Fall Has Come – Time To Reborn

Il sound che riempe di melodie rock Time To Reborn è quanto di più american style troverete in giro, specialmente se guardate al sound alternativo

Dovete sapere che il sottoscritto ha un amico ai piedi del Vesuvio che non manca di farlo partecipe delle nuove realtà del panorama rock alternativo nazionale, tutte dall’alta qualità e pronte per il salto verso un mondo dove finalmente la loro musica possa avere i meritati consensi.

Attenzione, non parlo di successo ma di consensi, perché il nostro paese purtroppo è avaro, specialmente quando si parla di rock, della minima attenzione verso band e album come questo notevole Time To Reborn, debutto dei casertani Fall Has Come, appena tornati, in questa prima metà dell’anno da un’esaltante turnè in compagnia dei rockers Hangarvain, freschi di stampa di quel monumento all’hard rock che risulta il loro secondo lavoro Freaks, in territorio spagnolo.
Il trio campano è formato dal bravissimo singer Enrico Bellotta e qui mi fermo un’attimo: il bassista casertano è dotato di una voce dall’appeal stratosferico, la sua performance è quanto di meglio mi sia capitato di sentire nel genere, colma di feeling, radiofonica, e dotata di una personalità che si fatica a trovare anche nelle migliori band statunitensi.
Sì,  perché il sound che riempe di melodie rock Time To Reborn è quanto di più american style troverete in giro, specialmente se guardate al sound alternativo, ed alle riminiscenze del primo decennio del nuovo millennio, quello passato alla storia come alternative rock e post grunge.
Accompagnato dai due chitarristi Raffaele Giacobbone e Enrico Pascarella che compongono la line up dei Fall has Come, il singer con la sua performance regala emozioni a non finire, ciliegina sulla torta di un lavoro intenso e maturo, melodico ma dall’animo rock, alternativo forse, sicuramente conturbante e colmo di hit pregevoli.
Non credo di essere smentito se dichiaro che l’opener Cover The Sun, la semiballad I Will, l’hard rock oriented Burn Up To River, l’intimista Remember, la graffiante Urban Chaos ( con quegli accordi southern ad inizio brano che ci spingono a forza nell’America sudista dei fratellini Hangarvain) e la favolosa title track, sono bombe rock dall’alto tasso esplosivo e, in un mondo migliore, non solo musicalmente, vere mine vaganti di classifiche radiofoniche lasciate a bombardare le orecchie di migliaia di ragazzi sulle spiaggie assolate, dall’Italia alla California.
Qualcuno vi parlerà di gruppi famosi ed ora persi nel dimenticatoio del music biz, per cercare in qualche maniera di spiegarvi di che pasta è fatto questo bellissimo lavoro, io mi astengo da inutili paragoni e vi lascio alle note di Time To Reborn, debutto di questa fenomenale band tutta italiana.
P.S : fate molta attenzione perché Time To Reborn è come una droga, non potrete più farne a meno.

TRACKLIST
1. Cover the Sun
2. I Will
3. Swallow my Tears
4. Hidden Life of Dreams
5. Burn Up to River
6. Forsaken World
7. Remember
8. Start To Be Free
9. Urban Chaos
10. Time To Reborn
11. Wherever (Bonus Track)

LINE-UP
Enrico Bellotta – ocals, bass
Raffaele Giacobbone – guitars
Enrico Pascarella – guitars

FALL HAS COME – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=O8R1FNgr3WY

Tombstoned – II

I Tombstoned sono un gruppo particolare e qui lo confermano nettamente, producendo un disco fantastico.

Tornano questi giganti finlandesi del doom rock, con il secondo capitolo su lunga distanza.

Dopo un ottimo album omonimo nel 2013 pubblicato dalla fondamentale Svart Records, che li ha portati a suonare al Roadburn di quell’anno, ecco il nuovo capitolo. Ed è al livello del precedente, se non migliore, ma i Tombstoned vanno ascoltati ed assaporati disco dopo disco. Rispetto all’esordio alcune cose sono cambiate, il suono è sempre un piacevolissimo doom rock fortemente influenzato dagli anni settanta, ma per niente derivativo. Vivendo in nazioni differenti i membri del gruppo hanno accentuato il carattere jam session dei loro brani, ed il risultato è ottimo, lunghi riff con ottime melodie che sanno dove andare e cosa fare. il tutto con composizioni di ottima qualità.
I Tombstoned non hanno vissuto tempi facili ultimamente e la loro musica è più oscura rispetto al passato, anche il cantato è mutato, divergendo dall’iniziale carattere sabbatiano per trovare qualcosa di più simile al post punk. II è un disco molto affascinante e con un timbro dominante e forte. L’approccio totalmente analogico all’incisione da quel tocco di calore che rende ancora più magica questa musica. I Tombstoned sono un gruppo particolare e qui lo confermano nettamente, producendo un disco fantastico.

TRACKLIST
1. Pretending to Live
2. Brainwashed Since Birth
3. Time Travels
4. And I Told You
5. Haven’t We Seen All This Before
6. You Can Always Close Your Eyes
7. Remedies

LINE-UP
Akke – Drums
Olavi – Bass
Jussi – Guitar & Vocals

TOMBSTONED – Facebook

Poem – Skein Syndrome

Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.

Sono svariate e tutte affascinati le strade da percorrere nel mondo del metal/rock: per esempio il sound alternative degli anni novanta, da molti considerato colpevole di aver messo nell’ombra i suoni metallici classici, ha invece aperto nuove porte ed orizzonti, specialmente nell’ambito progressivo, ancora ancorato alla tradizione settantiana.

Molte band in questi anni hanno seguito il sentiero impervio tracciato da gruppi geniali come i Tool o i Pain Of Salvation, rompendo le catene che imprigionavano il genere, fermo (più per colpa degli appassionati che degli stessi musicisti) agli storici nomi i cui primi passi sono prossimi a compiere il mezzo secolo, per esplorare nuovi modi di proporre musica fuori dagli schemi.
I greci Poem sono una di queste ottime realtà: nati nella capitale intorno al 2006, licenziano il secondo lavoro, Skein Syndrome, che segue il debutto The Great Secret Show, lavoro che ha portato loro molte meritate soddisfazioni e la possibilità di confrontarsi on stage con nomi altisonanti del mondo metallico come il madman Ozzy Osbourne, i Paradise Lost ed i Pain Of Salvation.
Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.
Ottimo l’uso della voce, che richiama il post grunge statunitense alla Creed, per intenderci, mentre il sound rimane in tensione per tutta la durata dell’album, non mancando di toccare vette emozionali altissime (Fragments, Weakness), portando nelle cascata di note progressive molto della lezione impartita dal gruppo di Daniel Gildenlöw e dell’intimista drammaticità di Anathema e Katatonia.
Stati Uniti ed Europa, due modi diversi di intendere il rock che si è affacciato sul nuovo millennio, vengono fatti vivere in simbiosi nello spartito di questo bellissimo gioiellino che risulta Skein Syndrome, dove il nuovo progressive viene fagocitato ed aggredito dalle fiere alternative e metal per un banchetto a base di oscura e drammatica musica matura e terribilmente ipnotizzante.
Remission Of Breath, brano conclusivo del cd, funge da perfetto sunto del credo musicale del gruppo greco, con un’interpretazione al microfono del chitarrista George Prokopiou che da buona diventa colma di sontuosa e dolorosa teatralità.
Gran bel lavoro dunque, le attese dopo il debutto di ormai otto anni fa sono state giustificate dalla qualità di questa cinquantina di minuti, tutti da vivere sotto l’effetto emozionale che il gruppo non manca di riservare a più riprese lungo il corso di un album assolutamente da avere.

TRACKLIST
01. Passive Observer
02. Fragments
03. The End Justifies the Means
04. Bound Insanity
05. Weakness
06. Desire
07. Remission of Breath

LINE-UP
Giorgos Prokopiou – Vocals/Guitars
Laurence Bergström – Lead Guitars
Stratos Chaidos – Bass
Stavros Rigos – Drums

POEM – Facebook

Zaibatsu – Zero

Gli Zaibatsu descrivono fini, stritolamenti post industriali e ricatti di metastasi senzienti, il tutto con un magnifico piglio post industrial.

Ci sono rari momenti di illuminazione nei quali, pur guardando un magnifico cielo fatto di bellissimi colori, senti che la fine è vicina, e ti avvolge uno strano senso di pace.

Purtroppo da quel momento alla pace eterna il cammino è ancora duro e pieno di pericoli. Gli Zaibatsu descrivono fini, stritolamenti post industriali e ricatti di metastasi senzienti, il tutto con un magnifico piglio post industrial. Ci sono accelerazioni, momenti chiari e concisi, impastamenti sonori e tante tante cose suonate con il cuore. Riferimenti al loro suono potrebbero oscillare dal grunge all’industrial, ma gli Zaibatsu per fortuna sono un qualcosa di unico e forse irripetibile, poiché fanno generi che non hanno patria, se non nel significato che vogliono attribuirgli chi li suona. Il disco scorre imponente e magnifico, descrivendo un fallimento globale che è solo nostro, poiché ci lasciamo avvelenare in ogni dove, sia fisicamente che spiritualmente, e paghiamo pure per morire di tumori ed essere legati ad un carrello della spesa. Zero è un disco rimarchevole e duro, che potrebbe essere tranquillamente pubblicato dalla Dischord. In Italia abbiamo dimostrato che siamo bravissimi a fare dischi apocalittici, e questo è magnifico. Da sentire e contorcersi, in una danza zero.

TRACKLIST
1. Plastic Machine Head
2. Oppenheimer’s Sister
3. Chemtrails
4. Mantra 3P
5. Pirates
6. Gnomes
7. Technocracy
8. Abac
9. Starless
10. Collateral Language

ZAIBATSU – Facebook

Zippo – After Us

After Us è forse il disco più diretto della loro discografia, un gradino ancora più alto di una già magnificente produzione.

Torna la band pescarese veterana della scena pesante italiana.

Quarto disco per uno dei migliori gruppi stoner sludge dello stivale, in attività dal 2004, quando questi generi di musica non erano ancora popolari come ora.
After Us è un disco di grande qualità, come tutte le opere degli Zippo, con ancora qualcosa in più rispetto agli altri lavori. Ascoltandoli si ha un’impressione di grande solidità, di potenza sempre sotto controllo, con un forte retrogusto grunge, specialmente nei momenti maggiormente melodici.
Otto canzoni per circa quaranta minuti di distorsioni, riverberi psichedelici pesanti e voli heavy.
Questo è anche il primo disco non concept del gruppo, ma è ispirato alla vita di tutti i giorni, cosa assai più complicata di una storia di fantasia. Gli Zippo stupiscono sempre, non sono mai ovvi, e hanno una graniticità davvero notevole.  After Us è forse il disco più diretto della loro discografia, un gradino ancora più alto di una già magnificente produzione. Una sicurezza.

TRACKLIST
1. Low Song
2. After Us
3. Comatose
4. Familiar Roads
5. Adrift (Yet Alive)
6. Stage 6
7. Summer Black
8. The Leftovers

LINE-UP
Dave – Vocals
Sergente – Guitar
Stonino – Bass
Ferico – Drums

ZIPPO – Facebook

Birth Of Joy – Get Well

Per chi vuole qualcosa in più della nostalgia.

Fragorosa e potente band olandese dedita ad un vitaminico sound anni settanta.

I Birth Of Joy scavano dentro all’infinito tunnel della psichedelia anni sessanta e settanta, e portano alla luce riff importanti e gemme di vecchio stile rivestito di un moderno acciaio.
Non c’è solo il recupero dell’antichità poichè il loro pregio maggiore è un suono molto compatto e con un organo che detta il viaggio a chitarra e batteria, rendendo il tutto molto vicino alla psichedelia californiana anni sessanta. Il loro calore su disco deriva dalla grande esperienza dal vivo, hanno suonato molti concerti soprattutto in Europa e non solo. Get Well è ben bilanciato e ben composto, suona bene e ha un impianto molto solido. Sesto disco che dovrebbe essere quello di una consacrazione che meritano ampiamente, poiché sono davvero godibili.
Per chi vuole qualcosa in più della nostalgia.

TRACKLIST
01 Blisters
02 Meet me at the bottom
03 Choose sides
04 Numb
05 Midnight cruise
06 Carabiner
07 Those who are awake
08 You got me howling
09 Get well
10 Hands down

LINE-UP
Kevin Stunnenberg – Vocals & Guitar.
Bob Hogenelst – Drums & backing vocals. Gertjan Gutman – Organ & Bass.

BIRTH OF JOY – Facebook

Ramachandran – Marshmallow

La definizione di power tiro calza a pennello per questro gruppo, che fa della potenza la sua arma preferita, ma non l’unica, dato che sono vari i registri musicali qui padroneggiati.

Esordio per questo gruppo toscano sulla sempre più attiva Taxi Driver Records.

Attitudine decisamente punk per questo trio che cala nei territori stoner con un ascia in mano per fare dei bei macelli. La loro proposta musicale è appunto uno stoner rock suonato con la giusta dose di lo fi e tanta furia. Non sempre i Ramachandran vanno sparati a mille all’ora, ma le cose migliori le offrono quando vanno a tavoletta. L’album è un lavoro sul funzionamento del cervello, e ha dinamiche molto interessanti ed originali. Lo stesso nome del gruppo è un omaggio ad uno dei più influenti neuroscienziati indiani. I testi si abbinano benissimo alla musica che risveglia in maniera adeguata i nostri neuroni assopiti. La definizione di power tiro calza a pennello per questo gruppo, che fa della potenza la sua arma preferita, ma non l’unica, dato che sono vari i registri musicali qui padroneggiati. Un debutto più che positivo per un gruppo capitanato dalla forte voce di Sara Corso che è un gran sentire, ottimamente coadiuvata da Andrea Ricci alla chitarra e da Andrea Torrini alla batteria.

TRACKLIST
1.Bandura
2.Cotard
3.Kraepelin
4.Samo
5.Vilayanur
6.Mischel

LINE-UP
Sara Corso – Voice –
Andrea Ricci – Guitar –
Andrea Torrini – Drums –

RAMACHANDRAN – Facebook

Rinunci A Satana ? – Rinunci A Satana ?

Si può rinunciare a Satana ? Ma certo che no, ovvio.

Si può rinunciare a Satana ? Ma certo che no, ovvio.

E allora tuffiamoci di nascosto nella musica carnale dei Rinunci A Satana dalla fatal Milano. Per non andare lontano dal marchi di fabbrica i Rinunci A Satana ? fanno un originalissimo blues rock stoner da vere ligere. Accordi satanici, musica scorrevole ed irresponsabile ai vizi, per un gruppo tanto semplice quanto bravo. Non sono in realtà tanti, sono solo in due, e sono Damiano Casanova (Il Babau e i maledetti cretini), chitarra, e Marco Mazzoldi (Fuzz Orchestra e Bron y Aur), batteria. I due hanno però le idee chiare, e piace molto loro fermarsi agli incroci tra i generi ad aspettare il nero signore. Se volete qualcosa tipo gli ultimi gruppi fighi che fanno blues rock, siete fuoristrada, qui c’è genuina passione ed il linguaggio musicale scelto è l’ossatura per far risaltare la melodia e la linea sonora, vera regina di questo progetto. Queste canzoni strumentali sono lo sfogo di due grandi musicisti che hanno voglia e musica da vendere, e accasandosi su Wallace Records sanno dove andare. Disco dalle molte curve e fortunatamente quasi senza rettilinei, porta in un inferno blues molto caldo e vivo, da dove non vorrete più uscire.

TRACKLIST
1.Stone
2.Effetto Benny Hill
3.Ostenda
4.Le Notti di Riccardo Neropiù
5.Rinunci a Satana?
6.Gatling

LINE-UP
Damiano Casanova : Chitarra.
Marco Mazzoldi : Batteria.

RINUNCI A SATANA ? – Facebook

ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY

Sandro Di Girolamo ci ha parlato dei suoi Elevators To The Grateful Sky, del loro passato e del presente che si chiama Cape Yawn, capolavoro stoner/psichedelico in uscita in questi giorni, buona lettura.

Sandro Di Girolamo ci ha parlato dei suoi Elevators To The Grateful Sky, del loro passato e del presente che si chiama Cape Yawn, capolavoro stoner/psichedelico in uscita in questi giorni, buona lettura.

iye Ciao Sandro, raccontaci come nasce il progetto Elevators To The Grateful Sky.

Ciao Alberto, anzitutto, grazie mille per questa intervista e per le gentili parole che hai sempre speso nei confronti degli ETTGS. Il progetto nasce nel 2011, da un’idea mia e di Giuseppe Ferrara (chitarra). Entrambi suonavamo in un duo brutal death (munito di drum machine), Omega. Forse, perché stanchi di portare avanti un qualcosa di così veloce e tecnico o semplicemente rapiti da un genere così incredibile come quello dello stoner-rock e l’heavy psych, abbiamo deciso di fondare gli Elevators to the Grateful Sky. Subito alla batteria si è unito, Giulio Scavuzzo (ex-Horcus), e alla chitarra solista, Giorgio Trombino (con cui suonavo già nel gruppo swedish death Undead Creep e il quale vantava e vanta la sua presenza e “paternità” in/di numerose altre band: Haemophagus, Sergeant Hamster, Furious Georgie, Assumption, The Smuggler Brothers. Proprio lui, infatti, è abbastanza apprezzato all’interno della scena palermitana, per la sua versatilità nel comporre musica e suonarla con i più svariati strumenti).

N.B. E’ qualcosa che non ho mai detto in giro, però ricordo esattamente il giorno … stavo al pc e mi imbattei in ‘Whitewater’ dei Kyuss, metto play e ascolto. Dopo l’intro parte il riff principale, mi aggrappai alla sedia e subito pensai: “Ma che cos’è questa roba fichissima!? E’ questo il mood che ho sempre ricercato! Devo assolutamente fare anch’io questo genere!”. Da lì in poi, la storia si conosce…

iye Cloud Eye è stato un esordio clamoroso per il gruppo: quali sono stai i riscontri ottenuto tra il pubblico e gli addetti ai lavori?

L’album è piaciuto davvero tanto e ha avuto anche un ottimo riscontro sia da parte della critica che del pubblico. Ci sono arrivate un fiume di recensioni (italiane ed estere) estremamente positive e fatto varie interviste. Molti magazine, su tutti uno dei nostri preferiti, Rumore, ci hanno più volte, dato spazio al loro interno. Non possiamo che ringraziare sempre tutti coloro che ci supportano e ci aiutano nel difficile compito di diffondere il più possibile la nostra musica (ovviamente tra queste tante persone, ci sei anche tu, Alberto).

iye Musica desertica, splendidamente psichedelica, un’amalgama del meglio che un certo tipo di rock ha regalato negli ultimi decenni, senza dimenticare il periodo settantiano: sei d’accordo con questa definizione di quel disco?

Assolutamente. Cloud Eye, per quanto anch’esso ricco di citazioni facenti l’occhiolino ad altre “atmosfere” non proprio inerenti al rock desertico in senso stretto, di sicuro pecca di questa maggiore “affiliazione” a quel particolare genere sviluppatosi dagli anni ’70 in poi e che ha trovato la sua evoluzione in Palm Desert e Seattle.

iye Il nuovo lavoro lascia in disparte le sfumature grunge di Cloud Eye per nutrirsi di suoni rock’n’roll e garage, mantenendo quella vena psichedelica che è il vostro marchio di fabbrica.

Esatto, come dicevo prima, se Cloud Eye rimaneva ancora fortemente legato a una particolare “dimensione musicale”, con Cape Yawn abbiamo alzato un po’ il tiro, puntando a qualcosa di più miscelato e personale, come hai detto tu nella recensione dell’album: “liquido”. Ovviamente è importante mantenere, quelli che chiami “marchi di fabbrica”. Personalmente penso che, nell’arte in generale, se non si è capaci di dire “la propria” e a “proprio modo”, si può tranquillamente smettere di suonare/scrivere/dipingere ecc … passando ad impiegare il proprio tempo in altro. Non vorrei essere polemico, ma sento il bisogno di dirlo, è capitato più volte, che abbiano esclamato sul nostro conto, le classiche frasi: “non comunicate nulla di nuovo”, “siete derivativi” (P.S. sentiteli bene i dischi prima di dire la vostra e scrivere sommarie parole). Cari signori, io non capisco invece, dove tutta questa “grande novità” la troviate in gruppi (e ce ne sono a bizzeffe) facenti parti sempre della stessa scena stoner-rock e da voi acclamati e portati in gloria. Riff banali, scontati, scopiazzati, personalità inesistente, suoni stantii, composizione dei brani inconcludente. Non mi sembra che questi nostri colleghi si sforzino più di tanto nel cercare questa tanta agognata “innovazione” o che s’impegnino nel tentativo di esprimere la loro personalità. Noi nel nostro piccolo, cerchiamo di farlo, con tutto ciò che potrete sentire all’interno delle nostre canzoni (es. la parte funky di Mongerbino). La cosa comunque fondamentale, e chiudo, è che questa nostra ricerca non viene stimolata sicuramente dal ricevere il benestare del boss della ‘zine “di turno”, bensì, tutto ciò lo facciamo solamente perché ci va e vogliamo dire la nostra divertendoci e giocando con le note e i suoni. E’ stato e sarà sempre così, che piaccia o dispiaccia, che riesca o no. (P.S. ma poi innovazione, innovazione … ma a un certo punto fanculo, se una cosa è bella, è bella! L’importante è questo!)

iye A mio parere gli anni settanta nella vostra musica sono rappresentati da una vena doorsiana, cosa ne pensi?

Ovviamente le atmosfere dei Doors intrise di trip mistici e oscuro surf-rock trovano larga diffusione nella nostra musica. Probabilmente anche alcuni testi e metriche che compongo richiamano un certo mondo della California di qualche decennio fa. Personalmente apprezzo molto Gleen Danzig, quindi il richiamo può starci tutto (visto le cose in comune con Jim Morrison). Comunque, le influenze inerenti ai ‘70s sono molteplici, non ci basterebbe un’intervista per elencarle!

iye La title track è uno strumentale da brividi, come nasce un brani di questo tipo?

Bella domanda! Guarda non saprei risponderti sul fatto di come “nasce un brano di questo tipo”, ma posso dirti come questo è nato! I riff principali sono stati scritti da me e Giuseppe per poi essere revisionati, armonizzati e implementati da Giorgio e Giulio (anche con l’ausilio di strumenti come il sassofono). Abbiamo registrato, prima una pre-produzione casalinga e poi suonato più e più volte, rendendo la natura della strumentale, sicuramente più “jammata”. Quando componiamo, riflettiamo un po’ su ciò che vorremmo esprimere con quella canzone. Dobbiamo raccontare una storia, particolari stati d’animo, luoghi, persone, che caratterizzano un definito periodo della nostra vita. Proprio Cape Yawn è l’inno perfetto per le nostre “gite”, qui nei dintorni di Palermo (Monte Pellegrino e la costa di Barcarello su tutti). Guardare il tramonto in compagnia degli amici, bere una birra, fumarsi una sigaretta, pensando ad amori passati o impossibili … magari, il tutto avvolto da questa malinconia provocata dall’incertezza per il futuro della nostra terra, cullati dalla bellezza e poesia del nostro paesaggio (spero che dal video che ho realizzato, si capisca tutto ciò). In questo caso, le melodie richiamanti un triste surf-rock, condite da chitarre ovattate e sassofono riverberato, restituivano al meglio un simile mood. Questa è Cape Yawn, “Capo Sbadiglio”.

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iye Laura è un altro strumentale dedicato a Mark Sandman, frontman dei Morphine: a che cosa è dovuto questo omaggio?

Tutti e quattro siamo degli sfegatati fan dei Morphine. Penso che sia impossibile quantificare le volte in cui ho ascoltato capolavori come “Good”, “Yes”, “Cure for Pain” ecc … Mark Sandman è stata una persona davvero determinante per l’evoluzione della musica rock targata 90’s. Una leggenda. A mio avviso non esisteranno mai più gruppi, con un sound, un appiglio e un groove come il combo di Boston. Proprio il full “Good” mi ha fatto compagnia in un periodo non proprio allegro della mia vita (coincidente con la composizione di Cape Yawn). La semplicità, ma nello stesso la “portata e pesantezza” delle parole del compianto Sandman hanno scavato in noi tutti qualcosa di veramente indimenticabile. Gli hanno dedicato una scalinata a Palestrina, il minimo che potessimo fare noi sarebbe stato scrivere qualche secondo di sassofono in chiave “Dana Colley”. Non so dovunque tu sia, però Mark, ti ringraziamo con tutto il cuore per quello che ci hai trasmesso con la tua arte.

iye La copertina di Cape Yawn è stata disegnata da te: quella del grafico è solo una passione alternativa a quella per la musica, o qualcosa di più?

Di solito ci lavoro part-time. In questi anni non so più quante grafiche ho realizzato (una volta feci pure un inchiostrazione per gli Hooded Menace). Quasi tutte per i gruppi della scena di Palermo, non vorrei esagerare, ma alla stragrande maggioranza delle band della mia città ho fatto o un logo o un artwork o qualcos’altro. Principalmente però, mi sto laureando in Ingegneria Edile-Architettura. Ogni tanto lavoro pure come free-lance in studi di progettazione per la realizzazione di rendering 3d. Cerco per adesso di guadagnare un po’ di soldini, per il gruppo e anche per avere la libertà di poter uscire la sera e devastarmi di birra e Jägermeister al Pub; per chi vuole, mi trova quasi sempre al Krust in via Dante, 19 (qui a Palermo). Passo praticamente le mie serate sbevazzando, a parlare di musica e a sparare cazzate!

iye L’album finora è stato stampato in vinile dalla HeviSike Records, ne è prevista l’uscita anche nel formato cd?

A quanto pare, no. Probabilmente, invece, è prevista l’uscita di Cloud Eye in vinile. Rimanete sintonizzati sul nostro profilo facebook per news e quant’altro.

iye Con nomi quali Elevators To The Grateful Sky, Haemophagus, Sergeant Hamster, spesso collegati tra loro, è giusto parlare dell’esistenza di una vera e propria scena in quel di Palermo?

Questi gruppi sono indissolubilmente legati dal fatto che ci suoni Giorgio. Ora, che non me ne voglia, visto che lui evita sempre di parlare di queste cose e mi richiama più volte e più volte quando lo faccio io, perché eticamente è abbastanza da presuntuosi e spacconi. Però questa volta parlerò, poco importa se mi crederanno o meno e che a lui piaccia o no. Giorgio Trombino oltre che ad essere una persona magnifica, unica, è uno dei miei più cari amici, con cui ho condiviso i giorni e la musica è sicuramente uno dei più grandi talenti dell’underground siciliano (personalmente anche d’Italia per non parlare d’Europa, se vogliamo proprio esagerare). Non è cosa di tutti i giorni incontrare un così poliedrico musicista, nell’ambito degli ascolti, del gusto compositivo (qui si passa da John Coltrane ai Pungent Stench, per farvi capire) e che suoni praticamente TUTTI gli strumenti. Ecco Giorgio. L’ho detto e l’ho fatta grossa, adesso ci odieranno ehehe. Comunque ricordo tutto ciò, per ricollegarmi al fatto che molte cose che sentite provenire dalle nostre parti, sicuramente sono di un certo livello proprio perché c’è il suo zampino. Ad ogni modo, molti sono i gruppi che pur soffocati dalle difficoltà che contraddistinguono la diffusione della musica underground nella nostra città, sono riusciti a canalizzarle per creare un sound personale e di un buon livello. Su tutti (oltre ai progetti del signor Trombino, che avevo già citato): Balatonizer, Airfish, Kali Yuga, La Banda di Palermo, Bigg Men, Cadaver Mutilator, ANF, FUG, Throne of Molok, Stesso Sporco Sangue, Terrorage, Favequaid ecc…

iye La vostra musica è colma di riferimenti a più generi, ma quale tra questi vede Sandro Di Girolamo come suo vero e proprio fan?

Direi quasi tutti, trasversalmente. Certamente, gruppi come: Kyuss, QoTSA, Morphine, Danzig, Yawning Man, Fu Manchu, Captain Beefheart, Melvins, Electric Wizard, Goatsnake, Sleep, Church of Misery, (un po’ banali come citazioni, comunque) ecc… li porto sicuramente nel cuore. Ultimamente ascolto davvero tanto gli Arctic Monkeys. Apprezzo enormemente il talento e le capacità compositive e comunicative di Alex Turner (pure se è ormai diventato il frutto dell’image styler – “lo zio Homme”). In playlist ho quasi sempre “Favorite Worst Nightmare” e “AM”. Ci sono davvero delle belle canzoni (sottolineo, canzoni, non tracce o pezzi) e quando vedo alcuni loro live, non posso che essere (sanamente e costruttivamente) invidioso del loro successo. Arrivare a quei livelli lì, sarebbe davvero un sogno che si avvera. Non chiederei altro.

iye Per finire, quali sono i vostri progetti sul versante live?

Stiamo cercando di organizzare un mini-tour in Inghilterra, visto oltretutto che Giuseppe oramai vive e lavora come infermiere specializzato a Stoke-on-Trent, in pianta stabile (esatto il luogo di nascita di “gentaglia” come il leggendario Lemmy e Slash). Volevamo pianificare qualcosa per Maggio, ma probabilmente il tutto verrà posticipato. Se qualcuno è in grado di darci una mano, per favore, non tardi a contattarci! Per il resto, grazie ancora per questa bella intervista! Ricordiamo che Cape Yawn, sarà disponibile via Hevisike dall’11 Marzo in poi. Spero che tutte le persone sintonizzate, possano sentirlo e apprezzarlo. Magari non è il disco della vita, ma sicuramente è un prodotto sincero, fatto con impegno e passione. Se volete approdare nel nostro mondo, Cape Yawn e l’astronave che vi ci porterà!

Kingfisher – The Greyout

Un ottimo esordio per una band più che promettente

I Kingfisher, formazione a cinque dove a farsi notare fin da subito è la presenza di tre bassisti, vengono dalla Lombardia e debuttano, dopo l’ep del 2014 con gli undici brani di The Greyout. Il lavoro, folle punto di incontro fra alternative metal, alternative rock e stoner, esplode nei timpani con la forza di mille granate, grazie anche all’ottimo lavoro di Andrea Cajelli in sala di registrazione e di Giulio Ragno Favero per quanto riguarda il processo di mastering.

La partenza bruciante e fulminante di Red Circle, correndo sui colpi di batteria e basso, scalcia con energia, introducendo l’altrettanto fiammante Sentient (intrigante il cuore leggermente più scuro e pacato) e le influenze stoner, dirottate su terreni estremamente metal, di Worm Tongue (bassi e batterie feroci come mitragliatrici).
L’aggressività iniziale di The Greyout, sviluppandosi poi su melodie più strutturate (ma non rinunciando a scalciare come un cavallo pazzo), lascia che a seguire siano i pugni nello stomaco sferrati da Even In Decay (provate a non essere rasi al suolo dalla forza d’impatto della seconda parte) e la breve strumentale Oneiric (decisamente più pacata, contenuta e delicata).
A ritornare a far ruggire i bassi ci pensa Eleven che, affidandosi ad architetture più complesse e cerebrali, rallenta i tempi e si tuffa in sonorità a metà fra stoner e southern metal.
Bizarre, infine, precipitando in complessi incastri di batteria e bassi, cede il compito di chiudere allo sfrecciare di Scent Of Reckoning, all’assalto sonoro dell’altrettanto distruttiva Relentless e all’ipnotico concludere della più distesa, melodica e matematica Mandala.

Il debutto dei Kingfisher, granitico, compatto e carico di energia, colpisce per la sua forza d’impatto, per il suo suono e per la sua intensità. Gli undici brani presentati, infatti, quasi non lasciando la possibilità di tirare il fiato nemmeno per un secondo, si susseguono, tirati, come ordigni esplosivi sempre pronti a brillare. A rovinare un pochino l’entusiasmo è la troppa omogeneità dei brani, ma, tolto questo difetto, tutto fila decisamente liscio. Un ottimo esordio per una band più che promettente.

TRACKLIST
01. Red Circle
02. Sentient
03. Worm Tongue
04. The Greyout
05. Even In Decay
06. Oneiric
07. Eleven
08. Bizarre
09. Scent Of Reckoning
10. Relentless
11. Mandala

LINE-UP
Davide Scodeggio
Alessandro Croci
Emanuele Nebuloni
Renato Di Bonito
Matteo Barca

KINGFISHER – Facebook

Morgengruss – Morgengruss

Marco Paddeu centra perfettamente il bersaglio dando vita ad un disco clamoroso, denso ed etereo allo stesso momento, forte nella sua cristallina leggerezza, acido nella semplicità di slegare la chimica delle cose e dei suoni, e bello come un raggio del sole che bacia senza scottare.

In un giardino vicino al mare, un petalo ricade sul selciato dopo essere stato trasportato dal vento, il mare sussurra una litania mentre il resto è immoto, fuori dalla calca.

Questa è solo una delle immagini che evoca questo disco, un gioiello di lentezza e ricercatezza, di labor limae e di perfetto equilibrio fra tutti gli elementi. Morgengruss ricorda molto Warren Ellis, ma è ancora più ispirato e potente in alcune sue immagini, concependo un disco abbagliante nel suo sole soffuso, nel suo vivere di immagini riflesse e di tocchi leggeri di una madre preoccupata, mani sulle spalle di amanti già lontani. Raramente si ascolta musica che tocca così dentro. Morgengruss bisogna ascoltarlo non al massimo del volume, ma secondo quello che vuole il nostro orecchio.
Morgengruss è musica che scorre respirando insieme ai nostri polmoni, e nel mondo fisico risponde al nome di Marco Paddeu, anche in Demetra Sine Die e Sepulcrum, di cui presto uscirà il disco di debutto. Marco centra perfettamente il bersaglio dando vita ad un disco clamoroso, denso ed etereo allo stesso momento, forte nella sua cristallina leggerezza, acido nella semplicità di slegare la chimica delle cose e dei suoni, e bello come un raggio del sole che bacia senza scottare.
Registrato e mixato da Emi Cioncoloni al El Fish Studio di Genova, la fotografia e gli interni sono curati da Alison Scarpulla, fotografa americana già con Wolves In The Throne Room ed altri. Di questo capolavoro verranno pubblicate 100 copie in vinile trasparente e 200 copie in vinile nero.

TRACKLIST
1.Father Sun
2.To an isle in the water
3.River’s call
4.Apparent motion
5.Like waves under the skin
6.Vena
7.Hope

LINE-UP
Marco Paddeu

MORGENGRUSS – Facebook

Dead Behind The Scenes – White EP

Con i Dead Behind The Scenes tutto è il contrario di tutto, ma alla fine perfettamente al suo posto, così da regalare rock per chi, ogni tanto, ama vagare per lo spartito senza una guida sicura godendo delle molte sorprese che riserva un album come questo The White ep.

Una ventina di minuti di musica rock fuori dai soliti schemi, pazza e alternativa nel senso più puro del termine, pregna di sonorità che riportano alla mente gruppi che hanno fatto del proprio songwriting, un modo per distinguersi dalle solite rock band, eppure così originale e personale, da sembrare tutt’altro che un combo al debutto.

Bene ha fatto l’Atomic Stuff a prendere nel proprio roster i milanesi Dead Behind The Scenes, rock band di Milano che, con talento, amalgama rock alternativo e punk & roll, licenziando White Ep, primo lavoro di cinque brani che si spera li possa portare verso un potenziale full lenght esplosivo.
Il gruppo, attivo dal 2010 come The Scream, ha in Dave Bosetti (voce e chitarra), Marco Tedeschi (chitarra) e Lorenzo Di Blasi (tastiere) lo zoccolo duro della band, ai quali nel tempo si sono aggiunti il bassista Valerio Romano ed il batterista Chris Lusetti, a formare la line up che firma questo ep in cui il rock non ha barriere né confini, così da inglobare nel proprio sound le pazzie alternative dei Primus, sonorità reggae-folk e rock & roll.
Molta importanza nel sound dei nostri i tasti d’avorio, così come la voce particolare del Bosetti, tra Les Claypool e Maynard James Keenan in versione punk, che segue i binari di musica trasformandosi ad ogni passaggio, così come ogni canzone è diversa dall’altra, ora più rock alternative come in I Love Matt, ora improntata su un reggae-soul come nella successiva Bulletproof Soulmate, per diventare intimista nella semiballad No Name Song.
L’hammond prende per mano il sound di Sex Rock & Rock’N’Roll una traccia hard rock dai rimandi settantiani, con quel tono vocale che tanto sa di punk rock, mentre gli anni sessanta e un’aura surf sono i protagonisti della conclusiva e solare Sometimes You Just Have To…
Con i Dead Behind The Scenes tutto è il contrario di tutto, ma alla fine perfettamente al suo posto, così da regalare rock per chi, ogni tanto, ama vagare per lo spartito senza una guida sicura godendo delle molte sorprese che riserva un album come questo White Ep.
Con tutto questo potenziale li aspettiamo con fiducia alla prova del full length, ci sarà da divertirsi.

TRACKLIST
1. I Love Matt
2. Bulletproof Soulmate
3. No Name Song
4. Sex Rock & Rock ‘n’ Roll
5. Sometimes You Just Have To…

LINE-UP
Dave Bosetti- lead vocals, guitar
Marco Tedeschi- guitar
Lorenzo Di Blasi, keyboards- piano
Valerio Romano- bass
Chris Lusetti- drums, backing vocals

DEAD BEHIND THE SCENES – Facebook

Fractal Reverb – Songs to Overcome the Ego Mind

Album che va assaporato, avendo la pazienza ed il tempo per farlo propiro, ed una band che assolutamente da supportare e rispettare per la personalità ed il coraggio nel proporre un’opera così ambiziosa al primo colpo.

Premessa: fate molta attenzione quando si parla di rock alternativo o, superficialmente di grunge, perché (lo dico da anni) il grunge a mio parere come genere musicale non esiste, o meglio, quello che fu chiamato così era solo una moda che non riguardava assolutamente la musica scritta dalle band di Seattle, troppo diverse tra loro, troppe anime contrapposte per unirle in un unico calderone musicale.

Così il primo full length dei nostrani Fractal Reverb, band di rockers nati da pochi anni in quel di Milano, con un ep all’attivo licenziato lo scorso anno dal titolo How To Overcome The Ego Mind, alla fine risulta un buon album di rock alternativo, debitore sì del decennio novantiano, ma dall’anima moderna e noise, come se il lato più intimista dei Sonic Youth si fosse appartato con i Pearl Jam e i Tool e facesse l’occhiolino al rock del nuovo millennio.
Voce femminile (Carolina Locatelli) ancora da perfezionare come interpretazione dei brani, ma comunque sufficientemente personale e rock per non sfigurare nel mezzo dei deliri elettrici dei suoi compagni di viaggio( Davide Trombetta alla chitarra e Alessandro Pinotti alle pelli) e un gusto quasi psichedelico per il rock moderno, fatto di brani lunghi, molte volte vicini strutturalmente a delle jam, che perdono in appeal solo per l’eccessiva durata di un album che supera abbondantemente l’ora.
Ecco, questo è l’unico appunto che mi viene da fare al gruppo, ottantadue minuti sono davvero troppi, specialmente in tempi dove, purtroppo anche nel rock, manca il tempo di assimilare lavori di questo genere causa la marea di uscite discografiche e la poca attenzione degli ascoltatori a musica che chiede un minimo d’impegno nell’ascolto.
Sì, perché Songs to Overcome the Ego Mind è un album impegnativo, adulto, poco incline alle facili melodie di band pop rock contrabbandate per il fantomatico post grunge che, se non esisteva l’originale, figuriamoci i facili surrogati.
Se vi avvicinate alla band milanese pensando di ascoltare i nuovi Nickelback ( tanto per intenderci) avete sbagliato indirizzo, qui si fa rock, sporcato di noise e dall’anima punk statunitense, magari nascosta da umori cantautorali, in un’escalation di vibrazioni progressive dove la voce femminile non è il classico specchio per le allodole, ma un modo alquanto personale di raccontare il loro concept, un percorso che parte da una dimensione prettamente estroversa per arrivare ad una introversa, trovando così il perfetto equilibrio … e scusate se è poco.
Album che va assaporato, avendo la pazienza ed il tempo per farlo propiro, ed una band che assolutamente da supportare e rispettare per la personalità ed il coraggio nel proporre un’opera così ambiziosa al primo colpo.

TRACKLIST
1.Introspective
2.I’ll find my way
3.Song of nothing
4.Dystonic wave
5.Spleen
6.Song of something
7.Natural sounds
8.20 January 2013
9.Fall in leaves
10.Test yourself
11.Trees in circles
12.Hidden places
13.Blindfolded
14.Song of everything
15.Outroot

LINE-UP
Carolina Locatelli – basso, voce
Davide Trombetta – chitarra
Denny Cavalloni – batteria

FRACTAL REVERB – Facebook

Bed Of A Nun – Waiting For A Visit

Profondo e maturo, scritto da musicisti di indubbia esperienza e talento, Waiting For A Visit lascia che le emozioni ci invadano

Arrivano all’esordio tramite Pure Rock Records, costola della label tedesca Pure Steel dedicata al rock, i Bed Of A Nun, creatura di quel genio musicale che è Günter Maier, ex chitarrista e leader degli Stygma IV prima e Crimson Cult poi, accompagnato in questa poetica avventura da Lem Enzinger ex Schubert e No Bros alla voce, Peter Bachmayer alle pelli e Alex Hilzensauer al basso.

Dimenticatevi il metallo progressivo dei clamorosi Stygma IV o il sound doom classico dei Crimson Cult, la nuova identità del chitarrista sposta le coordinate della sua musica verso lidi rock, molto poetici e melanconici, interpretati dal tono sofferto e cantautorale del singer, per un viaggio nella mente di un malato, solo con il suo dolore, i ricordi e la prossima vicinanza alla morte.
Trame acustiche che riempiono di suoni intimisti e tragici i brani, l’elettricità della sei corde che entra, con dolcezza nel sound altrimenti drammaticamente lieve del disco, sono le caratteristiche principali di quest’opera, che ha momenti davvero intensi, d’autore, molto emozionali nella sua tristezza di fondo.
A tratti la rabbia per quello che non è stato prende il sopravvento e ne escono song dal taglio rock velatamente progressivo (la bellissima Downstairs) e si esprime in tutta la sua potenzialità l’enorme talento di Maier, questa volta solo ed esclusivamente al servizio dei brani di Waiting For A Visit.
Ancora Deathless While, altro brano dall’elevata elettricità che scaturisce in ritmi sincopati, ed aperture melodiche spazzate via dal solos heavy di Maier, ma rimangono episodi di un lavoro che poggia le sue fondamenta sulla romantica poesia che, le trame acustiche e l’interpretazione vocale sono le indiscusse protagoniste, regalando tragiche perle come Rebel Boy, Autumn Train e The Last Song, terzetto dall’alto potenziale melanconico e chiusura di un album animato da sentimenti ed emozioni, al quale l’uomo magari non dà peso nel corso della propria vita, ma con cui prima o poi ci si deve confrontare.
Profondo e maturo, scritto da musicisti di indubbia esperienza e talento, Waiting For A Visit lascia che le emozioni ci invadano: un album che propone musica atmosfericamente forte, ancora più intensa proprio per la capacità di far male rimanendo legata a suoni acustici, ma dall’impatto emozionale di un carro armato.
Dove compare il chitarrista austriaco c’è sempre grande musica, bentornato Günter.

TRACKLIST
1. frozen
2. Jesus on a bicycle
3. Howl
4. face in the clouds
5. what is…
6. downstairs
7. marble beauty
8. deathless while
9. bullet thoughts
10. rebel boy
11. autumn train
12. the last song

LINE-UP
Günter Maier – guitars
Lem Enzinger – vocals
Peter Bachmayer – drums
Alex Hilzensauer – bass

BED OF A NUN – Facebook

Slivovitz – All You Can Eat

In questa civiltà fatta di tanto a poco o di poco a tanto, il valore delle cose si è perso, come negli all you can eat che ormai riempono ogni luogo di questa nostra nazione.

Eppure qualcosa di valoroso e di tenace c’è ancora, soprattutto nella musica. Ad esempio questo disco degli Slivovitz, ensemble napoletano di gran valore. Nati nel 2001 sono il collettore per molti tipi di musica, dal free jazz, al prog più moderno, addirittura qualcosa di easy listening. Il tutto composto e suonato con grande sagacia e bravura, in totale controllo nell’esplorazione di anfratti conosciuti all’interno delle nostre ovvie esistenze. Ascoltandoli, ed ognuno nella musica può e deve sentirci ciò che più gli aggrada o gli pare, mi fanno venire in mente un incrocio tra Indukti, Ozric Tentacles e il free jazz. Insomma, situazioni nuove e musica che ti porta dove non sai e sarà bellissimo. I partenopei incidono per la newyorkese Moonjune Records, una Tzadik molto più malleabile e varia. All You Can Eat è molto bello e davvero free da tante cose, libero di essere ascoltato e gustato.
Il disco è stato stampato grazie ad una raccolta fondi su Musicraiser.

TRACKLIST
1. Persian Night
2. Mani In Faccia
3. Yahtzee
4. Passannante
5. Barotrauma
6. Hangover
7. Currywuster
8. Oblio

LINE-UP
PIETRO SANTANGELO: tenor & alto sax
MARCELLO GIANNINI: electric & acoustic guitars
RICCARDO VILLARI: acoustic and electric violin
CIRO RICCARDI: trumpet
DEREK DI PERRI: harmonica
VINCENZO LAMAGNA: bass guitar
SALVATORE RAINONE: drums

SLIVOVITZ – Facebook

Lucid Recess – Alive And Aware

Siamo in territori cari al moderno rock alternativo, mantenendo però un mood progressivo, come capita in molte delle band uscite negli ultimi tempi e che prendono spunto dalle opere di Tool e dei gruppi alternative più maturi

L’India non è solo paese di metal estremo o classico, ma nell’underground, vivono e si generano realtà musicali che si dedicano ad ogni genere di cui si può vantare il metal/rock e infatti ecco che, a portare alta la bandiera dell’alternative ci pensano i bravissimi Lucid Recess, band di Guwahati al secondo lavoro, che segue il debutto Engraved Invitation di cinque anni fa.

Il trio è composto dai fratelli Barooa, Amitabh voce e basso e Siddharth alla sei corde e responsabile di registrazione, mixaggio e masterizzazione di questo Alive And Aware.
Completa la line up il batterista Partha Boro,per una band che risulta un’autentica sorpresa, dall’alto di un songwriting ispirato e maturo, dal sound che mantiene per tutta la sua durata un approccio molto intimista ed elegante, non mancando di elettrizzare con buone sfuriate che si avvicina al metal.
Siamo in territori cari al moderno rock alternativo, mantenendo però un mood progressivo, come capita in molte delle band uscite negli ultimi tempi e che prendono spunto dalle opere di Tool e dei gruppi alternative più maturi (gli indimenticabili Creed, per esempio, o gli A Perfect Circle) creando musica che, con calma e il dovuto tempo per essere assimilata, lascia la piacevole sensazione di essere al cospetto di un gruppo di buon spessore.
Si può scrivere di tutto su questo lavoro, ma è indiscutibile la voglia dei Lucid Recess di uscire da spartiti banali, per un approccio intellettuale alla materia, i brani, anche nei momenti leggermente più metallici, mantengono quel quid di progressiva eleganza che affascina, accompagnati dall’interpretazione al microfono di Amitabh molto sentita, senza strafare, ma artisticamente perfetta.
Gli strumenti in mano ai musicisti indiani, si trasformano nelle calde voci di sirene ammaliatrici e veniamo così ipnotizzati per un’oretta di musica sognante, sempre in bilico tra l’urgenza del rock alternativo e le atmosfere dilatate del rock progressivo, in un viaggio musicale dove non mancano le sorprese, senza però uscire dai binari del genere suonato.
Non mancherà di piacere questo lavoro ai rockers moderni, magari lascerà qualcosa indietro per i fans del classico prog, ancorati allo scoglio che li lega a vecchi dinosauri settantiani, ma brani come The Clock That Is Us, Metamorphosis, Island e la conclusiva suite Sphere of Nothingness, dimostrano come il gruppo, riesce nell’intento di rispecchiare il rock moderno, staccato da cordoni ombelicali ormai obsoleti, creando musica non solo suonata bene, ma che emoziona … provateli, meritano.

TRACKLIST
1. Dead Deep End
2. The Clock That Is Us
3. Wireless Junkies
4. Madness
5. Metamorphosis
6. You May Have Everything
7. Time Walk
8. What Made This Burn
9. Island
10. Changes Are Sold
11. Sphere of Nothingness

LINE-UP
Amitabh Barooa – Vocals, Bass
Siddharth Barooa – Guitars, Backing Vocals
Partha Boro – Drums, Percussion

LUCID RECESS – Facebook

Ape Machine – Coalition Of The Unwilling

La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.

Suono potente e psichedelico totalmente calato negli anni settanta, eseguito con grande passione e talento. Ma se ci fermasse a questo piano sarebbe fare un’ingiustizia agli Ape Machine.

La loro musica è fortemente anni settanta ma è rielaborata da un gusto moderno che la arricchisce ancora di più. La psichedelia pesante la fa da padrone in Coalition Of The Unwilling, insieme ad uno stile compositivo di ampio respiro che rende questo disco un piccolo gioiello per gli amanti di certe sonorità che vengono da lontano ma che non si sono mai perdute.
Negli Ape Machine convivono elementi dei Clutch con scatti alla Mastodon, e schitarrate più pro, il tutto in salsa psych.
La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.
Disco da meditazione psichedelica.

TRACKLIST
1. Crushed From Within
2. Disband
3. Give What You Get
4. Under This Face
5. Ape’N’Stein
6. Never My Way

LINE-UP
Caleb Heinze – Vocals
Ian Watts – Guitar
Brian True – Bass
Damon De La Paz – Drums

APE MACHINE – Facebook

Isaak – Sermonize

Sermonize è l’avanguardia della Genova Pesante e lo sarà per un bel pezzo.

Tornano impetuosamente gli Isaak, gran gruppo genovese di stoner rock e tanto altro.

Sermonize è a partire dalla fantastica copertina di Richey Beckett un disco potente e fresco, con un fortissimo gusto di southern. Personalmente quando ascolto gli Isaak mi sembra che siano stati fra i pochissimi gruppi che abbiano recepito pienamente la lezione dei Kyuss, ovvero rendono benissimo la sensazione di deserto che era nella musica degli americani. Infatti questo disco ha un groove desertico e caldo che lo rende speciale. Di gruppi stoner o dintorni ve ne sono moltissimi, ma la sensazione di movimento e di compattezza che hanno questi genovesi lo hanno in pochi. La loro musica compie evoluzioni melodiche immersa nella calda sabbia del deserto e quando meno te lo aspetti scatta fuori dalla sua tana per azzannarti alla gola, ed ucciderti dolcemente. Già il disco di debutto era stato ottimo, ed ancora prima i Gandhi’s Gunn, la loro incarnazione pre Isaak, erano passi avanti. Sermonize porta il discorso ad uno se non due livelli superiori, sia per la composizione diventata più dura e personale, che per l’esecuzione più intensa che mai.
Gli Isaak hanno acquistato malizia e scaltrezza, riuscendo a rendere il disco un fortino senza punti deboli, dove tutti fanno il loro compito alla perfezione suonando uno stoner rock che in Italia non fa nessuno e che avrà sicuramente molta eco anche all’estero, visti anche i numerosi concerti fuori dai nostri confini che hanno fatto.
Sermonize colpisce a fondo e come un’endorfina ne vorresti ancora ed ancora.
Melodie e compattezza, sono questi i punti di forza del disco, che si può ascoltare su livelli differenti, ponendo l’accento su di un giro di chitarra o su una rullata particolare, se non sulla gran voce di Giovanni Boeddu in costante crescita . Da registrare l’entrata nel gruppo di Gabriele Carta al basso al posto di Massimo “ Maso “ Perasso, l’uomo Taxi Driver che proprio insieme agli Isaak fa parte di quel gruppo di persone che hanno fatto tanto per la Genova pesante, portando grandi gruppi e proponendo ottima musica in maniera accessibile a tutti.
Sermonize è l’avanguardia della Genova pesante e lo sarà per un bel pezzo.

TRACKLIST
1 – Whore Horse
2 – The Peak
3 – Fountainhead
4 – Almonds & Glasses
5 – Soar
6 – Showdown
7 – Yeah (Kyuss)
8 – Lucifer’s Road (White Ash)
9 – Lesson n.1
10 – The Frown Reloaded
11 – The Phil’s Theorem
12 – Sermonize

LINE-UP
Giacomo H Boeddu :Vocals
Andrea Tabbì De Bernardi : Drums / Vocals
Francesco Raimondi : Guitars
Gabriele Carta : Bass

ISAAK – Facebook

ANTIMATTER

Uno stimolante scambio di opinioni con uno dei migliori musicisti in circolazione sul pianeta: il suo nome è Mick Moss e la sua cretura si chiama Antimatter … buona lettura

Uno stimolante scambio di opinioni con uno dei migliori musicisti in circolazione sul pianeta: il suo nome è Mick Moss e la sua creatura si chiama Antimatter … buona lettura

iye Ciao Mick. Parto subito con una domanda scontata che, per sua natura, spesso riceve risposte dello stesso tenore, ma ci provo lo stesso: benchè io adori tutti i dischi degli Antimatter, The Judas Table mi appare come il più completo o, quanto meno, quello che più di altri riesce a rappresentare al meglio ogni sfumatura delle tue doti compositive. Qual’è il tuo pensiero al riguardo ?

E’ possibile che tutto appaia molto più completo e meglio incastonato, proprio in seguito al percorso che è stato fatto finora, seguendo la stessa prassi. Folk acustico, classic rock, progressive, grunge, synth pop degli ‘80 e una piccola vena metal sono stati finora i parametri che hanno delineato il metodo compositivo: vale a dire che, nonostante il focus sul genere sia stato costantemente modificato, il processo è rimasto in questi anni identico. Volendo dunque puntualizzare gli aspetti nella loro complessità, sono assolutamente d’accordo sul ritenere The Judas Table un lavoro compatto nel quale si ritrova in egual modo ogni sfumatura artistica e musicale e quindi lontano da ogni precedente tentativo.

iye Da appassionato di doom, soprattutto quello nelle sue forme più emotivamente coinvolgenti (Saturnus su tutti), presentando ad un amico il vostro ultimo disco gli ho detto che, al di fuori di quel genere, gli unici in grado di farmi versare qualche lacrima durante l’ascolto sono proprio gli Antimatter. La sensibilità, la delicatezza che traspare dalle tue note, fotografa del tutto o in parte quello che sei nella vita di tutti i giorni, oppure questi sono lati del tuo carattere che vengono convogliati essenzialmente nella musica ?

Ti dirò che ogni album (e non credo valga esclusivamente per noi Antimatter) non è legato ad una scelta particolare se non a quella che scaturisce dal momento. Nonostante si possa avere una vaga idea strutturale non si può cambiare la mutevolezza creativa propria del processo: pensa infatti a quanto sia bello stupirsi con tutta una serie di sorprese che giungono inattese. L’unica certezza che ho risiede proprio nella sensibilità con la quale compongo i testi delle canzoni. Già l’accompagnamento della chitarra classica per gli arrangiamenti, seppur necessario, è in qualche modo costruito ed ha bisogno di potersi evolvere in modalità non scontate (semmai ricercate).
Quando compongo ho tutto quanto in testa, o per lo meno riesco a prevedere l’intero sviluppo dei brani: Hole, ad esempio, è nata acustica e così è rimasta ma, tutto sommato, senza forzature, si può anche permeare la cristallizzazione di una traccia a patto di non intaccarne la purezza.

iye Non sono l’unico a ritenere la tua voce una delle più evocative e coinvolgenti che ci è dato ascoltare: mi sono sempre chiesto come mai, nei vostri primi due album (Savior e Lights Out), le parti vocali fossero affidate quasi del tutto a delle cantanti. La vostra era una scelta condivisa oppure, in tal senso, era soprattutto Duncan Patterson a spingere in questa direzione ?

La risposta a questa domanda è quanto segue: metà di questo lavoro è stato programmato, scritto e registrato da me, e l’altra metà da lui. Ora, Duncan non è mai stato un cantante, proprio per questo motivo ha dovuto cercare chi potesse interpretare i suoi brani in studio al 100%, e l’essere influenzati da Massive Attack e Portishead portava inevitabilmente alla scelta di alternare una voce maschile a vocalizzi femminili: a lungo andare non si è trattato più di una semplice opzione, semmai di una questione di opportunità (vedi Angelic in Savior).
Planetary Confinement ha rappresentato quello snodo a seguito del quale le scelte successive sono davvero passate in secondo piano mentre, in maniera naturale, la situazione si è evoluta a favore della sua uscita. E lo dico senza fraintendimenti, ma in modo onesto e pacato.

iye A proposito di collaborazioni, la tua partecipazione lo scorso anno allo splendido album degli Sleeping Pulse, con il musicista portoghese Luis Fazendeiro, è stata una gradita sopresa capace di attenuare l’attesa di un nuovo lavoro degli Antimatter: come è stato, per una volta, interpretare brani composti da qualcun altro ?

Questa collaborazione è stata totalmente fuori dal mio controllo, ma mi ha galvanizzato proprio per la sua totale innovazione strutturale: Luis ha scritto la musica ed io i testi con le rispettive melodie vocali, in due sedi diverse e stimolati dalle reciproche influenze, e qualcosa nell’aria ha cominciato a prendere forma senza alcuna interferenza . Ottenute dunque le sue registrazioni ho iniziato a ricamare sul vestito i gioielli funzionali al concept. Tra l’altro non sapevo neppure che Luis fosse fan degli Antimatter fino a quando non ci siamo incontrati e questo ha reso ancora più vivo e intenso lo spirito che ha spinto entrambi ad insossare questo cangiante abito chiamato, paradossalmente, Sleeping Pulse, visto che di dormiente ha ben poco .

EMantimetter

iye The Judas Table ha come suo tema portante il tradimento; nella mia recensione ho provato ad accomunare tradito e traditore in una dolorosa sorte comune, specialmente quando quest’ultimo perpetra il suo atto in maniera superficiale senza pensare a tutte le conseguenze distastrose che provocherà, finendo poi per pentirsene amaramente. Ti senti di condividere almeno in parte questa mia visione ecumenica oppure ritieni che la ferita che subisce chi viene tradito sia insanabile e non ci sia spazio per alcuna forma di perdono ?

Da ciò che conosco sommariamente della natura umana c’è, e sempre ci sarà, una necessità di guarigione dal tradimento direttamente proporzionale alla quantità di violenza ricevuta. Personalmente posso perdonare ma non scordare quello che mi è stato fatto, fino a quando non avrò limitato il dolore dimenticando in parte il torto subìto. Ma non sono del tutto sicuro di ragionare con metodo, e rispondere ad una domanda non corrisponde esattamente a come ci si comporterebbe nella realtà: perdonare (e lo faccio quotidianamente …) i miei figli o qualcuno al quale sei legato, ha anche un valore proporzionale di affetto ed il perdono è vero e sentito. Qualcuno che improvvisamente compie un torto rientra in una zona non del tutto franca, nella quale le diverse sfumature del perdono operano in svariati modi ma, senz’altro, dimenticare la gravità di ciò che si è subito è tutt’altro affare.

iye Chi sono i musicisti che ti hanno aiutato ad apparecchiare “The Judas Table” ?

Questa volta ho deciso di coinvolgere i musicisti più che nei precedenti album, per i quali arrivavo già con le partiture da eseguire e addirittura con le registrazioni della drum-machine. Precedentemente ho sempre completato la demo e successivamente affidato ai vari musicisti le rispettive parti. La sezione ritmica è la medesima che si esibisce dal vivo (Liam e Ste, quindi), con l’affiancamento di Jennie che ormai conosco molto bene da anni. Da Planetary Confinement ho recuperato il violino di Rachel Brewster che mi è rimasto impresso per la sua leggerezza mentre, addirittura, per i chorus ho pensato di ricorrere a due chitarre aggiuntive Kevin Dunn (in Black Eyed Man e Integrity) e Dave Hall. Una meravigliosa crew con la quale lavorare assieme, dove ognuno contribuisce con i suoi diversi stili, in grado di creare un arcobaleno di colori inusuali e perfettamente equilibrati per l’album.

iye Pensate di girare un video anche per un brano tratto da The Judas Table? In caso affermativo sono curioso di scoprire quale verrà scelto. L’ideale corrispettivo di Uniformed And Black, secondo me, potrebbe essere Killer, anche se in realtà mi piacerebbe che lo faceste con Can Of Worms (quest’intervista esce dopo che, già da qualche settimana, è stato diffuso in rete il video tratto da Stillborn Empires, nda)

Si ! In effetti c’è una diretta corrispondenza, e non solo per il rimando melodico. Direi anch’io lo stesso per Can of Worms, ma non ho intenzione di inseguire dopo tre anni la stessa magia che si era creata con Uniformed and Black, brano unico nella sua evoluzione e quindi palesemente non riproponibile. Inoltre, anche se ci si proponesse la possibilità di avere una qualche eco radiofonica, non permetterei che l’album venga considerato alla stregua di un greatest hits, per cui preferisco di gran lunga un singolo che non lo sembri affatto e che si riveli accattivante solo dopo qualche ascolto, soprattutto in riferimento ai brani un po’ più catchy. Su questo posso apparire quasi intransigente, ma è necessario per non scendere troppo a compromessi.

iye Ringraziandoti per la disponibilità ti chiedo, infine, se avremo la possibilità di vedere gli Antimatter prossimamente in Italia; ricordo ancora con grande piacere il concerto di Romagnano Sesia del 2013 con i Swallow The Sun, quando ti eri esibito ugualmente benchè fossi reduce da un’operazione: nonostante si vedesse chiaramente che non eri al meglio della forma fisica, il vostro set era stato ugualmente di un’intensità unica.
Ho notato che nelle date già programmate il nostro paese non viene toccato, devo cominciare a preoccuparmi … ?

Abbiamo in mente di ritornare ad esibirci ad aprile con The Judas Tour (part II) in Italia, sperando in 3 date. Di più ora, al momento non posso dirti né sbilanciarmi come vorrei. Spero di certo che alcuni incidenti non ricapitino. Grazie ad ogni modo per le domande fatte!

Domande: Stefano Cavanna
Intervista e traduzione: Enrico Mazzone