Lorelei – Teni Oktyabrya (Shadows Of October)

I Lorelei ripropongono un gothic doom di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente loro di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.

I russi Lorelei avevano dato alle stampe una delle opere migliori in ambito gothic doom del 2013 con Ugrjumye Volny Studenogo Morja, e dopo oltre quattro anni ritornano finalmente con il suo successore intitolato Teni Oktyabrya (Shadows Of October).

Anche se quattro anni non sono pochi, tutto sommato le coordinate del sound sono rimaste le stesse, il che non è poi un male, vista l’alta qualità esibita in passato: le variazioni fondamentali riguardano l’ingresso in pianta stabile di un vocalist dedito al growl, nella persona di Alexey Kuznetsov (Locus Titanic Funus), quando invece nel precedente lavoro queste parti erano state affidate in qualità di ospite ad uno dei personaggi più influenti della scena doom moscovita quale è Evander Sinque, e la quasi totale rinuncia all’apporto della voce femminile, relegata ad uno sporadico ruolo di mero accompagnamento.
Nello scambio i Lorelei non ci rimettono e non ci guadagnano, perché tutto sommato Kuznetsov si rivela un ottimo interprete, mentre il venir meno del consueto fraseggio tra la bella e la bestia rende per certi versi meno scontato il tutto, rendendo il tutto però leggermente meno vario.
La band guidata da Alex Ignatovich ripropone un gothic comunque di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.
Come per il suo predecessore, ai fini di un potenziale sbocco commerciale al di fuori dei confini dell’ex-Urss, Teni Oktyabrya potrebbe soffrire la scelta dei Lorelei di proseguire con la loro autarchia lirica, continuando a sciorinare il tutto in lingua madre, cosa che inevitabilmente qualcosina lascia per strada a livello di immediata fruibilità.
Personalmente ritengo la cosa men che veniale, per cui invito caldamente ogni appassionato ad ascoltare questo bellissimo lavoro, che a mio avviso è un autentico esempio di come debba essere trattata la materia, andando dritti all’obiettivo senza divagazioni di sorta, mantenendo quell’aura tragicamente romantica che magari non sarà una novità ma che, nel contempo, non ci stanca mai di ascoltare: i Lorelei gratificano l’ascoltatore con una serie di brani fluidi e convincenti come Ya – Severniy Veter, la title track, Temnaya Voda e la superba e conclusiva Canticum Angelorum, suggello di un lavoro di notevole qualità.

Tracklist:
1. Into…
2. Ya – Severniy Veter
3. Morskaya
4. Sentyabr
5. I Tiho Vetly Shelestyat
6. Teni Oktyabrya
7. Severniy Bereg
8. Temnaya Voda
9. Noyabr
10. Canticum Angelorum

Line-up:
Alexey Ignatovich – Guitars, Vocals (additional), Songwriting, Lyrics
Marina Ignatovich – Keyboards, Songwriting
Alexander Grischenko – Bass
Egor Loktev – Guitars, Vocals (additional)
Maria Kiverina – Vocals
Alexey Kuznetsov – Vocals

LORELEI – Facebook

The Father Of Serpents – Age Of Damnation

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i The Father Of Serpents riescono senza dubbio nella non facile impresa e, laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta, si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.

Gothic death doom di buona fattura è quello che ci arriva da Belgrado grazie ai The Father Of Serpents.

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da giganti del genere come Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i nostri riescono senza dubbio nella non facile impresa e laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
In effetti, l’unica critica attribuibile alla band serba è proprio quella di sembrare ogni tanto una congrega di bravissimi assemblatori delle intuizioni altrui, sensazione che prende piede, per esempio, fin dal secondo brano The Flesh Altar, con il suo riff portante simile a quello di Lesbian Show dei Nightfall, e che si protrae sino al termine, con l’appassionato più esperto che si diletterà nel rinvenire passaggi che rievocano, in maniera comunque mai troppo marcata, il meglio offerto dal genere negli ultimi vent’anni.
Detto ciò, veniamo ai lati positivi, che poi sono nettamente prevalenti su qualsiasi altra considerazione: i The Father Of Serpents, con Age Of Damnation mettono assieme un’opera dal notevole spessore qualitativo, con una decina di brani caratterizzati da un invidiabile equilibrio tra ruvidezza e melodia, esprimendo un gothic doom spesso elegante nel quale l’utilizzo appropriato del violino (ad opera di Pavle Sovilj, che si occupa anche delle clean vocals) conferisce in più di un frangente un decisivo tocco malinconico.
Il sestetto slavo fornisce una prova priva di sbavature, i suoni sono ottimi così come gli arrangiamenti, l’uso della doppia voce risulta inattaccabile (l’ottimo growl è opera di Tamerlan, il quale però ha da poco abbandonato la band) e si fatica davvero a trovare un brano che non sia all’altezza della situazione, con menzione d’obbligo per la notevole Tainted Blood e non solo per la citazione dantesca (“lasciate ogni speranza voi che entrate”, declamata con una dizione invero rivedibile).
Questo quadro complessivo ci suggerisce che Age Of Damnation è un album rimarchevole, prodotto da una band dal sicuro potenziale che deve fare, però, solo un piccolo sforzo per imprimere un marchio personale alla propria musica, pena la permanenza nel confortevole limbo delle realtà di buon livello ma nulla più.

Tracklist:
1. The Walls of No Salvation
2. The Flesh Altar
3. Tale of Prophet
4. The Grave for Universe
5. Tainted Blood
6. The Afterlife Symphony
7. The Quiet Ones
8. The God Will Weep for You
9. The Last Encore
10. Viral

Line-up:
Tamerlan – Vocals (growls/screams/narrations)
Pavle Sovilj – Vocals (clean) & Violin
Igor Lončar – Guitars
Željko Zec – Guitars
Milan Šuput – Bass
Aleksandar Maksimović – Drums

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Paradise Lost – Medusa

I Paradise Lost c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, sicuramente invecchiati e forse un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.

Passano gli anni, cambiano le stagioni ed il clima della terra, mentre la persona che si riflette nello specchio non è più un giovane irrequieto ma un uomo che un tempo sarebbe stato definito di mezz’età.

I Paradise Lost però restano: c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, anch’essi invecchiati e un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.
Certo. anche loro hanno dovuto superare lunghi momenti di appannamento, il primo subito dopo la svolta di One Second, subendo la fascinazione “depechemodiana” fin quasi a snaturarsi del tutto, e poi quando, resisi conto di non potersi spingere oltre in quella direzione, hanno fatto marcia indietro pubblicando una manciata di album non brutti ma nemmeno indimenticabili.
Per fortuna, dopo le avvisaglie costituite dai discreti In Requiem e Faith Divides Us – Death Unites Us, nel corrente decennio i maestri di Halifax hanno riportato la barra del timone sulla giusta rotta, e a questo non è stato del tutto estraneo l’impegno di Gregor Mackintosh con i suoi Vallenfyre che, facendogli esplorare nuovamente il lato più estremo del death/doom, ha inevitabilmente riversato parte di questo rinnovato spirito nelle nuove uscite dei Paradise Lost, confluito in altre due buoni dischi come Tragic Idol e The Plague Within.
Medusa (quindicesimo full length della band) spinge ulteriormente verso un sound più indurito ed incupito, con il doom che si riappropria della sua importanza nell’economia del songwrtiting, e a tale proposito l’iniziale Fearless Sky dimostra tale tendenza in maniera manifesta spazzando via ogni ammiccamento gothic rock che, del resto, ritroveremo nel corso dell’album nella sola Blood And Chaos, orecchiabile quanto si vuole anche nella sua veste di singolo, ma lontanissima per grinta e pesantezza dai brani più carezzevoli ed inoffensivi epoca Host/Believe In Nothing.
Si sussegue così una serie di tracce rocciose, plumbee ma sempre caratterizzate dal tocco chitarristico di Mackintosh, spingendoci ad affermare che, fino alla title track, l’album è uno dei maggiormente ispirati tra quelli usciti nel nuovo millennio: Gods Of Ancient, con i suoi rallentamenti soffocanti, è il degno seguito di Fearless Sky, mentre From The Gallows è una cavalcata che riporta stilisticamente ai fasti di Icon.
The Longest Winter è il primo dei due singoli usciti e, non a caso, Nick Holmes utilizza per la prima volta la voce pulita nel corso dell’album, ma ciò non rende meno efficace un brano che si dimostra l’ideale trait d’union tra gli estremi stilistici della produzione targata Paradise Lost, mentre in Medusa riprendono a prevalere ritmiche dolenti, con il cantante ad alternare le due gamme vocali e Mackintosh che continua a dominare la scena con il suo innato gusto melodico.
Si era detto che quest’ultimo brano segnava una sorta di spartiacque qualitativo del lavoro e, in effetti, la virulenta No Passage For The Dead, la gradevole Blood And Chaos e la robusta Until The Grave, per quanto valide, si rivelano meno brillanti rispetto al resto della tracklist.
Come tutti i nuovi lavori editi dalle band storiche, l’album ha già ampiamente diviso sia i fans che gli addetti ai lavori: dal mio punto di vista è vero che Medusa non riporta i Paradise Lost ai fasti del passato e non è escluso che i primi due brani possano risultare persino ostici per chi si era abituato negli anni all’ascolto di un sound più edulcorato, ma il fatto stesso che un gruppo così “pesante” ed influente sia ancora in grado di regalare buona musica è segno tangibile di un’ispirazione ancora non del tutto evaporata, al contrario di quanto accade a gran parte delle band aventi lo stesso stato di servizio.

Tracklist:
1. Fearless Sky
2. Gods Of Ancient
3. From The Gallows
4. The Longest Winter
5. Medusa
6. No Passage For The Dead
7. Blood and Chaos
8. Until The Grave

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Waltteri Väyrynen – Drums

PARADISE LOST – Facebook

Abyssphere – На пути к забвению

L’operato degli Abyssphere possiede un suo intrinseco valore che dovrebbe spingere gli appassionati di gothic doom a dare una possibilità a На пути к забвению, un album che consente di passare un’ora abbondante in compagnia di musica moderatamente malinconica e di buona fruibilità.

Quarto full length per i russi Abyssphere, band che in poco più di un decennio di attività ha all’attivo anche diverse uscite di minutaggio ridotto, tra ep e singoli assortiti.

Quest’ultima opera della band di San Pietroburgo non lesina certo sulla durata dei contenuti, andando a superare l’ora e mezza di durata anche grazie all’inserimento nella tracklist di una cover (Only for the Weak degli In Flames) e di due versioni rielaborate di brani già editi.
Resta comunque notevole lo sforzo compositivo degli Abyssphere, i quali, con На пути к забвению si confermano eleganti ed efficaci esponenti di un gothic doom melodico inattaccabile per forma e valido anche per contenuti,  anche se forse al tutto manca quel picco emotivo costituito da uno o più brani capaci di segnare in maniera più decisa il lavoro.
Infatti, l’album scorre via molto bene, senza tediare affatto l’ascoltatore in quanto impeccabile negli arrangiamenti e sempre arricchito di una vena melodica di qualità,  ma se si fa eccezione per l’ottimo trittico centrale Carthago Delenda Est, Сияние e Марафон, i momenti in grado di fornire un autentico trasporto emotivo non sono moltissimi.
Per di più, il ricorso alla lingua madre mostra inevitabilmente la corda nei passaggi in clean, dove la musicalità dell’idioma e la sua comprensione sono ben più importanti rispetto a quanto non avvenga con il growl, nonostante la rimarchevole prestazione del bravo Konstantin Tsygankov, in alternanza al più corrosivo incedere del suo contraltare Alexander Yakovlev .
Per il resto, morbidi assoli chitarristici ed un’atmosfera complessivamente avvolgente rendono На пути к забвению un buonissimo disco che, purtroppo, anche a causa delle suddette caratteristiche, potrebbe faticare non poco nel trovare sbocchi importanti al di fuori dei territori dell ex-URSS.
L’operato degli Abyssphere, in particolare nella persona di un valido compositore come il già citato Tsygankov, possiede un suo intrinseco valore che dovrebbe spingere gli appassionati di gothic doom a dare una possibilità a На пути к забвению, un album che consente di passare senz’altro un’ora abbondante in compagnia di musica moderatamente malinconica e di buona fruibilità.

Tracklist:
1. Двери
2. Прозрение
3. Один во тьме
4. Carthago Delenda Est
5. Сияние
6. Марафон
7. Пыль
8. К забвению
9. Вирус
10. Горизонт
11. Меридиан
12. Конец долгой ночи
13. У врат забвения
14. Only for the Weak (In Flames cover)
15. Чёрный океан 2.0
16. Солнце 2.0

Line-up:
Alexander Mikhailov – Guitars, Songwriting (track 8)
Konstantin Tsygankov – Vocals (clean), Guitars, Keyboards, Bass, Songwriting
Alexander Yakovlev – Vocals (harsh), Programming, Lyrics
Evgeniy Nosov – Drums

ABYSSPHERE – Facebook

Lying Figures – The Abstract Escape

The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.

Primo full length per questa band francese che ha mosso i sui primi passi alla fine dello scorso decennio e che, oggi, dà finalmente un seguito consistente agli accenni di ottimo death doom fornito con un demo ed un ep rilasciati qualche anno fa.

The Abstract Escape si rivela infatti un’opera di notevole spessore, anche perché il gruppo di Nancy spicca per un approccio alla materia leggermente diverso, senza tralasciare di immettere nelle proprie composizioni passaggi riconducibili al gothic più depressivo, sfumatura quest’ultima che ben si sposa a tematiche legate a disagi psichici ed esistenziali.
Dei Lying Figures colpisce la capacità di toccare notevoli vette evocative subito dopo averne preparato il terreno con passaggi più rarefatti e solo apparentemente interlocutori, il tutto in qualche modo aderendo all’andamento schizofrenico di una mente malata che prova, invano, a riemergere dagli abissi nella quale è sprofondata.
In circa 50 minuti la creatura fondata dai due chitarristi Mehdi Rouyer e Matthieu Burgaud offre questi otto brani di ottima fattura, dimostrando la padronanza tipica di chi si è preso tutto il tempo necessario (come non sempre avviene) prima di imbarcarsi in un’avventura tutt’altro che scontata come il primo passo su lunga distanza: anche grazie a questo The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
La voce di Thibault Robardey interpreta tutto ciò con la giusta enfasi e, anche se magari certi passaggi possono risultare un po’ forzati, l’effetto desiderato viene raggiunto ampiamente: tutto ciò contribuisce a rendere diversi brani delle opalescenti e dolorose perle, il cui afflato melodico è sempre in primo piano e capace di illuminare il disco con improvvise aperture.
Tormented Soul e There was a hole here, it’s gone now sono due trace magnifiche per intensità, aderendo alle caratteristiche appena descritte, ma sono di poco superiori, probabilmente solo per gusto personale, al resto di una tracklist che vede anche la disperata Monologue of a sick brain, la gothicheggiante e più ritmata Remove the black e la conclusiva Zero, all’insegna invece di un sound più rallentato, quali altri punti di spicco di un disco bellissimo.
The Abstract Escape, come molte altre opere simili, va lavorato con pazienza perché non entra nelle corde dell’ascoltatore con particolare agio, ma quando ciò avviene rilascia quelle sensazioni che ogni amante del doom che si rispetti ricerca con doverosa e tenace pazienza.

Tracklist:
1. Hospital of 1000 deaths
2. Tormented souls
3. Monologue of a sick brain
4. The Mirror
5. There was a hole here, it’s gone now
6. My Special place
7. Remove the black
8. Zero

Line-up:
Thibault Robardey – vocals
Matthieu Burgaud – guitars
Mehdi Rouyer – guitars
Frédéric Simon – bass
Charles Pierron – drums

LYING FIGURES – Facebook

Red Moon Architect – Return of the Black Butterflies

Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte dei Red Moon Archiect, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del funeral death doom melodico.

Se può essere inutile rimarcare come la Finlandia sia, per distacco, la patria delle sonorità più oscure e melanconiche, non lo è affatto continuare ad esaltare la qualità che le diverse band provenienti dalla terra dei mille laghi, alle prese con la materia funeral death doom, offrono ad ogni uscita.

In questo caso il lavoro preso in esame è il terzo dei Red Moon Architect, nati nel 2011 come progetto solista del talentuoso Saku Moilanen e poi trasformatisi nel tempo in una band a tutti gli effetti: Concealed Silence (2012), infatti, vedeva accreditato il solo musicista di Koivolua con l’ausilio di diversi ospiti, tra i quali la sola vocalist Anni Viljanen è rimasta a costituire il tratto d’unione tra quel lavoro e quelli successivi della band, ovviamente assieme al suo mastermind.
Se Fail, uscito nel 2015, consolidava il valore e lo status dei Red Moon Architect, questo nuovo Return of the Black Butterflies ha tutte le carte i regola per innalzare ulteriormente il livello della band finlandese e portarla a riempire un certo vuoto lasciato dai Draconian, dopo la svolta verso sonorità più morbide attuata da questi ultimi nell’ultimo decennio.
Certo, rispetto alla band svedese i nostri si spingono con più frequenza verso lidi prossimi al funeral, ma il connubio tra la voce femminile della Viljanen ed il growl del nuovo arrivato Ville Rutanen riporta automaticamente in quell’ambito, avendo in comune lo stesso senso drammatico ed evocativo che contraddistingueva le prime opere della creatura di Johan Ericsson.
Saku Moilanen si conferma compositore di grande spessore, offrendo una cinquantina di minuti di sonorità plumbee ma intrise di melodie dolenti che, come da copione, assumono sembianze drammatiche in coincidenza con il growl per poi aprirsi malinconicamente con l’entrata in scena della voce femminile.
Questo fa capire che non c’è da aspettarsi proprio nulla di nuovo ma, paradossalmente, tale aspetto si rivela la pietra angolare sul quale i Red Moon Architect erigono il loro magnifico monumento al dolore che, comunque, non assume mai un aspetto monocorde perché, pur tra gli scostamenti ridotti consentiti dal genere, il funeral opprimente esibito in maniera magistrale in End of Days è, per esempio, ben diverso sia dal gothic di Tormented sia dall’atmospheric doom di NDE.
Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte della band finlandese, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del genere.

Tracklist:
1. The Haunt
2. Tormented
3. Return of the Black Butterflies
4. Journey
5. End of Days
6. NDE

Line up:
Saku Moilanen – Schlagzeug & Keyboard
Ville Rutanen – Gesang
Matias Moilanen – Gitarre
Anni Viljanen – Gesang
Jukka Jauhiainen – Bass

RED MOON ARCHITECT – Facebook

My Silent Wake – Damnatio Memoriae

Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.

Non essendoci stata l’occasione di parlare di Damnatio Memoriae, ottavo album in studio degli inglesi My Silent Wake, all’epoca della sua uscita nel 2015, ne approfittiamo per farlo brevemente grazie alla riedizione in vinile appena licenziata dalla Minotauro Records.

La band fondata da Ian Arkley nel 2005 è una tra le più prolifiche in assoluto tra quelle dedite al death doom, genere dal quale hanno anche derogato più volte, andando ad esplorare lidi acustici o ambient, così come è avvenuto, del resto, nella loro recente release Invitation To Imperfection.
Damnatio Memoriae resta, quindi, in ordine temporale, l’ultima testimonianza del genere principalmente trattato con buoni risultati dai My Silent Wake; rispetto ai lavori del passato, l’album esibisce partiture più robuste e diversi brani nei quali, specie nella parte iniziale, il sound appare decisamente pesante e meno votato alla ricerca di melodie malinconiche e dolenti: quando ciò avviene, ne scaturisce una traccia magnifica come And So It Comes To An End, ma non è che le cose vadano male neppure allorché la spinta propulsiva pare giungere dai primi Paradise Lost e Anathema (con The Innocent a lambire gli suoni che furono di The Silent Enigma).
Ottima anche la lunga The Empty Unknown, che mostra coordinate più canonicamente doom, mentre si vira nuovamente su un gothic piuttosto andante con Chaos Enfolds Me, traccia che chiudeva la prima stesura del disco e che, invece, nella nuova, è seguita dalla riproposizione di And So It Comes To An End, Now It Destroys e Of Fury arricchite dalle tastiere di Simon Bibby: i brani in questione non cambiano volto più di tanto ma, specialmente gli ultimi due, vengono gradevolmente ammorbiditi in questa versione.
Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.

Tracklist:
1. Of Fury
2. Highwire
3. Now it Destroys
4. Black Oil
5. And so it Comes to an End
6. The Innocent
7. The Empty Unknown
8. Chaos Enfolds Me
Bonus tracks on 2017 release:
9. And so it Comes to an End (with keys)
10. Of Fury (with keys)
11. Now it Destroys (with keys)

Line up:
Ian Arkley – vocals and guitar
Addam Westlake – bass
Gareth Arlett – drums
Mike Hitchen – live rhythm guitar

Guests:
Simon Bibby – keys
Greg Chandler – additional keys, vocals
Martin Bowes – synth

MY SILENT WAKE – Facebook

Graveyard Of Souls – Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado

Il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il genere con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre convince meno il tentativo di rendere il sound più catchy nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic.

Degli spagnoli Graveyard Of Souls ci eravamo già occupati qualche anno fa, in occasione del loro primo full length Shadows Of Lifes.

Autori di un buon gothic death doom, all’epoca i nostri non erano apparsi in grado di elevarsi oltre un livello medio, comunque apprezzabile, e non è che l’impressione vada a modificarsi più di tanto con questo nuovo Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado, album che arriva dopo altre due opere su lunga distanza, Infinitum Nihil e Todos los caminos llevan a ninguna parte.
L’interpretazione del genere da parte di Raul e Angel non lascia spazio a particolari critiche né dal punto di vista esecutivo né da quello della produzione (anche se quest’ultimo aspetto è senz’altro migliorabile), perché in questo genere li ritengo elementi marginali rispetto al potenziale emotivo di un’opera: il problema è che, in buona sostanza, vengono meno quei guizzi capaci di rendere identificabile il sound.
Va detto, ad onore dei Graveyard Of Souls, che alcuni brani si dimostrano senz’altro all’altezza della situazione, specie quando questi possiedono un maggiore respiro atmosferico: non mancano così spunti melodici di buona fattura, come nelle buone Entre fragmentos de locura, Cementerio de ilusiones e Al atardecer, che contribuiscono a mantenere l’album al di sopra della linea di galleggiamento senza però che l’attenzione dell’ascoltatore venga catturata con la necessaria continuità.
Sicuramente il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il death doom con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre le fasi contraddistinte dal tentativo di rendere il sound più catchy, nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic, non convincono anche per l’apparente discrasia stilistica che si manifesta in alcuni momenti dell’album (piuttosto superfluo, per esempio, lo strumentale Across the Cygnus Loop).
Come per l’album d’esordio, non resta così che derubricare l’operato dei Graveyard Of Souls ad un’interpretazione gradevolmente retrò di queste sonorità, senza però che lo scorrere del tempo abbia portato all’auspicato salto di qualità.

Tracklist:
1. Todo se desvanece lentamente
2. Entre fragmentos de locura
3. Beyond the Black Rainbow
4. Cementerio de ilusiones
5. As Lightday Yields (Lake of Tears cover)
6. Al atardecer
7. Across the Cygnus Loop
8. Kristallnacht

Line-up:
Angel Chicote: Music & Lyrics
Raúl Weaver: Vocals

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

Distressful Project – Fucked Up Songs

Il sound, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo.

Fucked Up Songs, nonostante risulti quale secondo full length di questo duo russo, è in realtà una nuova versione del precedente Neverending Pain, del quale ricalca fedelmente la scaletta mantenendone in comune persino la copertina.

Inoltre, per quanto le tracce siano state oggetto di una revisione, il materiale ivi contenuto è stato composto quasi dieci anni fa, quindi è difficile stabilire quanto possa essere indicativo delle inclinazioni attuali della band.
Il sound, comunque, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo, visto che la canzone migliore del lotto è per distacco la conclusiva Blindness, che non a caso è quella che più di altre affonda con più decisione le radici nel doom più estremo, con il suo incedere rallentato sorretto da evocative tastiere e da un bellissimo lavoro chitarristico.
Sullo stesso filone si va a collocare anche At Eternity’s Gate, altra ottima traccia in cui l’ottimo growl ne ammanta di oscurità le trame dolenti meglio di quanto non avvenga con le clean vocals.
Il resto dell’album viaggia invece su coordinate più canonicamente gothic, rievocando a tratti qualcosa dei primi Evereve, ma con una vena drammatica ed un enfasi vocale di molto inferiore, offrendo comunque canzoni pregevoli come Skotodini, Soulless e Paranoia.
Pur non risultando un’opera imprescindibile, Fucked Up Songs (non un gran titolo, peraltro, meglio quello precedente) mostra a tratti la buona qualità compositiva del duo composto da Alextos e Yanis e, in considerazione di quanto detto in fase introduttiva riguardo al periodo di composizione dell’album, non è escluso che un eventuale prossimo lavoro possa mostrare un volto diverso o comunque più definito dei Distressful Project.

Tracklist:
1….
2.Tristia
3.Skotodini
4.At Eternity’s Gate
5.The Curse
6.Volition
7.Twilight
8.Soulless
9.Paranoia
10.Blindness

Line-up:
Alextos – Vocals, Bass, Programming
Yanis – Vocals, Guitars, Keyboards, Programming

Tethra – Like Crows For The Earth

Like Crows For The Earth è, un album magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore

Sono passati quattro anni dall’ottimo full length Drown In The Sea Of Life ed oggi ritroviamo i Tethra alle prese con un nuovo album intitolato Like Crows For The Earth.

Come spesso accade a troppe band, il vocalist Clode, unico membro originale rimasto, nel frattempo ha dovuto rivoluzionare la line-up approdando ad una formazione a cinque che, rispetto al passato, si avvale dell’apporto di due chitarristi.
Troviamo così, ad affiancare il musicista novarese, Luca Mellana e Gabriele Monti alle sei corde, Salvatore Duca al basso e Lorenzo Giudici alla batteria, a comporre un organico che, a giudicare dall’esito finale, si rivela del tutto all’altezza della situazione, con l’auspicio che ciò possa garantire a lungo termine una certa stabilità.
Come per il suo predecessore la produzione è stata affidata alle mani esperte di Mat Stancioiu, mentre anche il mastering, eseguito da parte dell’eminenza grigia del doom Greg Chandler (Esoteric), e l’artwork, curato da Marco Castagnetto, sono indicatori netti della volontà di non trascurare il benché minimo particolare, in modo da consegnare al pubblico un prodotto impeccabile sotto tutti gli aspetti.
L’obiettivo viene ampiamente raggiunto in virtù di un scrittura varia, che porta i Tethra a spaziare tra le diverse anime del doom, partendo dal gothic, passando a quello di matrice più classica per giungere, infine, a quello dai toni dolenti ed animato da pulsioni death: il tutto viene sviluppato con la massima consapevolezza e maturità, riuscendo nella non facile impresa di mantenere un’impronta ed un’identità precisa, nonostante la tracklist sia composta da una serie di brani dotati ciascuno della propria peculiarità.
L’album si apre con la breve intro acustica Resilience che prepara il terreno a Transcending Thanatos, episodio già sufficientemente indicativo di una maggiore propensione gotica: in particolare lo splendido e trascinante refrain ha riesumato nella mia memoria di vecchio appassionato i misconosciuti olandesi Whispering Gallery, autori di tre oscuri gioelli di death doom melodico all’inizio del secolo.
Prelude to Sadness, altro strumentale, introduce Springtime Melancholy, canzone che, pur restando nei canoni del doom tradizionale, mostra una volta di più una maggiore propensione melodica che trova sfogo nell’ottimo assolo conclusivo di Luca Mellana.
E’ il sitar ad aprire Deserted, traccia che, nonostante l’incipit di tutt’altro tenore, si rivela il brano più trascinante ed immediato del lotto, in virtù di un riffing micidiale, un chorus di grande presa ed un break centrale contrassegnato da un altro azzeccato assolo: insomma, qui si trovano tutti gli ingredienti necessari per imprimere la traccia nella memoria, mantenendo intatta la profondità del genere proposto.
L’interludio Subterranean mette in mostra le doti vocali di Clode, che se già prima era lecito considerare un vocalist di indubbio valore, con questo lavoro innalza ulteriormente il proprio livello, spiccando per versatilità e spaziando da tonalità estreme (growl con qualche sconfinamento nello screaming) a profonde ed evocative clean vocals che non possono che rimandare a quelle di Fernando Ribeiro, uno dei modelli di riferimento per chiunque si cimenti in questo genere musicale.
Subito dopo si palesa il momento in cui l’album trova la sua ideale sublimazione con un brano magnifico come The Groundfeeder, che si può considerare idealmente il manifesto musicale dei nuovi Tethra, unendo alla perfezione le diverse anime del sound ed andando a lambire, in certi passaggi strumentali, l’emozionalità dei migliori The Foreshadowing.
Entropy è l’ultimo dei frammenti acustici, preparatorio al trittico finale aperto dalle belle melodie chitarristiche di Synchronicity Of Life And Decay, traccia che si sviluppa poi in maniera piuttosto ritmata e chiusa ancora una volta da un assolo brillante che riporta, infine, al punto di partenza, mentre Earthless spinge ancor più sul versante gothic grazie a linee melodiche irresistibili che si alternano a passaggi più rarefatti, esaltati da una prestazione superlative di Clode dietro al microfono: ancora un brano magnifico per intensità e attrattività.
A chiudere il lavoro ci pensa la title track, ultima delle gemme offerte da un album di qualità a tratti sorprendente, il cui suggello non può che essere il brano più malinconico ed oscuro del lotto, esempio magistrale di come il doom possa offrire quel turbinio di sensazioni che ad altri generi non sempre è concesso fare.
Like Crows For The Earth è, semplicemente, un disco magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore, grazie all’approdo ad una forma capace di veicolare in maniera più diretta ed efficace quei toni dolenti e malinconici che sono la componente imprescindibile del genere.

Tracklist:
1.Resilience (intro)
2.Transcending Thanatos
3.Prelude To Sadness
4.Springtime Melancholy
5.Deserted
6.Subterranean
7.The Groundfeeder
8.Entropy
9.Synchronicity Of Life And Decay
10.Earthless
11.Like Crows For The Earth

Line up:
Clode Tethra – Vocals
Luca Mellana – Guitars
Gabriele Monti – Guitars
Salvatore Duca – Bass
Lorenzo Giudici – Drums

TETHRA – Facebook

Et Moriemur – Ex Nihilo in Nihilum

Ristampa in vinile, a cura della Minotauro Records, di questo splendido album dei cechi Et Moriemur, risalente al 2014.

Con il loro secondo album, uscito nel 2014, i cechi Et Moriemur si sono dimostrati una tra le più interessanti realtà europee in ambito gothic-death doom; la riedizione dell’opera in vinile, curata dalla storica label italiana Minotauro Records, ci fornisce l’occasione per riproporre la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes.

Sea Of Trees, traccia inaugurale di Ex Nihilo in Nihilum, mostra subito di che (buona) pasta sono fatti i nostri, trattandosi di un brano che si avvale di un refrain piuttosto orecchiabile e che, per certi versi, potrebbe rivelarsi fuorviante in quanto il resto del disco, pur restando sempre piuttosto godibile, risulta senz’altro meno immediato.
La band praghese si abbevera a fonti comuni a chiunque si cimenti in questo genere, quindi My Dying Bride e Saturnus sono i due riferimenti principali che, però, gli Et Moriemur non scimmiottano bensì utilizzano quale punto di partenza per innestarvi la loro vena decadente, poetica e fornita della sufficiente dose di personalità.
Dai maestri danesi vengono attinti, oltre alle struggenti melodie chitarristiche, anche e soprattutto i passaggi recitati poggiati su base acustica o pianistica, mentre l’influsso della band di Stainthorpe risiede in particolare nell’attitudine romanticamente accorata, che prevale su ciò che, da altri, viene espresso tramite sonorità gonfie di dolore e disperazione.
Ex Nihilo in Nihilum non perde mai, quindi, la sua forte connotazione melodica ed è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, sintomo questo di un’indubbia profondità compositiva, ben sorretta peraltro dal lavoro eccellente dei singoli.
Oltre alla magnifica Liebeslied, sono soprattutto i due brani più lunghi del lotto, Nihil e Black Mountain, che forniscono la reale misura del valore della band ceca, brava ad introdurre diversi cambi di passo e di umore in grado di rendere avvincenti anche tracce come queste di durata consistente, pur sempre muovendosi nell’ambito di un gothic-death plumbeo e dai ritmi pacati.
Una prova eccellente questa degli Et Moriemur, band che possiede, a mio avviso, ulteriori margini di miglioramento: in particolare, un graduale affrancamento dai propri modelli stilistici, potrebbe portarli in un futuro prossimo a livelli molto vicini ai vertici del genere; già così, comunque, possiamo parlare a buon titolo di una realtà consolidata e di assoluto rilievo.

Tracklist:
1. Sea of Trees
2. Dissolving
3. Norwegian Mist
4. Liebeslied
5. Angst
6. Nihil
7. Le Choix
8. Black Mountain
9. Below

Line-up:
Zdeněk Nevělík – Vocals
Aleš Vilingr – Guitars
Honza Vaněk – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums

ET MORIEMUR – Facebook

Ordog – The Grand Wall

The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere.

I finlandesi Ordog sono una band già abbastanza longeva e capace di pubblicare, nel 2011, un magnifico disco come Remorse, autentico monumento al funeral doom.

Sembra passato molto più tempo da allora, forse anche perché la band di Tornio ha dato seguito a quel lavoro con una prova ben più opaca nel 2014 (Trail for the Broken).
In effetti è difficile pensare di passare, senza subire contraccolpi, da una proposta basata su un sound granitico e rallentato all’inverosimile ad un gothic senz’altro più orecchiabile ma fondamentalmente inoffensivo, anche per le caratteristiche stesse della band che vede un vocalist perfettamente a suo agio con il growl ma piuttosto zoppicante quando so trova alle prese con le clean vocals.
Il nuovo The Grand Wall non riporta ai fasti di Remorse, il cui feeling unico pare non essere definitivamente più nelle corde degli Ordog, ma dimostra un raddrizzamento della barra verso una direzione stilistica più confacente alla band.
L’album, infatti offre una buona serie di brani in cui il substrato gothic è molto ben accompagnato da una robusta componente death doom, e il ritorno, seppure parziale, ad una materia che calza a pennello al gruppo finnico fa il resto, fornendo così un risultato del tutto soddisfacente.
Proprio una traccia che maggiormente riporta alla componente death, come In the Looming Bitterness, mostra una certa  appaiono le più peculiarità, laddove, ad un avvio che lascia poco spazio alla melodia per offrire libero sfogo ad una certa veemenza, segue un addolcimento del sound con l’apparizione, a tratti, anche di quell’hammond che fu in grado di fare la differenza in un brano epocale come la title track di Remorse.
The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, con i picchi rinvenibili in brani melodici e malinconici come Open the Doors to Red e The Perfect Cut, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere ma, d’altro canto, per riuscirci appieno è necessario utilizzare quale termine di paragone Trail for the Broken e non sicuramente Remorse o ancor più Life Is Too Short for Learning to Live.
Del resto, quella degli Ordog e stata un’evoluzione stilistica naturale e simile a quella di molte altre band del settore: è possibile che chi ama il funeral nelle sue forme più esasperate possa non esserne del tutto convinto, ma alla fine si tratta solo di valutare l’operato in base a quanto prodotto nel presente, lasciando per quanto possibile da parte il passato.

Tracklist:
1. Open the Doors to Red
2. Sundered
3. In the Looming Bitterness
4. The Perfect Cut
5. Wings in Water
6. The Grand Wall

Line-up:
Valtteri Isometsä – Guitars
Aleksi Martikainen – Vocals (lead)
Jussi Harju – Keyboards
Opie – Bass, Vocals (backing)
Tapio Hautalampi – Drums

ORDOG – Facebook

Trees Of Eternity – Hour Of The Nightingale

Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Occuparsi di un disco come questo, ben sapendo tutto ciò che accaduto prima della sua uscita, rende dannatamente difficile mantenere il giusto distacco, fondamentale per evitare che il coinvolgimento emotivo finisca per deformare sensazioni ed impressioni.
Quindi proverò a parlare, almeno a livello descrittivo, di Hour Of The Nightingale come se fosse il “normale” disco d’esordio di una “normale” band.

I Trees Of Eternity nascono come progetto parallelo di Juha Raivio, chitarrista e compositore principale degli immensi Swallow The Sun, che ha chiamato a sé, oltre al suo vecchio compagno di band Kai Hahto alla batteria, la splendida vocalist sudafricana Aleah Stanbridge ed i fratelli Fredrik e Mattias Norrman, noti soprattutto per esser stati a lungo due travi portanti dei Katatonia.
Da una simile configurazione non poteva che venirne fuori una band dedita ad un sound oscuro ma, ovviamente, rispetto al robusto death doom melodico dei Swallow The Sun, viene esplorato il lato più intimista e soffuso, favorito dal timbro vocale di Aleah, delicato, a tratti quasi un sussurro lontano anni luce da gorgheggi o tentazioni operistiche e, forse anche per questo, del tutto adeguato alle intenzioni di Raivio.
Hour Of The Nightingale si rivela, fondamentalmente, uno scrigno di emozioni dal primo all’ultimo minuto, e non potevano esserci dubbi al riguardo, perché il musicista finnico ha dimostrato in tutti questi anni d’essere un compositore dotato di una sensibilità fuori dal comune, capace con il suo inconfondibile tocco chitarristico di indurre alla commozione gli innumerevoli fan della sua band principale.
Nei Trees Of Eternity, ovviamente, le coordinate sono ben diverse: la chitarra tesse sempre melodie struggenti, ma il tutto viene asservito alla voce carezzevole della Stanbridge piuttosto che a quella ben più ruvida di Kotamaki, e l’andamento dell’album procede di conseguenza, per oltre un’ora di poesia e bellezza che si fanno talvolta tangibili, quasi fisiche.
Dieci gemme musicali si susseguono senza che una pesante cappa di malinconia cessi di aleggiare sulle note prodotte da un gruppo in grado di offrire, a chi adora queste sonorità, un’esperienza unica per coinvolgimento emotivo …

Oh, al diavolo! Come si fa a continuare a parlare di questo disco senza tenere conto che Aleah non è più tra noi da quasi sei mesi? Come si può evitare d’esser trascinati in un gorgo di tristezza e disperazione nell’ascoltare le struggenti trame musicali e le laceranti e profetiche liriche che lei stessa ha scritto?
A partire da My Requiem, brano che apre l’album, dove Aleah canta “Too late you’re calling out my name /
To raise me up out of my grave / Alive in memory I’ll stay” fino ad arrivare alla strofa conclusiva di Gallows Bird (“As the last ray of hope is lost / fight and resistance / Nothing remains to hold / me to this existence”), non viene mai meno un costante groppo alla gola, che costringe ad un impari battaglia con la propria sensibilità per provare a ricacciare indietro le lacrime.
Quest’ultima, lunghissima traccia, che arriva dopo lo splendore acustico di Sinking Ships, ha davvero il sapore del commiato, con le sue atmosfere drammatiche nella fase iniziale, che riportano il sound al doom più dolente: la chitarra tesse melodie di incommensurabile bellezza mentre Aleah ci dona il privilegio di ascoltarla per l’ultima volta regalandoci, dopo l’intervento di un Nick Holmes mai così cupo, un’ultima parte in cui prevale, invece, un rabbrividente senso di pace e di consapevolezza.
Hour Of The Nightingale sarebbe stato lo stesso un disco stupendo, ma non si può negare che gli eventi nefasti precedenti l’uscita abbiano moltiplicato all’ennesima potenza un impatto emotivo già di suo oltre la norma.
Però, ripensandoci, l’idea di parlare di Aleah al presente non è stata affatto sbagliata: voglio credere che il suo spirito sia sempre accanto al suo compagno di vita Juha, aiutandolo a superare la sua perdita fornendogli l’ispirazione per elargirci altre impagabili emozioni.
E, in fondo, è proprio grazie all’immortalità conferita dall’arte che Aleah Stanbridge occuperà per sempre un posto di rilievo anche nel nostro cuore di semplici appassionati ed umili cronisti di tanta bellezza: Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Tracklist:
1.My Requiem
2.Eye Of Night
3.Condemned To Silence (feat. Mick Moss)
4.A Million Tears
5.Hour Of The Nightingale
6.The Passage
7.Broken Mirror
8.Black Ocean
9.Sinking Ships
10.Gallows Bird (feat. Nick Holmes)

Line-up:
Aleah Stanbridge – Vocals, Lyrics, Songwriting
Juha Raivio – Guitars, Songwriting
Kai Hahto – Drums
Fredrik Norrman – Guitars
Mattias Norrman – Bass

TREES OF ETERNITY – Facebook

Abysmal Grief – Reveal Nothing…

Una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.

Sono già passati vent’anni da quando, in qualche anfratto di Genova, qualcuno decideva di mettere in musica la rappresentazione della morte, rendendo la materia doom un qualcosa di profondamente liturgico e sviscerando tutto quanto sia connesso con il momento del trapasso, senza lasciare da parte, però, una sottile vena di humor nero.

Gli Abysmal Grief sarebbero diventati in seguito i veri sacerdoti dell’horror/occult metal tricolore nel nuovo millennio, acquisendo uno status di culto riconosciuto anche fuori dai confini, in virtù di un sound peculiare che unisce il gothic alla Fields of the Nephilim alle ritmiche cadenzate del doom, con la decisiva immissione di quella gustosa componente horror che in Italia non ha eguali grazie a nomi quali Death SS e Antonius Rex, tra gli altri.
La ricorrenza viene così festeggiata con la pubblicazione (il 2 novembre …) di un box a forma di bara, contenente il cd Reveal Nothing… e la cassetta Mors Te Audit, contenente il secondo demo realizzato all’epoca in versione limitata di 13 copie.
L’operazione si rivela quanto mai esaustiva, in quanto il cd contiene di fatto tutti i brani incisi dagli Abysmal Grief che non sono mai stati inseriti in un loro full length: troviamo, quindi, una spettacolare sequela di tracce riconducibili alla miriade di singoli e split album che i nostri non hanno mai lesinato in tutti questi anni.
Un vero godimento per chi ama questa particolare forma musicale ed è irresistibilmente attratto da quanto, normalmente, nelle persone comuni provoca terrore o repulsione; e, in fondo, il trucco sta tutto qui: giocare con la morte per esorcizzarne il naturale timore e in qualche modo rendere più accettabile il suo incombere.
Detto questo, non resta che rendere onore a questa band facendo proprio questo prezioso prodotto che, oltre all’originale confezione, consente di godere dell’ascolto di una serie di brani magnifici, a partire dall’inedito Cursed Be The Rite, perfettamente in linea con la produzione recente, dai ritmi più incalzanti e meno doom nella sua impronta, una differenza che si coglie peraltro, in maniera evidente, ascoltando subito dopo Exsequia Occulta, alla superba traccia risalente al 2000, passando per il climax orrorifico corrispondente a Creatures Fron The Grave (tratta dallo split del 2004 con Tony Tears).
Insomma, una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.

Tracklist:
1. Cursed Be The Rite (Bonus Track – recorded in 2016)
2. Exsequia Occulta (2000 – Exsequia Occulta MCD)
3. Sepulchre Of Misfotune(2000 – Exsequia Occulta MCD)
4. Hearse (2002 – Hearse 7”EP)
5. Borgo Pass (2002 – Hearse 7”EP)
6. Creatures From The Grave (2004 – Split W/Tony Tears 7”EP)
7. Brides Of The Goat (2009 – Split W/Denial Of God 7”EP)
8. The Samhain Feast (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
9. Grimorium Verum (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
10. Celebrate What They Fear (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)
11. Chains Of Death (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)

Tape
1. Intro
2. Open Sepulchre
3. Ignis Fatuus
4. Hearse
5. Grimorium Verum

Line-up:
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Even Vast – Hear Me Out

La riedizione dell’album d’esordio può rivelarsi utile nel tornare a far parlare degli Even Vast, ma rischia d’essere fuorviante per chi intendesse seguirli nella loro nuova avventura.

La Sleaszy Rider è un’etichetta piuttosto attiva che, oltre a segnalarsi per un buon roster, è specializzata anche nella riedizione di album usciti diverso tempo fa; così, assieme all’utile e gradita rilucidatura  di Sleep Of The Angels dei Rotting Christ, troviamo anche la riproposizione di Hear Me Out, disco d’esordio degli Even Vast.

Tale scelta, relativa ad una lavoro che non può essere certo paragonabile per valore a quello della band di Sakis, trova una sua motivazione con la recente firma della band italiana con l’etichetta ellenica, ma non ne fotografa la massima espressione artistica e dubito che possa anche rappresentare un’utile introduzione a quello che verrà, alla luce dei preannunciati cambiamenti stilistici e di line-up.
Hear Me Out uscì originariamente nel 1999, andando a collocarsi all’interno del filone del gothic doom con voce femminile che, in quel decennio, visse i momenti di massimo splendore: lo stile della band aostana era molto più asciutto e privo di fronzoli atmosferici rispetto a modelli quali Theatre Of Tragedy o Within Temptation, ma quell’esordio si rivelava ancora acerbo, soprattutto nell’interpretazione vocale di una Antonietta Scilipoti che, nei dischi successivi, sarebbe decisamente progredita contribuendo fattivamente alla riuscita di un buon lavoro come Outsleeping (2003).
Dopo qualche anno di silenzio, gli Even Vast diedero infine alle stampe nel 2007 Teach Me How to Bleed, album che mostrava una svolta elettronica sulla falsariga di quanto fecero a inizio millennio i già citati Theatre Of Tragedy con Musique, per poi non dare più segnali di attività fino a quest’anno.
Tornando a Hear Me Out, non mancavano brani di buona fattura (su tutti Foolish Game) ma la sensazione, oggi, è quella di ascoltare una band che si trovava ancora in una fase embrionale nella quale alcuni ottimi spunti risultavano frammisti a diverse imperfezioni, e le bonus track inserite nella riedizione, trattandosi di tracce registrate dal vivo, non fanno altro che accentuare gli aspetti negativi.
Della line-up originale è rimasto oggi il solo Luca Martello, nel frattempo trasferitosi in Inghilterra dove ha ridato vita alla band che dovrebbe aver virato decisamente verso lo sludge doom, abbandonando le pulsioni gotiche del decennio scorso.
Anche per questo, la riedizione dell’album d’esordio può rivelarsi utile nel tornare a far parlare degli Even Vast, ma rischia d’essere fuorviante per chi intendesse seguirli nella loro nuova avventura.

Tracklist:
1. Never Hear Me
2. Once Again
3. The One You Wish
4. Foolish Game
5. Memories
6. Energy
7. Believe Me
8. RU
9. The One You Wish (live) * bonus track
10. Once Again (live) * bonus track
11. Over (live) * bonus track

Line-up:
Antonietta Scilipoti – vocals
Luca Martello – guitars
Diego Maniscalco – bass
Paolo Baltaro – drums, keyboards

EVEN VAST – Facebook

My Dying Bride – Feel The Misery

“Feel the Misery” ricolloca i My Dying Bride al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.

L’ennesimo album (il tredicesimo, per l’esattezza) di una delle band che, in un modo o nell’altro, ti ha accompagnato per oltre un ventennio lungo i tortuosi sentieri dell’esistenza, è sempre un appuntamento al quale si giunge tra speranze e timori equamente suddivisi.

Dover parlare dei My Dying Bride cercando di restare obiettivo diventa così per me piuttosto difficile: sembra ieri quando, con una video camera in super 8, riprendevo le prime espressioni e la beata inconsapevolezza di mia figlia appena nata, con quel capolavoro di “The Angel And The Dak River” come sottofondo musicale.
Dopo vent’anni e tanta vita e troppa strada alle spalle, ritrovare Stainthorpe e soci nuovamente all’altezza dei fasti raggiunti in quei tempi è stata una gioia che va ben oltre il mero aspetto musicale.
Non posso negare che, ormai da circa un decennio, i My Dying Bride erano diventati più un caro ricordo di gioventù piuttosto che una band capace di accompagnarmi quotidianamente: altri erano i nomi che in ambito doom li avevano soppiantati nelle mie preferenze, riuscendo a comunicarmi le dolorose emozioni che i maestri di Halifax parevano non essere più in grado di riproporre con la stessa forza evocativa.
Feel The Misery ricolloca i nostri al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.
Sarà probabilmente un caso, ma il ritrovamento di una configurazione più o meno simile a quella dei tempi d’oro pare aver concorso non poco alla riuscita dell’album: il ritorno in formazione di uno dei fondatori, il chitarrista Calvin Robertshaw, unito al consolidamento di uno Shaun Macgowan splendido protagonista con il suo violino (e sorta di reincarnazione del Martin Powell che fu …), contribuiscono a ricreare quelle atmosfere che rimandano direttamente all’ultimo decennio del secolo scorso, quando la gotica decadenza dei MDB era un marchio di fabbrica magnifico ed indelebile.
And My Father Left Forever, posta in apertura e in tutti i sensi traccia apripista dell’album, fuga subito ogni residua perplessità relativa all’ispirazione dei nostri: l’incedere dolente e melanconico del sound e il tipico timbro vocale di Aaron equivalgono ad una sorta di agognato ritorno a casa dopo una prolungata assenza, al riappropriarsi di un qualcosa che si è sempre sentito proprio ed oggi tirato a lucido dopo essere stato ricoperto per diverso tempo da un velo di polvere.
La differenza, in Feel The Misery, la fa la ritrovata capacità dei My Dying Bride (già parzialmente esibita in “A Map of All Our Failures”) di proporre un lotto di brani relativamente fruibili, pur nel consueto ambito plumbeo.
Il vocalist alterna la sua consueta, ma unica, voce sofferente ad un growl sempre convincente, ergendosi a protagonista nel contesto di un lavoro comunque d’insieme, nel quale ogni musicista pare davvero offrire il meglio di sé senza il bisogno di dover strafare.
Se l’opener è un brano magnifico, non si può che dire altrettanto della successiva To Shiver in Empty Halls grazie ad una linea melodica portante di grande impatto, mentre A Cold New Curse e Feel the Misery appaiono quasi complementari nel loro incedere coinvolgente ma, invero, piuttosto simile, specie nelle parti iniziali.
La seconda metà dell’album è, a mio avviso, ancora superiore a quella che l’ha preceduta: A Thorn of Wisdom è una traccia emozionante, atmosferica e melodica che non può lasciare indifferenti, I Celebrate Your Skin cambia volto in più frangenti, mantenendo quale tratto comune un’esasperante ed inebriante lentezza; I Almost Loved You equivale alla perla “For My Fallen Angel” (da “Like Gods Of The Sun”), con Stainthorpe ed il violino di Macgowan ad edificare muri di lacrime su un toccante tappeto pianistico, mentre Within a Sleeping Forest non è solo l’unica traccia che valica i dieci minuti di durata ma costituisce davvero la chiusura di un cerchio, con il suo forte ed ispirato richiamo alle sonorità dei primi seminali album dei My Dying Bride.
Sinceramente, fatico a smettere di ascoltare Feel The Misery, pur essendo consapevole che per un’altra ora lo smarrimento e lo sgomento di un’anima tormentata saranno la mia sola compagnia.
Ma gli appassionati di doom questo chiedono, nient’altro, e farsi avvolgere nuovamente dal velo della sposa morente sarà un piacere esclusivo riservato a questi fortunati …

Tracklist:
1. And My Father Left Forever
2. To Shiver in Empty Halls
3. A Cold New Curse
4. Feel the Misery
5. A Thorn of Wisdom
6. I Celebrate Your Skin
7. I Almost Loved You
8. Within a Sleeping Forest

Line-up:
Calvin Robertshaw – Guitars
Andrew Craighan – Guitars
Aaron Stainthorpe – Vocals
Lena Abé – Bass
Shaun Macgowan – Keyboards, Violin

MY DYING BRIDE – Facebook

Orphans Of Dusk – Revenant

“Revenant”, pur nella sua veste di Ep, è già un lavoro del tutto appagante e di livello superiore alla media, ma è solleticante pensare che la band sia concretamente in grado di riprodurre la stessa qualità in una prova su lunga distanza.

Pochi giorni fa avevo benevolmente tirato le orecchie ai Luna, nella persona dell’unico musicista coinvolto, in quanto l’ultimo full length si mostrava eccessivamente derivativo, benché questo sia un aspetto, almeno in ambito doom, al quale normalmente attribuisco un peso del tutto relativo.

Gli Orphans Of Dusk, in tal senso, rappresentano un certo elemento di discontinuità in quanto, pur attingendo anch’essi in maniera signifcativa all’imprimatur di una band specifica, riescono a farlo fornendo al loro sound quell’impronta personale che nell’esempio appena citato latitava quasi del tutto.
Il duo oceanico, formato dal neozelandese James Quested agli strumenti e dall’australiano Chris G. alla voce, offre un’interpretazione efficace ed elegante del gothic doom omaggiando a più riprese i monumentali Type 0 Negative nella loro veste più oscura, ma senza dimenticare di inasprire il sound di venature più robuste, oltre che tradizionalmente devote al genere come nel drammatico incipit strumentale di August Price, grazie anche ad un buonissimo growl che va ad alternarsi con sapienza ad una timbrica profonda che richiama non poco quella dell’indimenticabile Peter Steele.
Revenant consta di quattro brani per una mezz’ora scarsa di musica in grado di riconciliare gli appassionati con il genere, finalmente, senza dover ricorrere a particolari artifici. È fuor di dubbio che Beneath the Cover of Night, ad esempio, paia a tratti un riuscitissimo outtake di “October Rust”, ma sono le doti compositive degli Orphans Of Dusk a fare la differenza, facendoli balzare agevolmente da un ipotetico status di opachi scopiazzatori a quello di continuatori legittimi ed ispirati del sound di una delle band più influenti degli ultimi vent’anni.
Sarà difficile non restare incantati dalle atmosfere soffuse, melodiche e pervase da un non comune gusto malinconico che gli Orphans Of Dusk riversano nelle proprie composizioni: Revenant, pur nella sua veste di Ep, è già un lavoro del tutto appagante e di livello superiore alla media, ma è solleticante pensare che la band sia concretamente in grado di riprodurre la stessa qualità in una prova su lunga distanza; intanto il duo oceanico è entrato nell’orbita di un’importante label di settore come la Solitude e questo è già un bel segnale.

Tracklist:
1. August Price
2. Starless
3. Nibelheim
4. Beneath the Cover of Night

Line-up:
Chris G. – Vocals
James Quested – Guitars, Synths & Bass
Dan Nahum – Session Drums

ORPHANS OF DUSK – Facebook

Cadaveria – Silence

Al quinto album di una discografia che negli anni non ha accusato alcuna caduta di tono, Cadaveria con la sua band continua a regalare opere oscure con disarmante naturalezza.

Torna la regina del metal estremo, Cadaveria, con la sua band omonima.

Ormai lontani gli esordi con gli Opera IX, la vocalist dal 2002, anno dell’esordio (“The Shadow’s Madame”) con il progetto a suo nome, continua imperterrita a sfornare opere di metallo estremo dalle sfuriate black e fascino gotico di assoluta qualità, ed il nuovo parto dal titolo Silence non tradisce le attese, confermando la band biellese come una delle realtà più floride del panorama nazionale nonché una tra le più conosciute anche fuori dai patri confini.
Al quinto full-length di una discografia che negli anni non ha accusato alcuna caduta di tono, il gruppo continua a regalare opere oscure con disarmante naturalezza, ormai modello per qualsiasi giovane band si avvicini al genere, capitanata dalla regina nera sempre in piena forma.
Silence offre quanto di meglio la band poteva donare ai propri fan, rivelandosi un album sempre in bilico tra gotiche atmosfere, cavalcate death/black e sfuriate thrash, il tutto sostenuto da emozionanti ed oscuri passaggi, nei quali cala la violenza ma nel contempo l’aria si fa gelida e i brividi fanno tremare corpi e menti, tale è il clima orrorifico che si respira tra i solchi di queste nuove undici canzoni.
Cadaveria è sempre qui, tra un growl da strega malefica ed ambigue parti nelle quali le nenie terrorizzano ancora di più: spettacolare nella sua teatralità, rende questo viaggio nel mondo oscuro un incubo dal quale, però, non ci si vuole svegliare, ammaliati, affascinati, ipnotizzati come in un incantesimo da tanto malefico rituale.
I musicisti che accompagnano la singer, formano come sempre un team ultravincente, con la sezione ritmica composta da Killer Bob al basso e Marcelo Santos (ovvero Flegias dei Necrodeath) alla batteria, perfetti dove le ritmiche accelerano vertiginosamente, e la coppia d’asce Frank Booth e Dick Laurent i quali, ispiratissimi, sono protagonisti di una prova spettacolare colmando di solos melodici e riffoni thrash il sound dell’album.
Ottimamente prodotto, Silence regala perle di metallo oscuro come Carnival Of Doom e Free Spirit, e va in crescendo con il passare dei minuti, regalando il meglio di se nelle ultime tre tracce, Almost Ghostly, Loneliness e Strangled Idols, in un’orgia di suoni estremi ed atmosfere dark davvero da antologia.
Un album che conferma il talento di Cadaveria e dei suoi degni compari, tornati per riprendere il trono tra le band del genere ed il ruolo di guida ed influenza per qualsiasi realtà nostrana che voglia approcciarsi al metal più oscuro.

Tracklist:
1. Velo (The Other Side of Hate)
2. Carnival of Doom
3. Free Spirit
4. The Soul That Doesn’t Sleep
5. Existence
6. Out Loud
7. Death, Again
8. Exercise1
9. Almost Ghostly
10. Loneliness
11. Strangled Idols

Line-up:
Cadaveria – Vocals
Killer Bob – Bass
Marcelo Santos – Drums
Frank Booth – Guitars
Dick Laurent – Guitars

CADAVERIA – Facebook

Helevorn – Compassion Forlorn

“Compassion Forlorn” non solo conferma la maturità compositiva acquisita dagli Helevorn ma, addirittura, li colloca ai vertici del movimento gothic-doom.

Gli Helevorn sono una delle band più longeve di una scena doom spagnola che, se non proprio dal punto di vista numerico, si dimostra assolutamente all’altezza da quello qualitativo, grazie anche ai vari Evadne, In Loving Memory ed ai redivivi Autumnal.

Dopo l’album d’esordio “Fragments”, risalente a circa un decennio fa, il successivo “Forthcoming Displeasures” aveva consolidato lo status del gruppo maiorchino, capace di esprimersi su livelli prossimi a quelli degli esponenti di spicco del genere; questo nuovo lavoro non solo conferma la maturità compositiva acquisita dagli Helevorn ma, addirittura, li colloca ai vertici del movimento gothic-doom, in virtù di un’espressione stilistica pressoché perfetta, che trova in Compassion Forlorn la sua sublimazione, mantenendo un equilibrio stupefacente tra le dolenti atmosfere del doom e le aperture melodiche del gothic. Se l’iniziale The Inner Crumble ricalca in qualche modo la struttura del brano portante del precedente lavoro, “From Our Glorious Days”, con la successiva Burden Me il sound si fa più ritmato salvo poi ritagliarsi momenti intrisi di cupa malinconia, volti a spezzare una trama musicale solo apparentemente di immediata fruizione. Looters è guidata da un pianoforte che si alterna a passaggi chitarristici formidabili, che vengono replicati all’ennesima potenza in Unified, brano capolavoro dell’album grazie alla sua strabordante vena malinconica esaltalta dalle melodie strappalacrime messe sul piatto dal bravissimo Samuel Morales. Con Delusive Eyes gli Helevorn si cimentano sul terreno dei nostri The Foreshadowing con il brano che, fosse dipeso da me, avrei scelto per essere accompagnato da un video anziché la già citata Burden Me. Infatti, il potenziale commerciale di questa traccia è smisurato, con un chorus indimenticabile ed una prestazione vocale maiuscola da parte di Josep Brunet, un cantante che oggi, nell’ipotetica classifica di rendimento congiunta tra il growl e le clean vocals, ha ben pochi rivali nel settore. I Am The Blame è un altro episodio di gothic piuttosto catchy, bello anche se leggermente inferiore per intensità al resto della tracklist, ma l’arrivo di Reason Dies Last riporta ampiamente sul proscenio le atmosfere intrise di drammaticità che il doom impone, con la dolente litania chitarristica di Samuel a tratteggiare un brano con il quale gli Helevorn portano a spasso l’ascoltatore in tutte le possibili sfumature del genere, per un risultato nuovamente esaltante. Els Dies Tranquils tiene fede al titolo chiudendo l’album con le sue atmosfere più intimiste, prima con il recitato in catalano di Josep, poi con la sentita interpretazione della vocalist irlandese Lisa Cuthbert . Cinquanta minuti di grande musica che, dopo quei tre-quattro ascolti canonici, diverranno l’irrinunciabile colonna sonora della giornata per chi ama Swallow The Sun, Saturnus e Paradise Lost: accomunare oggi a queste band gli Helevorn non è una bestemmia né un azzardo, Compassion Forlorn ne è la splendida riprova.

Tracklist:
1. The Inner Crumble
2. Burden Me
3. Looters
4. Unified
5. Delusive Eyes
6. I Am to Blame
7. Reason Dies Last
8. Els Dies Tranquils

Line-up:
Xavi Gil – Drums, Percussion
Samuel Morales – Guitars (electric, lead & acoustic)
Josep Brunet – Vocals (lead)
Enrique Sierra – Keyboards
Sandro Vizcaíno – Guitars
Guillem Calderón – Bass

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Ordog – Trail For The Broken

Probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà apprezzabile quest’album, ma chi volesse capire da dove nasce la mia parziale delusione vada a riascoltarsi “Remorse”.

I finlandesi Ordog solo tre anni fa si erano rivelati con un disco straordinario come “Remorse”, nel quale fornivano un interpretazione del funeral doom del tutto personale, sia per i suoni prescelti sia per l’approccio decisamente naif alla materia.

Pertanto mi sono avvicinato speranzoso a questo nuovo Trail for the Broken, quarto full-length della loro discografia, ricevendone in cambio una parziale delusione.
Intendiamoci, il disco di per sé non è affatto disprezzabile e contiene, anzi, diversi episodi di ottima fattura; il fatto è, però, che delle sonorità plumbee e sofferte del suo predecessore non è rimasto quasi più nulla visto che quello che potremo ascoltare in questo frangente è un gothic-prog-doom dai tratti sempre piuttosto anticonvenzionali ma ben lontano dall’evocare le atmosfere malate o dal riprodurre gli spunti geniali del suo predecessore.
Se gli Ordog, finchè erano alle prese con il funeral sghembo di “Remorse”, riuscivano a sopperire ad alcune lacune di stampo esecutivo grazie alla loro particolare sensibilità compositiva, con l’approdo a sonorità più fruibili si spingono in territori nei quali non sempre si trovano a proprio agio, specie per l’uso di clean vocals non all’altezza che affossa in più parti il disco anche quando vengono espressi spunti strumentali di indubbio spessore.
La voce di Aleksi Martikainen è infatti troppo piatta e talvolta neppure sufficientemente intonata per fare presa su un pubblico più ampio, come si presume sia stato l’intento dei finnici con questo evidente salto stilistico, ed il virtuale accantonamento del più consono growl non si rivela una scelta azzeccata.
L’album vive così di sprazzi di buona musica nei quali l’abilità dei nostri nell’imbastire melodie struggenti non viene meno, il tutto però è caratterizzato da un’eccessiva discontinuità e, laddove si centra il bersaglio con due brani segnati da un bel lavoro di tastiera come Devoted to Loss e Enter The Void, oppure come con I Ceased to Dream, che si risolleva dopo un avvio poco incisivo grazie a un finale decisamente riuscito, bisogna fare i conti anche con un episodio invero sconcertante per la sua piattezza come Abandoned.
Ma forse io sono severo per troppo amore nei loro confronti e, probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà comunque apprezzabile quest’album che, come già detto, non sarebbe corretto liquidare come un qualcosa di negativo; se vogliamo tracciare un parallelismo, il loro percorso rassomiglia non poco, anche come esito, a quello dei Pantheist, partiti come i finnici da una base funeral-death doom, poi abiurata per approdare a sonorità più marcatamente gotiche e progressive.
Semplicemente, chi ne avesse voglia, vada a riascoltarsi la title track di “Remorse” quando, dopo tredici minuti di autentica agonia basati su passaggi pianistici minimali

ed un riff distorto all’inverosimile, il brano esplode in un delirio psichedelico degno dei migliori Bigelf: l’esperienza di questo ascolto varrà più di mille parole per spiegare in maniera chiara e netta chi erano gli Ordog nel 2011, una band in grado di raggiungere magari pochi intimi ma capace di regalare loro momenti indimenticabili, e quello che sono oggi, un gruppo che piacerà senz’altro a molte più persone senza riuscire probabilmente a lasciare una traccia tangibile nel cuore di alcuno.

Tracklist:
1. The Trail
2. Scythe
3. The Swarm of Abhorrence
4. Devoted to Loss
5. Enter the Void
6. I Ceased to Dream
7. Abandoned
8. The Crows of Towerpath

Line-up :
Valtteri Isometsä – Guitars, Drums, Vocals (backing)
Aleksi Martikainen – Vocals
Jussi Harju – Keyboards
Ilkka Kalliainen – Bass

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