Dreams After Death – Embraced By The Light

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Il suo progetto Dreams After Death, alla resa dei conti, si va a collocare non lontano da coloro che hanno segnato, con la loro arte funerea, gli ultimi due decenni.
Qui, come già detto in altre occasioni, nulla si crea e nulla si distrugge, l’unico scopo è di tradurre in musica, in maniera onesta e sentita, la malinconia, la tristezza e il dolore che talvolta ci accompagnano nelle diverse fasi della nostra esistenza.
Tra le note di Embracing By The Light troviamo naturali riferimenti a tutti i numi tutelari di Andras, dai progenitori Thergothon agli altri totem del movimento finlandese come Colosseum, Skepticism e Shape Of Despair, passando dagli Ea, per il tappeto sonoro delineato dall’andamento dolente delle tastiere e dagli Worship, per la loro opprimente lentezza .
Il polistrumentista ungherese riesce nella non facile impresa di assimilare queste influenze e amalgamarle presentandole in una forma del tutto personale e senza apparire mai derivativo.
Se spesso le one-man band risentono di diversi sbalzi qualitativi a livello strumentale e compositivo, qui non c’è proprio nulla da eccepire : ogni strumento è suonato con la dovuta perizia, il growl, pur se usato con parsimonia, è sempre all’altezza della situazione e la produzione riesce a valorizzare degnamente il tutto.
Tra i sei brani, tutti di una lunghezza standard per il genere proposto, spicca in particolare il trittico iniziale : Genesis, che con le sue atmosfere a metà strada tra Ea e Comatose Vigil è l’ideale introduzione al senso di angoscia e disperazione che il musicista magiaro vuole rappresentare; Funeral, che fin dal titolo si presenta come il manifesto musicale di Andras, e Meeeting With The Ancestors, certamente il brano cardine del disco con i suoi 11 minuti intrisi d’intensa drammaticità e caratterizzati da azzeccate linee melodiche.
The Endless Time inizia a mostrare un altro aspetto dei Dreams After Death, ovvero quello ambient, decisamente efficace e mai fine a se stesso come spesso accade, mentre in From Time Immemorial Andras libera il suo probabile retaggio classico con alcuni passaggi che potrebbero apparire come una rilettura in versione doom delle composizioni di Bela Bartok.
L’album si chiude con il delicato e malinconico strumentale Outer Space lasciandoci l’impressione di aver scoperto un’artista che già ora merita un posto di rilievo in ambito funeral doom e che, in un futuro prossimo, potrebbe ambire a eguagliare se non superare i propri maestri.

Tracklist:
1. Genesis
2. Funeral
3. Meeting With The Ancestors
4. The Endless Time
5. From Time Immemorial
6. Outer Space

Line-up:
Andras Illes – vocals, all instruments

(EchO) – Devoid Of Illusions

Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Devoid Of Illusions è il miglior esordio discografico che mi sia capitato di ascoltare da diverso tempo a questa parte.

I bresciani (EchO) sono l’ennesima pietra preziosa che, con la consueta lungimiranza, la Solitude Productions (tramite la sub-label BadMoodman) lancia nella scena doom mondiale; anche se, in effetti, racchiuderli in maniera semplicistica all’interno del genere appare riduttivo.
Infatti i nostri, pur muovendosi chiaramente nell’ambito di competenza dell’etichetta con sede a Orel (Russia), riescono a fornire al loro sound una serie di sfumature e di influenze che spaziano dal gothic/doom più classico fino ad un progressive dalla tonalità darkeggianti.
Tale progetto riesce alla perfezione grazie alle innegabili capacità tecniche della band e a un vocalist come Antonio Cantarin in grado di passare con disinvoltura dal growl più catacombale a clean vocals evocative e prive di qualsiasi sbavatura.
In un quadro di questo genere la classica ciliegina sula torta è costituita da una produzione che valorizza al massimo le sonorità dell’album a cura di un autentico mostro sacro del doom metal, ovvero Greg Chandler, mastermind degli Esoteric.
In Devoid Of Illusions tutto funziona alla perfezione, ciascun brano possiede un’impronta che lo rende memorizzabile e distinguibile dagli altri, benché certamente non si stia parlando di musica di facile presa.
Del resto, proprio ciò che ad un primo impatto potrebbe costituire il punto debole del lavoro, ovvero l’eterogeneità stilistica che si manifesta anche all’interno delle singole tracce, in realtà finisce per rivelarsi il valore aggiunto dato che l’alternanza tra atmosfere apparentemente discordanti tra loro avviene magicamente in maniera del tutto naturale e spontanea.
Prendendo in esame alcune dei brani, The Coldest Land vive sull’avvicendamento tra arpeggi delicati prossimi ai Katatonia ed un’irresistibile melodia chitarristica contrassegnata da un growl impetuoso, mentre Omnivoid si caratterizza per un riff pesantissimo che improvvisamente si dissolve per lasciare spazio a sonorità prossime al depressive metal.
Disclaiming My Fault è un’altra delle tante perle dell’album, un brano che nasce con un’impronta prog alla Porcupine Tree che viene trasfigurata nel finale da un furioso death metal; Once Was A Man invece risalta come un’eccezione nel contesto dell’album poiché, se come la precedente traccia si muove inizialmente su territori contigui alla band di Steve Wilson, finisce per confluire in passaggi degni dei Cure di “Disintegration”; in sintesi : splendido !
Sounds From Out Of Space chiude alla grande il lavoro con la partecipazione dello stesso Greg Chandler che, con la sua voce e la sua chitarra, finisce inevitabilmente per “esoterizzare” il brano, ma questo non è certo un male, anzi …
Proprio il contrasto tra il cupo funeral doom introdotto dall’illustre ospite e le caratteristiche aperture post metal che, giunti alla fine dell’album, abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare, si erge a simbolo dell’intero lavoro e dimostra quanto il talento degli (EchO) renda naturale la convivenza tra sonorità apparentemente incompatibili.
Non c’è molto altro da aggiungere se non l’esortazione nei confronti di chi ama la buona musica (non solo il metal) affinché supporti questa magnifica realtà nostrana.
Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Tracklist:
1. Intro
2. Summoning the Crimson Soul .
3. Unforgiven March
4. The Coldest Land
5. Internal Morphosis
6. Omnivoid
7. Disclaiming My Faults
8. Once Was a Man
9. Sounds From Out of Space

Line-up:
Antonio Cantarin – Vocals
Mauro Ragnoli – Guitars
Simone Saccheri – Guitars
Simone Mutolo – Piano, Keyboards
Agostino Bellini – Bass
Paolo Copeta – Drums

In Loving Memory – Negation Of Life

Gli In Loving Memory ottengono il nostro plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Gli In Loving Memory costituiscono, assieme a Helevorn, Evadne ed Autumnal, la massima espressione in ambito death-doom della penisola iberica.

I doomsters spagnoli nascono come band nel 2005 ed un anno dopo pubblicano un primo demo influenzato da uno dei trend dell’epoca , ovvero il gothic- doom con voce femminile.
La scelta di virare verso sonorità più robuste, oltre a quella di affidare le vocals al chitarrista Juanma, si rivela vincente e già in “Tragedy & Moon” del 2008 vengono messe in mostra le qualità che ritroviamo in Negation Of Life , lavoro che presenta una band in grande spolvero e focalizzata sull’obiettivo di produrre un sound pesante e malinconico come il genere esige.
A tale proposito, posiamo collocare gli In Loving Memory nel solco stilistico tracciato, ad altre latitudini, dagli Swallow The Sun in particolare, ma senza che per questo la band rinunci ad esprimere la necessaria personalità
L’album è caratterizzato da riff robusti, solos malinconici, un growl corrosivo ed un lavoro di tastiere efficace senza essere mai invadente, il tutto supportato da una produzione encomiabile. Grazie a queste caratteristiche ed all’ottimo bilanciamento tra parti aggressive e momenti melodici tutti i brani si lasciano ascoltare senza alcun affanno.
La traccia iniziale, Even A God Can Die è forse quella che concede meno spazio alle melodie, riservando solo a qualche breve inserto pianistico il compito di contrastare la pesantezza delle chitarre e della base ritmica, ma già dalla successiva Skilled Nihilism la proposta degli iberici si fa più immediata ed accattivante.
Adversus Pugna Tenebra parte con un arpeggio delicato ed una voce sussurrata per poi sfociare in un riff melodico che ricorda un’altra grande band mediterranea come i greci Nightfall.
La title-track è un altro splendido episodio che, per le sue atmosfere malinconiche, non avrebbe affatto sfigurato in un capolavoro come The Morning Never Came, mentre November Cries e Through a Raindrop si rivelano più coinvolgenti nel finale quando la chitarre di Jorge e Juanma costruiscono linee melodiche struggenti.
Shimmering Divinity emerge come uno dei picchi dell’album grazie ad una seducente armonia chitarristica che lascia successivamente spazio ad un break di chiara matrice death per poi abbandonarsi a quelle atmosfere dolenti che, con la loro presenza, caratterizzano l’intero lavoro.
Celestial costituisce l’episodio più acustico del lotto, mentre Nulla Religio, Solum Veritas chiude l’album così come era iniziato, all’insegna di una rabbiosa malinconia tratteggiata da testi pervasi da una sconfinata amarezza .
La Solitude Prod. (qui tramite la sublabel BadMoodMan) continua a proporci band relativamente nuove ma tutte di elevato livello e gli In Loving Memory non fanno eccezione, ottenendo il nostro un plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Tracklist:
1. Even a God Can Die
2. Skilled Nihilism
3. Adversus Pugna Tenebras
4. Negation of Life
5. November Cries
6. Shimmering Divinity
7. Through a Raindrop
8. Celestial
9. Nulla Religio, Solum Veritas

Line-up:
Raúl Arauzo – Bass
Jorge Araiz – Guitars
Juanma Blanco – Vocals, Guitars
Mauricio C. – Drums
Alberto O. – Keyboards

IN LOVING MEMORY – Facebook

The Wounded Kings – In The Chapel Of The Black Hand

The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.

The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.

Il gruppo britannico , già autore dell’ottimo “The Shadow of Atlantis”, trae nuova linfa dal rivoluzionamento della line-up compiuto, suo malgrado, dal talentuoso polistrumentista Steve Mills; il cambiamento più rilevante riguarda l’avvicendamento tra una voce maschile, quella del co-fondatore della band, George Birch, ed una femminile, a cura di Sharie Neyland.
Una trasformazione certo non di agevole assimilazione al primo impatto, dato che il particolare timbro dell’ammaliante Sharie è quanto di più lontano possa esserci dalle vocals stentoree ed evocative del suo predecessore. In realtà, il salmodiare tutt’altro che rassicurante di quella che potrebbe essere sia una strega alle prese con un rito sabbatico sia una novella Cassandra nell’atto di pronunciare le proprie nefaste previsioni , diventa il vero valore aggiunto al tessuto sonoro creato da Mills.
Il doom proposto dai The Wounded Kings si può certamente definire di stampo tradizionale, con ampi riferimenti a quelle band che negli anni ’70 hanno arricchito la propria musica con elementi esoterici; ciò che rende unico questo lavoro è proprio la capacità di fondere le atmosfere del passato con un sound evoluto benché monolitico e, soprattutto, mai derivativo.
L’iniziale The Cult Of Souls viene introdotta da un Hammond che, in simbiosi con la voce della Neyland, ci accompagna nel suo inesorabile percorso alla scoperta di mondi atavici popolati da entità spaventose, mentre nel finale il brano viene caratterizzato da una irresistibile quanto conturbante melodia, con la chitarra solista che va a lambire sonorità di stampo floydiano.
The Gates Of Oblivion, dove la traccia precedente concedeva tenui spiragli di luce, stende invece un ulteriore velo di oscurità e rende ancora più opprimente e corrosiva l’atmosfera del disco.
Return Of The Sorcerer è un breve (se comparato agli altri tre brani che hanno una durata superiore ai 10 minuti) episodio strumentale che ha la funzione tutt’altro che marginale di introdurre degnamente la mastodontica title-track, brano che chiude il disco facendoci sprofondare definitivamente negli abissi della mente umana e delle sue paure ancestrali.
Un’opera, In the Chapel Of The Black Hand, che non potrà lasciare indifferenti coloro che apprezzano atmosfere tipicamente lovecraftiane trasportate in ambito musicale; la citazione del “solitario di Providence” non è casuale, provate a capovolgere la copertina : esaminando attentamente la scritta posta sulla fronte del teschio, si potrà leggere distintamente parte della famosa invocazione a Cthulhu (Ia! Ia! Cthulhu fhtagn).

“In his house at R’lyeh dead Cthulhu lies dreaming”…

Tracklist:
1. The Cult of Souls
2. Gates of Oblivion
3. Return of the Sorcerer
4. In the Chapel of the Black Hand

Line-up:
Steve Mills – Guitars, Hammond organ, Keyboards, Slide guitar
Sharie Neyland – Vocals
Alex Kearney – Guitars
Mike Heath – Drums
Jim Willumsen – Bass

TEMPLE OF BAAL/RITUALIZATION – THE VISION FADING OF MANKIND

Nel complesso lo split è uno dei migliori usciti nel 2011, e vale sicuramente l’acquisto anche per lo splendido artwork

Split fra due band estreme francesi sulla strada da tempo.

Gli approcci sono differenti, ma l’amore per le tenebre è lo stesso, e i Temple of Baal e i Ritualization sfornano una grande prova di aggressività e durezza. Iniziano i Temple of Baal con un death metal classico di matrice svedese, con una registrazione ruvida e molto molto viva. I Temple sono dei veterani della scena francese, e in questo split hanno registrato nuovamente una canzone del loro primo album, con il nuovo batterista Skum, che fa presagire grandi cose dal vivo. I loro 4 pezzi sono davvero una delizia per ogni palato death metal. A seguire i Ritualization ci danno dentro fin dal primo pezzo Ave Dominus, ma il Dominus in questione non è precisamente il papà di Gesù … I Ritualization sono maggiormente black rispetto ai Temple of Baal, ma hanno anche solide basi death metal, e il loro suono è floridamente vintage come per i loro conterranei e compagni di split. L’ultimo pezzo dei Ritualization è Devil speaks in tongue, una cover dei seminali Mortem, un gruppo peruviano che vale attente ricerche sulla rete. Nel complesso lo split è uno dei migliori usciti nel 2011, e vale sicuramente l’acquisto anche per lo splendido artwork di Christophe Jager.
Insomma la Francia continua a spaccare i culi in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1.Temple Of Baal – Ordeals Of The Void
2.Temple Of Baal – When Mankind Falls
3.Temple Of Baal – Slaves To The Beast
4.Temple Of Baal – Heresy Forever Enthroned
5.Ritualization – Ave Dominus
6.Ritualization – The Second Crowning
7.Ritualization – Devil Speaks In Tongues (Mortem Cover)

REX MUNDI – IVHV

Un album da scoprire, una riedizione di un demo uscito in sole 77 copie ed introvabile, un’opera unica in un genere che è stato devastante e disturbante grazie a dischi come questo.

Riedizione a cura della Debemur Morti del demo targato 2005 dei francesi Rex Mundi.

Questo è un grande album di black metal, con inserti di canti religiosi provenienti da diversi culti, che ne fa un lavoro occulto ed etereo. I  Rex Mundi con questa opera prima entrarono di diritto tra i migliori del genere, nonostante una produzione non eccelsa, ma nel black metal questo a volte non è un problema, quanto piuttosto un pregio. Il black metal è un genere minimale che dà grande spazio alle idee, senza soffocarle con la musica, che è cacofonica, ma in casi come questo è un incredibile tappeto sonoro che sublima il tutto. Certamente quest’album ha forti influenze da gruppi come i Satyricon di Rebel Extravaganza (a mio modesto avviso, uno dei grandi album black metal di sempre), ma rielabora tutto con fortissima personalità, a cominciare dall’inserire canti religiosi, per spingere il discorso all’estremo, caratteristica fondamentale del black metal. La traccia più notevole è la quarta Pious Angels (Sepher Seraphim), un viaggio di 11 e passa minuti in un altro mondo sospeso tra cielo ed inferno. Un album da scoprire, una riedizione di un demo uscito in sole 77 copie ed introvabile, un’opera unica in un genere che è stato devastante e disturbante grazie a dischi come questo.

Aeternal Seprium – Against Oblivion’s Shade

Una formazione che, mettendosi in gioco e lavorando intensamente dal vivo in tutti questi anni, ha raggiunto una cifra stilistica di livello ragguardevole ma non per questo priva di ulteriori margini di miglioramento

Dopo la mazzata impartita con i Black Propaganda, la Nadir ci propone una nuova interessante realtà nostrana.

Questa volta però, con gli Aeternal Seprium, ci allontaniamo dai lidi più estremi per prendere in esame sonorità decisamente prossime al metal classico.
Il monicker della band è un omaggio alle proprie radici che attingono appunto al  Seprio, una delle aree a maggiore densità di testimonianze storico-artistiche del territorio varesino.
Nati sotto il nome di Black Shadows nel 1999, i nostri nei primi anni di vita si affacciano sulle scene come cover band proponendo brani dei gruppi appartenenti alla NWOBHM, ma a metà dello scorso decennio si trovano ad un bivio : continuare a riproporre all’infinito gli stessi brani negli anni a venire, garantendosi l’attenzione di promoter e gestori di locali poco propensi al rischio, oppure provare a percorrere una strada meno sicura ma più stimolante come quella di comporre e proporre musica propria ?
E’ meritoriamente la seconda opzione a prevalere e gli Aeternal Seprium nel 2007 sono pronti per pubblicare il loro primo demo, “A Whisper From Shadows”, che viene accolto favorevolmente dagli addetti ai lavori.
Nel 2010 esce un nuovo demo, “The Divine Breath Of Our Land”, che come il precedente ottiene unanimi consensi e mostra una band già pronta per pubblicare il primo full-length.
Ed eccoci arrivati ad oggi, con Against Oblivion’s Shade , che costituisce una summa di quanto prodotto dai varesini negli ultimi 4 anni , riprendendo tutti i brani già presenti nei demo con l’aggiunta di 3 inediti.
Pur mantenendo il proprio background influenzato da Iron Maiden e Manowar, la band ha sviluppato uno stile personale che può richiamare alla mente certo heavy metal epico in stile Warlord, senza dimenticare quanto già fatto sul suolo italico dai Domine (in particolare per la voce di Stefano che ricorda molto da vicino quella di Morby) e dai Doomsword, quando i nostri passano a brani dai ritmi più compassati.
Dal punto di vista lirico risulta invece apprezzabile la volontà di non omologarsi a tematiche fantasy o legate alla mitologia nordica, scegliendo di raccontare le vicende legate alla propria terra e le gesta di personaggi che hanno caratterizzato la storia delle popolazioni del nord Italia.
Sotto l’aspetto musicale il disco mantiene un’apprezzabile omogeneità stilistica nonostante i brani più datati (quelli del 2007) possano risultare in certi passaggi un po’ slegati con gli altri e meno originali rispetto al contesto.
Le composizioni più recenti peraltro dimostrano un freschezza ed una varietà eccellente come per esempio l’iniziale The Man Among Two Worlds, con il suo intro epicheggiante che fa da subito intuire il trademark stilistico della band, o In The Sign Of Brenno, che con il suo riff cadenzato e doomeggiante, risulterà essere uno dei picchi qualitativi dell’album.
A differenza di quanto accade in molte occasioni, quando i musicisti sparano le migliori cartucce all’inizio provocando con il resto del lavoro un inevitabile calo di attenzione nell’ascoltatore, gli Aeternal Seprium ci riservano nel finale due brani piacevolmente sorprendenti : L’Eresiarca , il brano più lento del lotto, cantato interamente in italiano, con una pregevole prestazione di Stefano, il quale dimostra di possedere una voce versatile ed evocativa che riesce a valorizzare al massimo quando non si fa prendere da tentazioni “kiskeiane”, e The Oak And The Cross che, anche grazie all’apporto di tre componenti dei Furor Gallico, acquisisce un flavour folkeggiante che apre un altro fronte molto interessante per la band.
Il disco si chiude con l’anthem Under The Flag Of Seprium che ci lascia l’impressione di una formazione che, mettendosi in gioco e lavorando intensamente dal vivo in tutti questi anni, ha raggiunto una cifra stilistica di livello ragguardevole ma non per questo priva di ulteriori margini di miglioramento, soprattutto alla luce della maturata consapevolezza di avere alle spalle un’etichetta in grado di fornire il giusto supporto.

Tracklist:
1. The Man Among Two Worlds
2. Vainglory
3. Sailing Like the Gods of the Sea
4. Soliloquy of the Sentenced
5. In Sign of Brenno
6. Victimula’s Stone
7. Solstice of Burning Souls
8. L’eresiarca
9. The Oak and the Cross
10. Under Flag of Seprium

Line-up:
Santino Talarico – Bass
Matteo Tommasini- Drums
Adriano Colombo- Guitars
Leonardo “UNTO” Filace – Guitars
Stefano Silvestrini- Vocals

Mare Infinitum – Sea Of Infinity

I Mare Infinitum riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani.

In questi ultimi anni la Russia si sta rivelando un’autentica fucina di band dedite alle forme di metal più plumbee e malinconiche, ovvero il doom nelle sue varianti death e funeral.

Questo movimento in costante evoluzione trova il suo naturale sbocco in un’etichetta autoctona come la Solitude Productions, che ha avuto il merito di inserire all’interno del proprio roster una serie di nomi che stanno contribuendo a riscrivere la storia del genere.
I Mare Infinitum sono alla loro prima uscita discografica ma certo non possono essere definiti dei debuttanti in quanto i due musicisti coinvolti nel progetto sono piuttosto noti nella scena dell’ex Unione Sovietica : Homer, polistrumentista ex-Who Dies In Siberian Slush ed il più noto A.K. iEzor batterista e cantante di Comatose Vigil e Abstract Spirit.
Inevitabilmente il genere proposto dai due non si discosta di molto da quanto prodotto dalle band appena menzionate, ma è comunque apprezzabile il tentativo di inserire momenti di discontinuità rispetto agli schemi compositivi consueti, grazie alle frequenti aperture melodiche e all’utilizzo di diversi ospiti alle clean vocals in alternanza al canonico growl.
Il doom in fondo non è genere che si presti troppo a voli pindarici da parte dei suoi interpreti e per certi versi la fedeltà ai modelli consolidati costituisce garanzia di fedeltà e dedizione totale alla causa della “musica del destino”.
Il metodo ideale per assaporare le sonorità funeree ed allo stesso tempo emozionanti di questo lavoro è quello di approcciarlo con la giusta predisposizione mentale, rinunciando a ricercare chissà quali novità stilistiche o compositive.
I Mare Infinitum assolvono pienamente alla loro missione con un album ricco di momenti delicatamente malinconici, sia con brani virati verso il death/doom, come l’iniziale In Absence We Dwell o in Beholding The Unseen, così come in parte della strumentale November Euphoria, con i suoi passaggi prossimi al quella gemma preziosa che e’ stata “They Die” degli Anathema, sia con due episodi decisamente più orientati al funeral come In The Name Of My Sin e la superlativa Sea Of Infinity.
A chi potrebbe aver da obiettare nei confronti di un giudizio del tutto positivo, rimarcando la scarsa originalità della proposta, ricordo che ci sono band come Motorhead e AC/DC, tanto per citare due nomi “qualsiasi”, che propongono fondamentalmente lo stesso disco da 20 anni eppure nessuno osa batter ciglio in nome di una effettiva e consolidata integrità stilistica; la realtà è che, se un album è bello, lo è punto e basta.
Se in questo o quel passaggio i Mare Infinitum possono ricordare i Comatose Vigil piuttosto che gli Ea, ma riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani, significa che l’obiettivo è stato raggiunto pienamente .
Io non mi sono ancora stufato di ascoltare Sea Of Infinity, provate a scoprire se vi farà lo stesso effetto…

Tracklist:
1. In Absence We Dwell
2. Sea of Infinity
3. Beholding the Unseen
4. November Euphoria
5. In the Name of My Sin

Line-up:
Homer – Vocals, Drums
A.K. iEzor – Guitars, Bass, Programming, Lyrics

Blut Aus Nord – 777:The Desanctification

L’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Devo ammettere che in passato band come i Deathspell Omega o gli stessi Blut Aus Nord, pur non essendomi affatto sgradite, non sono mai riuscite a far breccia nelle mie preferenze, forse perché quella particolare commistione tra black e industrial mi risultava in qualche indigesta.

Ma con questo 777 : The Desanctification i Blut Aus Nord mi fanno ampiamente ricredere proprio perché, pur mantenendo gli aspetti emozionali del black, se ne staccano quasi del tutto dal punto di vista compositivo per approdare a sonorità industrial arricchite da una personalissima impronta che spazia tra momenti ipnotici ed altri dalle sfumature rituali, per arrivare alle atmosfere claustrofobiche poste in chiusura del disco. Il risultato è un qualcosa che travalica la concezione stessa di genere musicale riuscendo nell’intento dichiarato di Vindsval (cantante, chitarrista e compositore) ovvero “ disumanizzare la nostra musica per non influenzare quello che ci auguriamo sia un viaggio occulto e mistico per l’ascoltatore”. A tal fine la band francese limita al massimo gli inserti vocali, lasciandoli spesso in secondo piano o filtrandoli, mettendo sempre in primo piano le proprie sonorità destabilizzanti che al primo impatto ti respingono per poi attrarti ed inghiottirti in maniera ineluttabile. Quest’album costituisce il secondo atto della trilogia iniziata con “777 : Sect(s)” (e che troverà il suo epilogo con l’uscita , probabilmente a fine 2012, di “777 : Cosmosophy”) che segna un progressivo distacco dal black metal nella sua accezione più tradizionale; ognuna di queste opere è costituita da brani intitolati “Epitome” contraddistinti da una numerazione progressiva. In The Desanctification ciascuna Epitome è una autentica opera d’arte, a partire dalle iniziali VII e VIII con le loro dissonanze graziate da improvvise aperture melodiche da considerarsi alla stregua di oasi nel bel mezzo di un’infinita distesa desertica, mentre IX è un breve intermezzo dagli inattesi riflessi orientaleggianti. Epitome X riprende impietosa con la sua incessante opera destrutturante ed è seguita da una XI che assume un andamento vagamente psichedelico, con influssi riconducibili ai Killing Joke, ma sono solo barlumi residui di quell’umanità che viene spazzata via senza alcuna misericordia. Epitome XII è un’esperienza sonora straordinaria, con una melodia che si ripete fino a portare l’ascoltatore in un piacevole stato di trance dal quale viene bruscamente ridestato con l’arrestarsi del brano per essere nuovamente scaraventato nei baratri della follia con la conclusiva XIII. Non sappiamo se a fine ascolto l’effetto catartico sia garantito, di certo i Blut Aus Nord con questo disco ci offrono un dono prezioso, quello di essere testimoni di un’opera che si colloca qualche anno-luce avanti rispetto alla quasi totalità delle uscite in ambito estremo. 777 : The Desanctification è un capolavoro che, se ascoltato al momento dell’uscita, avrebbe concorso con “The Book Of Kings” dei Mournful Congregation per la vetta del mio “best of 2011”; l’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Tracklist:
1. Epitome VII
2. Epitome VIII
3. Epitome IX
4. Epitome X
5. Epitome XI
6. Epitome XII
7. Epitome XIII

Line-up: Vindsval – All instruments, Vocals, Songwriting

BLUT AUS NORD – Facebookl

Opera IX – Strix Maledictae In Aternum

Il giudizio finale è positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di “Strix Maledictae In Aeternum” viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Ritornano dopo ben 7 anni gli Opera IX , una delle band storiche della scena black metal tricolore.

Diciamo subito che non ci dobbiamo attendere grandi novità da chi ha fatto della propria integrità stilistica una sorta di bandiera; la proposta risulta oscura e aggressiva, mentre le liriche vertono su tematiche care al gruppo quali stregoneria e occultismo. L’album presenta una serie di brani che colpiscono nel segno, a partire da 1313 , nella quale spiccano pregevoli parti di tastiera, proseguendo con l’altrettanto valida Dead Tree Ballad per arrivare al suo picco con Mandragora, contraddistinta da un impatto leggermente più immediato rispetto al resto del lavoro (e non è un caso che sia il pezzo prescelto per la realizzazione di un video, peraltro molto interessante sotto diversi aspetti …) e la successiva Eyes In The Well con il suo carattere epico. Da segnalare a livello lirico l’uso efficace dell’italiano negli ultimi due brani, abitudine che sta prendendo sempre più piede in ambito estremo, nonostante la nostra lingua ponga maggiori ostacoli dal punto di vista della metrica rispetto all’inglese. Nel suo complesso il platter della band piemontese viene in parte penalizzato sia dalla sua notevole durata sia dalla prevalenza dei mid –tempo che rendono alla lunga l’ascolto meno fluido . Ciò non impedisce agli Opera IX di riuscire nell’intento di condurci per mano nell’oscurità di epoche dominate dalla superstizione e da credenze arcaiche, nelle quali non occorreva molto affinché le maldicenze si trasformassero in accuse e le donne venissero additate come streghe e quindi responsabili di qualsiasi evento avverso. Il giudizio finale è dunque più che positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di Strix Maledictae In Aeternum viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Tracklist:
1. Strix the Prologue (Intro)
2. 1313 (Eradicate the False Idols)
3. Dead Tree Ballad
4. Vox in Rama (Part 1)
5. Vox in Rama (Part 2)
6. Mandragora
7. Eyes in the Well
8. Earth and Fire
9. Ecate – The Ritual (Intro)
10. Ecate
11. Nemus Tempora Maleficarum
12. Historia Nocturna

Line-up: Ossian – Guitars
Vlad – Bass
Dalamar – Drums
M. – Vocals, Guitars (rhythm)

Drakkar – When Lightning Strikes

Tornano i Drakkar con un concept album di epico power metal.

Tornano i Drakkar con un concept album di epico power metal.

Nati nel 1995, i Drakkar hanno fatto uscire l’ultimo lp con la Dragonheart Records nell’ormai lontano 2002, per poi farsi risentire dai fan nel 2007 con l’ep “Classified”. I Drakkar tornano oggi alla grande, con un album di power metal melodico e potente, che coglie nel segno. Il songwriting è al servizio della storia che racconta di Hal Gardner, un pilota di caccia mandato a combattere gli alieni sbarcati nel centro di New York (mi vengono in mente i Kree e gli Skrull dell’universo Marvel) che, colpito da un raggio alieno, comincia a ricordare le sue reincarnazioni… Non vi voglio rovinare la sorpresa e il gusto di scoprire una storia epica: in questo disco è mirabilmente raccolto tutto ciò che ci si deve aspettare da un disco di power metal sopra alla media, ovvero potenza, melodia ed epicità. A volte il power metal è il miglior mezzo per far scoprire storie che richiedono un battito del cuore più forte del normale. Usando l’espediente delle reincarnazioni di Hal Gardner, il chitarrista Dario Beretta imbastisce un volo su vari momenti storici, che sono anche stati d’animo. Un ottimo ritorno per una delle band più importanti della scena power metal italiana e non solo: grazie a loro ho riscoperto qualcosa nel genere che non sentivo più da tempo.

Tracklist:
1. Hyperspace – The Arrival
2. Day of the Gods
3. The Armageddon Machine
4. In the Belly of the Beast
5. Revenge Is Done
6. When Lightning Strikes
7. Winter Soldiers
8. Salvation
9. At the Flaming Shores of Heaven
10. We Ride
11. The Awakening
12. My Endless Flight
13. Aftermath – The Departure
14. Engage!
15. New Frontier

Line-up: Dario Beretta – Guitars
Simone Cappato – Bass
Davide Dell’Orto – Vocals
Corrado Solarino – Keyboards

DRAKKAR – Facebook

NunFuckRitual – In Bondage To The Serpent

Questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore

I progetti paralleli dei musicisti norvegesi stanno fornendo frutti ben più prelibati rispetto alle band originarie.

Così come per i So Much For Nothing, qui trattati recentemente, pure in questa circostanza l’album si rivela un’autentica perla di arte nera. L’idea del polistrumentista e compositore Teloch (Nnidingr) e del vocalist Espen Hangard risale al 2006, ma è solo tre anni dopo che assume una struttura stabile con l’ingresso in formazione del drummer Andreas Jonsson e soprattutto di un autentico mito della scena estrema ovvero il bassista statunitense Dan Lilker, già nella prima incarnazione degli Anthrax, poi con i Nuclear Assault ed attualmente alle prese con i risorti Brutal Truth. Completata la line-up viene inciso il lavoro d’esordio che vede la luce però solo due anni dopo grazie alla lungimiranza della Debemur Morti. Insomma … “vede la luce” forse non è il modo più appropriato per descrivere l’uscita di questo disco, qui regna un’oscurità assoluta, originata da atmosfere plumbee sospese tra sonorità vicine al black old-school ed ai ritmi cadenzati che spesso confluiscono in una sorta di doom malato e perverso. I NunFuckRitual, fin dal monicker adottato, non si pongono certo scrupoli con i loro testi nel colpire i valori ed i postulati della cristianità, scelta sulla quale si può essere più o meno d’accordo, ma fedele a quelli che sono i dettami lirici del genere fin dalla sue origini. Non dimentichiamo che questa avversione verso le religioni monoteiste ha un fondamento storico che risale al X secolo d.c. quando, in Scandinavia, i templi pagani vennero abbattuti ed in loro vece vennero costruite chiese cristiane. Ma questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore, contrassegnato da un mid-tempo strisciante che accomuna l’intera opera e che ci avvolge nelle sue spire come il serpente citato nel titolo. Fare una disamina dei singoli brani diviene un esercizio superfluo, dato che il disco scorre come se fosse un corpo unico concedendoci rari momenti di tregua sotto forma di passaggi ambient e fornendo l’illusoria sensazione di trovare finalmente dell’aria respirabile, prima di riscoprirci definitivamente immersi nei miasmi infernali creati da Teloch e co…

Tracklist:
1. Theotokos
2. Komodo Dragon, Mother Queen
3. Christotokos
4. Cursed Virgin, Pregnant Whore
5. Parthenogen
6. In Bondage to the Serpent

Line-up:
Dan Lilker – Bass Espen
T. Hangård – Vocals, Keyboards, Effects
Teloch – Guitars
Andreas Jonsson – Drums

Your Tomorrow Alone – Ordinary Lives

Ci troviamo certamente di fronte a un buon esordio che merita la dovuta considerazione da parte di chi predilige musica dai toni cupi e malinconici.

Una nuova realtà si affaccia nella già prolifica scena gothic-doom italiana : gli Your Tomorrow Alone.

La band salernitana si forma nel 2009 per volere del chitarrista Marco Priore e del cantante Eugenio Mucio; assestata la line-up, dopo diversi avvicendamenti viene pubblicato nel 2010 un demo che ottiene immediati riscontri favorevoli.
Nel 2011 la My Kingdom aggiunge al suo roster i propri conterranei consentendo loro di presentarsi al debutto sulla lunga distanza con questo Ordinary Lives (in uscita in questi giorni).
Come riportato nella bio della band, le coordinate stilistiche vanno ricercate ovviamente nella sacra triade del genere, Paradise Lost , Anathema e My Dying Bride, con netta prevalenza per i primi, senza però dimenticare un nome rilevante in campo nazionale come i Novembre.
Il sestetto campano si muove pertanto in questo ambito esibendo la caratteristica contrapposizione tra armonie malinconiche e partiture più robuste sfruttando al meglio la presenza in line-up di due cantanti dal diverso timbro vocale.
Il risultato è un album di grande valore, contrassegnato da momenti di considerevole impatto come l’opener Renaissance e One Last Breath, nelle quali proprio l’ottimo bilanciamento tra il growl di Eugenio e la voce pulita di Giovanni ricorda un’opera sottovalutata come “Shades Of Sorrow” dei disciolti Whispering Gallery, il trittico Praise For Nothing, The Essence Of Gloom e Guilty, con il pregevole lavoro chitarristico ispirato da Greg Mackintosh da parte di Marco, nonché l’intensa Agony, dal mood più darkeggiante. Anche i brani dalle atmosfere più intimiste e cangianti come Bursting Hope e In Silence si mantengono su un buon livello anche se per le loro caratteristiche peculiari riescono ad essere assimilati pienamente solo dopo diversi ascolti .
E’ evidente che questo disco farà la gioia di coloro che sono cresciuti ascoltando autentiche pietre miliari quali “Shades Of God”, “Icon” o “Draconian Times”, senza che per questo la proposta degli Your Tomorrow Alone possa essere definita una calligrafica riproduzione delle sonorità prodotte dalla seminale band di Halifax, anche perché il tutto viene opportunamente miscelato con atmosfere più rarefatte, che sono il tratto caratteristico della scuola gothic-doom italiana, rendendo in questo modo il lavoro, se non originale, sicuramente dotato di una propria personalità.
Tirando le somme ci troviamo certamente di fronte a un buon esordio che merita la dovuta considerazione da parte di chi predilige musica dai toni cupi e malinconici.

Tracklist:
1. Renaissance
2. Praise for Nothing
3. The Essence of Gloom
4. Guilty
5. Bursting Hope
6. Far From the Sight
7. One Last Breath
8. Agony (praeludium)
9. In Silence

Line-up:
Gianpiero Sica – Bass
Daniele Ippolito – Drums
Marco Priore – Guitars (lead)
Giovanni Costabile – Keyboards
Giovanni Sorgente – Vocals (clean)
Eugenio Mucio – Vocals

Necrodeath – Idiosyncrasy

“Idiosyncrasy” è un disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.

E’ stato veramente desolante constatare che diverse persone abbiano storto il naso a priori alla notizia che il nuovo lavoro dei Necrodeath sarebbe stato costituito da una suite di 40 minuti, per di più con una copertina con i nostri abbigliati in stile “Le Iene”.

Eppure dovrebbe essere noto a tutti, addetti ai lavori e non, che stiamo parlando di una band che per la propria storia, la perizia tecnica e le capacità compositive dei musicisti coinvolti, non ha certo bisogno di alcun beneplacito per discostarsi dalle consuetudini del metal estremo (al riguardo inviterei i più smemorati a ridare un ascolto ai due “Crimson” degli Edge Of Sanity…)
Del resto, fin dal magnifico album della rinascita “Mater Of All Evil”, edito nel 1999, Peso e compagni hanno avuto il merito di cercare ad ogni uscita nuove forme espressive pur senza snaturare la naturale componente black/thrash della loro proposta; va detto, onestamente, che non sempre i risultati sono stati all’altezza delle aspettative ma non è certo questo il caso di Idiosyncrasy , disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.
Come è facilmente intuibile, la scelta di presentare il disco sotto forma di un unico brano nasce dall’esigenza di fornire una struttura musicale adeguata ad un concept, che, in questo caso, verte sull’eterna dicotomia tra bene e male e sulla strada irta di difficoltà che deve percorrere ogni individuo alla ricerca della pace interiore; musicalmente ci troviamo dinnanzi ad una scrittura caratterizzata da una violenza disturbante, di sicuro nulla di noioso o di ridondante come magari temevano (o auspicavano…) le solite cassandre.
La caratteristica voce di Flegias, ideatore del concept, la terremotante base ritmica formata da Peso e G.L. e la riconosciuta tecnica chitarristica di Pier Gonella, sono messe al servizio di un album che necessita di diversi ascolti prima di far breccia nell’ascoltatore.
Forse sta proprio in questo aspetto la sola controindicazione riscontrabile nella scelta dei Necrodeath: non tanto a causa della sua limitata immediatezza o della conseguente assenza del caratteristico brano trainante quanto per la necessità di un ascolto integrale dell’intera opera per poterne cogliere in modo esauriente ogni sfumatura.
Ma, al di là questo inconveniente che è del tutto ascrivibile ad una scelta decisamente anti-commerciale, l’esperimento della band genovese può dirsi totalmente riuscito e non sono certo il solo a pensarla così a giudicare da questa recente dichiarazione rilasciata sul suo blog dal noto giornalista inglese Dom Lawson : “Ascoltate Idiosyncrasy, bevete grandi quantità di birra e fate finta che la collaborazione fra i Metallica e Lou Reed non sia mai esistita!”

Tracklist:
1. Part I
2. Part II
3. Part III
4. Part IV
5. Part V
6. Part VI
7. Part VII

Line-up:
Peso – Drums, Lyrics
GL – Bass
Pier Gonella – Guitars
Flegias – Vocals, Lyrics

NECRODEATH – Facebook

Black Propaganda – Black Propaganda

L’antidoto ideale da assumere per contrastare l’ipocrisia che ci ammorba puntualmente ogni anno durante il periodo natalizio ha un nome : Black Propaganda.

L’antidoto ideale da assumere per contrastare l’ipocrisia che ci ammorba puntualmente ogni anno durante il periodo natalizio ha un nome : Black Propaganda.

Nell’ambiente dei media viene così definita quel tipo di informazione falsa e diffamatoria che si professa proveniente da una fonte amica, ma che in realtà giunge dallo schieramento opposto; tale stratagemma venne attuato in particolare al termine della 2° guerra mondiale da quelle nazioni che avrebbero poi finito per soccombere (Italia e Germania in primis…)
Questa premessa è utile per poter meglio comprendere da dove tragga linfa la rabbia distruttiva che pervade l’intero lavoro dei Black Propaganda nei suoi 51 minuti, ma se ciò non dovesse essere sufficiente ci viene in soccorso la band stessa con la seguente dichiarazione d’intenti riportata nella propria “bio” :….brani ossessionati dal rancore sociale, dall’instabilità e dalla falsità psichica dell’essere umano…
Ciò che ne scaturisce è un grande album di thrash-death, inevitabilmente influenzato dalle migliori produzioni di Slayer, Pantera, The Haunted, Entombed, ma lo fa rifuggendo gli stilemi del genere e rimodellando in maniera del tutto personale un sound terremotante che spazza via svariati epigoni delle suddette band nonché la maggior parte delle uscite metal-core che hanno inflazionato il mercato discografico negli ultimi anni .
Da Hit The Mass, che come promette il titolo scuote l’ascoltatore dal suo torpore immergendolo all’istante nella violenza sonora che sarà il filo conduttore dell’album, passando per Craving, No Prejudice, la magnifica About Me (inserita lo scorso anno nel cd-compilation di Rock Hard) fino alle conclusive Livid Taste e Black Propaganda/The Prophet Of The Gore, la band torinese non si concede tentennamenti o divagazioni di alcun tipo e sfodera un lavoro che merita il supporto incondizionato di chi ha realmente a cuore la salute della scena metal tricolore.
Nulla da eccepire sulla produzione che valorizza al massimo l’eccellente lavoro chitarristico di Ian Binetti, le vocals efferate di Jacopo Battuello e la puntuale base ritmica fornita dalla batteria di Eric Di Donato.
Un plauso va infine anche alla Nadir Music per aver arricchito ulteriormente il proprio roster con una band dal potenziale esplosivo come i Black Propaganda.

Tracklist:
1. Punishers of No One Sin
2. Hit the Mass
3. Craving
4. No Prejudice
5. Cynic Apnea
6. I Clean My Mind Imploring for Coma
7. About Me
8. Destroy to Survive
9. Livid Taste
10. Black Propaganda / The Prophet of the Gore

Line-up:
Eric Di Donato – Drums
Ian Binetti – Guitars
Jacopo Battuello – Vocals
Federico Tinivella – Bass

Mournful Congregation – The Book Of Kings

I Mournful Congregation con The Book Of Kings si confermano tra le realtà più importanti della scena funeral doom, sfoderando uno dei migliori lavori dell’anno assieme a quelli di Colosseum , Esoteric e Comatose Vigil.

Attivi dal 1993, gli australiani Mournful Congregation appartengono alla ristretta cerchia degli eredi legittimi dei Thergothon , ovvero i “padri” del funeral doom; nonostante la band sia sulla scena ormai da quasi due decenni, The Book Of Kings è solo il quarto full-length in una discografia comunque ricca di diverse uscite , sotto forma di compilation o split, tutte contraddistinte da un’elevata qualità compositiva.

Il brano iniziale The Catechism Of Depression già dal titolo appare come una dichiarazione d’intenti nei confronti dell’ascoltatore che si trova risucchiato in un vortice di atmosfere plumbee che di tanto in tanto vengono squarciate da emozionanti aperture melodiche.
Il successivo The Waterless Streams si mantiene sui livelli eccelsi del brano precedente ma è con The Bitter Veils Of Solemnity che si raggiunge uno dei picchi emotivi, grazie ai suoi dodici minuti di arpeggi acustici che in qualche modo ricordano gli Agalloch di “The White”, sebbene privati della loro componente folk.
Tre quarti d’ora di musica di simile fattura sarebbero più che sufficienti per chiunque ma gli australiani dimostrano di non soffrire di alcuna crisi compositiva chiudendo il disco con i trentatré minuti della title-track, un brano che, nonostante il suo lento incedere, non annoia mai grazie ai frequenti mutamenti di atmosfera ed i sapienti inserti di chitarra solista .
I Mournful Congregation con The Book Of Kings si confermano tra le realtà più importanti della scena funeral doom, sfoderando uno dei migliori lavori dell’anno assieme a quelli di Colosseum , Esoteric e Comatose Vigil.

Tracklist:
1. The Catechism of Depression
2. The Waterless Streams
3. The Bitter Veils of Solemnity
4. The Book of Kings

Line-up:
Adrian Bickle – Drums
Ben Newsome – Bass
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook