Shattered Hope – Waters Of Lethe

Quattro anni rispetto alla precedente uscita non sono passati invano portando al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.

Quando, nel 2010, i greci Shattered Hope pubblicarono il loro album d’esordio intitolato “Absence”, non tutta la critica fu concorde nel riconoscervi i prodromi di un’esplosione definitiva di quel potenziale, allora solo parzialmente dimostrato, convogliato in questo magnifico Waters Of Lethe.

In effetti, il lavoro d’esordio mostrava una band dal songwriting piuttosto lineare e, tutto sommato, orientato ad un death-doom pesante il giusto ma contenente pur sempre ampi squarci melodici, decisamente apprezzabile quindi, per quanto non ancora sufficiente a collocare il combo ateniese ai vertici del doom estremo.
Waters Of Lethe dimostra, invece, quella crescita che appariva ineluttabile quasi si trattasse di un disegno delle divinità dell’Olimpo: gli ottanta minuti di opprimente e plumbeo dolore tradotto in musica spostano in maniera netta le coordinate sonore sul versante funeral, senza che per questo motivo la componente melodica venga messa in secondo piano.
Visti dal vivo lo scorso anno in quel di Romagnano nella loro unica apparizione italiana di fronte a pochi e fortunati intimi, gli Shattered Hope erano chiaramente quelli che, tra le band presenti, esibivano il suono meno immediato, più profondo eppure ricco di fascino, capace di lasciare allo spettatore il piacere di trovare la giusta chiave di lettura per assaporarne pienamente l’amaro calice musicale .
Con queste premesse l’attesa per il nuovo album era sicuramente giustificata e fortunatamente non è stata tradita, a conferma del fatto che questi quattro anni sono stati un periodo senz’altro lungo ma necessario per portare al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.
Waters Of Lethe prende l’avvio con Convulsion, brano caratterizzato da una struggente parte finale che mostra però, a tratti, un sound leggermente più aggressivo rispetto a quello che verrà proposto nel resto del lavoro; ma appare evidente che, dopo questa eccellente prova di forza di oltre dodici minuti, quello che ci attende è un viaggio agli inferi lento, terribile, opprimente e pregno di disperazione, ovvero tutto ciò che chi ama il funeral desidera ascoltare.
La successiva For the Night Has Fallen è, infatti, un classico brano nel quale le armonie chitarristiche si snodano in maniera ottimale su una struttura più tradizionalmente devota ai maestri My Dying Bride, mentre My Cure Is Your Disease va a rievocare le partiture bradicardiche degli Worship del brano capolavoro “All I Ever Knew Lie Dead” arricchendole di un relativo dinamismo e di un più spiccato gusto melodico, per un risultato finale splendido.
La bellezza di questo disco è riscontrabile anche nella sua costante progressione qualitativa che trova il suo apice in Obsessive Dilemma, traccia nella quale la chitarra dipinge desolanti affreschi sonori che vanno ad intrecciarsi con un growl cangiante ed espressivo.
Un lavoro già ampiamente al di sopra della media va a chiudersi con due tracce dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora che risultano nel contempo le più complesse del lotto, ma capaci di svelare sempre più il loro fascino dopo ogni ascolto: certo, i cinque minuti di funeral integralista collocati nella coda di Aletheia contribuiscono ad appesantire di molto l’ascolto, quasi a voler controbattere la relativa orecchiabilità della sua parte centrale, ma costituiscono pure un ideale viatico alle atmosfere sublimi poste ad introduzione della conclusiva Here’s To Death, lunghissima litania dai tratti delicati quanto funesti capace di uguagliare i miglior Esoteric e Mournful Congregation.
Come già ripetuto più volte in frangenti analoghi, il recente Canto III degli Eye Of Solitude, spostando ulteriormente in alto lo standard qualitativo del genere, si pone nel presente come ingombrante termine di paragone per chi voglia cimentarsi in questo medesimo terreno: ebbene, al riguardo si può dire che nessuno come gli Shattered Hope sia riuscito finora ad avvicinarsi alla magnificenza della band londinese, rispetto alla quale il sestetto greco risulta appena inferiore solo per l’impatto drammatico, essenzialmente a causa di una minore enfasi, conferita in quel caso dall’imponente lavoro delle tastiere che, invece, in Waters Of Lethe, svolgono un elegante quanto discreto lavoro di accompagnamento lasciando principalmente alle chitarre il compito di sviluppare armonie splendide quanto malinconiche.
Ma non c’è dubbio sul fatto che questo lavoro rappresenti un’ideale summa di quanto prodotto dal pantheon del funeral death-doom negli ultimi vent’anni, andando non solo a rimodellare con una rilettura del tutto personale quanto già fatto da chi ha scritto la storia del genere, ma riuscendo persino ad eguagliarne l’intensità e il pathos.

Tracklist:
1. Convulsion
2. For the Night Has Fallen
3. My Cure Is Your Disease
4. Obsessive Dilemma
5. Aletheia
6. Here’s to Death

Line-up :
Nick – Vocals
George – Drums, Percussion
Sakis – Guitars
Thanos – Guitars
Eugenia – Keyboards
Thanasis – Bass

SHATTERED HOPE – Facebook

Wraithmaze – Fields Of Nihilism

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
Il sound della band, infatti, appare incentrato sull’ottimo lavoro alle tastiere del leader Janne Kielinen, ma va detto che lo strumento non finisce per debordare come sovente avviene in simili frangenti, lasciando invece il giusto spazio anche al resto della strumentazione.
Proprio l’accentuato gusto melodico è ciò che più piace in Fields Of Nihilism: i quattro brani sono decisamente scorrevoli e, in fondo, se non ci fosse il growl di Jarko Rintee ad incattivire e conferire morbosità al songwriting, l’Ep resterebbe stabilmente ancorato ad atmosfere potenzialmente fruibili anche per ascoltatori non necessariamente avvezzi al genere.
Molto azzeccato tra gli altri, il tema portante di Homeless, ma un pò tutti i brani sono disseminati di passaggi emozionanti, avvincenti, spesso accostabili alla solennità di certe colonne sonore (Battle with the Bottle ) ed eseguiti in maniera eccellente dal punto di vista tecnico.
Peccato solo che il tutto si esaurisca in poco più di venti minuti, ma chi volesse, in attesa di un nuovo album, può andarsi tranquillamente a riscoprire il precedente full-length “Adagio in Self-Destruction” senza correre il rischio di restarne deluso.
Davvero bravi i Wraithmaze, i quali, pur senza reinventare la ruota, mettono sul piatto un lavoro affascinante e di grande sostanza, ideale viatico ad un auspicabile prossimo album.

Tracklist:
1. Shrine of the Unwanted
2. Homeless
3. Battle with the Bottle
4. Funeral Autumn

Line-up :
Janne Kielinen – Guitars, Keyboards
Jarkko Rintee – Vocals
Jan Siekkinen – Guitars
Lord Angelslayer – Bass

WRAITHMAZE – Facebook

Wijlen Wij – Coronachs of the Ω

Il secondo album della band belga alterna momenti eccellenti ad altri piuttosto opachi, per un risultato complessivo soddisfacente ma non esaltante.

A sette anni dal disco d’esordio ritornano i doomsters belgi Wijlen Wij, progetto che vede coinvolto Kostas Panagiotou, conosciuto anche come leader dei più noti Pantheist.

Coronachs of the Ω esce per la Solitude, autentico marchio di garanzia per il funeral death doom e tutto sommato, anche in questo caso, tale assunto non viene smentito nonostante l’operato del trio belga sia caratterizzato da diversi alti e bassi.
L’opener … boreas apre le danze invero come meglio non si potrebbe, grazie alle sue sonorità devote ai migliori Skepticism, in virtù soprattutto del timbro tastieristico scelto da Kostas: il brano è decisamente evocativo, trascinante, dotato anche di un relativo dinamismo, con uno splendido break pianistico centrale, insomma possiede tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un disco del genere; la seguente Die Verwandlung rallenta di molto l’andatura alternando a buoni spunti chitarristici quella staticità del sound che la sua notevole lunghezza non contribuisce certo a migliorare, caratteristica, questa, che si accentua in maniera ancor più evidente in Laying Waste to the City of Jerusalem, autentica mattonata priva di qualsiasi sbocco melodico che rischia pericolosamente di affossare un lavoro nato invece sotto i miglior auspici.
Fortunatamente A Solemn Ode to Ruin…, accostabile per sonorità ai vicini di casa olandesi Officium Triste, pur essendo anch’essa un pò troppo dilatata, rimette le cose a posto mostrando atmosfere sufficientemente cariche di pathos, e la conclusiva From the Periphery è un’altra traccia decisamente riuscita con il proprio andamento dolente e malinconico.
Coronachs of the Ω è in assoluto un buon disco, che gli amanti del genere apprezzeranno senz’altro anche se, al termine dell’ascolto, resta il rammarico di non aver potuto ascoltare un lavoro nel complesso qualitativamente all’altezza della traccia di apertura, e il motivo può dipendere da vari fattori: il growl del volenteroso Lawrence Van Haecke si rivela adeguato solo al’interno delle tracce migliori, mentre appare troppo piatto per risultare incisivo quando deve assumere suo malgrado un ruolo di primo piano come in Laying Waste to the City of Jerusalem (non male invece, nel complesso, le clean vocals); la produzione non fa molto per smussare qualche imperfezione che affiora qua è là e, in particolare, non viene valorizzato al meglio il suono della chitarra solista, capace sovente di brillanti intuizioni melodiche.
In fin dei conti la sensazione che si trae dall’ascolto di Coronachs of the Ω è che i Wijlen Wij siano l’altra faccia della medaglia dei Pantheist: tanto resta radicato nella tradizione il sound dei primi, conservando quell’alone vintage che può avere un suo fascino ma pure apparire irrimediabilmente datato, quanto è stata spinta forse all’eccesso dal buon Kostas l’evoluzione stilistica dei secondi finendo per spingerli ben oltre i confini riconosciuti del doom più canonico.
In mezzo resta un territorio sufficientemente vasto per essere ulteriormente esplorato con successo da diverse band e non ci sono dubbi sul fatto che tra queste possano esserci in futuro anche i Wijlen Wij.

Tracklist:
1. …boreas
2. Die Verwandlung
3. Laying Waste to the City of Jerusalem
4. A Solemn Ode to Ruin…
5. From the Periphery

Line-up :
Kris Villez – Drums
Kostas Panagiotou – Guitars, Keyboards
Lawrence van Haecke – Vocals

WIJLEN WIJ – Facebook

Descend Into Despair – The Bearer of All Storms

La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.

Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.

Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth

Line-up :
Denis Ungurean – Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars (lead), Programming, Drums, Keyboards
Iulia Bulancea – Bass
Orza Radu – Drums
Cosmin Farcău – Guitars (rhythm)
Florentin Popa – Keyboards

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Woe Unto Me – A Step into the Waters of Forgetfulness

Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.

Altro ottimo prodotto sfornato dalla sempre prolifica, anche dal punto di vista qualitativo, Solitude Prod.

Stavolta tocca ai bielorussi Woe Unto Me ad essere portati alla ribalta della scena doom europea: la band, condotta dall’eccellente Artyom Serdyuk, viene descritta come dedita al funeral doom ma è evidente, sin dalle prime note, quanto l’approccio sia decisamente più intimista, quasi soffuso a tratti, senza che il senso di palpabile malinconia che contraddistingue il genere venga comunque in qualche modo scalfito.
A Step into the Waters of Forgetfulness è in effetti un lavoro che si discosta, pur senza snaturarsi, dalla coordinate classiche del funeral, proprio perché gli Woe Unto Me optano per composizioni lunghe come da copione che mettono però in risalto particolarmente il riuscito connubio tra le clean vocals dell’ottimo Sergey Puchok e le partitura acustiche, sempre contraddistinte da una certa eleganza di fondo.
L’uso delle voci è davvero il valore aggiunto del lavoro : il growl di Artyom è centellinato il giusto ritagliandosi il ruolo di adeguata spalla alla timbrica evocativa di Sergey (in certi frangenti accostabile ad un Eric Clayton meno enfatico), e lo stesso avviene con il controcanto femminile che ha per lo più un compito di supporto. Tutto ciò si realizza nel migliore dei modi nella traccia finale, la lunga e drammatica Angels To Die, che rappresenta, tra tutti, l’episodio più rispondente all’etichetta associata alla band, mentre i primi tre brani vivono ancor più invece sull’apporto decisivo di suggestioni acustiche, specie l’iniziale Slough Of Despond, che prende avvio con tonalità cristalline prima di abbandonarsi alle più consuete ritmiche funeree.
Il valore indiscutibile di un lavoro come A Step into the Waters of Forgetfulness risiede proprio nella volontà dei ragazzi bielorussi nel cercare con continuità una via maggiormente personale per esprimere il proprio mood malinconico senza cadere con entrambi i piedi nei, comunque graditi, clichè del genere.
Un’operazione che riesce pienamente grazie alle indubbie doti tecniche esibite dal combo di Grodno: evidentemente, nonostante questo disco sia di fatto un esordio su lunga distanza, denota sicuramente un percorso musicale tutt’altro che banale compiuto dai singoli musicisti prima di cimentarsi in quest’opera.
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Gran bel lavoro e altra graditissima sorpresa, è sempre un piacere rischiare di apparire ripetitivi ogni qual volta ci si trovi a lodare sperticatamente le doom band provenienti dal nordest europeo …

Tracklist:
1. Slough of Despond
2. The Gospel Reading
3. Stillborn Hope
4. 4
5. Angels to Die

Line-up :
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Sergey Puchok – male clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
Julia Shimanovskaya – female clean vocals

WOE UNTO ME – Facebook

A Young Man’s Funeral – Thanatic Unlife

Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.

A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.

Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica.
Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.

Tracklist:
1. Curse
2. Remorse
3. Salvation

Line-up :
A.S. All instruments
E.S. Vocals

Eye Of Solitude – Canto III

Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.

La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.

Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora.
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.

Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast

Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards

EYE OF SOLITUDE – Facebook

Kuolemanlaakso – Musta Aurinko Nousee

Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.

Non posso negare che nell’avvicinarmi a questo Ep sono stato inevitabilmente attratto dalla presenza in line-up di Mikko Kotamäki, ben più noto come cantante degli immensi Swallow The Sun.

Va quindi chiarito ogni tipo di equivoco dicendo subito che, al di là della presenza del vocalist, i tratti comuni tra le due band non sono poi moltissimi, in primis perché qui il songwriting non è ad opera di Juha Raivio bensì di Markus Laakso, chitarrista e tastierista ideatore del progetto (non a caso il monicker della band è costituito parzialmente dal suo cognome).
I Kuolemanlaakso hanno esordito nel 2012 con un buon full-length e questo breve Ep, che consta di quattro brani (una delle quali è una cover), è soprattutto propedeutico al prossimo album previsto in uscita nei primi mesi dell’anno; come detto, il sound, pur potendo essere classificato a buon titolo come death-doom, non ne possiede le caratteristiche specifiche che ci si potrebbero attendere da un band finlandese.
Infatti, nonostante Laakso svolga un ruolo fondamentale con le sue tastiere nei folli symphonic-industrial blacksters Chaosweaver, in quest’occasione relega lo strumento ad un ruolo di semplice accompagnamento lasciando che a parlare siano le chitarre e, ovviamente, la voce di Kotamäki: ciò che ne scaturisce è, pertanto, un songwriting dalle diverse sfaccettature.
La prima traccia, Me Vaellamme Yössä, è quella più orecchiabile e potrebbe essere approssimativamente definibile come una versione più aggressiva degli Amorphis, con una bella linea melodica ed il growl di Mikko a condurre le danze, mentre Tulenväki e Kalmoskooppi sono decisamente meno catchy pur rivelandosi tutt’altro che piatte, privilegiando un impatto sbilanciato sul versante death, e nelle quali il vocalist sfoggia anche il suo caratteristico screaming.
L’ultima traccia potrebbe essere catalogata come la più riuscita, anche se in realtà si tratta della cover di una rock band nota in Finlandia negli anni ‘80, gli Juha Leskinen Grand Slam: Musta Aurinko Nousee, che dà anche il titolo all’Ep, era un bel brano anche nella versione originale, ma i Kuolemanlaakso ne rallentano in maniera notevole l’andatura trasformando il tutto in un episodio dal sapore gothic, con il contributo di un Kotamäki che esibisce un’inedita timbrica alla Peter Steele.
La creatura di Markus Laakso mostra un potenziale interessante e, forse, l’unico ostacolo da superare nell’approccio è proprio l’utilizzo della la lingua madre, anche se mi chiedo se abbia ancora senso nel 2013 porsi delle barriere linguistiche quando ormai esistono diversi strumenti per capire il significato di testi redatti in qualsiasi lingua.
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.

Tracklist:
1. Me vaellamme yössä
2. Tulenväki
3. Kalmoskooppi
4. Musta aurinko nousee

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Hamferð – Evst

“Evst” va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013

Sino ad oggi, musicalmente parlando, le isole Fær Øer avevano lasciato una traccia tangibile in ambito metal principalmente grazie ai Týr, la cui popolarità si è consolidata nell’ultimo decennio grazie a un solido folk metal.

Ben diverso è quanto proposto dagli Hamferð che, dalla piccola Thorshavn, capitale dell’arcipelago, ci incantano con un death-doom in grado di spiccare sulla concorrenza grazie a diversi elementi innovativi pur senza snaturare in alcun modo le coordinate del genere. Fin dall’opener Evst (che è anche il titolo dell’album) si può constatare che la band opta per uno stile vocale agli antipodi delle abitudini del death-doom più tradizionale: qui il consueto growl è affiancato da una voce stentorea quanto evocativa, il tutto regalatoci magnificamente dal solo Jón Aldará. Chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo disco degli Helllight non avrà potuto fare a meno di notare quanto la resa complessiva di un lavoro di ottima fattura sia stata penalizzata dal tentativo di utilizzare la voce pulita senza possedere una tecnica sufficientemente solida; ciò non accade affatto in Evst, dove la voce di Jón si erge protagonista indiscussa del lavoro, declamando con la giusta enfasi ed il necessario trasporto le liriche rigorosamente scritte in lingua madre. Se nei primi tre brani, che peraltro risplendono per la capacità degli Hamferð di rendere ariosa una materia musicale di norma opprimente, si palesa piuttosto evidente l’impronta degli Swallow The Sun, nel corso dell’album affiora anche una vena folk-prog che conduce i nostri alla composizione di un brano prevalentemente acustico come At jarða tey elskaðu. Sinnisloysi ci riporta ad atmosfere pregne di disperazione, con un predominio del growl sulle clean vocals che risulta però ingannevole, vista l’abilità dei faroeriani nell’imprimere svolte inattese ad un songwriting decisamente più vario rispetto alle altre band impegnate nel settore: nello specifico fa capolino una voce femminile che conferisce una certa solennità al sound, con l’aggiunta di un lavoro chitarristico impeccabile e di grande sensibilità. Dopo oltre mezz’ora di musica dalla grande intensità, la conclusiva Ytst arriva a confermare anche ai più scettici che gli Hamferð non sono certo la classica band capace di azzeccare quei tre o quattro accordi sui quali costruire un intero disco: questa traccia rappresenta lo stato dell’arte del doom-death, con un caleidoscopio di sensazioni capaci di sovrapporsi nel corso di dieci muniti dal raro impatto emotivo, ed è giusto che la pietra tombale su un disco meraviglioso lo ponga la voce di questo cantante in grado come pochi altri di far vibrare le corde dell’anima. Evst va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013 e, a chi ne è rimarrà estasiato, consiglio vivamente di andarsi a ripescare l’altrettanto valido Ep d’esordio “Vilst Er Síðsta Fet”.

Tracklist:
1. Evst
2. Deyðir varðar
3. Við teimum kvirru gráu
4. At jarða tey elskaðu
5. Sinnisloysi
6. Ytst

Line-up : Jón Aldará – vocals
John Egholm – guitar
Theodor Kapnas – guitar
Remi Johannesen – drums
Esmar Joensen – keys
Jenus í Trøðini – bass

HAMFERD – Facebook

Revelations Of Rain – Deceptive Virtue

Il magnifico tocco chitarristico di Yuriy Ryzhov costituisce il viatico ideale per affrontare questa ennesima, tormentata, navigazione attraverso i mari profondi e sconfinati del dolore e della melancolia.

I russi Revelations Of Rain in realtà, nel loro paese e nelle altre nazioni che utilizzano i caratteri cirillici, sono conosciuti come Otkroveniya Dozhdya e l’utilizzo di un monicker anglofono, cosi come avviene per i titoli degli album, è un semplice escamotage per una più rapida assimilazione del marchio, visto che, in ogni caso, tutti gli album e i relativi brani sono intitolati e cantati in lingua madre.

La band originaria di Podolsk è già al quarto full-length e si è sempre distinta nelle occasioni precedenti per una produzione di buon livello medio destinata, apparentemente, a restare comunque ingabbiata tra la moltitudine di altre band che, soprattutto nella area ex-sovietica, si dedicano a forme di doom estremo.
Questo disco, però, costituisce un’autentica folgorazione e fin dalle prime note si intuisce che Deceptive Virtue non potrà essere derubricato come un lavoro ordinario: il quartetto russo mette in scena un’ipotetica summa del meglio dei mostri sacri della scena gothic-death doom, prendendo le mosse dagli ovvii My Dying Bride, dagli altrettanto scontati Swallow The Sun, ma attingendo anche all’innato senso melodico dei Saturnus e, in certi passaggi più rallentati, alla dolente malinconia degli Ea.
I cinquanta minuti attraverso i quali si dipana il tragico lirismo dei Revelations Of Rain non lasciano alcun dubbio sul fatto che questo disco debba necessariamente entrare a far parte della collezione di chi ama questo genere musicale: partendo dalla splendida opener Chernye Teni, passando per un brano capolavoro come Dekabr – Chast e la successiva Mezhdu Bezzhiznennymi Beregami che, non so quanto per caso, nella sua parte finale si trasforma nella versione ultra-doom di “Shadow Of The Hyerophant” del maestro Steve Hackett, e arrivando alla solenne drammaticità della conclusiva Jestetika Opustoshenija, non c’è un solo momento di stanca in un album che, francamente, ha il solo difetto di conservare quelle caratteristiche autoctone che ne renderanno più complessa la divulgazione al di fuori dei confini dell’ex-impero.
Il magnifico tocco chitarristico di Yuriy Ryzhov costituisce il viatico ideale per affrontare questa ennesima, tormentata, navigazione attraverso i mari profondi e sconfinati del dolore e della melancolia.

Tracklist:
1. Chernye Teni
2. Dekabr – Chast 2
3. Mezhdu Bezzhiznennymi Beregami
4. Obmanchivaja Dobrodetel’ (instrumental)
5. V Bezumii Velichie Tvojo
6. Pepel Nad Nami
7. Jestetika Opustoshenija

Line-up :
Yuriy Ryzhov – Guitars
Ilya Remizov – Guitars (rhythm), Keyboards, Vocals
Igor Yashin – Bass, Vocals
Denis Demenkov – Drums

Vin De Mia Trix – Once Hidden From Sight

Un esordio su lunga distanza di pregevole fattura che rende la band ucraina una realtà già consolidata e non solo un semplice prospetto futuribile.

Gli ucraini Vin De Mia Trix appartengono a una scena doom di nascita relativamente recente ma in costante crescita, non solo dal punto di vista numerico.

Dopo aver affrontato nelle scorse settimane il lavoro dei Mournful Gust, sicuramente più orientato verso sonorità gotiche, Once Hidden From Sight ci riconsegna alle origini del death-doom fin dalle prime note con il suo incipit chitarristico che porta il marchio inconfondibile di una pietra miliare come “A Cry For Mankind”. Il timore di una riproduzione fedele del sound coniato oltre vent’anni fa dalla “sposa morente” viene fugato da un songwriting piuttosto ispirato, che vede i due lunghissimi brani di apertura dipanarsi dolenti come da copione ma tutt’altro che privi di spunti eccellenti, in grado di sopperire abbondantemente all’inevitabile somiglianza agli imprescindibili My Dying Bride (in A Study In Scarlet) e Swalllow The Sun (nella successiva Nowhere Is Here). Il lavoro ha un minutaggio piuttosto elevato che, forse, poteva essere ridotto snellendo i due brani strumentali, interlocutori per quanto ben eseguiti e non privi di spunti interessanti (particolarmente La Persistència De La Memòria), ma la qualità della musica proposta dalla band di Kiev scongiura l’effetto noia, soprattutto se dopo la lunga pausa di riflessione offerta da Là Où Le Rêve Et Le Jour S’Effleurèrent, The Sleep Of Reason si rivela un esempio impeccabile di approccio alla materia, alla quale i Vin De Mia Trix si avvicinano senza utilizzare le tastiere od altri artifici per aggiungere toni malinconici a un sound essenziale, ma efficace nel riprodurre le angosce e i disagi esistenziali. Silent World denota invece una discreta varietà stilistica, partendo da una delicata base acustica capace poi di svilupparsi in senso ben più energico, sulla falsariga dei primi lavori degli Opeth. Più orientati all’ortodossia doom i due episodi finali Metamorphosis e Matr, in grado di suggellare un esordio su lunga distanza di pregevole fattura che rende la band ucraina una realtà già consolidata e non solo un semplice prospetto futuribile.

Tracklist:
1. A Study in Scarlet
2. Nowhere is Here
3. Là où le rêve et le jour s’effleurèrent
4. The Sleep of Reason
5. Silent World
6. La persistència de la memòria
7. Metamorphosis
8. Matr

Line-up :
Serge Pokhvala – Guitars
Andrew Tkachenko – Vocals
Alex Vynogradoff – Bass, Guitars, Piano, Vocals
Igor Babayev – Drums

VIN DE MIA TRIX – Facebook

Ataraxie – L’Etre et La Nausée

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

L’Etre et La Nausée, ultima fatica discografica del quartetto transalpino, dovrebbe essere portato ad emblema della capacità di esibire sfumature diverse da parte di un genere musicale che, essenzialmente per comodità ma talvolta in maniera semplicistica, viene definito funeral doom. Infatti, appiccicare tale etichetta a quest’album appare assai riduttivo perché, se è vero che non mancano rallentamenti ai limiti dell’asfissia, passaggi talmente densi ed opprimenti che il sangue quasi fatica a trasportare ossigeno al cervello, dall’altra abbiamo momenti nei quali viene sprigionata una rabbia quasi ferina e dagli accenti disperati, ma capace di stemperarsi un attimo dopo in delicati quanto instabili ricami acustici. Per una volta, in questo genere di lavori, l’elemento in più, quello capace di evocare i differenti stati d’animo, è proprio la voce di Jonathan Thery, in grado di interpretare (nel senso vero del termine) le liriche contenute nei brani, passando con eccellente versatilità dal growl più profondo ad un lancinante screaming ai confini del depressive, oppure modulando la voce in una sorta di punto d’incontro tra questi due stili senza dimenticare i passaggi quasi sussurrati che accompagnano i momenti più rarefatti del lavoro. L’Etre et La Nausée consta di quattro lunghi brani più un breve strumentale, suddivisi in due cd per un totale di un’ora e venti di musica al contempo avvolgente e straniante, che rappresentano l’ennesimo travagliato viaggio nei meandri della nostra psiche, un luogo dove in ogni individuo si nasconde il mostro in grado di generare debolezze, paure e rimpianti, in definitiva tutte le sensazioni che ci assalgono nel preciso momento in cui proviamo a porci qualche quesito appena più profondo rispetto alla routine del nostro vivere quotidiano. “La Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza” scrive Sartre in quello che è il suo romanzo più noto, e gli Ataraxie, che fin dal titolo dell’album citano il loro illustre compatriota, rappresentano come meglio non potrebbero, tramite la loro musica, lo sgomento che si impadronisce di un individuo allorché realizza quanto il suo passaggio terreno non solo sia effimero ma addirittura insignificante, se valutato da un punto di vista universale. Per una volta preferirei evitare di affrontare quest’opera “track by track” in maniera tradizionale: L’Etre et La Nausée va vissuto dall’ascoltatore nella sua interezza e con l’opportuna dedizione; gli Ataraxie indulgono in ben poche concessioni o aperture melodiche e proprio per questo, quando ciò accade, assumono ancor più valore all’interno dell’album. Ma se avrete la pazienza e la tenacia di dedicare all’ascolto diverse ore del vostro tempo, scoprirete che il brano preferito in prima battuta, la volta successiva verrà soppiantato da un altro; così, se la prima volta amerete l’opener Procession Of The Insane Ones per la sua capacità d’essere terribilmente “pesante” anche nelle sue fasi acustiche, successivamente sarà Face The Loss Of Your Sanity ad incantarvi per la sua anima profondamente death, poi sarà il turno di Dread The Villains, che in ”soli” undici minuti si rivela un’ideale sintesi delle doti del quartetto di Rouen, finendo poi per godere appieno della sfibrante bellezza dell’infinita Nausee. Come i connazionali Monolithe, anche gli Ataraxie, svincolandosi parzialmente dai consueti schemi compositivi, hanno impresso alla loro carriera una svolta decisiva che consentirà loro d’entrare di diritto nel gotha del doom metal.

Tracklist:
1. Procession Of The Insane Ones
2. Face The Loss Of Your Sanity
3. Etats d’Âme
4. Dread The Villains
5. Nausée

Line-up :
Jonathan Théry – vocals, bass
Frédéric Patte-Brasseur – guitars
Sylvain Esteve – guitars
Pierre Sénécal – drums

ATARAXIE – Facebook

Graveyard Of Souls – Shadows Of Life

L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

I Graveyard Of Souls sono una band spagnola di recente formazione dedita a un death-doom melodico dagli evidenti rimandi novantiani.

Raul e Angel, che non sono certo musicisti alle prime armi e che sono attivi anche con le death band Authority Crisis e Mass Burial, in questo loro disco d’esordio sfogano evidentemente il loro lato più malinconico, oltre all’esplicita devozione verso le sonorità che portarono in auge, tra gli altri, i primi Tiamat (quelli fino a “Clouds”), i Crematory e, per chi se li ricorda, i Godgory.
Quindi più che di death-doom, per Shadows Of Life, potrebbe essere più appropriato parlare di death melodico, però nella sua accezione più oscura e comunque piuttosto lontana da quello che conosciamo anche come “Gothenburg Sound”.
Detto questo, l’esordio dei Graveyard Of Souls non arriverà a stravolgere le gerarchie dei sottogeneri citati, ma si segnala come un’opera ben più che dignitosa anche se, probabilmente, si rivelerà di maggiore interesse per i “diversamente giovani”, come il sottoscritto, che vissero quell’epoca già in età adulta.
Il lavoro della coppia iberica si fa apprezzare per la sua genuinità, unita ad una serie di melodie azzeccate, il tutto realizzato tramite un approccio piuttosto naif e privo di particolari raffinatezze stilistiche ma ugualmente efficace: brani come la title-track o la successiva Dreaming Of Some Day To Awake convincono grazie a linee chitarristiche capaci di imprimersi nella memoria senza eccessive difficoltà e la stessa cover di Mad World dei Tears For Fears, operazione dal notevole rischio di effetto boomerang, viene proposta in una maniera piuttosto credibile.
L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

Tracklist :
1. Genesis
2. Shadows of Life
3. Dreaming of Some Day to Awake
4. Memories of the Future (We Are)
5. Follow Me
6. Mad World
7. Solitude’s My Paradise
8. Dead Earth
9. There Will Come Soft Rains

Line-up :
Raúl
Angel

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

HellLight – No God Above, No Devil Below

La scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringono la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta.

Ho amato da subito la musica degli HellLight, fin da quel “Funeral Doom” (titolo programmatico anche se per certi versi fuorviante), secondo full-length nel quale, pur tra diverse imperfezioni, la band paulista mostrava un potenziale melodico ed evocativo in grado di esplodere da un momento all’altro.

Il successivo “…And Then, The Light Of Consciousness Became Hell…” aveva confermato quelle impressioni, rafforzate da un evidente progresso dal punto di vista della tecnica strumentale e della produzione. Tutto ciò faceva pensare che il quarto album sarebbe potuto essere quello della definitiva consacrazione ma, pur essendo stato compiuto un ulteriore passo avanti, non è andata proprio così, perché quei piccoli difetti strutturali che gli HellLight si trascinano dietro fin dagli esordi non sono ancora del tutto scomparsi. Intendiamoci, No God Above, No Devil Below, è un bellissimo disco, straconsigliato a chi apprezza il doom nella sua versione più melodica, malinconica ed accessibile, ma l’impressione che resta, al termine di questi quasi 80 minuti di musica, è quella di una band che non è ancora riuscita a compiere il passo decisivo per raggiungere un livello prossimo a quello dei Saturnus, tanto per restare nel medesimo ambito stilistico, anche se mi rendo conto che non stiamo parlando di un qualcosa alla portata di tutti. Pregi e difetti della band guidata dal chitarrista e cantante Fabio De Paula sono essenzialmente racchiusi negli oltre venti minuti complessivi della title-track e della successiva Shades Of Black: uno spiccato senso melodico al servizio di meste partiture tastieristiche, l’alternanza tra un profondo growl ed una stentorea voce pulita, ritmiche pachidermiche e assoli di chitarra di stampo classico nonché di eccellente gusto e fattura. Sfido chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità a non commuoversi ascoltando l’incipit di Shades Of Black, il tipico brano che da solo vale un intero disco, peccato che la scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringano la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta. Perché, diciamocela tutta, ogni volta che Fabio De Paula decide di prodursi nelle sue evoluzioni chitarristiche riesce a regalare momenti realmente indimenticabili, e questo è sicuramente un significativo punto di contatto con i Saturnus; ma, mentre in questi ultimi Thomas Jensen si limita saggiamente ad esibire, oltre al proprio profondo growl, soltanto alcune parti recitate, negli HellLight l’uso delle clean vocals appare forzato se non addirittura superfluo, visto che già la sola struttura compositiva dei brani contribuisce a creare emozioni in abbondanza. Il resto dell’album segue di norma uno schema consolidato, con brani contraddistinti da una lunga e più pacata parte introduttiva che sfocia in un finale nel quale si erge a protagonista la sei corde del leader , fatta eccezione per Path Of Sorrow, con la sua struttura di stampo autenticamente funeral; tutto ciò rischia talvolta di appesantire l’ascolto di No God Above, No Devil Below, anche se per chi apprezza il genere la cosa si rivelerà un piacevole sacrificio. Forse sono stato eccessivamente critico nei confronti degli HellLight, e ciò che mi ha trasmesso davvero questo loro ultimo lavoro lo mostra chiaramente il voto piuttosto elevato assegnatogli; purtroppo, però, in un’ottica di ricerca del meglio, non si può sorvolare su quei particolari che, per ora, impediscono il definitivo decollo ad una band capace di creare con una simile naturalezza melodie talmente coinvolgenti. Ma, si sa, a volte il troppo amore rende le persone particolarmente esigenti …

Tracklist :
1. Intro
2. No God Above, No Devil Below
3. Shades of Black
4. Unsacred
5. Legacy of Soul
6. Path of Sorrow
7. Beneath the Lies
8. The Ordinary Eyes

Line-up :
Fabio De Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums

HELLLIGHT – Facebook

Tethra – Drown Into The Sea Of Life

Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Dopo un Ep ed un intensa attività dal vivo nel corso di questi ultimi anni, i Tethra approdano al full- length d’esordio che costituisce, contemporaneamente, anche la prima uscita per la nuova label milanese House of Ashes Prod.

Nata dall’incontro tra il chitarrista Belfagor (Horrid) e il cantante Clode (ex-Coram Lethe), la band, completata da Miky (Vexed) alla batteria e dall’ultimo entrato, Giuseppe al basso , pur essendo relativamente di recente formazione è in realtà composta, come si può intuire, da musicisti esperti e Drown Into The Sea Of Life ne è la logica conseguenza. La musica dei Tethra prende le mosse dai Candlemass più evocativi ammantandosi sovente di ombrose atmosfere death-doom, senza concedere ammiccamenti a facili melodie ma mostrando in prevalenza un volto plumbeo pur se non propriamente funereo; i brani, infatti, pur essendo ovviamente caratterizzati da ritmi lenti, non debordano mai in un’opprimente pesantezza.
Dopo la canonica intro strumentale, Sense Of The Night inaugura l’album presentando Clode alle prese con profonde tonalità in stile Ribeiro, caratteristica che nel corso del lavoro riproporrà con buoni risultati, in costante alternanza a vocals più stentoree ed al growl .
Questo brano, così come il successivo Drifting Islands, brilla per la sua forza evocativa e si rivela l’indicatore attendibile di un songrwriting in grado di coinvolgere adeguatamente l’ascoltatore.
Più ritmata è, invece, Vortex Of Void, anche se è evidente che il concetto di velocità in un disco di questo tipo è del tutto relativo, mentre la title-track si mostra come la traccia più elaborata, con diversi cambi di tempo, la consueta varietà vocale e ottime linee chitarristiche
Se Ocean Of Dark Creations è caratterizzata da un bel contributo del basso, strumento che viene messo in bella evidenza dalla produzione a cura dello stesso Clode e di Mat Stancioiu, la successiva Ode To A Hanged Man si fa ricordare per un incipit dal sapore epico, anche se si rivela leggermente inferiore a livello di coinvolgimento emotivo rispetto al contesto.
Questo tribolato viaggio in acque perigliose (i testi dell’intero album hanno come tema portante il mare e l’oceano) si conclude con End Of The River, degno finale di un lavoro convincente anche se di non semplicissima assimilazione.
Cio che piace dei Tethra è proprio questa loro scelta di mantenersi in linea con l’ortodossia del genere, aspetto che può penalizzare la fruizione del disco durante i primi ascolti ma che finisce per svelare la sua oceanica profondità nelle successive occasioni.
Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Tracklist :
01 Intro
02 Sense Of The Night
03 Drifting Islands
04 Vortex Of Void
05 Drown Into The Sea Of Life
06 The Underworld
07 Ocean Of Dark Creations
08 Ode To A Hanged Man
09 End Of The River

Line-up :
Miky – Drums
Belfagor – Guitars
Clode – Vocals
Giuseppe – Bass

TETHRA – pagina Facebook

Who Dies In Siberian Slush – We Have Been Dead Since Long Ago

Secondo uscita su lunga distanza per i moscoviti Who Dies In Siberian Slush, dopo il buon esordio “Bitterness Of The Years That Are Lost” datato 2010.

Il nuovo parto della band guidata da E.S. (Evander Sinque) si colloca nella scia del suo predecessore senza rappresentarne, di fatto, un’evoluzione vera e propria: We Have Been Dead Since Long Ago è il classico nero monolite dalle sembianze funeral death doom che, volendo fornire un indirizzo di massima a chi intenda approcciarlo, si colloca più sulla scia dei tedeschi Worship che non su quelle dei concittadini Comatose Vigil o Abstract Spirit.

Infatti, non aspettatevi le dolenti aperture melodiche caratteristiche del funeral doom russo, visto che i WDISS badano maggiormente ad un impatto di matrice death, accentuato dalla rinuncia all’uso delle tastiere. Non per questo il lavoro è trascurabile, brani lunghi e avvolgenti come, per esempio, In A Jar e The Spring possiedono più di un momento degno di nota, ma ciò avviene, guarda caso, proprio quanto le chitarre tracciano linee melodiche che spiccano proprio perché normalmente sacrificate all’interno del disco a favore di riff più rocciosi. Come detto, We Have Been Dead Since Long Ago paga forse il confronto con il suo predecessore che, senza dubbio, aveva dalla sua una superiore freschezza compositiva, oltre a una maggiore linearità di fondo. Discorso a parte lo merita un brano come Funeral March n°14, sicuramente affascinante pure nel suo incedere grottesco, ma oggettivamente un pò fuori contesto a livello stilistico; provate a immaginare una banda che, nell’accompagnare il defunto nel corso del suo ultimo viaggio, suoni una marcia funebre come se fosse un brano funeral doom: esperimento apprezzabile ma solo parzialmente riuscito Complessivamente questo lavoro merita senz’altro l’attenzione da parte degli appassionati delle frange più estreme del doom, ma la sensazione che resta è quella di un’opera incompiuta, dove passaggi di grande impatto emotivo si confondono con altri più manieristici. L’impressione finale è quindi, quella di un disco di passaggio: gli Who Dies In Siberian Slush hanno le potenzialità per fare molto meglio e non ho dubbi che ci riusciranno in futuro; per ora solo una sufficienza piena, ma con la certezza che si può fare senz’altro meglio di così.

Tracklist:
1. The Day of Marvin Heemeyer
2. Refinement of the Mould
3. In a Jar
4. The Spring
5. Funeral March №14
6. Of Immortality

Line-up:
E.S. – Guitars, Vocals
Flint – Guitars (lead)
A.S. – Drums
Tragisk – Bass

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Mental Torment – Mental Torment

Un growl efficace e un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di “On The Verge …” un disco riuscito e convincente.

Un’altra band ucraina si affaccia alla ribalta della scena doom-death sotto l’egida della Solitude e, come avvenuto di recente per i connazionali quali Embrace Of Silence e Narrow House, la cosa non può che essere salutata con piacere.

Purtroppo non è stato possibile raccogliere informazioni più dettagliate sui Mental Torment, lasciamo quindi che sia la musica contenuta in On The Verge … a descriverne le caratteristiche salienti.
Maelstrom e My Torment, i primi due veri brani dopo la breve intro, mostrano un songwriting creativo, sempre alla ricerca di atmosfere oscure e malinconiche senza indugiare troppo in passaggi interlocutori che, spesso, chi ha poco o nulla da dire tende ad aggiungere con l’unico intento di allungare a dismisura il brodo.
Un growl efficace ed un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di On The Verge … un disco riuscito e convincente.
Sento già qualche vocina sullo sfondo lamentarsi della poca originalità della proposta della band di Kiev, ma l’unica risposta possibile è questa: se qualcuno dimostra la capacità di creare composizioni in grado di emozionare e soddisfare chi ama questo genere non va certamente stigmatizzato perché altri sono riusciti prima in questo intento, piuttosto andrebbe solo incoraggiato e ringraziato per questo.
Cold Rusted Flame e Tragedy sono altri due episodi splendidi che si inseriscono nel solco tracciato dagli Officium Triste (come giustamente suggerisce la scarna bio in mio possesso), mentre sono meno d’accordo sull’accostamento con Mourning Beloveth e, soprattutto, Saturnus ma citerei invece, come ulteriore e più probabile affinità, i Frailty dello splendido “Melpomene”.
On The Verge … è un altro buonissimo esempio di death-doom, eseguito con gusto e competenza, proveniente dalle fredde ma prolifiche lande dell’estremo est europeo.

Tracklist :
1. The Path To Shining (intro)
2. Maelstrom
3. My Torment
4. Unspoken Word
5. Cold Rusted Flame
6. I See This End
7. Tragedy
8. The Drowned Man

Inner Sanctvm – Christi Testamenta

Nel complesso questo è un disco che, oltre a non deludere chi ama questo tipo di sonorità, si rivela di gran lunga superiore a certi lavori pretenziosi ma di relativa qualità e di ancor più dubbia genuinità pubblicati ultimamente.

Gli uruguayani Inner Sanctvm hanno una storia quantomeno particolare: intanto per la provenienza geografica, considerando che la “Republica Oriental” non è certo uno dei paesi sudamericani maggiormente prolifici in campo metal, poi il fatto piuttosto inusuale che Christi Testamenta, il loro secondo full-length, arriva dopo “soli” diciotto anni dall’esordio intitolato “Frozen Souls”.

Nonostante gli ottimi responsi ottenuti dal disco e la conseguente acquisizione di una buona popolarità nel proprio continente, gli Inner Sanctvm non sopravvissero alle tensioni interne che portarono il fondatore Heber W.Hammer ad abbandonare la band decretandone, di fatto, quella che pareva esserne la fine.
Lo stesso Heber, dopo un altro tentativo fallito di riportare in auge la propria creatura, pare aver trovato la quadratura del cerchio andando a pescare altri musicisti sudamericani sparsi un pò ovunque nel mondo, a partire dal batterista originario Alvaro Garcia, che oggi vive a Perugia, per arrivare ai cileni Francisco Martin, bassista in forza agli svedesi The Gardnerz e Anton Reisegger, qui alle prese dietro il microfono ma attivo come chitarrista nel supergruppo estremo Lock Up.
La tenacia di Heber è stata senz’altro premiata, a giudicare dal risultato che ne è scaturito: infatti, anche se paradossalmente il sound dei nostri sembra essere rimasto fedele ai dettami stilistici di quel lontano 1994, la genuinità e l’ intensità sprigionata dal quartetto scongiura il pericolo di derubricare Christi Testamenta come un banale riciclaggio di idee.
Questo disco si rivela un perfetto esempio di come si possano omaggiare in maniera competente le proprie radici musicali, che sono rinvenibili in maniera piuttosto evidente nei primi Celtic Frost e gli stessi Venom; la voce ruvida, sgraziata, eppure dannatamente efficace di Anton declama testi di argomento religioso su un tappeto sonoro che miscela con encomiabile misura death, thrash e doom, regalandoci tre quarti d’ora di musica trascinante.
Una serie di brani ottimi, che sicuramente non spiccheranno per la loro originalità, ma in grado comunque di tenere inchiodato l’ascoltatore in virtù di un songwriting lineare e con un Heber capace di inanellare con continuità riff davvero coinvolgenti; la ciliegina sulla torta sono le due cover, una decisamente più canonica come Return To The Eve (Celtic Frost), l’altra invece più inusuale, anche se strettamente connessa alle tematiche trattate nel disco, ovvero Heaven On Their Minds tratta da “Jesus Christ Superstar”.
Qui Giuda non possiede la voce “nera” ed elegante del compianto Carl Anderson ma, tramite il ringhio di Anton, esprime se possibile ancora meglio la rabbia e il risentimento del personaggio nella rappresentazione scenica; per quanto mi riguarda ciò è quello che si dovrebbe intendere per cover: non una riproposizione fedele ma, per quanto ben eseguita, piuttosto sterile, quanto penetrare l’anima del brano originale piegandola al proprio stile e alle proprie peculiarità.
Nel complesso questo è un disco che, oltre a non deludere chi ama questo tipo di sonorità, si rivela di gran lunga superiore a certi lavori pretenziosi ma di relativa qualità e di ancor più dubbia genuinità pubblicati ultimamente.

Tracklist :
1. Machines
2. Hemoglobin
3. Waking the Dead
4. The Emperor Wears No Clothes
5. Trial by Fire
6. The Good Shepherd
7. Myths of Creation
8. Wisdom’s Call
9. Dark Frozen Mud
10. And the Truth Shall Make You Free
11. Return to the Eve (Celtic Frost cover)
12. Heaven on Their Minds (From the OST Jesus Christ Superstar)

Line-up :
Francisco Martin – Bass
Anton Reisenegger – Vocals
Heber Hammer – Guitars
Alvaro Garcia – Drums

INNER SANCTVM – pagina Facebook

Myridian – Under The Fading Light

Pregevole esordio autoprodotto degli australiani Myridian, autori di un gothic-doom di rimarchevole spessore; collocabili in un ipotetico punto d’incontro tra Novembers Doom, Daylight Dies e Type 0 Negative, i cinque ragazzi di Melbourne mettono sul piatto un disco privo di sbavature e di grande intensità, grazie anche al contributo alla consolle di un nume tutelare della scena aussie come Mark Kelson (The Eternal, ma soprattutto ex Cryptal Darkness, la migliore gothic-doom band mai apparsa sul suolo oceanico).

In Under The Fading Light brani dal consueto mood malinconico si susseguono senza mostrare affanni nè accenni di ripetitività e il disco, nonostante una durata ragguardevole, fila via che è un piacere, graziato da un songwriting impeccabile pur se non originalissimo, con la sola eccezione di Starless che viene appesantita inizialmente da qualche barocchismo pianistico di troppo.
Impeccabile il quintetto ai propri strumenti e bravissimo Felix Lane alle prese con il growl mentre le clean vocals, credo a cura di Josh Spivak, evocano piacevolmente la timbrica del grande Peter Steele.
To the Dying Sun, Veil of Sorrow, la title-track e il brano di chiusura Ethereal Storm sono gli episodi migliori di un disco che ci mostra una band giovane ma già sufficientemente matura; come spesso avviene in questi casi, l’auspicio è che i Myridian possano avvalersi al più presto di una label in grado di promuoverli e supportarli in maniera adeguata.

Tracklist :
1. Passage
2. To the Dying Sun
3. Veil of Sorrow
4. No Dawn
5. Solitude’s Embrace
6. Under the Fading Light
7. Starless
8. Ethereal Storm

Line-up :
Alex Hutchinson – Drums
Scott Brierley – Guitars
Josh Spivak – Guitars, Vocals
Julian Wheeler – Keyboards
Felix Lane – Vocals, Bass

MYRIDIAN – pagina Facebook

Doomed – In My Own Abyss

Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.

La recensione del disco d’esordio dei Doomed, uscita su Iyezine qualche mese fa, si era chiusa con l’auspicio che qualche etichetta lungimirante si accorgesse del valore di questo progetto doom-death del musicista tedesco Pierre Laube.

Evidentemente la Solitude ha avuto l’occhio più lungo o, se non altro, è stata più rapida nell’arricchire il proprio roster con quella che è stata una delle più piacevoli novità del 2012 in ambito doom.
Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.
Per quanto possibile, la proposta appare ancor meglio focalizzata su un death-doom basato più sull’impatto che sulla melodia; infatti, il pregio dei Doomed è proprio la compattezza del suono che si manifesta con riff granitici e un growl impietoso, il tutto sapientemente alternato a frequenti rallentamenti e a squarci chitarristici volti a incrinare il muro di incomunicabilità eretto da un sound sempre minaccioso, anche nei momenti di calma apparente. Inoltre, nonostante chi si cimenti in questo genere finisca spesso per assomigliare in maniera più o meno pronunciata alle band che ne hanno segnato la storia, Laube riesce nell’intento di proporre un proprio trademark evitando di cadere in rimandi eccessivi rispetto a quanto già composto da altri in passato.
Come il suo predecessore, In My Own Abyss tende progressivamente ad “ammorbidirsi” nella sua parte terminale; in questo senso la differenza tra l’opener Downward e la traccia di chiusura Ah Ty Stiep Schirokaja è evidente, ma ciò avviene in maniera graduale attraverso brani in cui la componente death lascia spazio ad atmosfere maggiormente evocative, tra i quali spiccano le mirabili Alone We Stand, The Ancient Path e Leave.
Una conferma quindi, a distanza ravvicinata, per il musicista tedesco e un 2013 che si preannuncia ricco di novità e di impegni, tra la riedizione dell’esordio “The Ancient Path”, la costituzione di una line-up funzionale alle esibizioni dal vivo, oltre alla composizione di nuovo materiale per un futuro terzo lavoro che, viste le premesse, potrebbe consacrare i Doomed come una delle realtà più fulgide del death-doom europeo.

Tracklist :
1. Downward
2. Alone We Stand
3. The Ancient Path
4. A Wall of Your Thrones
5. Restless
6. Leave
7. Ah Ty Stiep Schirokaja – Loss

Line-up :
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

DOOMED – Facebook