Sleepy Hollow – Tales Of Gods And Monsters

Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, ottimo esempio di US metal old school amalgamato a sonorità classic doom, epico, fiero e declamatorio

Tornano i veterani Sleepy Hollow con questo nuovo album a distanza di quattro anni dal ritorno sulle scene del 2012 con Skull 13, lavoro che spezzava un silenzio lungo più di vent’anni dall’esordio omonimo datato 1991, interrotto solo da una compilation nel 2002.

Attiva dalla fine del decennio ottantiano la band del New Jersey, purtroppo poco prolifica, ha trovato in questi anni un minimo di costanza nelle proprie uscite e Tales Of Gods And Monsters, licenziato dalla Pure Steel, può così infiammare i true metallers dall’anima epic doom.
Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, un ottimo esempio di US metal old school, amalgamato a sonorità classic doom, epico e declamatorio, fiero, drammatico e molto coinvolgente.
Una cinquantina di minuti persi nelle atmosfere epiche di brani, che dall’opener Black Horse Named Death non cedono un’oncia in tensione, pressanti nel loro andamento cadenzato, valorizzati da un’ottima prova del vocalist Chapel Stormcrow e da linee melodiche perfettamente incastonate nel sound nato nella vorace bocca di un vulcano in eruzione.
Le tastiere, specialmente nei primi brani, più orientati al metal classico, fungono da tappeto sonoro, su cui il gruppo costruisce il suo pesantissimo sound (Sons Of Osiris), mentre nella seconda parte, l’aria si fa ancora più pressante, i ritmi rallentano ed esce, pesante ed epico lo spirito doom del gruppo, valorizzato da songs tragiche e declamatorie che alzano non poco la qualità dell’opera.
On Blackened Seas, Baphomet e la conclusiva Shadowlands, sono perle di musica del destino dai rimandi classici, il gruppo è maestro nel far convivere US metal con il sound monolitico e pesante delle band doom europee come i Candlemass ed i Count Raven, ricamate dalle ottime melodie create dalla sei corde di Steve Stegg.
Animato da una sezione ritmica compatta e, a tratti, debordante (Rich Fuester al basso e Allan Smith alle pelli), Tales Of Gods And Monsters risulta un album riuscito in toto ed un ottimo ritorno per gli Sleepy Hollow, unauna band ritrovata per gli amanti del genere.

TRACKLIST
1. Black Horse Named Death
2. Sons Of Osiris
3. Alone In the Dark
4. Bound By Blood
5. Goddess Of Fire
6. On Blackened Seas
7. Baphomet
8. Creation Abomination
9. Shapeshifter
10. Time Traveller
11. Shadowlands

LINE-UP
Chapel Stormcrow – vocals
Rich Fuester – bass
Allan Smith – drums
Steve Stegg – guitars

SLEEPY HOLLOW – Facebook

Imber Luminis – Veiled

Ennesimo progetto del multiforme Déhà, Imber luminis è quello che per caratteristiche maggiormente si avvicina al depressive metal.

Ennesimo progetto del multiforme Déhà, Imber Luminis è quello che per caratteristiche maggiormente si avvicina al depressive metal.

Questo anche perché, in aggiunta a sonorità melodiche e mai spinte all’estremo, troviamo una prestazione vocale contraddistinta dallo screaming disperato tipico del genere, prestato per l’occasione da Daniel Neagoe, storico sodale del nostro,.
Il breve EP in questione consta di due brani in cui confluiscono diversi influssi che l’eclettico musicista belga riesce a modellare, come sempre, a suo piacimento e il risultato, manco a dirlo, è poco più di un quarto d’ora di splendida e dolorosa musica.
Se Veiled Part I, talvolta, appare una sorta di versione DSBM dei Cure di Disintegration, Veiled Part II va a lambire, a modo suo, il tipico andamento indolente dei Type 0 Negative di October Rust. In quest’ultima traccia l’urlo disperato trova, poi, un suo contraltare sia in un profondo growl, sia in suadenti clean vocals.
Déhà non finisce mai di sorprendere anche chi, come me, ne segue da tempo le diverse incarnazioni, e convince ancora una volte rifuggendo soluzioni arzigogolate, andando invece dritto al cuore dell’ascoltatore.
Non resta che ringraziarlo per questo supportandone l’intero operato con la massima convinzione.

Tracklist
1. Veiled – Part I
2. Veiled – Part II

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals
Daniel Neagoe – Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Heart Attack – Heart Revolution

L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

Dalla scena ellenica alla conquista del continente, per conquistare i cuori degli amanti del rock melodico e dalle atmosfere AOR.

Heart Revolution è il debutto degli Heart Attack, melodic rockers dal sound che guarda tanto alla scena americana degli anni ottanta quanto a quella del vecchio continente, non dimenticando la scuola neoclassica di matrice nord europea.
Fondata da due musicisti di provata esperienza della scena melodica del loro paese, come come George Drimilis (ex Raging Storm) e Nikos Michalakakos (Spitfire), la band conquista con questo confetto di dolcissimo hard rock, dalle ritmiche pulsanti e dai refrain catchy, dove non mancano riff grintosi, chorus da arena rock e tastiere che riempiono il suono di melodie ariose e dall’ottimo appeal.
Prodotto da Bob Katsionis (Firewind, Outloud), mixato e masterizzati nientemeno che da Tommy Hansen (Pretty Maids, Helloween, Rage) ai Jailhouse Studios in Danimarca, Heart Revolution (tralasciando la copertina invero bruttina e che non rende giustizia alla musica del gruppo) è un bell’esempio di hard rock melodico, dal songwriting ispirato, cantato alla grande da un Drimilis che fa strage di cuori metallici, aiutato nei cori dalla tastierista Lila Moka, brava con il suo strumento, ed energizzato da ottimi solos dell’axeman Stefanos Georgitsopoulos, elegante e raffinato, nonché grintoso il giusto quando la musica del gruppo si elettrizza per donare attimi dal piglio dinamico e coinvolgente.
Il disco può certamente essere diviso in due parti, la prima vede il gruppo cimentarsi in song dal taglio più melodico ed Aor, che arrivano al cuore dell’ascoltatore e lo ammalia con ariosi refrain e delicati ed eleganti chorus ( Falling Apart, Stalker, le strepitose Chine Blue e Tell Me), mentre nella seconda parte l’hard rock prende il sopravvento, la sei corde spara le sue cartucce e ne escono brani dal piglio più aggressivo come in Heart Attack e nell’inno Hellenic Forces, bonus track che vede la partecipazione di un folto gruppo di ospiti della scena, per un brano dal taglio neoclassico ed avvincente.
Le influenze sono evidenti e riscontrabili nei maestri del genere, su tutti gli Scorpions più melodici, Tyketto, Pretty Maids e personalmente ci aggiungerei i finlandesi Brothers Firetribe, progetto hard rock del chitarrista dei Nightwish Emppu Vuorinen.
L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

TRACKLIST
01. Falling Apart
02. Under Your Spell
03. Stalker
04. Playing With Fire
05. China Blue
06. Living A Lie
07. Tell Me
08. (You’re A) Nightmare
09. Chase The Dream
10. Heart Attack
11. Hellenic Forces

LINE-UP
George Drimilis-Vocals
Steve G.-Guitars
Lila Moka-Keyboards/Backing vocals
Nikos Michalakakos-Bass
Jim K.-Drums

HEART ATTACK – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Gran bella sorpresa questa band greca, l’album piace al primo giro e sono convinto che si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea, farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, anche a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati, provare per credere.

Arcana 13 – Danza Macabra

Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

Ambizioso e riuscito tentativo di coniugare l’horror di Fulci ed Argento alla musica occulta degli anni settanta. Otto tracce ispirate da otto film diversi per portarci in uno spazio ed in un tempo diversi.

Gli Arcana 13 sono al debutto ma i componenti del gruppo sono dei capitani di lunga ventura, Simone Bertozzi ha suonato e scritto per i Mnemic, Andrea Burdisso è il cantante dei grandissimi Void Of Sleep, Filippo Petrini ha suonato con gli Stoned Machine e Luigi Tarone è un batterista da più di venti anni e si sente. Il suono degli Arcana 13 è molto piacevole e variegato, anche se si muove principalmente nell’ambito del rock anni settanta, lato doom in quota Pentagram e, ovviamente, con riferimenti sabbatiani. Questi musicisti sanno suonare, ma soprattutto hanno gusto e riescono nella difficile missione di musicare un certo immaginario horror, che negli ultimi anni è stato in parte dimenticato. Tutto funziona, a partire dalla copertina di Enzo Sciotti che ha dipinto locandine di Fulci, Argento e Bava, ovvero la triade ispiratrice degli Arcana 13.
Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

TRACKLIST
1. Dread Ritual
2. ArcaneXIII
3. Land of Revenge
4. Oblivion Mushroom
5. Suspiria (Goblin cover)
6. Blackmaster
7. The Holy Cult of Suicide
8. Hell Behind You

LINE-UP
S.Bertozzi – Vocals, Guitar
A.Burdisso – Vocals, Guitar
F.Petrini – Bass
L.Taroni – Drums

ARCANA XIII – Facebook

Anthrax – For All Kings

For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.

Spreading the Disease, Among the Living, Persistence of Time, basterebbero questi tre album per spiegare l’importanza degli Anthrax, una dei gruppi fondamentali, non solo per lo sviluppo del thrash metal, ma di tutto il mondo metallico.

Il gruppo di Scott Ian torna in questo inizio 2016 con un nuovo lavoro, For All Kings, che segue di cinque anni l’altalenante Worship Music, confermando la ritrovata verve dei gruppi storici del metal mondiale, prima gli Iron Maiden, poi gli Slayer e, infine, i Megadeth.
Detto che l’ex Shadows Fall Jon Donais ha preso il posto alla sei corde del buon John Caggiano, passato nei danesi Volbeat, e che al microfono si conferma il ritorno di un Joey Belladonna a mio parere mai così convincente, l’album, è bene chiarirlo, deluderà i fans della prima ora, quelli ancorati al thrash metal old school dei gloriosi anni ottanta.
Bisogna dirlo perché la band, pur scaricando volumi spropositati di metallo incendiario, ha da parecchi anni allargato i suoi orizzonti musicali, lasciando che molte soluzioni moderne e hard rock, entrassero prepotentemente nel propio songwriting, già da quel capolavoro che fu Sound of White Noise, album del 1993 che vedeva al microfono l’ex Armored Saints John Bush.
Se si parte da questa importantissima considerazione, allora For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.
Tanta melodia dunque, che si alterna a sfuriate ritmiche serrate, tenute con forza da musicisti dall’esperienza e dalla bravura nota a tutti, a tratti rese irresistibili da chorus di elevata qualità e violentate dal lavoro preciso della coppia d’asce Ian/Donais.
La band, sensibile da sempre alle vicende politiche e sociali, non si risparmia nel dire la sua sulle vicende parigine e sull’attentato a Charlie Hebdo in Evil Twin, mentre il thrash metal fa a spintoni con un approccio più moderno al genere trascinando l’ascoltatore nel mondo Anthrax,  mai come ora meno ancorato ai soliti cliché ed in fondo molto più maturo.
Blood Eagle Wings potrebbe fungere da sunto alla proposta odierna degli Anthrax, un thrash metal che varia e si rigenera tra velocità ed irruenza ed aperture melodiche più ampie; il groove che affiora nelle parti potenti e cadenzate, danno a For All Kings quell’impronta attuale che rende fresco il sound (Defend Avenge) e l’impressione di essere al cospetto di un gruppo attuale è più forte di quello che affiora davanti ad opere imbolsite di tanti loro colleghi sopravvissuti a trent’anni di storia metallica.
L’oscura epicità di All Of Them Thieves, la spettacolare This Battle Chose Us e lo speed metal sparato ed ironico di Zero Tolerance, che torna (questa sì) al sound di Persistence Of Time, chiudono il lavoro, che ha una coda nel riproporre una manciata di brani live, tra cui la storica Caught In A Mosh, mettendo la parola fine al ritorno di questa seminale band che non ne vuol sapere di andare in pensione, dispensando ancora, dopo tanti anni, buona musica metal.
Promossi? Direi proprio di sì, ampiamente.

TRACKLIST
01. You gotta believe
02. Monster at the end
03. For all kings
04. Breathing lightning
05. Suzerain
06. Evil twin
07. Blood eagle wings
08. Defend Avenge
09. All of them thieves
10. This battle chose us
11. Zero tolerance
12. Fight’em all ‘til you can’t (live)
13. A.I.R. (live)
14. Caught in a mosh (live)
15. Madhouse (live)

LINE-UP
Scott Ian Guitars – Vocals
Charlie Benante Drums – Percussion
Frank Bello – Bass
Joey Belladonna – Vocals
Jonathan Donais – Guitars (lead)

ANTHRAX – Facebook

Hatecrowned – Newborn Serpent

Ottimo lavoro peri blacksters Hatecrowned, provenienti da una terra non abituale per il genere come il Libano.

Deserto nord africano: sorpresi nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, i due ragazzi si rifugiano in un’antica cripta sommersa dal mare desertico e scoperta per caso.

Al riparo dal vento caldo del deserto, ed incuriositi da strani segni sulle pareti, i due, al chiarore di una torcia si avventurano tra gli stretti corridoi scavati da migliaia di anni e trovata un’apertura che porta ad una stanza addobbata come un’antica tomba, si addormentano vicini a quella che sembra una lapide.
Il pavimento intorno a loro comincia a muoversi, lento e sinuoso come un mortale serpente demoniaco, è la fine, i loro corpi stritolati tra le spire del rettile non troveranno più la luce, così come le loro anime scaraventate nel più buio antro infernale.
La colonna sonora di questo incubo è Newborn Serpent, primo bellissimo parto estremo degli Hatecrowned, duo libanese protagonista di un black metal satanico e misantropico, violentissimo, ma molto affascinante e suggestivo.
I due arrivano arriva al debutto su lunga distanza dopo il primo lavoro in versione ep, uscito nel 2013 (Warpact in Black) e tramite la Satanath Records licenzia questo oscuro e devastante lavoro.
Ayvaal (voce) e Dahaaka (chitarre e tastiere) sono aiutati in questo viaggio verso l’oscurità, tra le mortali spire del serpente, da Benjamin “GoreDrummer” Lauritsen alle pelli ed Eddy Ferekh al basso, una sezione ritmica da apocalisse, mentre i due demoni mediorientali compiono atrocità e blasfemie, il primo con uno scream molto evil, ed il secondo tra riff e tappeti di keys che puzzano di putridi antri di piramidi dimenticate dal tempo, dove covate di demoni malefici si nutrono delle anime dannate.
Ottime e suggestive le devastanti trame sonore che compongono brani neri e maligni come For Scum Thou Art, and unto Scum Shalt Thou Return, Redefining Purgatory e la clamorosa title track, un inno alle nefandezze del maligno, tremenda colonna sonora di morte e disperazione.
Ottimo lavoro dunque, proveniente da terre non abituali per il metal estremo così da risultare ancor più affascinante.

TRACKLIST
1. Ominous Birth of Serpent
2. For Scum Thou Art, and unto Scum Shalt Thou Return
3. Infest and Conquer
4. Coronation of the Eternal and Pure
5. Void
6. Redefining Purgatory
7. Newborn Serpent
8. Cave of Salvation
9. Funeral Reverie
10. Wolves

LINE-UP
Ayvaal – Vocals
Dahaaka – Guitars and Keyboards

Benjamin “GoreDrummer” Lauritsen- Drums.
Eddy Ferekh – Bass Guitar

HATECROWNED – Facebook

A Soul Called Perdition – Into The Formless Dawn

Qualcuno taccerà questo album come opera poco originale, fate spallucce e lasciatevi travolgere dalle note marchiate a fuoco di Into The Formless Dawn: lunga vita al melodic death metal scandinavo.

A distanza di di molti anni il melodic death metal scandinavo, dopo il successo negli anni novanta, continua a regalare nell’underground ottime realtà che portano avanti la tradizione del genere nel segno del più puro sound creato dai gruppi storici della fredda penisola su a nord.

Il death metal, melodicizzato da sfumature heavy è stato in parte tradito da quei gruppi che lo hanno portato alla ribalta della scena metal mondiale, troppi occhi ed orecchie puntate ad occidente e precisamente negli states, dove il genere è stato imbastardito e violentato da elementi moderni, così da guadagnare in vendite, ma perdere molto del proprio fascino.
Per primi gli In Flames, seguiti da altre bands nel corso degli anni hanno sempre più lasciato le sonorità classiche, colpevoli di ammorbidire la parte estrema, per un approccio moderno e core, così che, specialmente i gruppi nati in seguito, pur con ottimi album alle spalle, si sono dovuti accontentare del mercato underground.
Poco male se le proposte che arrivano a chi cerca di portare all’attenzione dei fans il sottobosco metallico internazionale, giudicando la musica per quello che è, senza guardare alla moda del momento.
La one man band A Soul Called Perdition, monicker che nasconde le imprese musicali di Tuomas Kuusinen, musicista finlandese all’esordio discografico autoprodotto, fa parte di quelle realtà che, uscite tra il ’94 ed il ’98 avrebbe fatto sprecare inchiostro a molti scribacchini dei giornali cool dell’epoca, che, non dimentichiamolo, allora non perdevano occasione per incensare qualsiasi gruppo death metal solo leggermente più melodico del normale, parlando, a volte a sproposito, di nuovi In Flames, Dark Tranquillity o Amorphis.
Dunque questo lavoro che, per inciso, risulta un ottimo esempio di melodic death metal scandinavo, dove il buon Tuomas suona tutti gli strumenti e se lo è pure prodotto e mixato, farà sicuramente la gioia degli amanti del suono anni novanta, essendo un concentrato di metal estremo travolto da melodie chitarristiche di stampo heavy, dove cavalcate death metal veloci ed ispirate, si scontrano con aperture melodiche e growl robusto e cattivo il giusto per inchiodarvi alla poltrona.
Otto brani, prodotti benissimo, una mazzata di mezzora che torna a far risplendere il sottogenere estremo che più cuori ha fatto innamorare negli ultimi vent’anni, suonati alla grande da un musicista, compositore e produttore davvero bravo.
Into The Formless Dawn risulta così, un’opera studiata nei minimi dettagli, un esordio davvero riuscito, compatto, aggressivo e melodico, senza forzature e perfettamente bilanciato in tutte le sue componenti.
Woe, Severance, To Those Who Shall Follow, tanto per citare alcune tracce dell’album ( ma l’opera è da godersi per intero, anche perché non rivela cadute di tono) vi riporteranno piacevolmente indietro nel tempo, mentre primi Sentenced, Amorphis, Hypocrisy e gli In Flames non ancora americanizzati, si riconquisteranno un posto nel vostro lettore.
Qualcuno taccerà questo album come opera poco originale, fate spallucce e lasciatevi travolgere dalle note marchiate a fuoco di Into The Formless Dawn: lunga vita al melodic death metal scandinavo.

TRACKLIST
01. Woe
02. There Is No Shelter
03. Into The Formless Dawn
04. Severance
05. Emptiness
06. Immortal, Entwined
07. To Those Who Shall Follow
08. We Walked In The Shadows

LINE-UP
Tuomas Kuusinen – Vocals, Guitars, Bass, additional instruments

A SOUL CALLED PERDITION – Facebook

Draconian – Sovran

Prendiamo in esame l’ultimo album dei Draconian a qualche mese dalla sua uscita, il tempo necessario per elaborare una valutazione meno istintiva e più ragionata, come va fatto per nomi di questo spessore.

La band svedese è stata, ed è ancora, la virtuale portabandiera del gothic doom, titolo conquistato grazie ad una manciata di album magnifici pubblicati nello scorso decennio.
Ma, se già Turning Season Within, ultimo di questi e risalente al 2008, mostrava i primi segni di appannamento, A Rose for the Apocalypse esibiva suoni un po’ troppo leccati ed inoffensivi per pensare di eguagliare quanto fatto in passato.
Dopo diversi anni, la band di Johan Ericson si ripresenta con questo Sovran, disco nel quale la prima cosa che salta all’occhio è l’avvicendamento alla voce femminile, affidata oggi alla sudafricana Heike Langhans in sostituzione della storica Lisa Johansson; nonostante il timbro della nuova vocalist abbia un impronta meno lirica e più ordinaria, a livello di sound i Draconian paiono aver fatto un gradito passo indietro, tornando a sciorinare un gothic doom melodico sì, ma altrettanto cupo e recuperando almeno in parte il proprio trademark romantico e malinconico.
Se non si può che salutare con soddisfazione questa sorta di retromarcia, va anche detto che il livello di intensità che caratterizzava i brani contenuti in Arcane Rain Fell e The Burning Halo non viene comunque eguagliato: i Draconian odierni sono una band che propone in maniera impeccabile il genere musicale che ha contribuito ad elevare ai massimi livelli, ma la perfezione formale finisce alla lunga per sovrastare l’impatto emotivo.
A sprazzi riaffiorano momenti dal grande potenziale evocativo (Dusk Mariner su tutte) ma, nel complesso, sembra proprio che le proprie pulsioni più oscure e drammatiche Ericson le abbia convogliate principalmente nel suo splendido progetto funeral/death doom Doom:Vs.
Intendiamoci, Sovran è un album di buonissimo livello che non potrà deludere chi ama questo tipo di sonorità, rafforzato da una tracklist che non presenta momenti deboli ma neppure picchi degni di farsi ricordare negli anni a venire e, alla fine, proprio quest’ultimo aspetto costituisce la vera pecca, tanto più quando la band che ne è protagonista si chiama Draconian.

Tracklist
1. Heavy Lies the Crown
2. The Wretched Tide
3. Pale Tortured Blue
4. Stellar Tombs
5. No Lonelier Star
6. Dusk Mariner
7. Dishearten
8. Rivers Between Us
9. The Marriage of Attaris
10. With Love and Defiance

Line-up:
Johan Ericson – Guitars
Anders Jacobsson – Vocals
Jerry Torstensson – Drums
Daniel Arvidsson – Guitars
Fredrik Johansson – Bass
Heike Langhans – Vocals

DRACONIAN – Facebook

Sublime Eyes – Sermons & Blindfolds

Aggiungete ai primissimi Soilwork, Darkane ed At The Gates tanto combustibile di marca Machine Head e la bomba è servita, occhio a maneggiarla con cautela.

Ecco pronto un altro candelotto di dinamite metallica preparato per noi dai norvegesi Sublime Eyes, lanciato dalla nostrana WormHoleDeath sul finire di questo tragico 2015 e che andrà ad esplodere nel nuovo anno nei padiglioni auricolari di chi, del death melodico dalle devastanti bordate thrash, si nutre.

Sermons & Blinfolds è il nuovo lavoro di questa clamorosa band, fondata a Stavanger nella fredda Norvegia che ora raggiunge temperature elevate, messa a ferro e fuoco da questa raccolta di brani esplosivi, intensi, dalle ritmiche forsennate e dannatamente coinvolgenti.
Una macchina metallica pronta per la guerra, la band racchiude nel suo sound una commistione altamente infiammabile di death metal e thrash, giocando a suo piacimento con la tradizione melodica delle sua terra di origine, e quella statunitense, ed il risultato non può che essere da infarto.
Passo indietro dovuto per presentarvi quest’arma letale, nata nel 2007 e già autrice di un full length, Dawn of the Defiant nel 2010, seguito due anni dopo dall’ep Reign of the Sun e ora pronta a fare danni sotto la label italiana che chiaramente non poteva lasciarsi sfuggire cotanto furore estremo.
Trattenete il fiato prima di schiacciare il tasto play, perché dalla prima nota dell’opener Greedy Hands verrete schiacciati dalla forza dell’esplosione di questo lavoro, una carica che non conosce tregua, almeno fino alla fine.
E qui sta il bello, perchè dopo essere stati sbattuti da una parte all’altra della vostra stanza dalle bordate di nitroglicerina di Ten Stones, da quel capolavoro che risulta Shellshocked, o dalla travolgente No Regrets, vorrete solo ripremere il fatidico tasto e dare via ad un’altra devastante detonazione.
Growl da manuale, ritmiche con tanto groove da far cadere palazzi e solos melodici che fanno l’occhiolino a sonorità classiche, sono la mistura di polveri che compongono questo esplosivo lavoro, ma trattenere il fiato per quasi quaranta minuti è impossibile, ed allora fatevi travolgere senza opporre resistenza a questa mazzata estrema chiamata Sermons & Blindfolds.
Volete dei nomi, lo so, ed allora aggiungete ai primissimi Soilwork, Darkane ed At The Gates tanto combustibile di marca Machine Head e la bomba è servita, occhio a maneggiarla con cautela.

TRACKLIST
1.Greedy Hands
2.Ten Stones
3.Destroyer
4.Shellshocked
5.Your Time Is Done
6.No Regrets
7.We Are Chaos
8.It All Disappeared

LINE-UP
Vocal- Arvid Tjelta
Guitar- Tom Arild Dalaker
Guitar- Jan Vinningland
Bass- Jørn Helseth
Drums-Remy Dale

SUBLIME EYES – Facebook

Ildverden – Темніч чорна йде за мною

Maligna e piena di insidie è la notte, specialmente se ci si perde nelle foreste ucraine dove si cela Human Unknown, polistrumentista di questa one man band chiamata Ildverden.

Maligna e piena di insidie è la notte, specialmente se ci si perde nelle foreste ucraine dove si cela Human Unknown, polistrumentista di questa one man band chiamata Ildverden.

Senza nessuna concessione al benché minimo istinto commerciale, il musicista arriva a noi tramite Satanath Records con il suo quarto full length dai titoli in lingua madre (Темніч чорна йде за мною si traduce in La Nera Mezzanotte Mi Segue) dopo aver dato alle stampe il primo album omonimo nel 2007, Path to Eternal Frost and Fire del 2008 e Де хмари плачуть… lo scorso anno.
Black metal old school di scuola norvegese dai ritmi cadenzati, alquanto epici ed oscuri, accelerate cattive e, qua e là, buone melodie nere come la notte nel sottobosco di una foresta dannata, sono le maggiori virtù di quest’opera, che non si fa mancare qualche difetto (la produzione, non so quanto volutamente segue l’attitudine old school del lavoro) e la troppa prolissità in brani che, mediamente, raggiungono i dieci minuti, per arrivare addirittura a ventuno nella suite Прорікання Вельви, cuore di questo album.
In effetti più di un’ora per un album del genere è un po’ troppo e in definitiva si giunge al termine con un senso di fatica, peccato perché il black metal suonato da Human Unknown non è niente male e l’album vive di buone atmosfere orrorifiche e misantropiche, inserite in un contesto dalla violenza metallica di sicuro impatto.
Come detto, la musica si ispira al black metal scandinavo e segue le produzioni dei primissimi anni novanta, aggiungendo una buona ispirazione nelle gelide atmosfere che alternano momenti di epico black metal pagano, a più terrorizzanti sfumature horror.
Il mattino è ancora lontano e l’alito putrido delle belve assetate di sangue ci scalda il viso gelato, prima che le fauci si facciano largo nel nostro corpo, cerchiamo di svegliarci da quello che sembra un brutto incubo, mentre la nostra mano staccata dal braccio è preda di un’agguerrita disputa tra le creature della notte.

TRACKLIST
1. Очі мертвої луни
2. Темна далич завіхрить
3. Прорікання Вельви
4. Темніч чорна йде за мною
5. Спалах блискавок в очах

LINE-UP
Human Unknown – All Instruments, Vocals

Ego Depths – Dyrtangle

Il funeral targato Ego Depths non possiede pulsioni melodiche ma è un corpo estraneo conficcato in qualche parte del corpo, volto a provocare un dolore diffuso, non lancinante ma costante.

Con cadenza ormai annuale arriva il nuovo lavoro degli Ego Depths, progetto solista di Stigmatheist, musicista ucraino che da diversi anni ormai si è stabilito vive a Montreal.

Negli anni scorsi abbiamo trattati i due precedenti album e, parlando di Dyrtangle, resta poco da aggiungere rispetto a quanto detto in quei frangenti.
Il funeral targato Ego Depths non possiede pulsioni melodiche ma è un corpo estraneo conficcato in qualche parte del corpo, volto a provocare un dolore diffuso, non lancinante ma costante.
Ovviamente ciò è sintomo di una fruibilità minima e questi, se vogliamo, è il solo difetto di un opera condivisibile nel suo porsi coerentemente su un piano non accessibile a chiunque, ma che in virtù di una durata ai limiti della capienza di un cd si rivela di digestione laboriosa anche per i più avvezzi al genere.
È’ chiaro che tutto ciò deriva da una scelta ben precisa di Stigmatheist: l’album è espressione di un musicista ben conscio di ciò che sta facendo e, più di una volta, quando ci si attende l’apertura derivante da una logica progressione questa viene negata, quasi a rimarcare l’intento di non fornire alcun appiglio empatico all’ascoltatore.
Dyrtangle però è un lavoro molto curato, anche a livello di scelte strumentali, spesso non convenzionali e talvolta ammantate da un’aura mistica e, peraltro, l’ultima traccia Vitrification, Ineludible Meditation è davvero notevole, in virtù di un incedere più intenso e relativamente meno ostico.
Anche grazie a questo il quarto full length degli Ego Depths possiede un suo indubbio fascino, ma non è certo l’album che estrai dal mazzo con decisione se vuoi ascoltare del funeral in grado di offrire emozioni a profusione.

Tracklist
1. The Angleshifter
2. Wheel of Transmigration
3. The Onward Tide
4. Awakening of Gshin-Rje, the Lord of Death
5. Vitrification, Ineludible Meditation

Line-up:
Stigmatheist – Everything

EGO DEPTHS – Facebook

Isenblåst – Altars Of Blood

Due tracce promo di black metal senza compromessi, in attesa del primo full lenght di prossima uscita.

Gli Isenblåst, black metallers provenienti dal Michigan, hanno rilasciato queste due tracce promo, in attesa del primo full lenght di prossima uscita.

Il gruppo attivo dal 2010 è gia al quarto demo in sei anni a far compagnia ad un ep uscito nel 2014 dal titolo Unleashing the Demon Scourge di oltranzista black metal old school.
Ed è proprio la scuola norvegese dei primi anni novanta ad essere la massima ispirazione per il gruppo statunitense, lo conferma questi due brani feroci ed estremamente evil, dai testi satanici e dalla produzione vecchia scuola.
Altars Of Blood e I; Lucifer ci presentano un quartetto di demoni completamente votati alla nera fiamma che bruciava, maligna e diabolica tra le fredde lande scandinave, ritmiche che alternano sfuriate devastanti a marce cadenzate verso l’inferno, uno scream di genere efferato e indemoniato il giusto, più una totale devozione per le opere di Mayhem, Marduk, Ragnarok e Setherial.
Black metal senza compromessi dunque, due fieri inni malefici suonati con la convinzione di essere davvero tornati alle battaglie tra le truppe dell’inferno nei primi anni novanta, questo risultano le due tracce presentate da Chronolith (basso e voce), Lord Kaiser ( chitarra), Walshpurgisnacht (basso) e Abominater alle pelli.
Il gruppo di Detroit ci dà appuntamento al debutto sulla lunga distanza, nel frattempo i due brani sono disponibili in free download sul bandcamp del gruppo e verrà pure realizzata una versione limitata in cd a cento copie; se siete amanti del black metal old school dategli un ascolto ed aspettate con noi il fatidico full length.

TRACKLIST
01. Altars of Blood
02. I; Lucifer

LINE-UP
Walshpurgisnacht – Bass
Abominater – Drums
Lord Kaiser – Guitars
Chronolith – Vocals, Guitars

 

Bloody Invasion – Bloody Invasion

Buon debutto per i Bloody Invasion con un mini cd che ha nella compattezza e l’alternanza tra tiro possente e rallentamenti, composti da buoni spunti melodici, il proprio punto di forza.

I Bloody Invasion sono una death metal band tedesca, nata nel 2012, dedita a sonorità classiche e arrivata finalmente al debutto con questo ep omonimo tramite la sempre attenta WormHoleDeath, sinonimo di qualità nel metal estremo underground.

Il quintetto originario di Neuruppin si presenta al mondo metallico estremo con cinque brani di death metal old school, guerresco, ed a tratti pregno di un’epicità nascosta dalla valanga di riff pesanti come incudini che ricadono sull’ascoltatore, mortali nel loro colpire il bersaglio con mitragliate ritmiche, ed interpretate da un growl cattivissimo, come un capo tribù che arringa i suoi fedeli guerrieri sul campo di battaglia.
Si combatte in territori cari a band storiche come Bolt Thrower e primi Kataklysm, puro e quadrato death metal che non disdegna accelerazioni devastanti e monolitici ritmi cadenzati che spronano a marciare i soldati in avvicinamento sul luogo di quella che diventerà la strada per la gloria o l’eroico passaggio all’aldilà.
Matter Of Time risulta una death metal song lineare, robusta e compatta, mentre con Hangman trovano spazio arpeggi dal tono drammatico e ritmiche che variano tra velocità e marzialità.
Il growl alterna toni cavernosi ad urla animalesche, sotto le armature si nascondono orchi famelici, mentre la title track si abbatte sul luogo dello scontro come una tempesta di acqua e sangue, mentre Act Of Justice risulta la traccia più diretta dell’opera.
Altro macigno sonoro, la conclusiva The Mischief, torna ad alternare devastanti partenze a razzo, care agli headbanger più incalliti, a rallentamenti melodici, per poi tornare su velocità sostenute e cattiveria a iosa.
Buon debutto, quindi, con un mini cd che ha nella compattezza e l’alternanza tra tiro possente e rallentamenti, composti da buoni spunti melodici, il proprio punto di forza, per un sound sicuramente da sviluppare in un futuro full length, nel frattempo si consiglia l’ascolto agli amanti del genere.

TRACKLIST
1. A Matter of Time
2. Hangman
3. Bloody Invasion
4. Act of Justice
5. The Mischief

LINE-UP
Didi – Drums
Marek – Guitars
Christian – Guitars
Max – Vocals
Martin – Bass

BLOODY INVASION – Facebook

Heimskringla – Vikingløypa

Vikingløypa è un buon disco, in grado di fornire nutrimento a sufficienza per chi anela a sonorità melanconiche e dal mood meno catacombale.

Il versante più melodico del funeral, la cui espressione più alta è attribuibile agli imprescindibili Shape Of Despair, seguiti a ruota dai meno elaborati ma ugualmente grandiosi Ea, sta prendendo piede, almeno alla luce delle sempre più frequenti uscite che traggono spunto proprio da quest’ultima band.

Tocca oggi al solo project Heimskringla (proveniente dagli Stases nonostante tutto, dal monicker ai titoli dei brani, faccia riferimento alla Scandinavia) offrire quasi ottanta minuti di buona musica che, se non fa molto per distinguersi da album come Ea Taesse o Au Ellai, resta comunque oltremodo gradevole grazie al buon gusto melodico che Niðagrisur immette a profusione nel proprio sound.
Il disco ci mette un po’ a decollare, perché Skandinavia I, almeno per un quarto d’ora mostra coordinate più ambient finché finalmente anche la chitarra entra a delineare le proprie efficaci linee armoniche.
Da li in poi Vikingløypa mostra le sonorità che gli amanti del genere ben conoscono e che vengono proposte con perizia e competenza, per un risultato finale che soddisfa e che, come livello, non si va a collocare neppure troppo lontano dall’ultimo parto degli Ea, A Etilla.
Per restare in questa sfera d’influenza, se gli Heimskringla sono un gradino sotto gli Abysskvlt, perché non raggiungono con la stessa continuità i loro picchi emozionali, si dimostrano di gran lunga più efficaci di certe proposte eccessivamente devote ai propri modelli come, per esempio, quella dei Luna.
Vikingløypa è comunque un bel disco, in grado di fornire nutrimento a sufficienza per chi anela a sonorità melanconiche e dal mood meno catacombale.

Tracklist:
1.Skandinavia I
2.Skandinavia II
3.Vikingløypa
4.Íslenska Vatnið

Line-up:
Niðagrisur Guitars, Bass, Drums, Synths, Vocals

HEIMSKRINGLA – Facebook

Kingfisher – The Greyout

Un ottimo esordio per una band più che promettente

I Kingfisher, formazione a cinque dove a farsi notare fin da subito è la presenza di tre bassisti, vengono dalla Lombardia e debuttano, dopo l’ep del 2014 con gli undici brani di The Greyout. Il lavoro, folle punto di incontro fra alternative metal, alternative rock e stoner, esplode nei timpani con la forza di mille granate, grazie anche all’ottimo lavoro di Andrea Cajelli in sala di registrazione e di Giulio Ragno Favero per quanto riguarda il processo di mastering.

La partenza bruciante e fulminante di Red Circle, correndo sui colpi di batteria e basso, scalcia con energia, introducendo l’altrettanto fiammante Sentient (intrigante il cuore leggermente più scuro e pacato) e le influenze stoner, dirottate su terreni estremamente metal, di Worm Tongue (bassi e batterie feroci come mitragliatrici).
L’aggressività iniziale di The Greyout, sviluppandosi poi su melodie più strutturate (ma non rinunciando a scalciare come un cavallo pazzo), lascia che a seguire siano i pugni nello stomaco sferrati da Even In Decay (provate a non essere rasi al suolo dalla forza d’impatto della seconda parte) e la breve strumentale Oneiric (decisamente più pacata, contenuta e delicata).
A ritornare a far ruggire i bassi ci pensa Eleven che, affidandosi ad architetture più complesse e cerebrali, rallenta i tempi e si tuffa in sonorità a metà fra stoner e southern metal.
Bizarre, infine, precipitando in complessi incastri di batteria e bassi, cede il compito di chiudere allo sfrecciare di Scent Of Reckoning, all’assalto sonoro dell’altrettanto distruttiva Relentless e all’ipnotico concludere della più distesa, melodica e matematica Mandala.

Il debutto dei Kingfisher, granitico, compatto e carico di energia, colpisce per la sua forza d’impatto, per il suo suono e per la sua intensità. Gli undici brani presentati, infatti, quasi non lasciando la possibilità di tirare il fiato nemmeno per un secondo, si susseguono, tirati, come ordigni esplosivi sempre pronti a brillare. A rovinare un pochino l’entusiasmo è la troppa omogeneità dei brani, ma, tolto questo difetto, tutto fila decisamente liscio. Un ottimo esordio per una band più che promettente.

TRACKLIST
01. Red Circle
02. Sentient
03. Worm Tongue
04. The Greyout
05. Even In Decay
06. Oneiric
07. Eleven
08. Bizarre
09. Scent Of Reckoning
10. Relentless
11. Mandala

LINE-UP
Davide Scodeggio
Alessandro Croci
Emanuele Nebuloni
Renato Di Bonito
Matteo Barca

KINGFISHER – Facebook

Holocaust – Predator

Predator ha nelle sue virtù, quella di non apparire come una mera operazione nostalgica, ma un lavoro di un gruppo di ottima qualità al quale il passare del tempo non ha scalfito, grinta e talento compositivo.

La New Wave Of British Heavy Metal viene ricordata sistematicamente,quando si parla delle solite band, conosciute più o meno anche da chi il genere lo mastica molto superficialmente, eppure intorno ad esse sono cresciute parecchie realtà che hanno regalato album storici, anche se magari diventati esclusiva solo per i true metallers, in questo caso più attempati.

I britannici Holocaust, possono essere considerati uno dei gruppi outsiders di maggiore qualità, nati in Gran Bretagna e di base in Scozia, il gruppo di Edimburgo esordì nel 1980 e può vantare una nutrita discografia che vede otto album ed una marea di ep e compilatiom.
Predator, licenziato dall’etichetta greca Sleaszy Rider Records , segue l’ultimo album inedito (Primal) di ben dodici anni, mentre la line up, vede lo storico axeman John Mortimer, unico superstite degli anni d’oro, affiancato da Mark McGrath (basso e voce) e da Scott Wallace alle pelli.
Un terzetto di musicisti tecnicamente ineccepibili, che giocano con l’heavy metal old school, valorizzandolo con sfumature progressive e attitudine settantiana, che si respira a pieni polmoni in questo concentrato di hard & heavy potente e melodico.
Sicuramente non conosciuta come i vari Iron Maiden e Saxon, la band si è guadagnata il rispetto di molti gruppi famosi, con vari brani coverizzati da nomi del calibro di Metallica e Gamma Ray, questo per ribadire di che pasta sono fatti i nostri tre heavy metallers scozzesi.
Predator conferma l’alta qualità della musica degli Holocaust, con un lotto di brani agguerriti, potenti, grintosi, sempre con quella nebbiolina progressiva che si poggia sulle tracce, come la brina mattutina nell’umido e piovosi Regno Unito, colpevole poi di rendere le songs varie e coinvolgenti.
Ottima la prova del vecchio chitarrista, con quel tocco old school nei riff che, per un amante del genere è vera goduria, e bella tosta la sezione ritmica che aggiunge un pizzico di groove alle ritmiche, una piccola concessione alla modernità che basta a Predator per non risultare troppo nostalgico.
Molto Thin Lizzy il sound del terzetto, ha nell’approccio diretto, ma sempre raffinato e tecnicamente sopra le righe il punto di forza di brani, a tratti splendidamente hard rock come Expander, Can’t Go Wrong with You, mentre Shiva avvicina la band al doom sabbatiano, e Revival è un massacro metallico dal groove micidiale.
Predator ha nelle sue virtù, quella di non apparire come una mera operazione nostalgica, ma un lavoro di un gruppo di ottima qualità al quale il passare del tempo non ha scalfito, grinta e talento compositivo.
Se non conoscete il gruppo di John Mortimer, potete iniziare da questo ottimo album, che può tranquillamente stare al fianco dei dischi storici del gruppo scozzese.

TRACKLIST
1. Predator
2. Expander
3. Can’t Go Wrong With You
4. Lady Babalon
5. Observer One
6. Shiva
7. Shine Out
8. Revival
9. What I Live For

LINE-UP
John Mortimer – guitars and vocals
Marc McGrath – bass
Scott Wallace – drums

HOLOCAUST – Facebook

Tarchon Fist – Celebration

Per tutta la durata dell’album vi troverete al cospetto di musica fieramente metallica e di prim’ordine, devota alla scena tedesca in primis, ma che non dimentica chi il genere lo ha inventato all’alba del decennio ottantiano sull’isola britannica.

Heavy metal, molte volte il solo pronunciarlo per molti è sinonimo di ignoranza, qualcuno addirittura lo dà per morto da anni, figuriamoci ora; la scomparsa in pochi anni di una manciata di icone del genere, da Ronnie James Dio a Lemmy, tanto per fare due esempi, hanno scatenato chi alla qualità ha sempre messo davanti l’appeal commerciale, sempre alla ricerca della band da un milione di dollari, di chi dovrebbe riempire gli stadi di fans o vendere migliaia di copie, tra dischi e riviste: un problema per loro, non per chi ama il genere.

L’heavy metal classico dopo i rigurgiti di metà anni novanta è tornato nell’underground, ed è qui che nutrendosi di realtà entusiasmanti come, per esempio, gli italianissimi Tarchon Fist, riacquista forza per tornare quando meno te lo aspetti sulla bocca di chi, un anno prima storceva, il naso al solo sentire nominare la parola heavy davanti a metal.
Ok tolto il dente, vi presento per chi ancora non la conoscesse questa band bolognese, che dell’heavy metal fuso nelle fiamme del monte fato fa la sua religione, già da una decina d’anni in giro a far danni ed incendiare palchi in giro per la vecchia Europa ed ora, con il supporto della Pure Steel, label tedesca ormai punto di riferimento per il metal classico, pronta a far esplodere Celebration, quarto full length che segue Heavy Metal Black Force di due anni fa e, oltre a qualche uscita minore i primi due lavori, l’omonimo debutto del 2008 e Fighters del 2009.
Celebration ha tutte le carte in regola per piacere e tanto ai true defenders, chorus irresistibili, solos taglienti come rasoi, vocals da manuale, ed un songwriting in stato di grazia,ne fanno un lavoro tremendamente coinvolgente, dallo spirito molto live, una raccolta di brani da urlare in faccia a chi vorrebbe il genere passeggiare per i campi elisi.
Senza fronzoli e dritti al punto i Tarchon Fist sparano la title track in apertura, spettacolari linee melodiche accompagnato Mirco “RAMON” Ramondo, singer di razza, nella sue corde vocali c’è tanto di Dickinson come di Ralph Scheepers, insomma due dei cinque migliori vocalist del genere.
Scheepers mi porta ai Primal Fear, indubbiamente la band più vicina ai nostri, anche se i Tarchon Fist usano molto ed in modo perfetto chorus di ispirazione power metal, così da richiamare i Gamma Ray dei primi dischi, dove il cantante tedesco impazzava, valorizzando la musica di quel geniaccio di Hansen.
Per tutta la durata dell’album vi troverete al cospetto di musica fieramente metallica e di primordine, devota alla scena tedesca in primis, ma che non dimentica chi il genere lo ha inventato all’alba del decennio ottantiano sull’isola britannica.
Nessun riempitivo, solo grande musica heavy che ha dei picchi qualitativi altissimi in brani dall’elevata elettricità come The Game Is Over, It’s My World, Metal Detector, il fiero ed epico inno metallico We Are The Legion e Still In Vice.
La ballatona d’ordinanza (Blessing Rain) conclude il lavoro, che risulta compatto e duro come l’acciaio, un monumento all’heavy metal che non deve sfuggire agli appassionati a cui va il mio consiglio spassionato di non perdersi un album così ben fatto.
Se vi capitano a tiro non perdeteli dal vivo, qualcosa mi dice che fanno sfracelli, Stay Metal!!

TRACKLIST
1. Celebration
2. Victims Of The Nations
3. Eyes Of Wolf
4. The Game Is Over
5. Fighters
6. It’s My World
7. Thunderbolt
8. Metal Detector
9. We Are The Legion
10. Ancient Sign Of The Pirates
11. Still In Vice
12. Blessing Rain
13. The Game Is Over (reprise)

LINE-UP
Mirco “RAMON” Ramondo – vocals
Luciano “LVCIO” Tattini – guitars, back vocals
Sergio “RIX” Rizzo – guitars, back vocals
Marco “WALLACE” Pazzini – bass, back vocals
Andrea “ANIMAL” Bernabeo – drums

TARCHON FIST – Facebook

Morgengruss – Morgengruss

Marco Paddeu centra perfettamente il bersaglio dando vita ad un disco clamoroso, denso ed etereo allo stesso momento, forte nella sua cristallina leggerezza, acido nella semplicità di slegare la chimica delle cose e dei suoni, e bello come un raggio del sole che bacia senza scottare.

In un giardino vicino al mare, un petalo ricade sul selciato dopo essere stato trasportato dal vento, il mare sussurra una litania mentre il resto è immoto, fuori dalla calca.

Questa è solo una delle immagini che evoca questo disco, un gioiello di lentezza e ricercatezza, di labor limae e di perfetto equilibrio fra tutti gli elementi. Morgengruss ricorda molto Warren Ellis, ma è ancora più ispirato e potente in alcune sue immagini, concependo un disco abbagliante nel suo sole soffuso, nel suo vivere di immagini riflesse e di tocchi leggeri di una madre preoccupata, mani sulle spalle di amanti già lontani. Raramente si ascolta musica che tocca così dentro. Morgengruss bisogna ascoltarlo non al massimo del volume, ma secondo quello che vuole il nostro orecchio.
Morgengruss è musica che scorre respirando insieme ai nostri polmoni, e nel mondo fisico risponde al nome di Marco Paddeu, anche in Demetra Sine Die e Sepulcrum, di cui presto uscirà il disco di debutto. Marco centra perfettamente il bersaglio dando vita ad un disco clamoroso, denso ed etereo allo stesso momento, forte nella sua cristallina leggerezza, acido nella semplicità di slegare la chimica delle cose e dei suoni, e bello come un raggio del sole che bacia senza scottare.
Registrato e mixato da Emi Cioncoloni al El Fish Studio di Genova, la fotografia e gli interni sono curati da Alison Scarpulla, fotografa americana già con Wolves In The Throne Room ed altri. Di questo capolavoro verranno pubblicate 100 copie in vinile trasparente e 200 copie in vinile nero.

TRACKLIST
1.Father Sun
2.To an isle in the water
3.River’s call
4.Apparent motion
5.Like waves under the skin
6.Vena
7.Hope

LINE-UP
Marco Paddeu

MORGENGRUSS – Facebook

Flegethon – Cry of the Ice Wolves III

Chi predilige l’ambient nelle sue sembianze più oscure potrebbe gradire non poco.

Flegethon è un nome che agita la scena russe del doom più estremo fin dall’inizio del secolo e Cry of the Ice Wolves III è addirittura il nono full length uscito sotto questo marchio.

Nata come duo, dopo l’uscita di De’Meon dal 2003 la band è di fatto un progetto solista guidato da Oden. L’album preso in esame costituisce la terza ed ultima parte del concept formato dal brano omonimo presente nell’album d’esordio The Last Stage of Depression e dall’altro lavoro su lunga distanza, Cry of the Ice Wolves II del 2007.
Rispetto all’ambient drone piuttosto tetragono di quell’opera passato, Oden in quest’occasione lascia spazio a spiragli di melodia che accompagnano piacevolmente la monotraccia fino al suo epilogo: i suoni appaiono molto più curati ed il soffocante senso di minaccia dell’episodio II viene rimpiazzato da un’irrequietezza che monta lentamente ed inesorabile come una marea.
Grazie a ciò questa mezz’ora di musica mostra più i pregi che non i difetti dello specifico sottogenere, riuscendo nell’impresa di non annoiare, avvolgendo invece l’ascoltatore con un flusso sonoro continuo ma dai tratti lineari e riconoscibili.
Se viene parzialmente meno la vis sperimentale che animava i passati lavori, Cry of the Ice Wolves III si rivela comunque un’opera matura e competitiva, sia pure nel suo ristretto ambito stilistico; in particolare, chi predilige l’ambient nelle sue sembianze più oscure potrebbe gradire non poco.

Tracklist:
1. Cry of the Ice Wolves III

Line-up:
Oden

Funebria – Dekatherion: Ten Years of Hate & Pride

Se volete cattiveria e blasfemie assortite condite da un buon black/death i Funebria sono il gruppo che fa per voi.

Torniamo in Sudamerica, precisamente a Maracaibo (Venezuela) per conoscere questi metallari estremi che nel 2015 hanno festeggiato i loro dieci anni di attività.

Con un monicker perfettamente in linea con il sound prodotto, i Funebria rilasciano il loro secondo full length di una discografia composta dal classico demo d’esordio, un ep rilasciato nel 2006, l’album In Dominus Blasfemical Est… Ad Noctum Sathania del 2009, ed uno split di tre anni fa diviso con i blacksters Veldraveth, anch’essi venezuelani.
Un drappo nero intriso di black metal oltranzista e fortemente anticristiano, reso putrido da marcio thrash/death, è il sound che ci propongono i nostri demoni sudamericani,influenzato dalla scena est europea, alquanto feroce e di buon impatto.
La band ce la metta tutta per risultare il più evil possibile e gli sforzi premiano le atmosfere da girone infernale dei brani che compongono l’album, cattivi e maligni, veloci e senza compromessi, con un buon uso delle voci ed il soddisfacente lavoro della sezione ritmica, massacrante e tempestosa quanto basta per risultare un bombardamento senza pietà contro le truppe del cielo.
Guerra, una guerra per il dominio sui popoli della Terra portato dagli eserciti di Satana, di cui l’album si vuol ergere a colonna sonora, riuscendoci in parte per merito di songs dal sicuro impatto come Serpent Sign o Cult of Cosmic Destruction, più in linea con il black scandinavo e delle urla belluine e demoniache, un vortice malefico sicuramente avvincente.
Chiaro, non siamo nel gotha del genere, pur essendo palesi i riferimenti alla scena polacca in primis, e le band storiche sono ancora lontane, ma Dekatherion: Ten Years Of Hate & Pride, rimane comunque un lavoro in grado di soddisfare i blacksters più oltranzisti, con tutti i pregi e i difetti di un’opera del genere, che si mantiene ben oltre una sufficienza abbondante in tutta la sua durata.
Se volete cattiveria e blasfemie assortite condite da un buon black/death i Funebria sono il gruppo che fa per voi.

TRACKLIST
1. Intro
2. Consolamentum
3. Serpent Sign
4. Whores of Babylon
5. Nihilist Revelation
6. Divide & Conquer
7. Aeon of Tyranny
8. Azag (The Crown of Void)
9. Cult of Cosmic Destruction

LINE-UP
Iblis – Bass
Daemonae – Guitars
Seth aum Xul – Vocals
Ed Thorn – Drums

FUNEBRIA – Facebook