (nel quale i nostri si cimentano per la prima volta con la lingua madre) sembra molto più lungo per l’intensità disturbante che ne pervade le trame, e ovviamente i Fleshpress non fanno nulla per rendere in qualche modo più accativante la proposta.
Anzi, a rimarcare tutto ciò, il terzetto colloca come traccia conclusiva quella più lunga e forse emblematica del proprio sentire musicale, Voiman Täydellinen Toteutuminen, un crescendo martellante interrotto da urla belluine ed esplosioni soniche che vanno a definire un quadro di grande ed instabile vitalità.
Classico prodotto per un ristretto novero di ascoltatori, Hulluuden Muuricome già dettonon dovrebbe comunque faticare a trovare estimatori tra chi conosce le band citate come riferimento, oltre che negli appassionati di black e doom dalle vedute più ampie.
Tracklist:
1. Lunastuksen Ajan Veren Riitti
2. Hulluuden Viiltävä Lasipinta
3. Oikeamieliset
4. Siintävän Totuuden Häikäisevä Kajo
5. Voiman Täydellinen Toteutuminen
Line-up:
Mikko Aspa – Drums
Marko Kokkonen – Guitar, Effects, Vocals
Samuli – Guitars
I Katharos XIII dimostrano di possedere le stimmate della band di livello superiore alla media, ed indicano un’ideale sbocco creativo a chiunque voglia offrire una personale rilettura della materia black metal.
Ancora una volta, in un lasso di tempo relativamente breve, ci troviamo a parlare di metal estremo in arrivo dalla Romania, con non pochi legami con gli album appena trattati.
Infatti, i Katharos XIII, al loro secondo full length, provengono anch’essi dalla fertile scena di Timisoara e vedono in line-up l’ormai nota figura di Fulmineos, all’opera con i magnifici Argus Megere, oltre ad Ordinul Negru ed un passato nei numi Negură Bunget.
Rispetto agli autori di VEII, il black metal in questo caso assume sembianze più sperimentali, anche se non mi trovo molto d’accordo con l’etichetta depressive assegnata nelle note di accompagnamento, se non per l’aspetto lirico che tiene perfettamente fede ad un titolo come Negativity.
In realtà, l’approccio dei Katharos XIII è piuttosto avanguardistico, pur senza spingersi verso orizzonti eccessivamente cervellotici, poiché appaiono sempre ben delineate le intuizioni melodiche e neppure si disdegnano ritmiche a tratti dall’impatto catchy, come avviene nell’opener XIII, traccia più che mai esemplificativa degli intenti dei nostri.
La pesantezza della successiva title track, del resto, è tutt’altro che sintomo di monotematicità, con l’esibizione di minacciosi break e rallentamenti che, come nel resto del disco, contribuiscono a rendere vario e poco scontato l’album.
Il velo di sofferenza che avvolge il lavoro si estrinseca attraverso trame sonore sempre brillanti, spesso di sorprendente originalità, che dal black traggono soprattutto l’interpretazione vocale e certe accelerazioni ritmiche: in Negativity vengono frullate con grande abilità pulsioni estreme, progressive e post metal, per un risultato finale sul quale si sarebbe potuto scommettere ad occhi chiusi alla luce del valore della crescente scena che questi musicisti rappresentano.
I Katharos XIII spargono con generosità all’interno del loro album diversi momenti di fulgore compositivo (ognuno dei sette brani è splendido, ma No One Left To Lead The Way e Inside spiccano per il loro trascinante incedere), dimostrando di possedere le stimmate della band di livello superiore alla media ed indicando un’ideale sbocco creativo a chiunque voglia offrire una personale rilettura della materia black metal.
Tracklist:
1. XIII
2. Negativity
3. No One Left To Lead The Way
4. The Chains Are So Beautiful
5. World’s Coffin
6. I Die Everytime I Walk This Path
7. Inside
Line-up:
F – vocals, guitars, keyboards
Andrei – guitars
SQ – bass
Sabbat – drums
Da un luogo “sconosciuto” notevole esordio di incompromissorio e magmatico black metal.
Entità aliene provenienti da lontani mondi, demoni sputati fuori da innominabili profondità, questo il quesito che mi sono posto ascoltando i Diĝir Gidim, duo proveniente da un luogo ignoto, che esordisce dal nulla con un opus misterioso, affascinante, per nulla di facile ascolto.
L’unica notizia è che uno dei due musicisti, Lalartu, ha esordito nel 2016 con il suo progetto black ambient Titaan, mentre Utanapistim Ziusudra, che suona tutti gli strumenti, è del tutto sconosciuto. La label italiana ATMF, sempre attenta nella ricerca di nuove emozioni black metal, li fa esordire con un full di quattro lunghe composizioni all’insegna di un black metal intenso, magmatico, cangiante, ritualistico, devoto al fascino di antichi mondi, in questo caso la Mesopotamia; il Diĝir è un simbolo cuneiforme che rappresenta la suprema divinità Anu deus otiosus, mentre Gidim rappresenta l’ombra o lo spirito della persone morte; già altre band hanno subito il fascino delle Civiltà Egizie, vedi Nile e Melechesch, ma con i Diĝir Gidim il tutto, sia a livello concettuale che a livello musicale, si spinge maggiormente in profondità scavando a fondo e generando gelide emozioni in chi si vorrà far trasportare in questo flusso infinito di note e vocals straziate.
I quattro lunghi brani costituiscono un flusso costante e continuo in cui ritualistici cori, scream feroci e incompromissori, note dissonanti di chitarre si inseguono, si confondono per creare un massa incandescente dove alcune linee melodiche sono talmente oscure da atterrire l’ascoltatore; il termine estremo in questo caso assume, per chi vi si avventura, un effetto assolutamente catartico. Le spire gelide di vortici impazziti nell’oscurità infernale del primo magnifico brano si collegano, si amalgamano con cori di dei ancestrali, adorati ma non capiti, in un continuum senza luce né speranza, in abissi infiniti dove non vi è alcun filtro ma solo nichilismo assoluto: la presenza di un dio autoritario e vendicativo nega a menti schiave qualunque forma di ribellione e affrancamento. Il sound, che trova la sua genesi nei Deathspell Omega, nei Blut Aus Nord, è ribollente, non conosce pause liberatorie, tutto si stratifica, si attorciglia, si fonde e lascia alla fine dell’ascolto una sensazione di spossante purificazione. Da assimilare a piccole dosi, ma assolutamente da sentire!
TRACKLIST
1. The Revelation of the Wandering
2. Conversing with the Ethereal
3. The Glow Inside the Shell
4. The Eye Looks Through the Veils of Unconsciousness
LINE-UP
Utanapištim Ziusudra – All instruments and Music
Lalartu – Vocals and lyrics