Maieutiste – Maïeutiste

Questo album autointitolato non è certo di fruizione immediata ma, in ossequio al proprio concept, stimola la mente dell’ascoltatore, costretto ad assecondare le curve sonore che i Maieutiste inducono a percorrere.

Questo disco fa parte di una serie di lavori, degni d’essere rivangati, pubblicati lo scorso anno dalla piccola ma qualitativa label francese Les Acteurs de l’Ombre Productions, dal roster ancora ristretto e prevalentemente autoctono ma fatto di band poco convenzionali, come da recente tradizione transalpina.

I Maieutiste sono al full length d’esordio, anche se la loro storia è quasi decennale e, come il monicker fa presagire, sono le tematiche filosofiche a trovarsi al centro delle liriche.
Con tali premesse (incluso un artwork a mio avviso magnifico) attendersi una proposta musicale ben poco schematica è più che lecito, e cosi è: infatti, la band di Saint Etienne riempie quasi per intero lo spazio disponibile in un cd con un black doom sperimentale, ricco di ottimi spunti ed altrettanti momenti di non facile decrittazione.
Questo album autointitolato non è certo di fruizione immediata ma, in ossequio al proprio concept, stimola la mente dell’ascoltatore, costretto ad assecondare le curve sonore che i Maieutiste inducono a percorrere. Ogni tanto i nostri decidono di andare diritti al punto (Reflect / Disappear), anche se la strumentale Purgatoire arriva subito dopo a ricordare che non tutto è così come sembra … e ciò non si rivela affatto un male. Non va dimenticato neppure che la genesi dei diversi brani è piuttosto variegata, essendo frutto di un lavoro che si protrae da anni e lo testimonia il fatto che, opportunamente, sono stati fatti confluire nel full-length spunti già editi nel demo Socratic Black Metal, datato 2007.
Detto, infine, che un gran brano come Death To Free Thinkers si pone a tutti gli effetti come l’emblema dell’intero album, non si può fare a meno di notare che i Maieutiste talvolta abusano delle loro capacità, grazie alle quali esaltano senza dubbio le varie sfaccettature del loro sound ma finiscono per smarrire, a tratti, l’idea della forma canzone a favore di divagazioni che rendono l’ascolto frammentario e questo, piaccia o meno, costituisce pregio e difetto di tale fattispecie di lavori.
I Maieutiste comunque, rispetto ad altre realtà dall’animo avanguardistico, danno la sensazione di tenere maggiormente sotto controllo gli impulsi sperimentali anche se la quantità di carne messa al fuoco, alla lunga, fa rischiare l’indigestione; sicuramente in futuro una maggiore sintesi non potrà che giovare alla loro causa.

Tracklist:
1. Introductions…
2. …in the Mirror…
3. Reflect / Disappear
4. Purgatoire
5. The Fall
6. Absolution
7. The Eye of Maieutic Art
8. Lifeless Visions
9. Death to Free Thinkers
10. Annonciation
11. Death to Socrates

Line-up:
JF – Drums
Keithan – Guitars
Eheuje – Vocals
Grey – Guitars
Krameunière – Bass
Жертва – Guitars, Vocals

MAIEUTISTE – Facebook

Pergale – Antropologija

Vilnius è una potenziale Berlino, per gruppi che si creano e brevettano in una potenziale officina.

Aria di primavera, quella fatta di piogge in previsione di cambio clima. Aria fresca e nuove sonorità che cambiano le pastorizie dell’anno passato.

Questo è ciò che si percepisce, almeno dopo pochi minuti di A boy’s night out, traccia apripista del secondo album registrato in studio dal quintetto lituano. Mi sono stupito da come, in poco tempo, tante coincidenze sono affiorate in un’ottima sequenza motorhediana, prog, growling e psycho black. Le chitarre volano senza perdere tempo, si lanciano in fughe e ritornano schiumanti, aggressive e potenti. Questa formula di originalità e di eclettismo, in una prima traccia sempre lascia di stucco, sperando che la seconda a seguire non sia una ripetizione … e così sia . Un tuffo nel vicino passato in cui ancora i Type 0 Negative regalavano la loro attitudine devota a un dark colorato, sinuoso e ammiccante: Estonian Lesbians  ci riporta a quei pomeriggi trasognanti in cui il cimitero monumentale di qualsiasi città faceva probabilmente da anfiteatro malinconico di lunghe passeggiate, per interminabili tattiche su come conquistare la ragazza wave dai capelli colorati e vestita di nero. Buona la voce che assieme alla chitarra comprime molta più energia di quanta già ce ne sia, bilanciando il ritmo sincopato. I cori e le voci femminili aiutano le note del piano ad uscire trionfalmente, un taglio di ballad ad addolcire i toni post black ( anche se siamo lontani dagli Altar of Plague ). Anche perché, per una traccia come Durnius, è necessario un attimo di catarsi, una condizione di necessaria logica, prima di perdersi nella marcia psichedelica che ne consegue. Credo che in questa traccia si assommi l’intero universo Pergale, riconducibile ad un luna park con diverse insegne accattivanti, colorati e smerigliate. Questa marcetta psichedelica ci fa contenti, perché tutti i membri funzionano al loro meglio, e ci stupiscono per la terza volta consecutiva. Bene così, la scaletta funziona ed il disco acquisisce punti . Viskis II riprende in un inciso la traccia contenuta nel precedente Horizontalios maldos palaima, Viskis (Whiskey) e non possiamo fare a meno di fermarci un attimo a pensare a cosa stia dicendo. Qualsiasi cosa sia non importa, ha l’impatto confortevole e coinvolgente di una storia dimenticata e raccontata affettuosamente. Les Yeux Rouges si erige in tutta la sua verticale monumentalità con riff decisamente coinvolgenti e trasognanti: l’intro leggermente epico riporta la normalità con un mid-tempo piacevole, leggero e tonale, compatto. Gabriel the Norwegian è una gran bella invenzione che delizia e scalda i cuori , strizzando l’occhio ai paradigmi del black metal.
Il disco è fatto bene, appartiene a quell’alta fedeltà che mai è fuori moda.

TRACKLIST
1.A Boy’s Night Out
2.Estonian Lesbians
3.Durnius
4.Viskis II
5.Les Yeux Rouges
6.Gabriel the Norwegian

LINE-UP
7 – Vocals
Gusmanas – Guitar
Demonas – Bass
Levas – Keyboards
Ilja – Drums
Simas – Guitar

PERGALE – Facebook

Spektr – The Art To Disappear

The Art To Disappear costituisce un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.

Ritroviamo i francesi Spektr, a tre anni da Cypher, alle prese con il loro apocalittico mix tra industrial, ambient e black metal.

A livello di sonorità poco è cambiato: The Art To Disappear è decisamente, come il suo predecessore, un lavoro di ardua decrittazione, ma la sensazione è quella che il duo composto da kl.K. e Hth sia riuscito a focalizzare meglio la propria vis sperimentale.
L’album mostra sempre una qualche dispersività, che è connaturata all’indole avanguardistica dei suoi autori, ma nel contempo i vari tasselli paiono essere meglio collocati al loro posto: i passaggi più contorti sono maggiormente funzionali e connessi alle sfuriate tipicamente black e, cosa fondamentale, The Art To Disappear riesce a non annoiare nonostante i nostri poco o nulla facciano per risultare più ammiccanti.
Indubbiamente, i due musicisti transalpini centrano il bersaglio quando si lasciano andare alle sfuriate black/industrial, con micidiali ordigni quali From the Terrifying to the Fascinating e Your Flesh Is a Relic, per esempio, o con la summa della loro musica costituita dalla conclusiva title track, che tra il terzo e il quinto minuto regala persino una spaventosa accelerazione di matrice black’n’roll.
Se Cypher in più di una circostanza non convinceva del tutto, questa nuova fatica degli Spektr sgombra molte di quelle nubi in virtù di una sintesi raggiunta grazie al maggior equilibrio e coesione tra le parti ambient-rumoriste e quelle di matrice black metal.
The Art To Disappear costituisce, quindi, un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.

Tracklist:
1. Again
2. Through the Darkness of Future Past
3. Kill Again
4. From the Terrifying to the Fascinating
5. That Day Will Definitely Come
6. Soror Mystica
7. Your Flesh Is a Relic
8. The Only One Here
9. The Art to Disappear

Line-up:
kl.K. – Vocals, Drums, Samples, Programming
Hth – Vocals, Guitars, Bass, Samples, Programming

Escarre – Une voûte sans clef

Non si può certo considerare questo degli Escarre un esperimento fallito, anche se alla fine il bacino d’utenza a cui i contenuti di Une voûte sans clef vengono rivolti è necessariamente molto ristretto: chi si riconosce in questa cerchia, però, potrebbe apprezzare il tutto non poco.

Il trio canadese Escarre arriva da molto più lontano rispetto a quanto faccia pensare il fatto che Une voûte sans clef ne risulti l’album d’esordio.

Infatti, i primi passi del progetto sono rinvenibili già ad iniziò secolo quando, con il monicker Esker, vennero dati alle stampe tre demo.
Di fatto, la band riunisce tre musicisti provenienti da due band funeral doom piuttosto quotate, Longing For Dawn e Towards Darkness, ma il sound proposto è ben lontano da quei lidi anche se, specie nella prima, una certa vena sperimentale è sempre stata presente.
L’avantgarde metal degli Escarre racchiude, così, in sé pregi e difetti insiti in questa definizione: molti spunti interessanti finiscono sepolti all’interno di un sound dissonante, di assimilazione dannatamente complessa e con l’aggravante della scelta di optare per vocals pulite invero poco incisive piuttosto che per soluzioni più grintose e, a mio avviso, più consone alla robustezza di fondo del sound.
Scelte che, come detto, non favoriscono la fruizione di un lavoro impeccabile dal punto di vista esecutivo, dato che i nostri dimostrano d’essere degli ottimi musicisti, ma Une voûte sans clef sembrerebbe essere più una lecita valvola di sfogo per chi è abituato a sonorità maggiormente controllate e, ovviamente, rallentate.
Gli Escarre esibiscono più di una volta passaggi brillanti che la natura avanguardistica dell’album finisce per disperdere benché il trio, gli va dato atto, non indulga nemmeno più di tanto in onanismi strumentali che sovente sono connessi ad uscite di questo tipo.
Difficile memorizzare un brano in particolare (ma non credo neppure che questo fosse tra gli obiettivi dei nostri), anche se si ricordano piacevolmente la seconda parte della lunga Heurt violin, il successivo strumentale Méandres triangulaires ed il più arioso finale di Une ciguë pour cure.
In definitiva, non si può certo considerare questo degli Escarre un esperimento fallito, anche se alla fine il bacino d’utenza a cui i contenuti di Une voûte sans clef vengono rivolti è necessariamente molto ristretto: chi si riconosce in questa cerchia, però, potrebbe apprezzare il tutto non poco.

Tracklist:
1. Mon ordalie
2. Heurt violine
3. Méandres triangulaires
4. Une fenêtre oubliée
5. Une ombre anémiée
6. Scène immobile
7. Mysticisme psychotrope
8. Une ciguë pour cure

Line-up:
Kevin Jones – Bass
François C. Fortin – Drums
Simon C. Bouchard – Vocals, Guitars, Keyboards

ESCARRE – Facebook

Grey Heaven Fall – Black Wisdom

In quest’album non si inseguono vanamente i nomi di punta del black/death, bensì vengono ampliati non poco gli orizzonti sonori grazie ad un impeto avanguardistico sempre equilibrato e ben sorretto dalla tecnica individuale.

I russi Grey Heaven Fall sono una realtà ben più che interessante, in quanto portatori di una proposta musicale a suo modo originale o, perlomeno, capace di differenziarsi il giusto dalla massa riuscendo così a spiccare in maniera netta.

Infatti, nel black/death che ne costituisce l’asse portante, il trio di Podolk immette un tecnicismo asservito al mantenimento di una tensione costante del sound, ed è proprio grazie a ciò che la bravura di questi musicisti non resta un esercizio fine a sé stesso e trova sbocco, invece, in un’ora di musica certamente impegnativa, ma talmente ricca di spunti da riuscire nell’intento di tenere alla larga ogni parvenza di noia.
Quelli che, in molti dischi prodotti da band con la stessa attitudine, si rivelano passaggi solo cervellotici, in Black Wisdom si ammantano di oscurità, giungendo persino ad evocare un mood malinconico che parrebbe antitetico alle robuste partiture della band russa: in quest’album non si inseguono vanamente i nomi di riferimento del genere suonato, bensì vengono ampliati non poco gli orizzonti sonori grazie ad un impeto avanguardistico sempre equilibrato e ben sorretto dalla tecnica individuale.
Black Wisdom trova la sua sublimazione in un ascolto attento e non frammentato, essendo un album che va consumato nella sua interezza perché possa appagare in maniera totale tutti i sensi: già, perché qui la tensione prodotta da un sound di rara profondità si assapora, si tocca, si annusa e si osserva; velenosa ed amara, come i suoi testi critici nei confronti della religione (cantati in lingua madre ma lodevolmente restituiti in inglese nella confezione curata dalla Aesthetics Of Devastation), la musica dei Grey Heaven Fall si esalta nella sua reiterazione, annichilendo una potenziale concorrenza magari di pari livello per maestria tecnica ma inferiore per efficacia e sintesi del songwriting.
Cito ad esempio solo To The Doomed Sons Of Erath, un brano che lacera l’anima con le sue dissonanze che non riescono ad imprigionare un afflato melodico e drammatico come di rado è dato ascoltare, ma mi spingo a anche a rimarcare assoli chitarristici di grande classe che spiccano come oasi improvvise nel cuore di maelstrom sonori quali Spirit of Oppression e That Nail in a Heart ; black, death, doom, progressive, ambient, in Black Wisdom entra tutto questo ma viene risputato fuori in una forma che non appartiene di diritto ad alcun illustre progenitore.
Vi diranno che ci possono essere somiglianze con il black avanguardistico di band come Deathspell Omega o Blut Aus Nord: sarà anche vero, ma secondo me i Grey Heaven Fall superano a tratti anche questi inattaccabili esempi, in virtù di un’espressione sonora che nasce da un sentire profondo, da un’inquetuidine che trova sfogo in una furia metronomica ma nel contempo inarrestabilmente creativa.
Black Wisdom è un disco che quando entrerà in circolo lascerà strascichi irreparabili, sappiatelo.

Before trying to find God in beauty, look for him in the deepest abomination

Tracklist:
1.The Lord is Blissful in Grief
2.Spirit of Oppression
3.To the Doomed Sons of Earth
4.Sanctuary of Cut Tongues
5.Tranquillity of the Possessed
6.That Nail in a Heart

Line-up:
Arsagor – Guitars, Vocals
SS – Bass
Pavel – Drums

GREY HEAVEN FALL – Facebook

Todtgelichter – Rooms

Rooms, nove stanze che nascondono nove modi di emozionare, nove porte da aprire per entrare in un caleidoscopio di suoni progressivi estremi.

Mi fate davvero sorridere, sì voi beceri ed ignoranti cultori della musica usa e getta, delle boy band, e detrattori del metal a prescindere, cultori dei soldi a dispetto dell’arte.

Ma ilo mio ghigno è di rabbia, una rabbia che da anni mi porto dentro, ogni volta volte che mi fermo a parlare di musica, fiato sprecato se al cospetto ho persone che non hanno orecchie per sentire.
E allora, il tutto rimane come sempre circoscritto ad un manipolo di eletti che, fregandosene altamente delle abituali new sensations che ogni anno sfornano antipatici tormentoni, della buona musica si nutrono e sicuramente apprezzeranno un album come Rooms, nuovo lavoro dei tedeschi Todtgelichter.
Nati come black metal band, magari atipica, ma pur sempre assimilabile al genere oscuro per eccellenza, nel corso degli anni si sono trasformati in un’entità totalmente slegata da generi e confini, maturando un sound estremo che fa dell’originalità e della maturità compositiva il suo credo, elargendo arte delle sette note come se piovesse dal cielo.
Rooms, nove stanze che nascondono nove modi di emozionare, nove porte da aprire, per entrare in un caleidoscopio di suoni progressivi estremi, intricati, ma perfettamente logici, per godere di arte che va aldilà delle barriere erette dai profeti del nulla, per umiliare quella forma di musica che si rivela solo materiale di uso e consumo.
Nati all’inizio del nuovo millennio e con ben quattro full length alle spalle, di cui l’ultimo, Apnoe, aveva tutti i crismi del capolavoro, il gruppo di Amburgo aggiunge un altro quadro dai mille colori nella sua già nutrita discografia, con questo stupendo affresco di musica a 360° dal titolo Rooms.
Progressive, musica estrema, dark, accenni di blues rock (Origin) si fondono per donare nove tracce di suoni alternativi ai soliti cliché: teatrale, oscura, intimista ed eclettica, sfiora la sublime eccellenza con l’interpretazione della stupenda Marta, un’Edith Piaf della musica estrema, violenta e terrificante con lo scream, teatrale ed assolutamente ineccepibile alle clean vocals.
Entrando nelle nove stanze di cui è composto questo monumentale edificio musicale, vi perderete nei meandri delle sette note, intimiste, malinconiche, violente come uno stupro, affascinanti come il male e curative come solo l’arte sa essere per l’anima.
Nessun accenno ai brani, per entrare dovrete trovare la prima chiave e poi, dentro alla prima stanza troverete quella per la seconda e così via, in un viaggio dove voi sarete incollati all’ingresso, mentre sarà il vostro io che percorrerà i corridoi, aprirà le porte, si rifugerà negli angoli più bui, spaventato da una musica che lo denuda, mettendolo davanti ad uno specchio che non riflette quello che crede di essere, ma ciò che è veramente.
Un capolavoro di emozioni.

TRACKLIST
01. Ghost
02. Schrein
03. Lost
04. Shinigami
05. Necromant
06. Zuflucht
07. 4JK
08. Origin
09. Pacific

LINE-UP
Marta: vocals, screams
Frederic: guitars, backing vocals
Floris: guitars
Guntram: bass
Frieder: organ, synths
Tentakel P.: drums

TODTGELICHTER – Facebook

URL YouTube, Soundcloud, Bandcamp

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Proliferhate – In No Man’s Memory

I Proliferhate sono una band di death metal per nulla convenzionale, basato su un grande e sapiente uso della melodia.

I Proliferhate sono una band di death metal per nulla convenzionale, basato su un grande e sapiente uso della melodia.

Formatisi nel 2012 questi ragazzi torinesi hanno subito imboccato un’ottima strada, che qui confermano con questo ottimo album. Nella loro musica i Proliferhate fanno confluire molti elementi stilistici, dalla brutalità alla melodia, pezzi claustrofobici ed ariose aperture. Il loro death metal è molto originale e variegato ed è difficile circoscrivere in un solo genere il risultato. La loro intensa attività live fornisce un grande apporto al loro suono, e li porta ad essere un grande gruppo nel panorama italiano e non solo, poiché la vocazione internazionale è molto presente. Prodotti da Adriano “Vecchio ” Sette, i Proliferhate si candidano ad essere uno dei migliori gruppi metal italiani del presente ma soprattutto del futuro.

TRACKLIST
1Apologia di un Povero Diavolo Pt.1
2 Ashland
3 Resonance Frequency
4 Der Grossmann
5 In No Man’s Memory
6 Apologia di un Povero Diavolo Pt.2
7 The Court of Owls
8 In My Deep feat. AV7 Sounds

LINE-UP
Durante Omar: Vocals, Guitar
Moffa Lorenzo: Guitars
Simioni Andrea: Bass Guitar
Varlonga Daniele: Drums

PROLIFERHATE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=x8PyHyZs3kM

Eshtadur – Oblivion Ep

Gli Eshtadur sanno dove vogliono andare e possono fare molte cose grazie anche alla loro ottima tecnica, che unita ad una composizione molto buona rende la miscela esplosiva.

Dalla Colombia un bel disco di death metal con forti connotazioni sinfoniche e soprattutto con un bel groove.

Originari della provincia di Bogotà gli Eshtadur sono l’ennesima dimostrazione che il metal in America Latina è una cosa seria, ben fatta e con connotazioni tipicamente sudamericane, come la ricerca delle melodie.
Questo disco è la quarta uscita dopo il demo del 2007 e conferma la grande salute di un gruppo che è molto al di sopra della media.
Il loro suono riesce ad essere cattivo ed allo stesso tempo fortemente accattivante, con un gran bel tiro molto vicino a quel suono scandinavo che portava la firma di At The Gates, Grave  e compagnia.
Gli Eshtadur sanno dove vogliono andare e possono fare molte cose grazie anche alla loro ottima tecnica, che unita ad una composizione molto buona rende la miscela esplosiva.

TRACKLIST
01. In a Trance With Darkness
02. Last Day of the Condor
03. Heavens to the Ground
04. The Currency of My Empire
05. The Rebellion

LINE-UP
Vocals – Jorge Lopez
Guitar – Diego Rodriguez
Guitar – Lib Mahecha
Bass – Didier Marin
Drums – Diego Torres

ESHTADUR – Facebook

Pryapisme – Futurologie

Solo dei simpatici folli possono pensare di presentare undici brevissimi brani privi di una sequenza logica, nei quali confluiscono jazz, elettronica, metal e chi più ne ha più ne metta, per poi piazzare in coda una traccia di oltre venti minuti che riprende tutto quanto successo in precedenza in formato sinfonico.

Quand’ero bambino (qualche era geologica fa … ) l’idea che mi ero costruito della musica francese era che fosse essenzialmente rappresentata dai grandi chansonnier, di giganti come Gilbert Bécaud, Charles Trenet o Charles Aznavour.

Dopo diversi decenni non si può fare a meno di constatare che qualcosa nell’aria che respirano i cugini d’oltralpe dev’essere radicalmente cambiato, vista l’elevata concentrazione odierna di band che esprimono la loro creatività in maniera definibile, in maniera eufemistica, anticonvenzionale.
Qualcuno fa il grande colpo dando alle stampe un capolavoro in grado di meravigliare ad ogni ascolto (i 6:33 con “Deadly Scenes”), mentre altri, pur senza raggiungere simili livelli, se ne strafottono bellamente di ogni schema consolidato, riversando su un disco qualsiasi cosa passi loro per la testa (e non solo) come fanno i Pryapisme .
Questo manipolo di pazzi sa il fatto proprio a livello strumentale, e ce lo dimostra nell’arco dei tre quarti d’ora di musica apparentemente composta da figuri afflitti da un disturbo “quadripolare” (perché bipolare sarebbe troppo banale …) facendo quasi apparire dei grigi travet gente come Fantomas e affini.
L’unico problema è che qui la bizzarria prende troppo spesso il sopravvento, rendendo oggettivamente complicato seguire il filo logico di un disco che di logica, in effetti, ne ha pochina.
Il lavoro ha comunque un suo fascino ma io, ritenendomi una persona semplice, penso sempre che la musica mi debba soprattutto emozionare e, pur apprezzandone gli sforzi e rispettando le scelte artistiche, non sono mai riuscito ad innamorarmi facilmente di chi si fa promotore di proposte troppo cervellotiche.
I Pryapisme hanno il pregio però di rendersi simpatici, non solo perché evidenziano in ogni occasione il loro amore per i gatti: il loro atteggiamento scanzonato può costituire infatti un ideale grimaldello per penetrare con più agio nelle criptiche partiture inscenate.
Poi, solo dei simpatici folli possono pensare di presentare undici brevissimi brani privi di una sequenza logica, nei quali confluiscono jazz, elettronica, metal e chi più ne ha più ne metta, per poi piazzare in coda una traccia di oltre venti minuti che ripropone tutto quanto accaduto in precedenza in formato orchestrale.
Di sicuro il “piccolo trattato di futurologia sull’homo cretinus trampolinis” non è una lettura consigliabile a chi si vuole rilassare …

Tracklist:
1.I – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
2.II – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
3.III – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
4.IV – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
5.V – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
6.VI – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
7.VII – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
8.VIII – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
9.IX – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
10.X – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
11.XI – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (et son annexe sur les nageoires caudales)
12.XII – Petit traité de futurologie sur l’Homo cretinus trampolinis (orchestral version)

Line-up:
Ban Bardiaux – Keys, vox
Nils Cheville – Guitars
Antony Miranda – Bass, moog, percs, vox
Nicolas Sénac – Guitars, synths
Aymeric Thomas – Drums, percs, electronics

PRYAPISME – Facebook

6:33 – Deadly Scenes

“Deadly Scenes” è un’autentica bomba pronta a deflagrare e a conquistare il mondo, solo se chi di dovere (ovvero il pubblico) avesse orecchie per intendere …

“Che cos’è il genio?” si chiedeva uno dei protagonisti in uno dei film culto della commedia all’italiana, “Amici Miei”, e la risposta era: “È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione”.

Chiaramente la genialità in questione era rivolta alla messa in scena delle “zingarate” che sono passate alla storia della cinematografia nostrana ma, in fondo, buona parte di quella definizione si può tranquillamente applicare al disco di questi folli (e quindi geniali, le due cose, si sa, vanno spesso di pari passo) francesi chiamati 6:33.
Certo che, quando nelle note introduttive prodotte dalla Kaotoxin Records, ho letto riferimenti a Mike Patton e Devin Townsend, ovvero due dei massimi emblemi di “genio e sregolatezza” in ambito musicale, un po’ di paura l’ho avuta: in questi casi è un tutt’uno pensare: “oh mamma, chissà che minestrone indigeribile di vari generi dovranno sorbirsi le mie orecchie abituate al molto più lineare doom …”.
Niente di quanto paventato è finito tra i solchi di questo Deadly Scenes, anzi, le promesse della brillante label di Lille sono state mantenute alla grande: questo disco è un’autentica bomba pronta a deflagrare e a conquistare il mondo, solo se chi di dovere (ovvero il pubblico) avesse orecchie per intendere …
Bisogna tenere conto, inevitabilmente, della pigrizia mentale che equivale ad una sorta di Ebola per la maggior parte dei potenziali ascoltatori: proprio qualche giorno fa, parlando di musica con un mio coetaneo, ho dovuto sorbirmi la solita teoria secondo la quale, rispetto alle grandi band di 30-40 anni fa, non ci sia oggi più nulla meritevole d’essere ascoltato e bla bla bla; eppure, paradossalmente, questa persona conosce a menadito l’opera di un certo Frank Zappa, ovvero l’emblema di chi è diventato un mito facendo dell’imprevedibilità e della costante ricerca del melting pot musicale il proprio marchio di fabbrica.
Penso che il mai abbastanza compianto artista italo-americano sarebbe oggi tra i primi estimatori dei 6:33 : era infatti da molto tempo che non mi capitava d’ascoltare qualcosa di così fresco, accattivante, rutilante e innovativo; dove talvolta anche i nomi di grido falliscono, i cinque parigini riescono a tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore per quasi un’ora di balzi senza soluzione di continuità tra soul, funky, metal, pop, prog, swing e qualche altra mezza dozzina di generi musicali a caso che vi possano venire in mente, il tutto senza che vi sia una minima parvenza di frammentarietà o di forzatura.
Dopo poco più di venti minuti, questa congrega di malati di mente ha già sparato quattro brani epocali, capaci di farvi oscillare la capoccia e battere i piedi in maniera incontrollabile, roba che centinaia di musicisti venderebbero i propri cari per rubare almeno una delle innumerevoli intuizioni ivi contenute.
Ed il bello è che, arrivati all’ultima nota della clamorosa I’m a Nerd, col il suo delirante refrain sorretto dal suono di un banjo, non siamo nemmeno a metà di un percorso asimmetrico, solo apparentemente caotico, ma stracolmo invece di TALENTO, quello che, scritto in maiuscolo, è essenziale possedere per poter solo immaginare di comporre un album simile.
Ma alla fine, che vi sto a raccontare, intanto a parole non è possibile descrivere in maniera esauriente quanto contenuto in Deadly Scenes; vi invito caldamente, pertanto, a guardarvi qui sotto il video di Black Widow (il brano vero e proprio parte dopo 1:40), traccia che costituisce una sorta di compendio del disco, oltre che il pretesto per accompagnare la musica con immagini che, in ossequio all’imponderabilità della canzone, non avrebbero potuto in alcun modo essere banali.
Nel segnalare che, anche per cotanto spiegamento di creatività, i tredici minuti della conclusiva title-track risultano forse eccessivi, pur attestandosi ugualmente su livelli qualitativi che i più possono solo sognare, non resta che fare i complimenti a questo dinamico quintetto, capace di trasporre musicalmente nel migliore di modi le tonnellate di idee affiorate in sede compositiva; una particolare menzione va sia alla cura degli arrangiamenti vocali, grazie ad intrecci corali che ricordano ora la buonanima di Prince (ah, mi dicono che è ancora vivo, ma io lo intendevo deceduto musicalmente, scusate …), ora i Queen, ora addirittura i Gentle Giant (per chi se li ricorda), sia alle aperture melodiche repentine che, in certi passaggi, possono richiamare alla mente anche i migliori Pain Of Salvation (e, come nel caso della band di Daniel Gildenlöw, per i 6:33 si può parlare a pieno titolo di musica progressive, nel senso più letterale del termine).
Questi sono solo alcuni minimi accenni di tutti i riferimenti che a ciascuno potranno venire in mente durante l’ascolto (vi cito tra gli altri, doverosamente, il basso pulsante alla “Born To Be Alive” di Ego Fandango), all’interno di un lavoro che non esito a definire entusiasmante e che sta facendo proseliti anche nella clinica psichiatrica dove sono tuttora ricoverato per il mio pervicace rifiuto di spegnere il lettore MP3, bloccato in modalità repeat su Deadly Scenes
Primo botto discografico del 2015 !

Tracklist:
1. Hellalujah
2. Ego fandango
3. The walking fed
4. I’m a nerd
5. Modus operandi
6. Black widow
7. Last bullet for a gold rattle
8. Lazy boy
9. Deadly scenes

Line-up:
Rorschach – vocals
Niko – guitars
S.A.D. – bass
Howahkan Ituha – keyboards
# – keyboards

6:33 – Facebook

In Tormentata Quiete – Cromagia

Ciò che stupisce in “Cromagia” è un senso melodico che non viene mai meno,trasformandosi nel vero filo conduttore di un lavoro che è spettacolare tanto musicalmente quanto a livello lirico.

Il terzo album degli In Tormentata Quiete si rileverà una delle consuete croci per chi tenta chi catalogare la musica come se si trattasse di riordinare dei libri in una biblioteca, rispettando un rigoroso ed ineluttabile ordine alfabetico.

L’ensemble bolognese, ed è questo ciò che conta, regala l’ennesima perla di una carriera che, come spesso accade dalle nostre parti per chi tenta di fare musica nella sua accezione artistica più elevata, è destinata più allo status di culto che non a quello di realtà di successo.
Del resto, non credo che gli In Tormentata Quiete si siano mai posti prioritariamente quest’ultimo obiettivo, soprattutto operando e vivendo in un paese come l’Italia nel quale se non appari non esisti e dove, se proponi musica che costringe ad essere ascoltata e non semplicemente sentita, sei irrimediabilmente destinato a restare nel cuore di pochi fortunati.
All’interno di Cromagia possiamo trovare folk, prog, black e cantautorato italiano, una ricetta che parrebbe, messa giù così, dannatamente intricata, eppure tutto scorre senza che nessuna di queste componenti prevarichi mai l’altra, stupendo per l’equilibrio raggiunto, quasi come quando si osservano quei folli funamboli che attraversano i canyon camminando su una sottile fune tesa sopra baratri profondi centinaia di metri …
Per una volta mi trovo piuttosto d’accordo con le note di presentazione, nelle quali si accenna a nomi quali Solefald, Ulver e Devil Doll, riferimenti che, francamente, potrebbero risultare controproducenti al momento del dunque: nonostante ciò i nostri si rivelano del tutto degni, se non proprio a livello di sonorità sicuramente per attitudine, dell’accostamento a questo manipolo di geniali sperimentatori.
Ciò che stupisce ulteriormente, con tali premesse, è un senso melodico che in Cromagia non viene mai meno, trasformandosi nel vero filo conduttore di un lavoro che è spettacolare tanto musicalmente quanto a livello lirico, con il suo concept incentrato sulle emozioni ed i sentimenti associati ai singoli colori.
L’intreccio vocale è un ulteriore aspetto capace di elevare gli In Tormentata Quiete sul resto della concorrenza: due voci pulite, l’una maschile, l’altra femminile, si scambiano continuamente i ruoli “disturbate” da uno screaming acido che opera per lo più con la funzione di controcanto, quasi a voler sporcare, con le sue efferate incursioni, quelle tessiture melodiche che, a lungo andare, si insinuano nella mente e nel cuore di chi ascolta.
Bastano dodici minuti, quelli nei quali si sviluppa l’accoppiata iniziale Blu / Il Profumo del Blu, a chi non avesse mai ascoltato una nota degli ITQ, per capire d’essere al cospetto di una realtà unica nel panorama italiano e per attendersi ulteriori meraviglie sonore (tra le quali spiccano l’elegia di Verde ed il black/folk di La Carezza Del Giallo) nel corso dei restanti tre quarti d’ora.
Ma, intanto, il destino di talenti trasversali come questi è quello d’essere capiti da pochi: troppo colti per chi ha bisogno di musica usa e getta, troppo metallici per i tolemaici del progressive (mi pare di sentirli “ …. ah, quella voce gracchiante …”), troppo melodici per i metallari, infine troppo superiori alla media per poter diventare, anche solo per sbaglio, un fenomeno di massa.
Quei pochi che, appunto, non si sono mai adeguati al minimalismo spastico degli sms e riescono a leggere almeno tre righe di una mail senza avvertire un calo di attenzione, provino a dare una chance agli In Tormentata Quiete

Tracklist:
1. Blu
2. Il Profumo del Blu
3. Rosso
4. Il Sapore del Rosso
5. Verde
6. Il Sussurro del Verde
7. Giallo
8. La Carezza del Giallo
9. Nero
10. La Visione del Nero
11. InVento

Line-up:
Maurizio D’Apote – Bass
Francesco Paparella – Drums
Lorenzo Rinaldi – Guitars
Antonio Ricco – Keyboards
Marco Vitale – Vocals (harsh)
Irene Petitto – Vocals
Simone Lanzoni – Vocals

IN TORMENTATA QUIETE – Facebook

https://soundcloud.com/mykingdommusic/itq-lvdn

Secrets Of The Moon – Seven Bells

Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal

Tre anni dopo l’ottimo “Privilegivm” tornano i Secrets Of The Moon, con un altro album destinato ad arricchire ulteriormente una discografia che li ha visti protagonisti negli ultimi dieci anni di una progressione costante e inarrestabile.

La band tedesca già nel 2006 con “Anthitesis” aveva iniziato a distaccarsi dal black metal inteso in senso classico spostando i propri orizzonti verso una vena più avanguardistica da un lato e verso parti più melodiche e darkeggianti dall’altro, aspetti sviscerati in maniera ancor più approfondita con il già citato album del 2009. In Seven Bells il sound scaturisce da un equilibrato mix tra gli spunti migliori dei Samael di “Passage”, il gothic metal dei Moonspell, l’ombrosità del black metal di scuola teutonica e le fosche melodie del doom. Con tutto ciò, i riferimenti più evidenti nella proposta della band di Osnabruck sono i Celtic Frost di “Monotheist” e i più recenti Tryptikon ma, dove le creature di Tom Gabriel Fischer (mi scuso per il possibile reato di lesa maestà) finivano spesso per avvitarsi in una proposta dai toni invariabilmente claustrofobici, i nostri riescono a puntellare i loro brani con partiture più ariose e maggiormente fruibili; anche quando le tracce si allungano non si avverte mai stanchezza nell’ascolto, persino nei momenti nei quali i suoni vanno a lambire territori ambient (come nel finale di Nyx). Quattro colpi di campana introducono la title-track che, dopo un incipit di stampo doom, si dipana in un tipico mid-tempo accompagnato dalle vocals abrasive di sG; Goathead, al contrario, si avvia con ritmi più accelerati per poi arrivare a una rarefazione del suono che qui assume timbri di un’oscurità assoluta ai confini del funeral. Serpent Messiah invece è una cavalcata gothic-dark dotata di un eccellente gusto melodico, mentre Blood Into Wine possiede un ammaliante flavour epico che viene sferzato da una sfuriata di stampo black nella sua parte centrale. Questi quattro brani, già da soli farebbero la fortuna di qualsiasi disco ma il meglio deve ancora venire: infatti, il trittico finale Worship, Nyx, The Three Beggars, dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora, si rivela un autentico caleidoscopio di emozioni, nel quale sG e soci riversano tutto il loro background musicale. La track conclusiva, in particolare, è incredibilmente coinvolgente sia dal punto di vista sonoro sia da quello lirico, proponendosi come una sorta di manifesto del pensiero religioso della band. I Secrets Of The Moon del 2012 sono una band alla quale l’etichetta black sta decisamente stretta; il loro sound si è evoluto in una forma pressoché perfetta di quello che, in senso lato, andrebbe definito più correttamente come dark metal: una configurazione musicale dove riescono a convivere in piena armonia le svariate influenze inglobate nel corso di una carriera dalla durata già significativa; ogni brano è caratterizzato da diversi cambi di ritmo e i break melodici si amalgamano in maniera sempre adeguata alle ruvidezze di stampo più estremo. Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal e se non sarà questo disco a consacrare definitivamente i Secrets Of The Moon, viene da chiedersi quando ciò potrà mai verificarsi. Metal estremo senza barriere.

Tracklist:
1. Seven Bells
2. Goathead
3. Serpent Messiah
4. Blood Into Wine
5. Worship
6. Nyx
7. The Three Beggars

Line-up:
sG – Lead Vocals, Guitar, Bass
Ar – Vocals, Guitar
Thelemnar – Drums