Negli Abissi del Fato: l’epopea dei Manilla Road

La recente scomparsa di Mark Shelton (1957-2018), voce e chitarra dei Manilla Road, immensa e storica cult band, impone – non solo agli appassionati ed ai conoscitori – una adeguata opera di ricostruzione e di ripensamento circa quanto da lui magnificamente realizzato con la sua band, nel corso di oltre quattro decenni.

I Manilla Road nascono nel Kansas, a Wichita nel 1976. Inizialmente, vista l’epoca, sono influenzati dal classico hard rock americano, ma subito mostrano, per precisa volontà di Shelton, il proposito di forgiare uno stile personale, che possa permettere di individuarli in maniera precisa, tra i moltissimi colleghi d’oltreoceano. La formazione, un trio, è composta, oltre che da Shelton, dal fedele bassista Scott Park e dal batterista Rick Fisher. Tra il 1977 ed il 1978, il gruppo si fa conoscere attraverso le sue infuocate esibizioni dal vivo, per lo più nei locali del suo stato d’origine. Nel 1979, la band entra in sala di registrazione, per incidere un nastro, i cui pezzi, all’insegna di un hard prog molto potente e d’ispirazione fantascientifica, vanno a far parte, di lì a breve, del mini-LP Invasion (pubblicato nel 1980, dalla Roadster), forte dei primi classici: la spaziale Far Side of the Sun, che oltrepassa gli otto minuti, la breve ma eroica Centurian War Games, la suite di quattordici minuti The Empire.

Sempre nel 1979, in dicembre, il combo di Shelton suona nella sua città natale: la testimonianza su compact di quel concerto uscirà, per la Shadow Kingdom, nel 2010, con il titolo After Midnight: solo cinque brani, ma Pentacle of Truth, Chromaphobia e Herman Hill già lasciano il segno e fanno intravedere i futuri giorni di gloria, plumbei ed affascinanti, come il fuoco che alimentava secoli fa il crogiolo degli alchimisti.
Nel 1981, i Manilla Road registrano quindi il più oscuro e tenebroso Mark of the Beast, permeato di influenze vagamente sabbathiane e tra le primissime realizzazioni del nascente US metal. Il disco, rimasto allora inedito, verrà pubblicato solo moltissimi anni dopo, dalla Monster (che, insieme alla Rockadrome, ha ristampato anche classici dimenticati di Winterhawk, Sorcery, Poobah, Jerusalem, Saint-Anthony’s Fyre, Ashbury, Militia, Anvil Chorus, Full Moon e Legend, tra gli altri). Materiali da Mark of the Beast si ritrovano oggi anche in Dreams of Eschaton, raccolta doppia di inediti live e studio, risalenti tutti al periodo 1979-1981 dei Manilla Road, fatta uscire recentemente dalla sempre benemerita HR Records.
In questa prima fase del loro percorso artistico, i Manilla Road cominciano a dare corpo al loro stile epic metal. La cosa emerge soprattutto dall’ascolto di Metal (1982) e Crystal Logic (1983). Canzoni quali Enter the Warrior, Defender (da quel momento parola magica per ogni true metal fan), Queen of the Black Coast, Cage of Mirrors, la tetra Necropolis, Flaming Metal System e l’evocativa Veils of Negative Existence segnano un’epoca ed aprono una strada, incarnando attraverso il pentagramma gli scenari della tradizione guerriera di matrice sword and sorcery – quella per capirci di scrittori del calibro di Robert Erwin Howard (il creatore tra gli altri di Conan il Barbaro e Kull di Valusia), Lyon Sprague de Camp, Lin Carter e Fritz Leiber – fatta di maghi e sortilegi, spade e incantesimi, torri e contrade medievali, draghi e mostri da combattere. E’, di fatto, l’invenzione di un genere, per nulla pacchiano o autoindulgente, in anticipo sui Manowar. Una terra altra per tutti coloro che avvertono il disagio della realtà e il bisogno spirituale di evaderne verso altri mondi.

 


Intanto, la creatura di Shelton partecipa alla raccolta US Metal III, curata da Mike Varney, e tramite un tour statunitense in compagnia di Krokus e Ted Nugent vede crescere la propria fama. Nel 1984, l’arrivo del nuovo bassista Randy Foxe sposta l’asse ritmico dei Manilla Road verso lidi più veloci: ne è la prova il capolavoro Open the Gates, più moderno nel suono, puro come cristallo di roccia, vero grande classico a cavallo tra speed ed epic metal. Forte anche di un’ottima produzione, il disco è il primo della band a venire distribuito anche in Europa, grazie alla francese Black Dragon. Al LP viene inoltre allegato un extended play di dodici pollici e sedici minuti in tutto. Lo stile elaborato da Open the Gates – che, tramite pezzi come Metalstrom, la title-track, la cosmica Astronomica, Fires of Mars, The Ninth Wave, le antesignane del fantasy metal The Road of Kings e Hour of the Dragon, dà voce musicale e narrativa a leggende arturiane e miti nordici – si trova confermato dai due lavori successivi: The Deluge (1986) e Mystification (1987). Il primo è consacrato al diluvio biblico ed ai misteri e terrori del mare, con tracce splendide, quali Shadow in the Black, Isle of the Dead, Eye of the Sea, Taken by Storm (che apre la via al pirate metal dei Running Wild), The Drowned Lands e la più inquietante Hammer of the Witches, traduzione in musica del Malleus Maleficarum (1484) degli inquisitori domenicani Sprenger e Kramer. Il secondo disco è, invece, un omaggio al grande Edgar Allan Poe: un brano come Masque of the Red Death, tratto appunto dal racconto La Maschera della Morte Rossa (portato sugli schermi, negli anni Sessanta, da Roger Corman, con la fotografia barocca di Nicholas Roeg) è altamente rappresentativo ed emblematico in tal senso, ma non sono da meno la iniziale Up From the Crypt, Children of the Night, Haunted Palace e Dragon Star, tutte intrise d’una suggestiva atmosfera esoterico-occulta e neo-gotica. Perché anche questo è dark-sound, la cosa non va mai dimenticata. Nell’estate del 1988 esce poi Roadkill, una raccolta dal vivo che conferma i MR al massimo della forma pure sul palcoscenico.
Dopo Poe, Lovecraft. Dal solitario di Providence e dalla sua saga di orrore fantascientifico, il colto e raffinato Shelton tra l’ispirazione letteraria per Out of the Abyss, apparso nel 1989 per la Leviathan e capace di affiancare al solido verbo dell’epic metal inattese ma opportune aperture thrash. Return of the Old Ones – i Grandi Antichi di HPL, appunto – è il brano-simbolo del disco. Nondimeno echi lovecraftiani risuonano altresì in From Beyond e A Touch of Madness, pezzi forti (insieme a Book of Skelos ed alla mitologica The Prophecy) del successivo capitolo in studio: The Courts of Chaos, pubblicato nel 1990. Intanto, il messaggio musicale dei MN veniva in parte raccolto ed aggiornato dai floridiani Iced Earth.
Il primo progetto solista di Shelton – prima cioè dei più dark Hellwell e di Obsidian Dreams – vide la luce nel 1991, intitolato The Circus Maximus, ma pubblicato ancora a nome Manilla Road. Mark, evidentemente, sperava con questo disco di far finalmente raggiungere al proprio gruppo la meritata notorietà, anche al di fuori dei confini americani. Purtroppo, il 1991 fu l’anno in cui i Metallica, con il pur buono black album, tradirono il thrash, messo in crisi – insieme a epic, speed e class metal – da Nevermind dei Nirvana e dall’avvento della moda alternative. Quasi nessuno si accorse pertanto di The Circus Maximus, ispirato all’antica Roma e ai suoi fasti gladiatorii, e si aprì, per tutto l’heavy più classico e tradizionale, una crisi decennale. Vittima dell’indifferenza generale, Shelton si ritrovò costretto a sciogliere temporaneamente i Manilla Road, in attesa di tempi migliori. Questi vennero al principio della nuova decade, che vide come sappiamo letteralmente una rinascita di ogni branca – epic metal incluso, dunque – della nostra musica. I Manilla Road tornarono così alla grandissima, nel 2001, con Atlantis Rising, che, edito dalla Iron Glory, attingeva in quattro libri – quattro suite, di fatto – tanto ad Atlantide e Lemuria, quanto alle leggende scandinave ed a Tolkien. Un vero classico moderno, si potrebbe dire.
Le fortezze nascoste, i castelli imponenti e misteriosi ed i duelli all’ultimo sangue furono, già dalla bella copertina, gli elementi che fornirono la trama a Spiral Castle, uscito nel 2002, per la nostrana Black Widow. Ormai Mark aveva ritrovato la sua originale vena creativa. O, se si vuole, ri-creativa (di miti, leggende e tradizioni arcane e ancestrali, provenienti dal Grande Passato, rese con un metal roccioso e stentoreo, elegante ed all’occorrenza sepolcrale, enfatico e magniloquente). Anche Gates of Fire (stampato dalla Battle Cry, nel 2005) non fu di certo da meno: tre complesse ed articolate trilogie, che guardavano questa volta, oltre che alle gesta dei re (un leitmotiv ricorrente nell’universo dell’epic metal e dei Manilla Road in particolare), ai Giganti del racconto biblico e dell’archeologia spaziale, nonché alle antiche virtù dei combattenti di Roma e Sparta.
Nel 2007 apparve nei negozi il mini Clash of Irons, split dal vivo registrato l’anno prima, giusto per riempire il vuoto temporale in attesa della nuova fatica dei MR. La My Graveyard Production – nel 2008 – si incaricò di licenziare il fantastico Voyager, con cui Shelton e compagni (dalla rinascita vi fu una autentica girandola di musicisti nella line-up dei Manilla) si misuravano, questa volta, con le storie vichinghe e norrene, nonché con il fascino dell’ignoto, racchiuso negli oceani solcati secoli fa dai drakkar dei navigatori nordici.
Ottimi sono stati pure i due lavori successivamente realizzati dal gruppo di Shelton: Playground of the Damned (2011) e il criptico Mysterium (2013), quest’ultimo pubblicato dalla Golden Core. Nel primo, riecheggia ancora il fantasma di Poe (Into the Maelstrom) e in Fire of Asshurbanipal Shelton si confronta la storia della monarchia assiro-babilonese. Nel secondo abbiamo un’ulteriore manciata di anthems epici: The Battle of Bonchester Bridge, la crowleyana Do What Thou Will, The Calling, la title-track e Only the Brave. Come se il tempo non fosse mai passato, cristallizzatosi nello spazio altro dell’immaginazione fantastica e della storia più lontana possibile dallo squallido presente.

Realmente instancabile e con un fuoco creativo sempre acceso, Shelton, nel 2012, dà vita a un side project, denominato Hellwell, dove la necessità primaria è quella di suonare su tematiche più vicine al classico horror, accompagnato da E.C. Hellwell (keyboards, synth) e da Johnny Benson (drums). L’opera Beyond the boundaries of sin presenta brani dominati dall’interplay tra la chitarra del leader e le tastiere, mentre i suoni sono molto più oscuri e pesanti, rispetto alla band madre. Le tematiche sono incentrate su storie orrorifiche ben diverse dai “soliti” testi, come in Eaters of the dead, tratto dall’omonimo racconto di Michael Crichton o come in Acheronomicon, suite basata su una breve storia, mai pubblicata, del sodale E.C. Hellwell. Come affermò Shelton, i Manilla sono l’alfa e gli Hellwell rappresentano l’omega, che si ripresentò, nel 2017, con un secondo capitolo Beyond the demon’s eyes, ancora più intricato ed elaborato, abbracciando anche forti influenze dark prog (The last rites of Edward Hawthorn); in questa seconda opera, si rivede anche un drummer storico dei Manilla, Randy “Trasher” Foxe, attivo nella band dal 1985 al 1990. Gli Hellwell non hanno mai svolto concerti live ed hanno rappresentato una diversa faccia della medaglia di un uomo che ha sempre avuto un forte impulso creativo, sempre all’insegna di una musica di qualità figlia di letture e di una cultura superiore. Nel 2015, Mark pubblica un progetto molto sentito, Obsidian Dreams, dove sono racchiuse nove songs composte in circa quindici anni; quest’opera non ha nulla a che fare con il metallo epico dei Manilla, ma esplora le sue personali radici, dai genitori entrambi musicisti alla provenienza dal Kansas, stato di country music. Songs di bellezza adamantina, pure, vere rette da una chitarra che disegna terse melodie e dà una voce particolarmente sentita ed a suo agio anche in traiettorie molto diverse; sentire oggi Burned o Blood upon the snow, per citarne solo due, è come una lama che si conficca profondamente nel cuore. Disco passato totalmente inosservato, anche perché lo stesso anno i Manilla Road tornano con un progetto importante come The Blessed Curse, incentrato sull’epopea di Gilgamesh; disco doppio, con una prima parte nel tipico ed ispirato stile, grande chitarra sempre suonata magistralmente e vocals giocate tra Mark e “Hellroadie” Patrick, splendide songs come Tomes of Clay o come The Muses Kiss dimostrano che la classe è cristallina e che i Manilla sono imprescindibili. Il secondo disco, chiamato After the Muse, non legato al concept, presenta una serie di brani, sempre gradevoli, ma dediti a un suono con influenze southern e predilige aromi acustici in alcuni tratti. Attività live intensa e si arriva al 2017, quando puntuale la band si ripresenta con To Kill a King, purtroppo, alla luce dei recenti fatti, ultima opera, e la classe rifulge ancora una volta proponendo grandi songs fluide, intense, sincere. Non ci sono altre parole, “chapeau” ad un Artista che in quarant’anni di musica ci ha donato momenti indimenticabili, proponendoci la sua incontaminata arte. La stessa che rifulge anche nel progetto Riddlemaster (del 2017), con Shelton ed il primo batterista dei Manilla, Rick Fisher: un solo disco dal titolo Bring the Magick Down, più legato a sonorità hard rock anni Settanta. Quasi un ritorno alle origini. La parola Origine, del resto, riveste come noto, per chi ha trasposto in musica la più epica sword and sorcery, un grande ed autentico significato.

Warhammer – Massimo Pagliaro