Evangelist – Deus Vult

Album consigliato agli amanti del doom classico, Deus Vult porta avanti la tradizione dei maestri svedesi e chiudendo gli occhi vi sarà chiara la sensazione di essere al cospetto del saio di Messiah Marcolin.

Il cavaliere crociato in ginocchio su un tappeto di resti umani, stanco per le decine di battaglie rende grazia al signore, ancora vivo e pronto per portare la sua parola in terre ostili.

La colonna sonora che rende viva questa immagine non può che essere un potente ed epico esempio di doom metal classico e declamatorio, notevole nelle parti in cui la chitarra si erge a protagonista di solos ispirati, mattatrice di questo ultimo lavoro della misteriosa band chiamata Evangelist.
Poche informazioni provengono dal gruppo polacco, arrivato con Deus Vult al terzo full length in dieci anni di attività, un album classico ed estremamente evocativo in cui non mancano gemme doom di elevato spessore come Memento Homo Mori, Prophecy e la conclusiva Eremitus (Keeper Of The Grail).
Siamo nel doom metal ispirato da Candlemass e Atlantean Codex, potente e ben strutturato dal duo di Cracovia che rimane nell’ombra lasciando alla musica il compito di catturare i fans del genere.
Come accennato il ruolo della chitarra solista è preponderante nell’economia dei brani, ispirata ed emozionale quanto basta perché si possa credere che sanguini come la punta della spada conficcata nel cuore degli infedeli.
Album consigliato agli amanti del doom classico, Deus Vult porta avanti la tradizione dei maestri svedesi e chiudendo gli occhi vi sarà chiara la sensazione di essere al cospetto del saio di Messiah Marcolin.

Tracklist
1.God Wills It!
2.Memento Homo Mori
3.Heavenwards
4.Prophecy
5.The Passing
6.The Leper King
7.Eremitus (Keeper of the Grail)

EVANGELIST – Facebook

Flesh Temple – Fire, Promise…

Nel complesso questo ep deve essere valutato positivamente nella sua veste di prima uscita per i Flesh Temple: i tre brani sono piuttosto efficaci pur se non ancora in grado di lasciare un segno indelebile.

E’ dallo stato dell’Alberta che ci giunge questa nuova proposta all’insegna del death doom: ne è autore Eli Elliott, che fa tutto da solo in occasione di questa prima uscita del suo progetto Flesh Temple.

Il musicista canadese è attivo anche nel duo black metal Mausoleum e, in effetti, certe accelerazioni ritmiche che si ascoltano nel corso di Fire, Promise… sono riconducibili a questo retaggio; tutto ciò rende sicuramente interessante questa prima prova che appare più sbilanciata sul versante estremo del sound rispetto a quello più malinconico e dolente tipico del doom, anche se nella title track l’incedere si fa a tratti più riflessivo lasciando spazio ad apprezzabili passaggi di chitarra solista.
Nel complesso questo ep deve essere valutato positivamente nella sua veste di prima uscita per i Flesh Temple: i tre brani sono piuttosto efficaci pur se non ancora in grado di lasciare un segno indelebile, penalizzati anche da una produzione che in certi frangenti mette troppo in primo piano il suono della batteria finendo per lasciare sullo sfondo gli altri strumenti e la voce.
Comunque le basi poste da Elliott per questa sua nuova avventura appaiono piuttosto solide, per cui non resta che attenderne i futuri sviluppi.

Tracklist:
1.Conduit
2. Tears
3. Fire, Promise

Line-up:
Eli Elliott- All instruments

Amber Tears – When No Trails

When No Trails (Когда нет троп) non delude le aspettative con i suoi cinque brani intensi, emozionanti e rivestiti di quella patina pagan folk che rende sufficientemente peculiare la proposta degli Amber Tears

Dopo nove anni di silenzio tornano i russi Amber Tears (Янтарные Слезы), band che tra il 2006 ed il 2010 regalò agli appassionati di doom due splendidi lavori come Revelation Of Renounced e The Key To December.

When No Trails (Когда нет троп) non delude le aspettative con i suoi cinque brani intensi, emozionanti e rivestiti di quella patina pagan folk che rende sufficientemente peculiare la proposta della band proveniente dalla lontana Penza.
Rispetto agli esordi la line up è rimasta pressoché immutata, fatto salvo il ruolo di bassista che è sempre stato l’unico soggetto a cambiamenti, e questa coesione è percepibile all’interno di un lavoro non troppo lungo e che non mostra punti deboli di sorta.
Come sempre gli Amber Tears si esprimono o lingua madre, così come la grafica e il nome stesso della band e dell’album vengono esibiti in cirillico, ma come da convenzione e per comodità utilizziamo la traslitterazione in inglese, per cui dovendo menzionare i brani chiave di When No Trails non possiamo che citare le due perle intitolate Where I Stayed e Where There Is No Spring, tracce dalla melodie struggenti e solenni che spiccano rispetto ad una scaletta comunque di assoluto livello, nella quale solo Under The Stars Light non raggiunge l’eccellenza distaccandosi forse un po’ troppo dalle coordinate abituali del sound.
Il ritorno di questa ottima band è l’ennesima buona notizia di un 2019 che che sta regalando gioie una dopo l’altra agli appassionati del doom e si può scommettere che non sia affatto finita qui …

Tracklist:
1 Спой Ветер, Спой Ворон (Sing The Wind, Sing The Raven)
2 Где Я Остался (Where I Stayed)
3 В Вихре Прошлых Дней (In The Whilwind Of The Last Days)
4 Под Светом Звезд (Under The Stars LIght)
5 Там, Где Нет Весны (Where There Is No Spring)

Line-up:
Viktor Kulikov – Drums
Dmitry Schukin – Guitars (lead)
Alexey Rylyakin – Guitars (rhythm)
Anton Bandurin – Vocals
Evgeny Zorichev – Bass

Nibiru – Salbrox

Come e più dei lavori precedenti ci sono dei momenti di totalità (in italiano non esiste una parola adatta a descriverli), in cui la saturazione musicale è al massimo ed è così raffinata che si raggiunge qualcosa simile ad uno stato di coscienza alterato.

Torna il trio torinese Nibiru, fresco di contratto con l’etichetta inglese Ritual Productions.

I Nibiru non fanno musica nel senso tradizionale del termine, le loro produzioni sono rituali, tutte sono diverse una dall’altra, tutte possiedono un significato differente, come le loro esibizioni dal vivo. Se dobbiamo trovare dei riferimenti musicali, questi si possono rinvenire nello sludge estremo, nella psichedelia totale e in lunghe jams che sono fluidi più che canzoni. La loro carriera è una continua evoluzione, un guardare fissamente l’abisso, producendo lavori estremamente soggettivi, dove ognuno potrà dialogare con i propri angeli o demoni e con la sua vera natura che viene continuamente celata. Salbrox in linguaggio enochiano significa zolfo, e tutto il disco è incentrato sul processo alchemico del solve et coagula, dove l’alchimia è un mezzo ed una raffigurazione del processo che dobbiamo intraprendere noi stessi nell’abbandonare il nostro io per diventare qualcosa d’altro, in un continuo processo di nascita, morte, rigenerazione e rinascita. La musica di Salbrox si spinge ancora oltre i già estremi dischi precedenti, bisogna però considerare una per una le loro opere. In questo lavoro la produzione è ottima, il tutto è stato registrato in presa diretta al Music Lab Studio da Emiliano Pilloni, che riesce sempre a plasmare molto bene questa materia, e poi masterizzato da Brad Boatright all’Audiosiege. I Nibiru sono un gruppo antimoderno, perché la loro musica è rituale e tribale e ci riporta in un passato dove vive ancora la maggior parte delle nostre credenze più profonde, dove risiede il nostro vero significato. Questa non è arte per intrattenere ma è un’invocazione per spezzare le nostre catene, soprattutto mentali, e riprenderci la nostra capacità di mutare, divenendo consapevoli d’essere una continua rigenerazione e che questa vita è solo un passaggio, brutto o bello che sia. Salbrox conferma e fa ulteriormente avanzare un discorso musicale che non ha eguali in tutto il mondo. In particolare questo disco, sia con la musica che con i testi, punta l’attenzione sulla disarmonia e sul bilanciamento fra i vari piani dimensionali. Come e più dei lavori precedenti ci sono dei momenti di totalità ( in italiano non esiste una parola adatta a descriverli), in cui la saturazione musicale è al massimo ed è così raffinata che si raggiunge qualcosa simile ad uno stato di coscienza alterato. I testi in enochiano ed in italiano sono poi un’autentica meraviglia: moltissimi si atteggiano, i Nibiru no, e dovete sentire ciò che dicono: una delle loro svolte migliori è stato appunto affiancare l’italiano all’enochiano, per produrre un effetto unico nel sentire Ardath e la sua possessione nella nostra lingua. Dalla fluviale EHNB, vero e proprio manifesto di ciò che sono i Nibiru, e forse il loro migliore rituale fino ad ora, all’ultima RZIORN, è un qualcosa che come al solito segna, e questo Salbrox è davvero da studiare e da capire, come fosse un testo da esaminare. Forma musicale e spirituale unica, i Nibiru non sono per tutti né lo vogliono essere, e questo è un altro capolavoro. Ma è davvero difficile e abbastanza inutile parlare di questo disco, perché è un cammino da fare e alla fine dell’ascolto potreste non esserci più: l’unica cosa da dire, usando delle parole di Ardath, è che siamo soli, orrendamente soli, ma siamo anche luce. Tutto è complesso, difficile, distorto e forse chiaro, tutto sembra e non è al contempo. Nibiru.

Tracklist
SALBROX LP TRACK-LISTING
1. ENHB
2. EXARP
3. HCOMA
4. NANTA
5. BITOM

SALBROX CD & DL TRACK-LISTING
1. ENHB
2. EXARP
3. HCOMA
4. NANTA
5. ABALPT
6. BITOM
7. RZIONR

Line-up
Ardat – Guitars, Percussions and Vocals
Ri – Bass, Drones and Synthesizers
L.C. Chertan – Drums

NIBIRU – Facebook

Urza – The Omnipresence Of Loss

The Omnipresence Of Loss si rivela un lavoro senz’altro riuscito anche se, per le sue caratteristiche, la durata che supera di poco l’ora ne rende piuttosto impegnativo l’ascolto.

Di norma accogliamo sempre con grande soddisfazione l’apparizione di nuove band dedite al funeral death doom, tanto più poi se al primo full length l’etichetta che ne cura l’uscita è una garanzia come la Solitude.

I tedeschi Urza, come prevedibile, non deludono e si rendono protagonisti di un lavoro decisamente degno della fiducia a loro accordata dalla label russa.
La band berlinese, in effetti, sarebbe attiva già da alcuni anni ma come sempre la gestazione nel doom non è mai breve per definizione, per cui dopo il singolo Path Of Tombs, pubblicato lo scorso anno, arriva ora l’esordio su lunga distanza The Omnipresence Of Loss che, già nell’ultima parola del titolo, porta con sé qualche indicazione utile a inquadrare il sound visto che l’omonima band statunitense è senz’altro uno dei vari punti di riferimento per gli Urza.
Il sound offerto è aspro, dalle poche divagazioni melodiche ma comunque non troppo monolitico né rallentato, offrendo nei limiti delle coordinate del genere una certa varietà ritmica con il ricorso a qualche corrosiva accelerazione così come a più liquidi e rarefatti passaggi.
La già citata Path Of Tombs è decisamente la traccia guida dell’album grazie alla presenza di una linea melodica più definita rispetto al tetragono andamento degli altri quattro brani. D’altronde il background di gran parte degli esperti musicisti coinvolti nel progetto è soprattutto di matrice death (anche se il chitarrista Oliver Schreyer ha fatto parte della line up degli Ophis in occasione del full length d’esordio Stream Of Misery) e questo spiega in parte come il funeral degli Urza appaia più robusto e meno dolente rispetto a quanto siamo abituati ad ascoltare. The Omnipresence Of Loss si rivela un lavoro senz’altro riuscito anche se, per le sue caratteristiche, la durata che supera di poco l’ora ne rende piuttosto impegnativo l’ascolto.

Tracklist:
1 Lost In Decline
2 A History Of Ghosts
3 Path Of Tombs
4 From The Vaults To Extermination
5 Demystifying The Blackness

Line-up:
Marc Leclerc – Bass
Hannes – Drums
Oliver Schreyer – Guitar
Marcus – Guitars
Thomas – Vocals

URZA – Facebook

Red Moon Architect – Kuura

I Red Moon Architect assorbono e rielaborano il meglio della più importante scena funeral del pianeta, quella finnica, e regalano con Kuura un capolavoro destinato a segnare il genere per molto tempo. Da ascoltare più e più volte finché la brina non si scioglierà mescolandosi alle lacrime.

Nella maggior parte dei casi le band che avviano il proprio percorso artistico partendo da basi estreme tendono con il tempo ad aprirsi, sia pure in maniera minima, verso sonorità meno claustrofobiche e più fruibili.

Non che i Red Moon Architect fino ad oggi avessero proposto musica di facile ascolto, ma non c’è dubbio che il loro approdo al funeral doom più tetro e dolente costituisce parzialmente una sorpresa. Se in Return of the Black Butterflies, terzo full length di una discografia fatta di soli grandi album, la band di Saku Moilanen aveva trovato una sorta di mirabile equilibrio tra gothic, death e funeral doom, complice anche l’uso della voce della brava Anni Viljanen, in Kuura l’unica concessione al comparto vocale è il ricorso alle urla strazianti di Ville Rutanen che ben si addicono ad un sound che è pura e magistrale esibizione di sofferenza e disperazione.
La brina (kuura in finlandese, appunto) avvolge e rende impermeabile ad ogni impulso vitale un cuore che sta per arrendersi all’insostenibile pesantezza dell’essere, e gli ultimi ansiti vitali sono rappresentati dalle grida di chi utilizza le residue risorse a disposizione per comunicare al mondo l’orrore e la nausea che hanno avvelenato un’intera esistenza.
Se la prima parte è drammaticamente intensa e soffocante e la seconda è un più breve episodio di ambient rumoristica ed oscura, è nella terza e conclusiva traccia che il sound pare aprirsi ad un malinconico e commovente incedere, punteggiato da un minimale ma emozionante tocco pianistico.
Ovviamente i Red Moon Architect (che ricordiamo essere anche per 4/5 i musicisti che, con la maglia degli Aeonian Sorrow, hanno aiutato Gogo Melone a costruire un magnifico album come Into the Eternity a Moment We Are) non creano qualcosa di inedito ma assorbono e rielaborano il meglio della più importante scena funeral del pianeta, quella finnica, e regalano con Kuura un capolavoro destinato a segnare il genere per molto tempo.
Da ascoltare più e più volte finché la brina non si scioglierà mescolandosi alle lacrime.

Tracklist:
1. I
2. II
3. III

Line-up:
Saku Moilanen – Drums, Keyboards
Jukka Jauhiainen – Bass
Matias Moilanen – Guitars
Ville Rutanen – Vocals
Taneli Jämsä – Guitars

RED MOON ARCHITECT – Facebook

11 Paranoias – Asterismal

Lo stampo musicale degli 11 Paranoias è un magma musicale nel quale ci si perde anche grazie alle deflagrazioni sonore, il loro groove è potentissimo e cattura l’ascoltatore portandolo verso qualcosa di primordiale che ognuno ha dentro di noi.

Gli 11 Paranoias sono un gruppo inglese di sludge e doom che portano il caos dentro la nostra vita, attraverso canzoni che sono degli inni alla pesantezza e alla lisergia, una psichedelia rituale e malata, estremamente affascinante.

Attivi dal 2011, questi inglesi fanno musica allo scopo di aprire canali verso altri mondi e altre dimensioni attraverso rituali in musica molto potenti. Le coordinate musicali sono quelle dello sludge più spinto, con incursioni in territori metal e nella psichedelia più potente. Lo stampo musicale degli 11 Paranoias è un magma musicale nel quale ci si perde anche grazie alle deflagrazioni sonore, il loro groove è potentissimo e cattura l’ascoltatore portandolo verso qualcosa di primordiale che ognuno ha dentro di noi. Il combo britannico è un punto forte del catalogo della Ritual Productions, un’etichetta che fa musica come canale per andare a scoprire altre dimensioni, allontanandosi dalla realtà per conoscerne altre, o anche per farci capire che la nostra non è l’unica. Il disco è molto organico e va sentito nella sequenza della tracklist, per vivere molti momenti intensi e di astrazione totale. Gli 11 Paranoias sono uno dei pochi gruppi davvero rituali nella musica pesante moderna, un altro di questi sono i torinesi Nibiru, anche loro recentemente accasatisi presso la Ritual Productions con un disco di prossima uscita. Asterismal è la manifestazione fisica e concreta di qualcosa di etereo e altro, un discendere attraverso chitarre ribassate per poter spiccare il volo. Tutto ha un fine ben preciso nel loro suono e ogni elemento si fonda con perfezione alchemica agli altri, a partire dalla bellissima copertina dell’inglese Toby Ziegler. Asterismal è anche l’ultima tappa di una trilogia di album che porterà a qualcosa d’altro a breve.

Tracklist
1. Loss Portal
2. Bloodless Crush
3. Vitrified Galaxy
4. Prelude
5. Slow Moon
6. Quantitative Immortalities
7. Chamber of Stars
8. Acoustic Mirror

Line-up
Adam Richardson – bass/vocals
Mike Vest – guitar
Nathan Perrier – drums

11 PARANOIAS – Facebook

Ars Onirica – I: Cold

E’ solo con l’opportuno approfondimento del contenuto di I: Cold che si può cogliere appieno il valore di questa magnifica prima opera su lunga distanza degli Ars Onirica, altra band che si aggiunge ad una scena italiana contigua al doom che sembra trovare ultimamente grande slancio e nuovi protagonisti.

Dopo una fugace apparizione all’inizio del secolo con l’interessante demo Utopia: A Winternight’s Traveller, arriva finalmente il primo lavoro su lunga distanza degli Ars Onirica, progetto solista di Alessandro Sforza, motore anche degli ottimi Invernoir.

I: Cold è un’opera che coniuga in maniera magistrale gli insegnamenti del melodic black/doom scandinavo e di quello italiano, per il quale l’inevitabile punto di riferimento sono i Forgotten Tomb.
Se i richiami alla storica band piacentina sono a tratti abbastanza evidenti, va detto che il tutto avviene tramite una rielaborazione quanto mai fresca ed efficace in ogni sua parte, con il risultato di mettere sul piatto una serie di brani trascinanti ed intensi grazie alla dote, certo non comune, di rendere particolarmente fruibile un sound che comunque affonda le proprie radici in ambito estremo.
L’album, in effetti, non è per nulla monolitico o scontato nel suo snodarsi, perché il musicista romano non rinuncia all’inserimento di rallentamenti di matrice puramente doom, così come di passaggi più rarefatti o acustici che hanno il pregio di non spezzare mai la tensione.
Se, poi, la buona immediatezza dei brani può suggerire una relativa profondità del lavoro, in realtà i ripetuti ascolti non ne attenuano l’impatto e si rivelano, anzi, necessari per apprezzare i frequenti cambi di ritmo e di scenario.
E’ così quindi che canzoni come In Between e Dust si ergono a probabili cavalli di battaglia in sede live, grazie ad un impatto ritmico travolgente, mentre i due brani centrali La Nave e In Gloom esibiscono diverse sfaccettature stilistiche che vanno da richiami agli imprescindibili Katatonia fino a spingersi nei pressi di un post black a tratti sognante, ma sempre e comunque intriso di un consistente impatto emotivo; Cold… è, invece, un breve e suggestivo episodio ambient che risulta l’ideale introduzione della già citata e dirompente Dust.
Un discorso a parte merita la magnifica traccia conclusiva The Loss, quello che può essere definito a buon titolo il brano dai tratti più doom incluso nell’album: anche qui Sforza dimostra la propria dimestichezza con tutti i lati più oscuri del metal esibendo sonorità più malinconiche e dolenti.
Anche se a un ascolto distratto potrebbero spiccare nell’immediato i riferimenti alle band di spessore già citate, è solo con l’opportuno approfondimento del contenuto di I: Cold che si può cogliere appieno il valore di questa magnifica prima opera su lunga distanza degli Ars Onirica, altra band che si aggiunge ad una scena italiana contigua al doom che sembra trovare ultimamente grande slancio e nuovi protagonisti.

Tracklist:
1 Intro
2 In Between
3 La Nave
4 In Gloom
5 Cold… (Return To Nowhere)
6 Dust
7 The Loss

Line-up:
Alessandro Sforza

ARS ONIRICA – Facebook

Zaum – Divination

Incredibile come questo gruppo riesca a costruire meravigliosi paesaggi sonori senza le chitarre, che vengono sostituite da un’impalcatura sonora fuori dal comune.

La presunta era tecnologica nella quale stiamo vivendo è l’ultimo tratto di un percorso illuminato e positivista della storia umana, che dopo millenni e secoli di buio ha finalmente scelto la luce della scienza, della ragione e del progresso tecnologico.

Ma prima cosa era l’uomo? Cosa faceva, cosa credeva, quale era il suo rapporto con la natura e con le altre dimensioni? E’ tutto qui nel nuovo disco degli Zaum, un gruppo che rende la musica un’espressione che va ben oltre il suono, per arrivare ad aprirci il terzo occhio e permetterci di vedere oltre. Dell’immensa storia umana pre-antropocene è rimasto bene poco, ma qui si possono recuperare sensazioni e visioni che pensavamo perse. Doom, esplosioni sludge, suoni da epoche lontane, il tutto in tre pezzi di lunga durata per un gruppo che continua a stupire disco dopo disco. I canadesi Zaum stanno percorrendo un cammino musicale notevole e personale, facendo incontrare situazioni e codici musicali molto diversi fra loro. Se si dovesse indicare un’influenza si potrebbero citare gli Zu, soprattutto per l’andamento mai regolare delle canzoni, ma la poetica è diversa. Gli Zaum questa volta ci portano nell’antica Burma, dove la natura incontra le tenebre e dove antichi dei giacciono vicino agli uomini. La loro musica è un concetto avanzato di musica pesante, in cui Kyle Alexander McDonald alla voce e al basso, e Christopher Lewis alla batteria e percussioni, sono coadiuvati dalla splendida e misteriosa egiziano canadese Nawal Doucette, che è un grande valore aggiunto al tutto.
Incredibile come questo gruppo riesca a costruire meravigliosi paesaggi sonori senza le chitarre, che vengono sostituite da un’impalcatura sonora fuori dal comune. L’effetto è straniante, tutto è potente e visionario, Divination è il loro disco più compiuto e di alta qualità, non perchè gli altri non fossero buoni, ma questo ha qualcosa in più. Analizzando bene il suono degli Zaum, oltre ad una fortissima impronta di musica tribale, si può definire il tutto come psichedelia altra, sia per l’andamento della musica che per le visioni che provoca. Non è da tutti intraprendere un nuovo percorso sonoro interessante e d originale riuscendo a essere immediatamente riconoscibili dall’ascoltatore. Un disco che è un viaggio ma anche uno sguardo molto accurato su cosa sia davvero l’uomo.

Tracklist
1 Relic
2 Pantheon
3 Procession

Line-up
Kyle Alexander McDonald – vocals, bass, textures
Christopher Lewis – drums, percussion
Nawal Doucette – visual performance art, ambiance

ZAUM – Facebook

Ruins Of The Past – Alchemy Of Sorrow: Gold

Ruins Of The Past è un progetto solista del musicista berlinese Tobias Jäpel la cui genesi risale agli inizi del decennio, anche se la prima uscita risale a due anni fa con il full length omonimo a cui fa seguito questo nuovo ep.

Alchemy Of Sorrow: Gold è un lavoro che conferma la buona predisposizione del nostro alla costruzione di un melodic death doom di una certa efficacia in virtù di un buon lavoro chitarristico del tutto funzionale alla causa.
Personalmente prediligo l’operato di Tobias quando i ritmi si rallentano ed il sound si fa più malinconico, un po’ per gusto personale ma soprattutto perché consente di uscire dagli schemi più prevedibili per quanto gradevoli del melodic death.
Il musicista tedesco fa tutto da solo e piuttosto bene e anche il growl, pur non essendo il massimo, è comunque apprezzabile.
Quale brano emblematico del lavoro scegliamo Rust, quello che è non solo il più lungo ma anche quello in cui le varie sfumature del sound meglio si amalgamano senza pendere in modo deciso verso l’una o l’altra componente.
Molto bella anche la più breve title track, che chiude l’ep all’insegna di un melodic death doom a tratti struggente, e convincente come del resto un po’ tutte le tracce.
L’operato di Jäpel dimostra come, senza inventarsi nulla di nuovo, ma immettendo competenza, passione e la giusta dose di talento sia possibile offrire nel migliore dei modi queste sonorità, lasciando intravedere un potenziale anche superiore rispetto a quanto già espresso in Alchemy Of Sorrow: Gold.

Tracklist:
1.Prelude
2.Gold (Alchemy of Sorrow – Pt. I)
3.Rust (Alchemy of Sorrow – Pt. II)
4.The Bitter Chalice
5.Alchemy of Sorrow

Line-up:
Tobias Jäpel – All instruments, Vocals, Lyrics

RUINS OF THE PAST – Facebook

Bludy Gyres / Dayglo Mourning – Rope Enough for Two

Ottima iniziativa della label Black Doomba Records che con questo split in edizione limitata in vinile ci propone due realtà della scena doom metal underground statunitense, provenienti da Atlanta, i Dayglo Mourning e i Bludy Gyres.

Ottima iniziativa della label Black Doomba Records che con questo split in edizione limitata in vinile ci propone due realtà della scena doom metal underground statunitense, provenienti da Atlanta, i Dayglo Mourning e i Bludy Gyres.

Musica del destino di buon livello è quello che ci offrono i due gruppi in questione, più orientati verso sonorità stoner i primi e più classici i secondi.
I Dayglo Mourning sono un terzetto attivo da solo un anno ma con già un primo full length omonimo licenziato e su Rope Enough for Two presentano tre brani dal lento incedere doom e drogati da atmosfere stoner che hanno nella pesantissima Dark Ritual il miglior esempio.
Il loro approccio è pesantissimo, la voce evoca viaggi stordenti in terre desertiche dove tra miraggi provocati da sostanze illegali si muovono ispirazioni classiche ed influenze che vanno dagli Sleep agli Orange Goblin.
Anche per i concittadini Bludy Gyres c’è un full length all’attivo (Echoes from a Distant Scream) ma con qualche anno in più di attività: nel loro caso la proposta è quella di un solo brano lungo diciassette minuti: Behold! Your World Now Burns (Blunderbore Suite), una lunga litania sabbathiana, una jam doom che nasconde ispirazioni heavy rock tra le sue trame, rimanendo più legata al sound classico.
In sostanza un ottimo acquisto per gli amanti di questi prodotti ed un buon modo per conoscere due realtà di valore della scena doom statunitense.

Tracklist
Side A
1.Dayglo Mourning – Weedcreeper
2.Dayglo Mourning – Wizard in White
3.Dayglo Mourning – Dark Ritual

Side B
4.Bludy Gyres – Behold! Your World Now Burns (Blunderbore Suite)

Line-up
Bludy Gyres :
Tommy Stewart – Bass, Vocals
Dennis Reid – Drums
Chris Abbamonte – Guitars
Isidore Herman – Guitars

Dayglo Mourning :
Ray Miner – Drums
Joe Mills – Guitars, Vocals
Matt Rayborn – Vocals, Bass

BLUDY GYRES – Facebook

DAYGLO MOURNING – Facebook

Triste Terre – Grand œuvre

Interessante esordio di questo duo francese, capace di creare ambientazioni maestose, imponenti e ammantate da tristezza e nostalgia: un black avanguardistico intriso di suggestioni doom e funeral.

Varie suggestioni emana l’esordio dei Triste Terre, gruppo francese di recente costituzione, con tre EP all’attivo dal 2016: un avanguardistico black metal intriso di doom, aromi funeral, dissonanze e capacità di creare ambientazioni misteriose e maestose.

Naal, compositore delle musiche e dei testi, accompagnato da Varenne al contrabbasso e Lohengrin alla batteria, ci propone in quasi sessantacinque minuti musica molto interessante capace di costruire imponenti affreschi che potrebbero ricordare per alcuni aspetti il suono degli inglesi Lychgate. L’uso sapiente dell’organo apre scenari che trasportano chi ascolta in territori ricchi di pathos e orrore. La lunghezza dei brani, in media superiore ai dieci minuti, permette di addentrarsi in territori multidimensionali, dove la furia black (Corps Glorieux) si amalgama perfettamente con parti nostalgiche e ammantate di tristezza, che pervade comunque ogni nota dell’ opera. Ogni brano nel suo divenire nasconde idee, suoni che conquistano e ogni ascolto scopre partiture che non si erano evidenziate prima; lentamente il suono si apre a nuove sensazioni ed è come emergere da profondi abissi prima di scoprire la maestosità della proposta. Il suo essere avanguardistico non comporta momenti di stanca o di noia, anzi è una continua sfida lasciarsi sommergere da imponenti strutture che non mancano di potenza e di coesione e i brani sono perfettamente delineati nel loro saliscendi emozionale, sia quando guardano al suono black, sia quando le note si sciolgono in momenti atmosferici di gran pregio. La componente doom è ricca di tensione e talvolta deflagra in momenti death doom pregevoli; le armonie, alcune molto dolci, sono sempre coperte da una aura sinistra a creare ambientazioni malsane e non confortevoli (Luer émerite). Un debutto davvero interessante in una scena, quella francese, molto attiva e sempre con progetti atmosferici piuttosto personali.

Tracklist
1. Œuvre au noir
2. Corps glorieux
3. Nobles luminaires
4. Grand architecte
5. Lueur émérite
6. Tribut solennel

Line-up
Naâl – Bass, Guitars, Vocals, Songwriting, Lyrics
A.Varenne – Contrabass
Lohengrin – Drums

TRSITE TERRE – Facebook

Julinko – Nèktar

Nèktar è un disco che ha molte letture e regala tantissimi spunti diversi, è uno di quei dischi che porta l’ascoltatore lontano, in una terra dove le leggi fisiche non sono le stesse, un sogno che chiede di mutare forma per essere capito in fondo, un disco di musica bellissima e psichedelicamente altro.

Etereo, esoterico, dolce, lancinante e additivo viaggio messo in musica in maniera davvero originale per questo terzo disco della creatura sonica chiamata Julinko, il primo in forma di terzetto.

La dea musicale che ha dato avvio al tutto è Giulia Parin Zecchin, cantante, chitarrista e visionaria che fonda il gruppo a Praga nel 2015 e per varie tappe arriva a concepire questo piccolo capolavoro in una discografia già ottima. Il disco possiede un suono che fa nascere un universo tutto suo, lo stile musicale ingloba molte cose, molti rimandi e tante cose che rendono speciale il tutto. Per prima cosa spicca la voce di Giulia, che altro non è che una bellissima connessione ad un qualcosa di superiore, che si può capire solo se legato alla musica degli altri componenti del gruppo, Carlo Veneziano alla batteria e synth e Francesco Cescato al basso. Nèktar è un distillato di riverberi, psichedelia profonda e di un’oscurità che piano piano si prende tutto. C’è un senso di sogno, di visione alchemica che prepara a qualcosa d’altro, un non stare mai fermi in un mondo che vive nel buio e scava nei simboli. Come altri pochi esempi, Giulia è una sciamana che suona per far nascere o rinascere qualcosa di antico che è in noi dormiente. L’ispirazione del disco le è venuta in un momento di conoscenza indotta da agenti esterni ed interni che ha fatto diventare il Nèktar del titolo un percorso a ritroso dalla morte ad una nuova vita. Giulia taglia carni con la sua voce e la sua chitarra, che è come una spada oppiacea che uccide e fa godere, il resto del gruppo la segue benissimo, in un percorso che non può essere lineare, ma che è anzi scosceso e difficile come tutti i percorsi iniziatici. La musica è dolce e sinuosa, pericolosa e bellissima come il canto di una sirena. Musicalmente si segue una certa tradizione italiana fortemente underground che ha sempre dato ottimi frutti, quella di un certo tipo di psichedelia rumorista e lisergica di alta qualità. Nèktar è un disco che ha molte letture e regala tantissimi spunti diversi, è uno di quei lavori che porta l’ascoltatore lontano, in una terra dove le leggi fisiche non sono le stesse. Un sogno che chiede di mutare forma per essere capito in fondo, un disco di musica bellissima e psichedelicamente altro.

Tracklist
1.Into the Flowing Stream Plunge Me Deep
2.Deadly Romance
3.Venus’Throat
4.Leonard
5.The Hunt
6.Spirit
7.Servo
8.Death and Orpheus
9.The Woods, the Wheel
10.Nèktar

Line-up
Giulia Parin Zecchin – Guitar and Voice
Carlo Veneziano – Drums and Synth
Francesco Cescato – Bass

JULINKO – Facebook

Inner Shrine – Heroes

Heroes è un lavoro relativamente breve che gode di un’elegante levità nel suo scorrere dai tratti quasi cinematografici: l’operato del duo toscano si rivela in ogni frangente fresco ed evocativo, grazie anche ad una notevole scorrevolezza che compensa l’assenza, di fatto, di una forma canzone vera e propria.

Gli Inner Shrine sono stati una delle prime band che in Italia negli anni novanta fu in grado di accogliere le tendenze gothic doom provenienti dall’Inghilterra, per poi cercare di rielaborarle in senso operistico con l’utilizzo di più voci femminili.

In tal senso, pur nel suo apparire piuttosto acerbo al momento dell’uscita, Nocturnal Rhymes Entangled in Silence, datato 1997, è tutt’oggi da considerarsi uno degli album più importanti del genere pubblicato dalle nostre parti.
La carriera del gruppo fiorentino è stata un po’ frammentaria ma Luca Lotti, assieme al compagno della prima ora Luca Moretti, nel nuovo decennio ha ridato slancio all’attività degli Inner Shrine, prima con l’uscita di Mediceo (2010) e Pulsar (2013) e poi di questo Heroes.
Rispetto a vent’anni fa il sound ha perso oggi parte della sua asprezza per evolversi in un bellissimo metal atmosferico dalla natura per lo più strumentale dato che, salvo sporadici interventi vocali maschili, c’è un ricorso molto efficace a vocalizzi femminili di stampo operistico che in pratica assumono il ruolo di un vero e proprio strumento.
Le ariose aperture melodiche e le solenni partiture che delineano il lavoro, più che assomigliare ai modelli del gothic doom più noti, si avvicinano maggiormente ad entità particolari dello scorso secolo come gli Elend o Malleus, il tutto in una versione molto meno classica da un lato e meno intrisa di elementi dark esoterici dall’altro.
Heroes è un lavoro relativamente breve che gode di un’elegante levità nel suo scorrere dai tratti quasi cinematografici: l’operato del duo toscano si rivela in ogni frangente fresco ed evocativo, grazie anche ad una notevole scorrevolezza che compensa l’assenza, di fatto, di una forma canzone vera e propria, l’unico aspetto del lavoro che potrebbe lasciare perplesso qualcuno (penso ben pochi, però).
La rielaborazione posta in chiusura del brano Cum Gloria, originariamente presente in Mediceum, vale a rendere piuttosto evidente come il sound degli Inner Shrine si sia evoluto in qualcosa di più etereo ma pur sempre affascinante, perché l’apoteosi sinfonico atmosferica di tracce come Ode of Heroes o Gaugamela o l’incedere più dolente e malinconico di Doom e Sakura, producono un carico emotivo a tratti esaltante e così diretto che già al primo ascolto si viene avvolti in maniera inevitabile da questo magnifico lavoro, ennesima dimostrazione di come in Italia non si è secondi a nessuno quando si tratta di proporre sonorità che fondono la tradizione classica con il metal.

Tracklist:
1. Donum (Intro)
2. Akhai
3. Ode of Heroes
4. Doom
5. Firebringer
6. Guagamela
7. Sakura (Metal Version)
8. Cum Gloria (Extended Version)

Line-up:
Luca Liotti
Leonardo Moretti

INNER SHRINE – Facebook

Kraanston – Northern Influence

Si prova un gusto decisamente differente rispetto al gruppo sludge medio, anche se definire i Kraanston sludge è un arrotondare per difetto, dato che sono difficilmente classificabili, o meglio sono i Kraanston punto e basta.

Da Torino arrivano i Kraanston, al debutto sulla lunga distanza dopo l’ep Dead Eyes del 2016.

La loro proposta è uno sludge molto particolare, potente, distorto e che esplora anche altri sottogeneri del metal come thrash e groove metal, confezionando un disco non comune e molto interessante. Non poteva essere altrimenti con in formazione due musicisti come Fabio Insalaco degli Homicide Hagridden e Andrea Bonamigo dei The Selfish Cales, due gruppi musicali assai diversi, ma entrambi eccellenti nei loro campi. Northern Influence è un disco che non cerca mai la soluzione ovvia, ma lavora attraverso distorsioni e una imponente sezione ritmica per devastare tutto. La via anglosassone allo sludge ha influenzato molto i nostri, anche se la loro proposta è originale, dato che il suono dei Kraanston è metal nella sua essenza e nella sua manifestazione. Il disco regala belle sensazione a chi ama la musica pesante fatta con passione e concretezza, e saranno particolarmente soddisfatti gli amanti di sfuriate distorte e con la batteria incombente. Il gruppo è un trio molto ben assortito e capace di funzionare al meglio, esprimendosi in momenti più lenti o anche più veloci, sempre pesanti e potenti. Si prova un gusto decisamente differente rispetto alla band sludge media, anche se definire i Kraanston sludge è un arrotondare per difetto, dato che sono difficilmente classificabili, o meglio sono i Kraanston punto e basta. La formazione di questi musicisti è solida come i loro ascolti, tutto è eseguito al meglio, in perfetta comunione con la produzione. Non manca nemmeno la melodia declinata in maniera diversa, che contribuisce ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore verso questo magma sonoro. Northern Influence riserva anche parecchie sorprese, certi pezzi dopo vari minuti cambiano registro e sono la migliore testimonianza della bravura compositiva ed esecutiva di questo gruppo. Un disco in tutto e per tutto underground che meriterebbe molto e speriamo lo riceva, anche se lo scopo principale è quello di fare male, tanto male.

Tracklist
1.UVB-76
2.An Unknown Hero
3.Tunguska (free)
4.Planet 4
5.Noril’sk
6.Cargo Cult
7.Kraanston

Line-up
Fabio Insalaco – Guitar / Vocals
Andrea Bonamigo – Bass / Vocals
Stefano Moda – Drums

KRAANSTON – Facebook

Crowhurst – III

Un’opera che grida, un urlo disperato eppure bellissimo, un disco che piacerà a tanti, perché copre un grande arco della musica pesante e non solo.

Jay Gambit aka Crowhurst è un musicista e produttore che ha coperto e copre un’ampia gamma di generi musicali, e potrebbe essere definito a ragione un esploratore sonoro.

Ogni volta visita mondi diversi e in questo caso con III si addentra in territori noise e grunge, creando come sempre qualcosa di bellissimo. III è disperato e struggente, il grido di un animale sempre connesso e però morente, colpevole di aver ucciso il proprio ambiente di vita e quindi sè stesso. La razza umana è una contraddizione in termini che prima o poi sarebbe dovuta esplodere e questo disco rappresenta benissimo il poi. La voce di Jay è disperata e ruvida, passa attraverso i padiglioni auricolari per arrivare al cuore ed esplodere, grazie anche ad una musica che si dimena con lui. Questa è forse l’opera in apparenza meno estrema musicalmente, ma è una cascata di odio e disagio, sublimata da uno spirito musicale davvero superiore. Le uscite discografiche totali di Crowhurst sono oltre settantacinque, contando anche le varie collaborazioni, ma ogni volta è un’epifania. In questa nuova pubblicazione però si è superato andando a creare un ponte temporale tra il grunge e qualcosa di estremamente moderno, di vicino al noise e ad altre cose pur senza appartenere a nessun genere in particolare, andando ad usare i codici musicali più adatti per creare qualcosa di potente e ben definito, di musicalmente unico. III è un disco in cui lo spazio si restringe sempre di più, dove le distorsioni sono solchi sull’asfalto e sulla nostra faccia, anno dopo anno, morte dopo morte. Il disco è inoltre strutturato come la narrazione di un film, infatti Crowhurst ha ammesso di essere stato influenzato da The Natural Born Killers, dal quale trae la disperazione e la violenza. Insieme al film di Oliver Stone, Jay Gambit si ispira anche alla serie tv The Twilight Zone, di cui si serve per andare oltre, infatti l’ultima canzone prende il titolo da un episodio della serie. Un’opera che grida, un urlo disperato eppure bellissimo, un disco che piacerà a tanti, perché copre un grande arco della musica pesante e non solo. Prodotto da Kurt Ballou.

Tracklist
1.I Will Carry You To Hell
2.Self Portrait With Halo And Snake
3.The Drift
4.La Faim
5.Ghost Tropic
6.Five Characters In Search Of An Exi

CROWHURST – Facebook

Hex A.D. – Netherworld Triumphant

Netherworld Triumphant risulta quindi un ritorno altamente riuscito da parte della band norvegese, altra ottima band dalle sonorità vintage in arrivo da quel paradiso musicale che è la penisola scandinava, almeno per quanto riguarda le sonorità rock e metal.

Terzo full length per i rockers norvegesi Hex A.D., quartetto che fa delle sonorità vintage la sua prerogativa.

La band norvegese asseconda la tradizione scandinava per i suoni hard rock di matrice settantiana, li potenzia con mid tempo di ispirazione doom classica e li personalizza con atmosfere progressive, per un risultato che va oltre le aspettative, almeno per chi ancora non si era imbattuto nei suoi lavori.
Netherworld Triumphant è dunque un album che soddisferà non poco gli amanti del rock pesante di matrice classica, un mix perfetto di Deep Purple, Uriah Heep e primi King Crimson, votati alla musica del destino.
Himmelskare funge da intro prima che il gruppo capitanato dal vocalist e chitarrista Rick Hagan cominci a disegnare su uno spartito vintage tappeti di musica maggiormente progressiva, nelle due parti della title track che formano dieci minuti abbondanti di rock duro di ottima qualità.
L’uso dell’hammond conferisce quel tocco lordiano ai brani che risultano il punto di forza del sound firmato dagli Hex A.D., i quali continuano a macinare grande rock con il doom sabbathiano della pesantissima Warchild, brano potente ed evocativo perfetto per chi ama in egual misura Black Sabbath ed Uriah Heep.
Sette brani per cinquanta minuti calati alla perfezione in una musica che, se prende ispirazioni ed influenze dalle band storiche citate, si avvale di un buon songwriting che non lascia indifferenti.
La lunga Ladders To Fire chiude alla grande questo nuovo lavoro con i suoi tredici minuti di sunto compositivo, tra lenti passaggi doom, hard rock e slanci progressive.
Netherworld Triumphant risulta quindi un ritorno altamente riuscito da parte della band norvegese, altra ottima band dalle sonorità vintage in arrivo da quel paradiso musicale che è la penisola scandinava, almeno per quanto riguarda le sonorità rock e metal.

Tracklist
1. Himmelskare
2. Skeleton Key Skeleton Hand
3. Netherworld Triumphant pt. I
4. Netherworld Triumphant pt. II
5. WarChild
6. Boars On Spears
7. Ladders To Fire

Line-up
Rick Hagan – Vocal, guitar
Mags Johansen – Organ, mellotron, keyboard
‘Arry Gogstad – Bass
Matt Hagan – Drums

HEX A.D. – Facebook

Caustic Vomit – Festering Odes to Deformity

I Caustic Vomit, rispetto a molti dei validi interpreti del death doom più incompromissorio, mostrano spunti di varietà che ben si inseriscono all’interno di un contesto che, comunque, mette la melodia decisamente in secondo piano a favore dei risvolti più ruvidi del genere.

La Redefining Darkness Records, etichetta specializzata nella ricerca di realtà nascoste nei meandri più reconditi del sottosuolo musicale porta in superficie i russi Caustic Vomit i quali si rendono protagonisti di un demo d’esordio davvero notevole.

Il monicker scelto lascia pochi dubbi sul sound offerto che è un death doom primordiale soffocante, con il growl rantolante tipico delle forme più estreme del genere.
I tre brani si snodano mediamente per una decina di minuti ciascuno con il primo, Immured in Devouring Rot, che pare attingere maggiormente dalla scuola britannica dei primi anni novanta per gli accentuati rallentamenti nel finale, il secondo, Churning Bowel Tunnels, che risulta invece un esempio del più putrido death, ed il terzo, Once Coffined Malformities, che oscilla infine tra queste diverse pulsioni regalando anche intriganti parti di chitarra solista nel finale. I Caustic Vomit, rispetto a molti dei validi interpreti del death doom più incompromissorio, mostrano spunti di varietà che ben si inseriscono all’interno di un contesto che, comunque, mette la melodia decisamente in secondo piano a favore dei risvolti più ruvidi del genere.

Tracklist:
1. Intro / Immured in Devouring Rot
2. Churning Bowel Tunnels
3. Once Coffined Malformities

Line-up:
M. – Bass
L. – Drums, Lyrics
R. – Guitars
S. – Guitars, Vocals

0N0 – Cloaked Climax Concealed

Gli 0N0 sono una band che merita un approfondimento retrospettivo alla luce di quanto offerto in questa concisa ma interessante uscita.

Gli slovacchi 0N0 mi erano fino ad oggi sconosciuti nonostante la loro attività sia piuttosto consistente.

Questo 7″ arriva dopo due full length ed alcune altre uscite di minor minutaggio ed è una buona opportunità per fare la conoscenza di un gruppo che prova ad interpretare la materia death doom inserendovi massicce dosi di industrial, andando così a costruire due brevi quanto incisivi monoliti sonori in cui le due componenti confluiscono in maniera soddisfacente e abbastanza fluida.
Cloaked Climax Concealed non contiene memorabili aperture melodiche o un riffing cadenzato ed avvolgente, bensì offre dieci minuti di austera e gelida incomunicabilità resa al meglio da un buon operato strumentale e da una produzione che evita al tutto di apparire un un’inintelligibile coacervo di suoni.
Il primo brano The Crown Unknown è decisamente più urticante e squadrato mentre nel successivo Hidden In The Trees (Sail this Wrecked Ship) fanno capolino barlumi melodici nel finale, complice un diverso uso della voce rispetto al corrosivo growl offerto fino a quel momento.
Gli 0N0 sono una band che merita un approfondimento retrospettivo alla luce di quanto offerto in questa concisa ma interessante uscita.

Tracklist:
1. The Crown Unknown
2. Hidden In The Trees (Sail this Wrecked Ship)

Line-up:
S – Vocals
A – Guitars, Vocals
T – Guitars, Vocals, Programming

0N0 – Facebook

 

Red Beard Wall – The Fight Needs Us All

All’interno del panorama della musica pesante la loro miscela è unica e da ascoltare con attenzione, e c’è anche un’evoluzione sonora, con tanta abrasività ma anche tanta melodia da scoprire.

Torna il duo texano dei Red Beard Wall, dopo il debutto nel 2017 che li aveva mostrati come un gruppo nient’affatto comune.

Con questo nuovo capitolo la questione si inacidisce maggiormente, il suono diventa più ansiogeno e corrosivo rispetto al precedente lavoro, anche perché il mondo là fuori sta peggiorando notevolmente e velocemente. Il titolo è già assai esplicativo, The Fight Needs Us All, perché questa guerra mondiale fatta da una piccolissima percentuale di popolazione, quella ricca, contro la stragrande maggioranza, quella meno abbiente, ci coinvolge a tutti. Oltre ad una lettura politica si può leggere il titolo ed il disco anche come esortazione per l’eterna battaglia che si svolge dentro di noi. Il suono dei Red Beard Wall è molto particolare, è uno stoner sludge che ha in Aron Wall, cantante e chitarrista, la sua particolarità dato che con la sua voce e la sua chitarra è il perfetto contraltare alla batteria di George Trujillo. La voce è sia in growl molto acuto che in chiaro, una frequenza che muta con l’andare della narrazione musicale. La musica è molto particolare e ricca, nonostante gli strumenti siano solo due, chitarra e batteria. Con un impianto così minimale non è facile trovare un assetto originale, ma i Red Beard Wall ci sono ampiamente riusciti, proponendo uno stile particolare e soprattutto due album molto validi. Al primo ascolto di The Fight Need Us All potrebbe sembrare registrato con gli alti in eccesso, invece continuando ad ascoltarlo si capisce che bisogna cogliere in maniera più approfondita tutto l’insieme, che è un groove ribassato e molto potente, nella piena tradizione texana ma con grande innovazione. All’interno del panorama della musica pesante la loro miscela è unica e da ascoltare con attenzione, e c’è anche un’evoluzione sonora, con tanta abrasività ma anche tanta melodia da scoprire.

Tracklist
1.Come on Down
2.To My Queen
3.Ode to Green
4.Reverend
5.The Warming
6.Reign of Ignorance
7.Tell Me the Future of Existence
8.The Fight Needs Us All

Line-up
Aaron Wall – Vocals / Guitar
George Trujillo – Drums

RED BEARD WALL – Facebook