Chalice Of Suffering – Lost Eternally

Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dai modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Qualche anno fa, in occasione dell’album d’esordio For You I Die, in sede di recensione mi espressi moto favorevolmente sui Chalice Of Suffering,  nuova creatura dedita al death doom più atmosferico guidata da JohnMcGovern.

La peculiarità della band del Minnesota era quella di essere, in qualche modo, differente dalle altre, in virtù di un approccio atmosferico che, anche grazie al profondo recitato del vocalist, assumeva quasi i contorni di una sorta di dolorosa colonna sonora di un esistenza quanto mai grigia.
Dopo l’uscita di quell’album John ha dovuto affrontare problemi di salute piuttosto seri che, per fortuna, oggi sembrano superati e questo sembra aver ancor più acuito la sua sensibilità artistica: Lost Eternally è un concentrato di atmosfere plumbee e dolenti, melodicamente intense e praticamente quasi mai spinte su versanti estremi sia a livello ritmico che chitarristico (qui la coppia già collaudata nel precedente lavoro, formata da Nikolay Velev e Will Maravelas, si rende protagonista di un ottimo lavoro).
Altro valore aggiunto in questa occasione è quello costituito dalla partecipazione di diversi vocalist in qualità di ospiti e questo, ovviamente, rende ancor più interessante il tutto andando ad integrare al meglio il growl declamatorio di McGovern.
In the Mist of Once Was, traccia d’apertura scelta anche per esser accompagnata da un video, delinea in maniera chiara quale sarà l’impronta del lavoro, anche se qui il tocco in più fornito dal contributo delle bagpipes suonate da Kevin Murphy appare tutt’altro che secondario: il tradizionale strumento a fiato scozzese, infatti, rispetto all’album precedente appare perfettamente coeso con il dolente tessuto sonoro.
Come in buona parte degli altri lunghi brani (che si assestano mediamente sui dieci minuti ciascuno, a parte gli ultimi due relativamente più brevi) il sound sembra snodarsi placido per insinuarsi lentamente nell’immaginario dell’ascoltatore, il quale verrà poi scosso emotivamente da un magnifico crescendo finale; così avviene nella magnifica Forever Winter, che assieme alla successiva title track rappresenta il fulcro centrale di un album che qualsiasi amante del doom più evocativo ed atmosferico non potrà non apprezzare. Con l’eccezione di Miss Me, But Let Me Go, traccia leggermente più sostenuta a livello ritmico che, non a caso, vede la partecipazione di un musicista di estrazione death come l’indiano The Demonstealer, Lost Eternally è un fluttuante viaggio all’interno di sensazioni e turbamenti in grado di minare a turno le certezze di ognuno e che, nella poetica di McGovern, finiscono per fondersi in un unico drammatico sentire.
Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dagli storici modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Tracklist:
1. In the Mist of Once Was
2. Emancipation of Pain
3. Forever Winter
4. Lost Eternally
5. The Hurt
6. Miss Me, But Let Me Go
7. Whispers of Madness

Line-up:
John McGovern – Vocals
Will Maravelas – Guitars/Keyboards
Aaron Lanik – Drums
Nikoley Velev – Guitars/Keys/Drums (on The Hurt, Lost Eternally, Emancipation of Pain)
Neal Pruett – Bass
Kevin Murphy – Bagpipes (on In the Mist of Once Was)

Guests:
Danny Woe of Woebegone Obscured (on Emancipation of Pain)
Demonstealer of Demonic Resurrection (on Miss Me, But Let Me Go with John)
Giovanni Antonio Vigliotti of Somnent (on Lost Eternally with John)
Justin Buller of Wolvenguard/In Oblivion (on The Hurt)

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Illimitable Dolor – Leaden Light

Il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.

Quando gli Illimitable Dolor circa due anni fa apparvero sulla scena, nonostante il valore intrinseco del bellissimo album d’esordio, c’era la sensazione che potessero rappresentare solo un estemporaneo progetto parallelo ai The Slow Death, band che forniva buona parte della line up, in virtù anche delle motivazioni che erano alla base della loro formazione, ovvero l’omaggio a quello che fu per anni il vocalist di quella band, Greg Williamson, scomparso nel 2014.

In realtà, l’uscita di diversi singoli e lo split album con i Promethean Misery hanno mantenuto ben attivo il gruppo, cosicché questo nuovo Leaden Light non arriva inatteso ma costituisce ugualmente una piacevole sorpresa.
Infatti il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.
Ciò che ne deriva sono cinquanta minuti nel corso dei quali il genere viene offerto al suo massimo livello sconfinando sovente nel funeral a livello ritmico e mantenendo sempre al massimo la tensione emotiva.
Leaden Light, in fondo, dimostra che per scrivere un grande disco in ambito doom non serve fare voli pindarici ma è sufficiente incanalare l’ispirazione all’interno di una struttura ben delineata che non lascia spazio a divagazioni, volta com’è ad avvolgere l’ascoltatore in una cappa di malinconia che alla lunga diviene un confortevole approdo.
Gli Illimitable Dolor, che oggi al trio dei fondatori Stuart Prickett (chitarra e voce), Yonn McLaughlin (batteria e voce) e Dan Garcia (basso) aggiungono il tastierista Guy Moore, prendono il meglio delle band europee ed americane dedite al genere, vi inseriscono quella dose necessaria di plumbea drammaticità dei conterranei Mournful Congregaton e da tutto ciò fanno scaturire cinque tacce stupende, commoventi e cullanti, tra le quali spiccano l’opener Armed He Brings The Dawn, la traccia più lunga del lavoro, con la quale gli australiani avviluppano in maniera irrimediabile l’ascoltatore nelle loro spire per poi annichilirlo emotivamente con il capolavoro Horses Pale And Four, semplicemente una delle migliori dimostrazioni di funeral/death doom atmosferico ascoltate negli ultimi tempi.
Leaden Light è l’ennesimo grande disco che il genere sta offrendo in questo periodo e, ovviamente, chi ama simili sonorità non può fare a meno di gioire soprattutto quando proposte di tale livello non provengono dai nomi più noti e consolidati della scena, bensì da band relativamente nuove e sicuramente meno conosciute: la certezza che queste sonorità saranno il nostro consolatorio rifugio anche negli anni a venire, è una delle poche che ci restano di questi tempi, per cui teniamocela ben stretta …

Tracklist:
1. Armed He Brings The Dawn
2. Soil She Bears
3. Horses Pale And Four
4. Leaden Light Her Coils
5. 2.12.14

Line-up:
Stuart Prickett – Guitars, Vocals (The Slow Death, Horrisonous)
Yonn McLaughlin – Drums, Vocals (The Slow Death, Nazxul)
Dan Garcia – Bass (The Slow Death)
Guy Moore – Keyboards (ex-Elysium)

ILLI MITABLE DOLOR – Facebook

Abyssic – High The Memory

Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi che superano entrambi i venti minuti di durata.

Gli Abyssic sono a loro modo una novità in ambito doom, in quanto fondono in maniera mirabile l’incedere rallentato del funeral con gli spunti sinfonici del black metal norvegese.

Non è un caso, del resto, se la band vede quale fondatore Memnoch, già membro oltre che dei notevoli Susperia anche degli Old Man’s Child di Galder, dei quali ha fatto parte anche il ben noto drummer Tjodalv (Dimmu Borgir) che assieme al tastierista Andre Aaslie (Funeral), alla bassista Makhashanah (ex Sirenia) e all’altro chitarrsta Elvorn, anch’egli nei Susperia, va a completare la line-up di quello che potrebbe sembrare a prima vista una sorta di supergruppo black metal e che, invece, è autore di uno degli album più solenni e luttuosi usciti quest’anno.
Quale possibile termine paragone per l’operato degli Abyssic si potrebbe prendere l’ultima opera dei redivivi Comatose Vigil (con il suffisso A.K.) con la differenza sostanziale di un approccio molto meno soffocante, favorito da un lavoro delle tastiere che sposta il sound su un piano atmosferico piuttosto che orrorifico o funereo.
High The Memory va ad aggiungersi allo splendido esordio del 2016 A Winter’s Tale, esaltando come in quell’occasione il tocco di Aaslie e, in generale, di tutta una band composta da musicisti di spessore asserviti alla creazione di brani lunghi, avvolgenti e melodicamente ineccepibili.
Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi come la title track o Where My Pain Lies, che superano entrambi i venti minuti di durata.
Gli Abyssic portano alle estreme conseguenze livello melodico il pathos che sono stati capaci di creare in passato band come gli Ea o i Monolithe; peraltro, proprio con questi ultimi, i norvegesi intraprenderanno in primavera un tour europeo che farà tappa in Italia il prossimo 18 aprile allo Slaughter di Paderno Dugnano: una serata che si preannuncia imperdibile per gli amanti di queste magnifiche sonorità.

Tracklist:
1. Adornation
2. High the Memory
3. Transition Consent
4. Where My Pain Lies
5. Dreams Become Flesh

Line-up:
Memnock – vocals, contrabass
Elvorn – guitars
Andre Aaslie – keys, orchestration
Tjodalv – drums
Makhashanah – bass, additional vocals

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Clouds – Destin

I quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento di Daniel Neagoe, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

E’ passato davvero poco tempo da quando mi ritrovai ad esaltare quel capolavoro di malinconia fatta musica intitolato Departe ed eccomi nuovamente alle prese con una nuova uscita marchiata Clouds, frutto dell’instancabile creatività di Daniel Neagoe.

Mai tale prolificità fu più gradita, visto che il livello del pathos resta elevatissimo anche in questa uscita intitolata Destin che, trattandosi di un ep, non consta solo di brani inediti ma anche di riedizioni di altri già usciti in precedenza.
Quello che conta, ovviamente, sono le quattro nuove tracce, ognuna di esse incisa con l’apporto di un diverso ospite alla voce capace di rendere sempre più peculiare e nel contempo completo l’operato di questo supergruppo del doom atmosferico.
In The Wind Carried Your Soul troviamo la voce angelica di Ana Carolina dei cileni The Mourning Sun (dei quali raccomando vivamente, a chi non lo conoscesse, lo splendido Último Exhalario) duettare con Daniel, creando un’alchimia vocale magica ed esaltata da un substrato melodico di rara bellezza; la successiva Fields of Nothingness è interpretata da Mikko Kotamäki (Swallow The Sun, lo specifico per chi fosse capitato qui per sbaglio …), sempre in grado di restituire ogni brano che lo vede protagonista al massimo del suo potenziale evocativo, cosa che avviene anche con questa magnifica canzone che ricorda per struttura quella interpretata da Pim Blanckenstein in Departe (Driftwood).
In Nothing but a Name la parte vocale viene affidata a Mihu, frontman dei meno conosciuti rumeni Abigail, dalla timbrica abbastanza simile a quella di Daniel: qui a fare la differenza è una melodia dolente delineata dal pianoforte e da una chitarra che si ritaglia un maggior spazio solistico rispetto al solito; il quarto e ultimo brano inedito, In this Empty Room, è quello più soprendente, soprattutto perché ci consente di scoprire una grande interprete come la cantante greca Gogo Melone (Aeonian Sorrow), in possesso di una voce versatile e del tutto personale: il duetto con il growl di Neagoe porta il sound su lidi diversi rispetto a quelli più consueti dei Clouds, conferendogli un aspetto meno cupo, sebbene sempre intriso di malinconia.
Destin nella sua fasce discendente presenta le versioni acustiche di You Went so Silent ed Even If I Fall (entrambe tratte da Doliu), che in tale veste perdono parte del loro pathos drammatico ma evidenziano come Daniel sia diventato un magnifico interprete anche quando si trova alle prese con le sole clean vocals, e la riedizione del singolo Errata, uscito nel 2015 nell’intervallo tra i due full length, che si conferma episodio di buona levatura senza raggiungere i picchi di gran parte della produzione dei Clouds.
Nel complesso, i quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento del musicista rumeno, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. The Wind Carried Your Soul feat. Ana Carolina (Mourning Sun)
2. Fields of Nothingness feat. Mikko Kotamäki (Swallow the Sun)
3. Nothing but a Name feat. Mihu (Abigail)
4. In this Empty Room feat. Gogo Melone (Aeonian Sorrow)
5. You Went so Silent (acoustic Destin version)
6. Even if I fall (Destin version)
7. Errata (re-mixed)

Line up:
Daniel Neagoe – Vocals
Déhà – Bass
Steffan Gough – Guitars
Chris Davies – Violn
Anders Eek – Drums

CLOUDS – Facebook

Cold Insight – Further Nowhere

Rispetto alla pre-produzione ascoltata diversi anni fa, il growl di Sébastien Pierre conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.

Quattro anni fa rinvenni on line un album intitolato Further Nowhere, a nome Cold Insight, che mi aveva incuriosito in quanto si trattava del progetto solista di Sébastien Pierre, tastierista degli ottimi ma appena disciolti death-doomsters francesi Inborn Suffering, nonché partner di Jari Lindholm nei magnifici Enshine

La musica contenuta in quelle tracce di natura esclusivamente strumentale mi colpì favorevolmente, tanto che ritenni di scrivere due righe al riguardo, ben conscio del fatto che si trattava di una pre-produzione messa in circolazione sul web per sondare il terreno, come ci tenne a chiarire anche il musicista francese, pur se lusingato dal riscontro positivo.
Approdato ad un’etichetta specializzata in musica oscura e di qualità come la Naturmacht / Rain Without End, Pierre ha finalmente dato alle stampe la versione definitiva di Further Nowhere e, come era prevedibile, l’inserimento della voce rende un’opera magnifica quella che nel 2013 era apparsa un già notevole abbozzo.
Il growl di Sébastien conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.
Ovviamente le tracce che già a suo tempo mi avevano colpito per la loro bellezza vengono esaltate in questa loro nuova veste, impreziosita dal contributo alla chitarra dello stesso Lindholm ed del suo connazionale (nonché compagno negli Exgenesis) Christian Netzell alla batteria: così, affreschi melodici e dal groove irresistibile come The Light We Are, Above ed Even Dies A Sun (solo per citare quelle che prediligo) vengono offerte all’interno di un progetto che trova finalmente un suo sbocco ben definito, e sarebbe stato un vero delitto se ciò non fosse avvenuto.
L’unica traccia che ha conservato la propria veste strumentale è proprio la title track, ed è giusto così perché, in fondo, è tra tutte quella che esprime le melodie più struggenti e che, forse, sarebbero state intaccate dall’inserimento delle vocals; la chiusura invece è affidata a Deep, unico brano non presente nella prima stesura e dotato di un chorus che non lascia scampo, come del resto avviene in quasi tutte le altre canzoni, nelle quali questa capacità da parte di Pierre viene perpetuata con un approccio non dissimile a quello dei migliori Amorphis.
L’ascolto di questo effettivo primo full length targato Cold Insight conferma una volta di più quanto ho sempre sostenuto riguardo alla tendenza ormai diffusa, emersa in questi ultimi anni, di pubblicare opere interamente strumentali: avendo, per una volta, l’occasione di confrontare lo stesso lavoro nell’una e nell’altra versione, si può oggettivamente constatare come non ci sia competizione tra le due soluzioni, in particolare quando le linee vocali sono incisive ed espressive come quelle del musicista parigino.
Alla fine della recensione scritta quattro anni fa per In Your Eyes Eyes affermavo che a un album come Furter Nowhere mancava solo la parola … ora che l’ha trovata è davvero un bel sentire.

Tracklist:
01. The Light We Are
02. Midnight Sun
03. Sulphur
04. Close Your Eyes
05. Above
06. Rainside
07. Stillness Days
08. Even Dies a Sun
09. Distance
10. I Will Rise
11. Further Nowhere
12. Deep

Line-up:
Sébastien Pierre – vocals, keyboards, guitar, bass

Jari Lindholm – guitar solos, mixing, mastering
Christian Netzell – drums

COLD INSIGHT – Facebook