DEMETRA SINE DIE

La fantascienza oscura dei Demetra Sine Die: nuovo disco e intervista al gruppo

Oltre il black, oltre il kraut, oltre molti limiti o vincoli, sperimentazione, spirito d’avventura nella creazione musicale, superamento dei confini raggiunti: tutto questo è il nuovo Demetra Sine Die, Post Glacial Rebound. Un titolo che indica atmosfere spaziali e fantascientifiche. Ne abbiamo parlato con Marco Paddeu e Adriano Magliocco.

ME Marco, cosa rappresenta per voi questo nuovo capitolo della vostra storia?

In primis è una testimonianza della nostra amicizia. Riuscire ad arrivare al terzo disco attraverso anni complessi e periodi difficili è una grande soddisfazione. In più anche questo capitolo rappresenta una evoluzione del nostro modo di comporre e si stacca per molti versi da quanto fatto in passato.

ME Il vostro suono e la vostra identità artistica paiono in continua evoluzione, in linea del resto con il nome che vi siete dati…

Marco: L’evoluzione artistica è parallela alla nostra come persone. Tutti e tre siamo molto curiosi: ascoltiamo molta musica e non ci piace restare fermi e ripeterci. Una traccia dai tratti puramente kraut rock come Eternal Transmigration è significativa da questo punto di vista. Non avevamo mai fatto nulla del genere ma è nata spontaneamente e penso stia alla perfezione nella scaletta che abbiamo scelto. La circolarità ritmica che trovi nel kraut rock è un elemento che amiamo e che abbiamo interiorizzato… sarebbe bello un giorno fare un disco tutto così… ah ah ah ah.

Adriano: non so dirti da cosa dipenda, sicuramente da quello che ascoltiamo ma anche dalle vicende della vita; come puoi vedere non siamo ragazzini e con l’età via via cose ne capitano, alcune belle, magari hai più soldi a disposizione, ma anche tante brutte e non sono più i drammi esistenziali che ti colpiscono da giovane, sono proprio mazzate che ricevi e spesso non ci puoi fare nulla, e credo che in Post Glacial Rebound si sentano proprio tutte.

ME In questo nuovo disco sono presenti anche elementi post-black…

Si, amiamo un po’ tutti i generi “estremi” e alcune caratteristiche del black e del death metal sono state inglobate nel nostro suono in funzione di una migliore rappresentazione di ciò che sentivamo nel momento in cui stavamo componendo il disco. Gravity in questo senso è black metal calato nello spazio più profondo, con connotati fortemente psichedelici specialmente nella prima parte.Questa traccia, così come Stanislaw Lem, è stata fortemente influenzata dalla lettura di Solaris.

ME Cosa ascoltate ultimamente e quali sono stati, secondo te, i lavori migliori di questi ultimi anni?

Marco: Ultimamente ascolto tanto jazz, in particolare Miles Davis, Herbie Hancock e John McLaughlin. Inutile dire che quando questi tre si ritrovarono a suonare insieme per Miles Davis nacquero dei capolavori senza tempo, come “In a Silent Way”, “Bitches Brew” e “A tribute to Jack Johnson”… Poi continuo sempre ad essere vorace nel “nostro genere”, quindi potrei dirti che apprezzo molto il percorso dei finnici Oranssi Pazuzu e dei loro compagni Dark Buddha Rising. Adoro i God Speed You Black Emperor, Dylan Carlson e i suoi Earth, Neurosis, Converge, Wolves in the Throne Room, Anna Von Hausswolf… Comunque la cosa più bella è continuare a scavare nell’underground, dove si trovano cose stupende e dove la creatività continua ad essere protagonista in antitesi alle proposte di massa propinate dalle major.

Adriano: recentemente ascolto molto rock lento, doom o funeral doom, chiamalo come vuoi, tipo Ahab, Pallebearer, Mournful Congregation, ecc., ma anche un po di black metal “panteista”, come gli ormai ex Agalloch, ora i Pillorian, i Wolves in the Throne Room.

ME In generale, a tuo parere, che cosa fa sì che un album lasci un segno e indichi una strada?

Oggi è sempre più difficile lasciare un segno e tracciare una nuova strada in ambito artistico-musicale. Di sicuro i signori di cui parlavo sopra lo hanno fatto perché erano e sono dei geni dotati però di una personalità volta a mettersi sempre in discussione. Miles Davis avrebbe potuto andare avanti con i suoi standard jazz, senza spostarsi più di tanto dal meraviglioso “A kind of blue”, ma non lo fece e sul finire degli anni ’60 si lasciò influenzare dal rock psichedelico e dai sintetizzatori andando poco a poco a plasmare cose mai sentite prima, che portarono alla fusion e al funky. Lo stesso discorso vale per Herbie Hancock: se ascolti i primi dischi e arrivi a Mwandishi, Crossings, Sextant e Head Hunters non puoi che rimanere stupefatto del talento e della visione globale di un altro artista che ha lasciato il segno e anche qualcosa in più.

ME Come è andato il tuo progetto solista, Morgengruss?

Sono molto soddisfatto del primo disco. Mi ha lasciato tanti ricordi, mi ha fatto crescere sotto molti aspetti e le poche date ma estremamente qualitative: mi hanno dato la possibilità di conoscere artisti stupendi. Il secondo disco è in cantiere e verrà registrato entro il 2018.

ME Sappiamo che suoni anche in un’altra band più prossima al drone-doom, i Sepvlcrvm: quali sono le novità all’orizzonte, se ci puoi anticipare qualcosa?

Sepvlcrvm ha molto materiale pronto per essere pubblicato. Abbiamo almeno un paio di dischi di cui uno doppio. Sarà diviso in un disco di studio e uno live inciso un paio di anni fa qui a Genova. Non posso rivelare molto ma sarà un concept interamente dedicato al cosmo, suona Sepvlcrvm anche se è qualcosa di piuttosto differente rispetto a quanto fatto in passato.

ME Nel vostro approccio – accanto a dark wave, drone doom, post black, noise, sludge e kraut – si possono percepire non pochi echi di matrice progressive: tuttavia, cosa è prog per te?

Ho sempre accostato il termine progressive alla una rottura degli schemi precostituiti sia della musica rock che del pop. Quindi la volontà di andare oltre la classica forma canzone penso sia una caratteristica quasi imprescindibile per questo tipo di approccio.