In Britain: i Napalm Death dal crust punk al death-grind

1. Un anno basilare il 1977. Il rock, come sempre voce del disagio giovanile, riesce ad oltrepassare i limiti di una lettura razionale ed a cogliere tutto il lato simbolico ed emotivo di questo disagio, trasformandolo in ribellione. Dall’Inghilterra, arriva l’urlo nichilistico dei Sex Pistols, No Future. In Italia i centri sociali lo amplificheranno in tutta la sua potenza anarcoide. Band come Clash, Carcass e gli oscuri Cure daranno vita ad una scena musicale capace di evolversi, in seguito, in altre forme più estreme (crust punk, hardcore, grind, thrash e death), come qui di seguito andremo a analizzare.

2. Dici Grindcore e pensi ai Napalm Death. Descrivere questo genere, senza citarne i veri padri fondatori, sarebbe come parlare del Futurismo dimenticandoci del Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti. Quando un genere musicale nasce, notoriamente possiede più padri (ed un’unica madre, ossia la passione per la musica stessa). Pensiamo al thrash o al death e ci vengono in mente almeno dieci band genitoriali (e tre o quattro nazioni). Il caso del Grindcore è forse più unico che raro. Esso possiede un’identità ben definita, un’unica terra Natale (l’Inghilterra) e un solo ed unico padre. Per riprendere il paragone con il Manifesto del poeta, scrittore e drammaturgo italiano, non possiamo esimerci dal citare almeno i primi due punti essenziali del testo che paiono scritti ad emblema del messaggio che i Nostri, esattamente settantadue anni dopo, hanno voluto lasciare ai posteri: a) noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità; b) il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
Vogliamo parlare del coraggio, dell’amor del pericolo, dell’audacia e dell’abitudine all’energia, di questi ragazzacci di Birmingham, che agli albori degli anni ’80 (a quei tempi si facevano chiamare Civil Defence), si permisero di proporre un genere assolutamente in contro-tendenza con i canoni fondamentali della musica (almeno quella di allora)? Nel 1981, per estremo si intendeva al massimo Welcome to Hell dei Venom (Reign in Blood uscì solo nel 1986 e i Death, così come i Bathory, uscirono solo nel 1984, e comunque sempre uno step indietro – in termini di violenza sonora – da quanto proposto dal combo inglese). Certo, ai tempi di demo come Halloween e And, Like Sheep, We Have All Gone Astray (i primi due, usciti nel lontano 1982) c’era ancora tanto Punk e Hardcore. Comprensibile! D’altronde, l’allora terzetto di Birmingham (Nic Bullen alla voce, Miles Ratledge alla batteria e Daryll Fideski alle chitarre, poi divenuto quartetto con l’ingresso di Finbar Quinn al basso) arrivava direttamente dagli sconquassi social-musicali della stravolgente scena punk inglese. Ma già a quei tempi preistorici, si intravvedeva una ricerca di un’energia al di là di quanto espresso dalla scena di allora. Un’estenuante necessità di correre alla velocità della luce, quasi a fuggire dalle meschinità della società post anni ‘70 (almeno nella visione punk del periodo) o a corrergli contro, urlando il proprio disprezzo. E forse, ad un certo punto, si accorsero che il nome di Civil Defence fosse troppo ‘leggero’. Ci voleva qualcosa di potente e distruttivo, che ardesse tutto e tutti, e che emanasse forte odore di bruciato: Napalm Death, appunto! Ma, tutto ciò, non rappresentava che l’inizio; il progetto era ancora grezzo, indefinito; un diamante sì bello, ma ancora finemente da tagliare.
Nel 1985 – la leggenda racconta – in un negozio di dischi di Birmingham, Nic Bullen incontra un giovanissimo chitarrista – Justin Broadrick – che si unisce al gruppo. E’ un momento decisivo per la band (onestamente nella loro storia, di circostanze determinanti per i loro cambiamenti, ce ne sono state poi parecchie). Esce Hatred Surge, il demo tape che abbandona, quasi definitivamente, ogni collegamento col passato: non più anarcho-punk o crust punk, non più Amebix o Crass. Un suono nuovo, devastante, mai ascoltato prima di allora. Per inciso, la chiave del loro successo, probabilmente fu proprio la demo del 1985. E’ con questa uscita, infatti, che scandalizzati critici musicali iniziarono ad appioppare alla musica dei ND, il sostantivo di ‘rumore’; pensando di cucinare per bene questi “presunti musicisti da quattro soldi”, stroncandoli con piogge di critiche, spesso mai troppo benevole, finirono – a loro insaputa – per farne la loro fortuna.
Ma fu l’arrivo di Mick (Harris) a fa virare i Napalm Death verso lidi molto più caotici, assordanti, passando attraverso velocità mai sperimentate, prima di allora. Sostituendo Ratledge alle pelli (mentre Bullen divenne anche bassista, sostituendo Shaw, che a sua volta aveva sostituito il primo Quinn), rielaborò quasi tutti i pezzi sino ad allora composti, riducendone drasticamente le durate, ri-arrangiando il sound, rendendolo molto più brutale e più veloce. Con questi presupposti si arrivò all’incisione di due demo: From Ensalvement to Obliteration e Scum, poi divenuti i celeberrimi omonimi album (con alcune eccezioni, nelle rispettive track list), e fiori all’occhiello della storia musicale dei Nostri.
Ma è il 1987 che consacra il combo a vera icona dell’estremo. Oramai diciamo che si era già sparsa la voce e, grazie anche al tape-trading, i Napalm Death incominciavano a farsi conoscere, anche nella scena d’oltre oceano. Iniziarono a condividere idee e pensieri con band (allora nascenti) del calibro di Heresy , Unseen Terror, Extreme Noise Terror e Ripcord (tutti loro connazionali) e ancora Siege, Macabre, Cryptic Slaughter, Repulsion (USA). La fama giunse alle orecchie di un certo Digby Pearson, proprietario dell’allora minuscola etichetta Earache. Pearson ne vide le potenzialità (e sicuramente la possibilità di rendere famosa la propria etichetta) e li mise sotto contratto; uscì quindi Scum. Le novità rispetto alla precedente formazione furono: al basso un allora sconosciuto Jim Whitely (divenuto poi front-man di famosissime band, con diversi pseudonimi come ‘Jimbo’ e ‘Big Jim Grinder’, quali Extinction of Mankind, Prophecy of Doom, Filthkick, Doom e Ripcord), e alla chitarra un certo Bill Steer (Carcass) e uno sconosciutissimo Lee Dorrian (anche se molte track erano allora ancora cantate da Bullen).
Se Scum, lo possiamo affermare con certezza, rappresentò il primo vero album di Grindcore (l’album che sconvolse le masse, con accelerazioni spaventose, sonorità più affini ai rumorismi sperimentali di storiche band quali i Throbbing Gristle e gli Swans, vocalizzi più simili a schizoidi gorgoglii di un lavandino, tracce di una brevità sconcertante – You Suffer tocca l’apice, con il suoi eterni 00:01 secondi…), From Enslavement To Obliteration (uscito l’anno dopo) ne rappresentò il vero Manifesto Futurista. Qui troviamo una formazione che si consolida nella storia, e che rimarrà, negli anni a venire, nei cuori di tutti i ‘grinders’ più nostalgici e malinconici. Chi può affermare di non aver amato Lee Dorrian alla voce (cupissimi growls e schizoidi urli che hanno tracciato le linee guida del genere), Bill Steer alla chitarra (un favoloso chitarrista, divenuto, poi, un’icona con i suoi Carcass), Shane Embury al basso (anche lui un prime-mover, con i suoi Unseen Terror, poi successivamente leader incontrastato di Brujeria e Lock Up, per citarne qui solo alcuni), ed infine, ovviamente l’anima e core della band, Mr. Mick Harris alla batteria?
Il seguito, tra centinaia di concerti, alcuni split (tra cui quello famosissimo con i giapponesi S.O.B.) e una seconda edizione delle celebri Peel Sessions (la prima è datata 1987), ci porta ad un fatidico agosto del 1989, che vede l’uscita di un mini, non capito da molti fan, Mentally Murdered. Anzi, ad onore del vero, considerato da alcuni un vero e proprio tradimento. Un mini lp di 4 canzoni… della durata totale di 15 minuti e mezzo! Signori, il Grindcore – per come era stato inteso, sino a quel momento – venne considerato definitivamente defunto… o almeno defunta era la fase Grindcore dei Nostri. Sonorità estreme si, ma molta più ricerca e tecnica compositiva, sounds spesso accostabili al death (oramai divenuto l’estremo più ascoltato di quegli anni), cancellarono ogni parvenza musicale riconducibile al primo Grindcore, all’Hardcore, al Crust Punk.
Forse per questa ragione (e forse per svariate altre: Bill Steer lasciò, per esempio, la band solo per dedicarsi completamente ai suoi Carcass, che divenivano, ogni giorno di più, leader incontrastati del Goregrind), la formazione cambiò. Entrarono, alle chitarre, Mitch Harris (già leader dei grinders Righteous Pigs) e il compianto Jesse Pintado (come non ricordare i Terrorizer di World Downfall?); ma soprattutto, Lee Dorrian (che fondò, a quel tempo, i doomsters Cathedral), fu sostituito da un allora giovanissimo (ma già divenuto famoso per i suoi Benediction) Mark “Barney” Greenway.

3. Trovata la stabilità cercata, i Napalm decisero, assecondando anche la passione mai sopita e mai nascosta di Embury e del chitarrista Harris, di rendere più pesante il loro suono, non svoltando completamente verso il death ma incorporandolo in modo naturale nel loro sound. Affidandosi alle sapienti mani di Scott Burns, ai tempi il re Mida del death, andarono ai famosi Morrisound Studios, un passaggio obbligato per ogni gruppo dedito a queste sonorità. Il risultato, nel 1990, fu Harmony Corruption, che sconvolse il popolo Grindcore, non pronto a una svolta così decisa da parte dei loro beniamini; non tutto, ma molto death si trova nei solchi di quest’opera, che esce nello stesso anno (1990), di Left Hand Path degli Entombed, non sfigurando, ma neanche centrando completamente il bersaglio; la produzione, nonostante Burns, non è ancora perfettamente calibrata, con le due chitarre un po’ schiacciate dal suono della batteria, ma brani come Suffer the children e It the truth be known dimostrano, ampiamente, che la convinzione è notevole e che la strada si deve percorrere. Mick Harris, guru e prime mover del Grindcore, lascia la band, forse non convinto completamente della direzione intrapresa e viene prontamente sostituito da Danny Herrera. Così la band instancabile nel 1992 propone Utopia Banished, maturando ulteriormente quella fusione tra grind, (crust) punk e death. Pintado sforna riff memorabili ed il sound è selvaggio, violento e in alcune parti decisamente anche tecnico. Christening of the Blind e Aryanism sono autentiche mazzate in faccia, sorrette dalle vocals di Barney, incisive e pronte a declamare testi mai banali, improntati sul sociale e sulla degradazione umana. La tesissima e claustrofobica Contemptuous dimostra che la band ha anche altre frecce da scoccare nella sua faretra. Incredibilmente, la band non ha variazioni di formazione e prosegue lo sviluppo del suo suono proponendo nel 1994 Fear, Emptiness, Despair, forse l’apice da quando hanno ‘osato’ abbandonare il puro grind; i cinque musicisti, in grande spolvero, ci donano undici brani cattivi, strutturati con grandi riff, semplici e travolgenti, accostati a suoni dissonanti, generando un’atmosfera devastante ed allo stesso tempo claustrofobica (State of Mind); la ferocia hardcore rimane immutata, ma è innestata in una materia cangiante e assolutamente ispirata. Scena musicale in continuo movimento negli anni ’90 ed i Napalm Death forse si fanno prendere troppo la mano; in perenne movimento in sede live, dal punto di vista discografico, nel 1995 (Greed Killing, un EP) e nel 1996 (Diatribes), danno alle stampe due dischi non perfettamente centrati: vogliono incorporare nel loro sound parti di groove metal, tracce industrial, nu metal ed il risultato non da i frutti sperati. Intendiamoci, se si togliesse il monicker Napalm Death sarebbero due buoni dischi, ma chi ha fatto la storia non può permetterselo; il sound sembra stratificato su diversi piani, con la voce di Barney troppo pesante per la struttura dei brani, che oltrettutto sono a volte poco ispirati per la presenza di troppi ingredienti forse mal pesati. Sono quasi irriconoscibili i ND, mancando la ferocia e la cattiveria a cui ci hanno abituati; riescono raramente ad accendere l’interesse (Cold forgiveness), senza però riuscire a mantenerlo alto. Due dischi che chiaramente divisero la critica e il pubblico, che apprezzò molto relativamente la loro scelta; invito il lettore a mettere nel lettore cd in successione Fear e Diatribes per capire la differenze di suono ed emozionali che ne derivano. I Napalm Death hanno però troppo credito, hanno fattto la storia e non si può credere che possano aver imboccato una strada che non li rappresenti, è giusto guardare al futuro, trarre ispirazione per produrre arte sempre nuova e coinvolgente; sono transitati dal grind al death, con buona naturalezza e hanno rilasciato opere fondamentali, ma forse ora hanno bisogno di correggere la rotta. A distanza di solo un anno, nel 1997 esce Inside the torn apart che inizia a riportare il loro suono su coordinate più consone ai Napalm: introdotto da un opener fantastica come Breed to Breathe, potente e agile il disco, non tutto dello stesso livello, non depone completamente i suoni del precedente, ma mostra incoraggianti segnali di cattiveria che forse ora è meno selvaggia, ma più controllata. Assolutamente non è tra i primi acquisti da fare per conoscere questa band seminale, forse non ci sono brani cosi memorabili, ma rappresenta un buon ritorno a qualcosa che si svilupperà poi successivamente di lì a poco.

4. Nel 1998 i Napalm Death pubblicano sempre per la Earache Words From the Exit Wounds. Qui, il sound aggressivo e moderno degli ultimi dischi viene confermato, non senza sperimentazioni di tipo industrial, sulla scia dei Killing Joke più claustrofobici e violenti. Si tratta di un lavoro di notevole e grande maturità artistica, anche sotto il profilo della scrittura musicale, con una marcata attenzione per la cura dei suoni e le nuove e più aggiornate tecnologie di incisione.
A questo punto, il gruppo di Birmingham sente evidentemente di avere concluso una stagione della propria storia e puntuale arriva il live (semi-ufficiale), Bottlegged in Japan, pubblicato soltanto nel paese del sol levante: un doppio CD che vede i Napalm Death davvero al massimo della forma pure sul palco, con un’ottima carrellata di pezzi più recenti e di classici del loro repertorio.
Senza alcuna fretta sulla strada da intraprendere, i nostri si concedono un’ulteriore – ma fruttuosa – pausa di riflessione, dando alle stampe un interessante Leaders Not Followers (1999), per la Dream Catcher: trattasi, questa volta, di un disco di sole covers, tese (come si evince chiaramente a partire sin dal titolo scelto) a riconoscere l’importanza storica di coloro che sono stati, nella storia del metal e dell’hardcore punk, iniziatori se non pionieri che hanno saputo aprire una strada seguita in seguito da altri. Troviamo così brani dei Death di Chuck Schuldiner, dei doomsters Pentagram, degli italiani Raw Power (la loro Politicians resta evidentemente un pezzo-manifesto noto e amato in Inghilterra, a conferma della statura internazionale dell’act emiliano), degli Slaughter, dei Repulsion e dei Dead Kennedys. Finalmente, nel 2000, sempre per la Dream Catcher, esce il nuovo capitolo in studio dei ND: Enemy of the Music Business, fin dal titolo una (programmatica ed esplicita) dichiarazione di intenti e musicali e lirici, si segnala positivamente come uno dei più feroci ed intransigenti episodi, nella discografia del gruppo inglese. Dal punto di vista stilistico, l’assoluto diniego verso qualsiasi forma di concessione commerciale si trova poi confermata da un approccio non dissimile da quello del coevo brutal death metal d’oltreoceano: un monolite compattissimo ed inflessibile, una grande testimonianza di coerenza e di integrità, da parte della band britannica. Nello stesso anno, vengono stampate anche le Complete Radio One Sessions, gli storici provini radiofonici incisi per John Peel, disc jockey che tanto fece in favore del riconoscimento del movimento punk inglese.
Da questo momento in poi, i Napalm Death si orientano sempre più verso il death-grind: ricuperano cioè il grindcore da loro inventato nella seconda metà degli anni Ottanta, ne rivedono e aggiornano la formula portandola nel terzo millennio e facendo, soprattutto, tesoro dell’esperienza death. Order of the Leech vede la luce nel 2002 per la Spitfire ed è un fantastico affresco di grindcore moderno, con piccoli tocchi black metal alla Immortal. Nel 2003, appare Noise for Music’s Sake, una raccolta di materiale registrato in concerto e di EP con il tempo divenuti piuttosto rari, edita dalla Earache, in formato doppio. Si tratta di una chicca davvero imperdibile: il secondo CD in particolare ripropone il mitico mini Mentally Murdered e pezzi dallo split con gli svedesi At the Gates.
Nel 2004 esce il secondo capitolo di Leaders Not Followers. Questa volta tocca a Cryptic Slaughter, Devastation, Hellhammer, Discharge, Master, Kreator, Massacre, Attitude Adjustment e Agnostic Front, Sepultura e Hirax tra gli altri venire coverizzati in chiave death-grind, con risultati grandiosi; passa solo un anno e nel 2005 è nei negozi il nuovo The Code is Red / Long Live the Code, in linea sotto ogni aspetto con il suo predecessore in studio. Qualche variazione introduce Smear Compaign (licenziato, nel 2006, dalla tedesca Century Media), che vede ospite la vocalist degli olandesi The Gathering. Tre anni e Time Waits For No Slave (2009) ritorna al più classico e collaudato grindcore-death. Dodici mesi dopo esce sul mercato per la Snapper (pure in versione DVD) il live Punishment in Capitals, dall’infuocata esibizione registrata a Londra nel 2002.
I due dischi successivi dei Napalm Death, Utilitarian (2012) ed Apex Predator – Easy Meat (2015), pur non aggiungendo forse più moltissimo in termini di novità – ma è possibile dopo oltre trent’anni e poi può essere cosa che alla band interessa? – ci restituiscono un gruppo ormai intoccabile, sicuro di sé ed entrato di diritto nella storia, incorruttibile e inossidabile come l’etica crust punk impone.
Assolutamente irrinunciabile è l’ultimo Coded Smears and More Uncommon Slurs (2018), antologia doppia, costituita da sessions inedite dagli ultimi lavori, due covers dei Melvins (i veri padrini dello sludge), B-sides e brani dagli split realizzati con Voivod, Converge e Heaven Shall Burn a conferma di un interesse anche verso math-core, SCI-FI metal e post-core melodico. Napalm Death: la Storia.

Roberto Grassi – Michele Massari – Massimo Pagliaro – Dazagthot

Letture essenziali
– Stefano Cerati e Barbara Francone, I 100 migliori dischi death metal (Tsunami)
– Gianni Della Cioppa, Il grande libro dell’heavy metal (Giunti)
– Ian Glasper, Anarcopunk (Shake)
– Ian Glasper, Quando bruciammo l’Inghilterra (Shake)
– Albert Mudrian, Choosing Death (Tsunami)
– Jason Netherton, Profondo estremo (Tsunami)