Forgotten Tomb – And Don’t Deliver Us From Evil

“… And Don’t Deliver Us From Evil” è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore

I Forgotten Tomb del 2012 non sono più quelli di “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground” e, messa giù così, quest’affermazione appare terribilmente scontata, se non corrispondesse al pensiero ricorrente di chi ritiene che lo spirito originario della creatura di Herr Morbid sia andato irrimediabilmente perduto.

La realtà è che quest’ultimo lavoro rappresenta la naturale evoluzione di “Negative Megalomania” e trae il meglio anche da un disco controverso come “Under Saturn Retrograde”, offrendo come risultato un’opera matura e coinvolgente. Se vogliamo trovare un parallelismo, la parabola artistica dei Forgotten Tomb può essere tranquillamente accostata a quella degli Shining: partendo da un depressive black intriso di doloroso rancore verso l’umanità, Marchisio e Kvarforth sono approdati a una forma musicale dall’approccio meno estremo che i fan più intransigenti hanno interpretato come una sorta di tradimento, ma che in realtà è frutto della naturale evoluzione artistica dei due musicisti. Non necessariamente l’approdo a sonorità in apparenza più fruibili equivale a un decadimento qualitativo della proposta, chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo ottimo disco degli Swallow The Sun, tanto per citare un esempio, capirà bene ciò che intendo. … And Don’t Deliver Us From Evil, si apre con Deprived, brano tipico degli ultimi Forgotten Tomb, decisamente piacevole pur senza entusiasmare; ben diversa è la title-track, un prototipo di black metal ammantato di atmosfere oscure e del tutto privo di qualsiasi apertura a sonorità più orecchiabili. Cold Summer è un altro brano nel quale le tenebre prevalgono sulla luce, assecondate da pesanti riff di stampo doom; Let’s Torture Each Other è un altro brano “normale”, sulla falsariga dell’opener, ma con Love Me Like You’d Love The Death e le sue atmosfere cariche di tensione emotiva, con un finale affidato a una chitarra in grado di tessere passaggi ricchi di pathos, la qualità dell’album si impenna nuovamente restando di elevato livello fino alla sua conclusione. Parlando di Adrift è facile pronosticare che si tratterà del brano destinato a destare le maggiori perplessità nei puristi: la voce pulita conduce un ritornello decisamente “catchy”, contrapponendosi alle consuete, ruvide, vocals di Herr Morbid e a un tessuto musicale tutt’altro che rassicurante. Nullifying Tomorrow chiude il lavoro nel suo formato classico (la versione digipack include la cover di Transmission, superfluo dire di quale band, mentre Sore dei Buzzov’en è la bonus track nel vinile) incarnando, di fatto, il trademark del suono attuale dei Forgotten Tomb. … And Don’t Deliver Us From Evil è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore: se ciò consentirà ai Forgotten Tomb di accedere a nuovi fans, pur perdendone per strada qualcuno tra i vecchi, lo vedremo nei prossimi mesi, di sicuro questo è un disco che tende a crescere ad ogni ascolto nonostante un’apparente maggiore fruibilità rispetto alle produzioni più datate.

Tracklist :
1. Deprived
2. …And Don’t Deliver Us from Evil…
3. Cold Summer
4. Let’s Torture Each Other
5. Love Me Like You’d Love the Death
6. Adrift
7. Nullifying Tomorrow

Line-up :
Herr Morbid -Guitars, Vocals
Algol – Bass
A. – Guitars
Asher – Drums

Antiquus Infestus – Order Of The Star Of Bethlehem

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

In ventiquattro minuti Order Of The Star Of Bethlehem racchiude non solo un concept incentrato sulle ultime, drammatiche, fasi della vita di Friedrich Nietzsche ma, anche e soprattutto, un potente concentrato di aggressione sonora, prodotto e suonato in maniera più che soddisfacente, considerando l’assenza di una label alle spalle, e privo di alcun compromesso o di ammiccamenti di stampo commerciale. Il trio si era già fatto notare, nell’ultimo periodo, con due interessanti demo ma questo Ep schiude prospettive diverse, alla luce di una chiarezza d’intenti invidiabile; il sound che ne scaturisce è un’intrigante mix tra il black di scuola svedese e il death dalle tonalità più oscure sulla falsariga dei Nile, soprattutto per quanto riguarda l’attitudine e la comune passione per l’egittologia. Tutto abbastanza bene dunque, se non fosse per un particolare, a suo modo inquietante, che esula dalla musica contenuta nell’Ep: Sverkel e Malphas, per trovare le condizioni utili alla progressione della loro carriera, si sono da poco trasferiti in Danimarca. Nell’augurare le migliori fortune agli Antiquus Infestus, non si può che constatare con amarezza la persistenza, se non addirittura un incremento, delle difficoltà logistico-organizzative che tarpano le ali a chiunque voglia cimentarsi, nel nostro paese, con forme artistiche non omologate al mainstream.

Tracklist :
1. Intro
2. St. Mary of Bethlehem
3. Bishopsgate
4. 55
5. Moorfields
6. Order of the Star of Bethlehem
7. The Signs of Future Threat (Outro)

Line-up :
Sverkel – Vocals
Malphas – Guitars, Drum progamming
Asmodeus – Bass

Forgotten Thought – Grey Aura

La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, aspettiamo con fiducia i Forgotten Thought alla prima prova su lunga distanza.

Interessante Ep d’esordio per i Forgotten Thought, realtà nostrana dedita a un cupo depressive black dalle sfumature funeral.

La band è, di fatto, un duo composto da Rodolfo e Nephastal: questi due giovani musicisti, brillantemente sfuggiti alla lobotomizzazione musicale alla quale sono state sottoposte le ultime generazioni nel nostro “bel” paese, hanno deciso di abbracciare un genere che definire di nicchia è forse persino generoso, e questo non fa che aumentare il mio apprezzamento nei loro confronti.
Grey Aura si rivela un frutto forse ancora un po’ acerbo ma ugualmente piacevole; i due ragazzi romani evitano di avvitarsi in passaggi eccessivamente complessi mantenendo un ritmo sempre piuttosto moderato, riuscendo in tal modo a valorizzare sia il piano che la chitarra, che si alternano nell’imprimere ai brani quel mood dolente e malinconico che il genere richiede.
La traccia strumentale, autointitolata, si rivela emblematica in tal senso, mettendo sul piatto melodie davvero efficaci e dal notevole impatto emotivo, ma bisogna dire che tutti i brani non sono da meno sotto questo aspetto.
A far da contraltare a questi aspetti positivi vanno presi in considerazione alcuni difetti che il tempo contribuirà senza’altro a limare, se non ad eliminare del tutto: sia pure con tutte le giustificazioni del caso, se la produzione ha in particolare il difetto di affossare, rendendole ancora più inintelligibili, le scream vocals, e in qualche passaggio strumentale l’esecuzione appare ancora un po’ scolastica.
Ma, tenendo ben presente che nel DSBM, l’aspetto che maggiormente importa è la capacità da parte dei musicisti di trasportare l’ascoltatore alla condivisione delle proprie emozioni, quantunque impregnate di negatività, bisogna ammettere che questo obiettivo viene sicuramente centrato dai Forgotten Thought.
La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, li aspettiamo con fiducia alla prima prova su lunga distanza.

Tracklist :
1. Grey Aura
2. The Endless Path
3. Forgotten Thought
4. Black Ink Soaked Page
5. Just For a Moment… (Austere cover)

Line-up :
Rodolfo Ciuffo – Vocals, Bass, Guitars
Nephastal – Vocals, Piano, Guitars, Drum programming

Obscura Amentia – Ritual

Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Gli Obscura Amentia sono un duo composto da Black Charm (che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione delle percussioni, affidate a una drum-machine) e da Hel (female scream): attivi dal 2010, con “Ritual” giungono al secondo full-length.

La loro musica, tanto per fornire un’idea di massima, ci riporta alle sonorità dei Dark Funeral, quindi si parla di black metal devoto alla tradizione ma senza che, per questo, venga trascurato il senso della melodia, sempre ben presente grazie ad efficaci linee di chitarra.
La band novarese propone un lavoro di buon livello, anche se qualche lieve pecca, per lo più addebitabile alla produzione, finisce per inficiarne parzialmente la resa finale: per esempio la voce di Hel, sia per una registrazione che la relega quasi in secondo piano, sia per una minore incisività che spesso accomuna le cantanti alle prese con scream e growl, non sempre si rivela in tutta la sua possibile efficacia.
Tutto sommato, invece, non ritengo così deprecabile l’uso della drum machine, pur essendo evidente che una batteria “umana” sia pur sempre preferibile, mentre il super lavoro strumentale al quale si sottopone Black Charm si rivela assolutamente appropriato.
Ritual è un disco che non delude, per la sua integrità stilistica e per il suo proporsi monolitico, cosa che a mio avviso più che un difetto ne costituisce la forza: se si eccettua la bellissima title track, che si staglia sul resto dell’album, marchiata a fuoco com’è da un riff ossessivo quanto coinvolgente, gli altri brani si sviluppano su coordinate piuttosto simili, creando però un impatto d’insieme nient’affatto trascurabile.
Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Tracklist :
1. The Citadel Of Beleth
2. Mirror Of Sorrow
3. Ritual
4. Lost In The Reflection Of Moon
5. Mater Hiemalium
6. Descend The Chaos
7. Ominous Herald
8. Silence (A Reminder Of Death)
9. Last Rite

Line-up :
Black Charm – Guitars, Keyboards, Bass
Hel – Vocals

Decline Of The I – Inhibition

Questo è il classico lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine e con la giusta predisposizione mentale, pena l’impossibilità di insinuarsi nella sua spessa coltre di impenetrabilità

Capita, a volte, di avere un rapporto complesso con un disco fin dal suo primo ascolto: nella grande maggioranza dei casi le difficoltà nel riuscire a cogliere appieno i contenuti musicali che racchiude lasciano spazio alla soddisfazione d’essere riusciti a trovarne finalmente la giusta chiave di lettura.

Tutto ciò mi è capitato in parte anche nell’avvicinarmi a questo Inhibition, opera d’esordio dei francesi Decline Of The I; infatti, nonostante i ripetuti ascolti ci sono ancora diversi aspetti di quest’opera che non riesco a mettere del tutto a fuoco.
Del resto un genere particolare come l’avantgarde metal dalle svariate sfumature (black, depressive, sludge, post-metal, elettronica) messo in scena dalla band guidata da A.K. (attivo anche in Vorkreist e Merrimack, per citare solo i gruppi più noti) nasce proprio con l’intento di spiazzare e sorprendere l’ascoltatore più che cullarlo con sonorità rassicuranti.
Il disco costituisce il primo atto di una trilogia incentrata sul disagio esistenziale e sulle forme di reazione messe in atto da ciascun individuo per svincolarsi da una realtà opprimente: a Inhibition dovrebbero seguire, quindi, “Rebellion” e “Escape”.
Bisogna dire che il sound dei Decline Of The I veste alla perfezione i contenuti lirici dell’album grazie al suo incedere disturbante, apparentemente schizofrenico, ma che in realtà ricopre tutti i brani di una patina fatta di soffocante angoscia.
Questo è il classico lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine e con la giusta predisposizione mentale, pena l’impossibilità di insinuarsi nella spessa coltre di impenetrabilità entro la quale A.K. ha pensato bene di custodire la sua creatura; tra episodi affascinanti e sconcertanti nello stesso tempo ne citerei due oggettivamente sopra la media: Art or Cancer, uno sludge catramoso screziato da estemporanee quanto efficaci derive elettroniche, e la conclusiva Keeping The Structure, traccia degna degli Shining più claustrofobici.
Il voto potrebbe essere anche più elevato ma, come detto, l’esito finale del mio personale duello con le sonorità dei Decline Of The I è rimandato all’ascolto del loro prossimo lavoro; al riguardo cito con piacere la massima dell’indimenticato Peter Steele riportata sul retro di copertina di “Bloody Kisses”: “don’t mistake lack of talent for genius”.
Ecco, per me Inhibition al momento va catalogato alla voce “genius” ma, per averne la certezza assoluta, preferisco attendere il prossimo giro ….

Tracklist :
1. Où Se Trouve La Mort ?
2. The End of a Sub-Elitist Addiction
3. Art or Cancer
4. The Other Rat
5. Mother and Whore
6. Static Involution
7. L’indécision d’être
8. Keeping the Structure

Line-up :
A.K. – guitars, keyboards, programming, samples, vocals
N. – drums
G. – vocals
S. – vocals

Fuoco Fatuo – 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero

Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma

Fuoco Fatuo è un gran bel nome per una band, soprattutto quando questo si addice allo stile musicale prescelto: l’immagine delle fiamme che scaturiscono da terreni paludosi si sposa alla perfezione col sound fangoso del trio varesino; ma anche il senso di precarietà che questo monicker simboleggia, alla fine, costituisce une dei temi portanti del doom metal, con la sua eterna rappresentazione del dolore e della caducità dell’esistenza.

I tre brani contenuti in questo breve Ep costituiscono un efficace esempio del potenziale di questa band di recente formazione: in 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero (anche il titolo non è niente male …) confluiscono diverse influenze, dal black metal, che si evidenza in certe accelerazioni e nell’uso delle voci, al dark e all’heavy di stampo esoterico tipico della scuola italiana (Malombra, Death SS), fino allo sludge, pesante e grumoso come deve essere.
L’abisso ci porta (e non poteva essere diversamente) nei gorghi più oscuri della psiche con le sue chitarre ronzanti e i repentini rallentamenti prima di lasciare spazio in chiusura a un conturbante hammond.
Vuoto Nero è una traccia che, pur essendone l’ideale continuazione, risulta molto più opprimente del brano che la precede, caratterizzata com’è da un doom scarno e quasi primordiale; il viaggio dilaniante e allucinato si chiude con la title track che si mantiene su coordinate devote a un’oscurità totalizzante, squarciata sporadicamente da efficaci parti di tastiera volte a spezzare temporaneamente l’accerchiamento prodotto da sonorità ruvide e minacciose.
Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma; peccato solo che il growl e lo scream del bravo Milo non sempre rendano sufficientemente comprensibili i testi redatti in italiano.
In definitiva questo Ep si rivela un assaggio esaustivo di quella che potrà essere in futuro la proposta dei Fuoco Fatuo, in special modo se, come ci auguriamo, riscuoteranno l’attenzione di qualche etichetta specializzata del settore.

Tracklist :
1. L’Abisso
2. Vuoto Nero
3. 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale

Line-up :
Milo chitarra-voce
Ken basso
Fabrizio batteria

 

Darkend – Grand Guignol–Book I

Ci troviamo davanti a un disco dalla qualità inusuale che, nonostante una durata superiore all’ora, è del tutto privo di momenti morti o di tracce semplicemente interlocutorie.

Premessa: un disco come questo dovrebbe raccogliere consensi unanimi ma non è difficile presagire che qualcuno possa trovarlo eccessivamente derivativo; in effetti, se da una parte non si può negare che i Dark End traggano abbondante ispirazione dalle migliori produzioni dei maestri del genere quali Dimmu Borgir o Cradle Of Filth, dall’altra è innegabile che il black metal sinfonico proposto dal gruppo reggiano riesca ad annientare l’insieme delle uscite plastificate e ricche di forma, quanto prive di sostanza, sfornate nell’ultimo decennio non solo dai numerosi epigoni, ma anche dalle stesse band appena citate.

I nostri giungono così al terzo full-length in sei anni e, nonostante il buon valore che accomunava le precedenti uscite, la loro popolarità è sempre rimasta confinata a livello underground; Grand Guignol – Book I potrebbe e dovrebbe risultare decisivo per cambiare questo stato di cose.
Nonostante sia stato pubblicato senza il supporto di un’etichetta vera e propria, questo lavoro è stato curato dai suoi autori fin nei minimi dettagli, ivi compresi il lato grafico e quello lirico: citando la band, il disco “è la prima parte di un complesso concept filosofico riguardante le comuni radici di occultismo, spiritualismo, martirio e rituali di magia bianca e nera”
Non ritenendomi sufficientemente preparato ad affrontare in maniera approfondita tali tematiche, mi astengo dal fare del mero copia-incolla e mi limito a osservare che testi così impegnativi, pur se di non facile interpretazione, costituiscono qualcosa in più di un semplice valore aggiunto all’aspetto che più ci interessa, cioè quello musicale.
In questo senso ci troviamo davanti a un disco dalla qualità inusuale che, nonostante una durata superiore all’ora, è del tutto privo di momenti morti o di tracce semplicemente interlocutorie. Ogni brano vive di luce propria in una pirotecnica alternanza di atmosfere, ora di stampo sinfonico, ora ritmate e aggressive, in ogni caso accomunate da un gusto melodico fuori dal comune e da un contributo vocale e strumentale privo di sbavature.
A differenza di quanto accade nella stragrande maggioranza dei casi in uscite di stampo analogo, le tastiere non finiscono per saturare il disco con la loro onnipresenza, ma si rivelano una componente perfettamente amalgamata al resto della strumentazione.
Come ho già avuto occasione di affermare in altri frangenti, partendo dall’assunto che resta ben poco da inventare in ambito musicale, un’opera come quella dei Dark End colpisce per freschezza, creatività e perizia compositiva e chi la snobberà considerandola alla stregua di una stantia operazione di riciclo commetterà un grave errore di valutazione.
Quindi non si vede perchè, chi nelle nostre lande contribuisce ancora oggi a decretare il successo degli ormai inoffensivi Dimmu Borgir o degli altalenanti Cradle Of Filth, non debba concedersi la possibilità di volgere lo sguardo nei pressi per ascoltare del black sinfonico suonato con tutti i crismi e ancora in grado, nonostante tutto, di stupire.

Tracklist :
1. Descent/Ascent (II Movement)
2. Æinsoph: Flashforward to Obscurity
3. Doom: And Then Death Scythed
4. Spiritism: The Transmigration Passage
5. Bereavement: A Multitude In Martyrized Flesh
6. Grief: Along Our Divine Pathway
7. Bleakness: Of Secrecy, Haste and Shattered Crystals
8. Pest: Fierce Massive Slaying Grandeur
9. Decrepitude: One Last Laugh Beside Your Agonies
10. Dawn: Black Sun Rises

Line-up :
Valentz – Drums
Antarktica – Keyboards
Animæ – Vocals
Specter – Bass
Ashes – Guitars
Nothingness – Guitars

Secrets Of The Moon – Seven Bells

Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal

Tre anni dopo l’ottimo “Privilegivm” tornano i Secrets Of The Moon, con un altro album destinato ad arricchire ulteriormente una discografia che li ha visti protagonisti negli ultimi dieci anni di una progressione costante e inarrestabile.

La band tedesca già nel 2006 con “Anthitesis” aveva iniziato a distaccarsi dal black metal inteso in senso classico spostando i propri orizzonti verso una vena più avanguardistica da un lato e verso parti più melodiche e darkeggianti dall’altro, aspetti sviscerati in maniera ancor più approfondita con il già citato album del 2009. In Seven Bells il sound scaturisce da un equilibrato mix tra gli spunti migliori dei Samael di “Passage”, il gothic metal dei Moonspell, l’ombrosità del black metal di scuola teutonica e le fosche melodie del doom. Con tutto ciò, i riferimenti più evidenti nella proposta della band di Osnabruck sono i Celtic Frost di “Monotheist” e i più recenti Tryptikon ma, dove le creature di Tom Gabriel Fischer (mi scuso per il possibile reato di lesa maestà) finivano spesso per avvitarsi in una proposta dai toni invariabilmente claustrofobici, i nostri riescono a puntellare i loro brani con partiture più ariose e maggiormente fruibili; anche quando le tracce si allungano non si avverte mai stanchezza nell’ascolto, persino nei momenti nei quali i suoni vanno a lambire territori ambient (come nel finale di Nyx). Quattro colpi di campana introducono la title-track che, dopo un incipit di stampo doom, si dipana in un tipico mid-tempo accompagnato dalle vocals abrasive di sG; Goathead, al contrario, si avvia con ritmi più accelerati per poi arrivare a una rarefazione del suono che qui assume timbri di un’oscurità assoluta ai confini del funeral. Serpent Messiah invece è una cavalcata gothic-dark dotata di un eccellente gusto melodico, mentre Blood Into Wine possiede un ammaliante flavour epico che viene sferzato da una sfuriata di stampo black nella sua parte centrale. Questi quattro brani, già da soli farebbero la fortuna di qualsiasi disco ma il meglio deve ancora venire: infatti, il trittico finale Worship, Nyx, The Three Beggars, dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora, si rivela un autentico caleidoscopio di emozioni, nel quale sG e soci riversano tutto il loro background musicale. La track conclusiva, in particolare, è incredibilmente coinvolgente sia dal punto di vista sonoro sia da quello lirico, proponendosi come una sorta di manifesto del pensiero religioso della band. I Secrets Of The Moon del 2012 sono una band alla quale l’etichetta black sta decisamente stretta; il loro sound si è evoluto in una forma pressoché perfetta di quello che, in senso lato, andrebbe definito più correttamente come dark metal: una configurazione musicale dove riescono a convivere in piena armonia le svariate influenze inglobate nel corso di una carriera dalla durata già significativa; ogni brano è caratterizzato da diversi cambi di ritmo e i break melodici si amalgamano in maniera sempre adeguata alle ruvidezze di stampo più estremo. Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal e se non sarà questo disco a consacrare definitivamente i Secrets Of The Moon, viene da chiedersi quando ciò potrà mai verificarsi. Metal estremo senza barriere.

Tracklist:
1. Seven Bells
2. Goathead
3. Serpent Messiah
4. Blood Into Wine
5. Worship
6. Nyx
7. The Three Beggars

Line-up:
sG – Lead Vocals, Guitar, Bass
Ar – Vocals, Guitar
Thelemnar – Drums

Lunar Aurora – Hoagascht

Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti.

Uno dei ritorni più attesi in questo 2012 era sicuramente quello dei Lunar Aurora dopo cinque anni di silenzio seguiti alla pubblicazione di “Andacht”, per chi scrive uno dei migliori album black metal di sempre.

Oggi il gruppo è ridotto a un duo, costituito da Aran, in questa occasione privo del supporto fraterno di Sindar, e da Whyrd, rientrato nella line-up dopo esserne uscito in occasione dell’ultimo disco. E’ inevitabile chiedersi, ogni qual volta una band ritorna sulle scene dopo un lungo silenzio, se tale decisione derivi da una ritrovata vena artistica o piuttosto da semplici motivi commerciali. Per dirimere simili dubbi, già fugati in parte dallo stile dei nostri che è lontano anni luce da qualsiasi tentazione “di classifica”, può bastare la scelta di comporre i testi in dialetto bavarese, cosa che peraltro rende ulteriormente complicato ottenere qualche informazione relativa ai contenuti lirici del disco. Fatte le debite premesse, l’annunciato ritorno sulle scene della band tedesca ha indubbiamente provocato notevoli aspettative da parte dei suoi fedeli estimatori anche se, spesso, le attese eccessive finiscono per compromettere un’analisi obiettiva dei nuovi lavori, poiché la mente e il cuore vanno istintivamente a cercare raffronti con il passato piuttosto che focalizzarsi sul presente. Così le prime 2-3 prese di contatto con Hoagascht si sono rivelate particolarmente ostiche proprio perché mancavano quegli spunti più immediati che avevano caratterizzato l’album precedente. Ma, semmai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta ha ragione chi sostiene che siano necessarie, per apprezzare pienamente l’arte compositiva, sia un’adeguata dedizione sia, soprattutto, molta pazienza. Infatti, dopo ripetuti ascolti, nel corso dei quali di volta in volta il disco svelava quasi con ritrosia i propri lati più nascosti, Hoagascht si è palesato finalmente in tutta la sua affascinante bellezza. Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti. Cos’è cambiato dunque rispetto alla precedente opera ? E’ vero che, probabilmente, non si raggiungono i picchi emotivi che trovavano la loro sublimazione in brani come “Findling” o “Gluck” ma, per contro, va detto che Aran e Whyrd con Hoagascht hanno cercato di veicolare in maniera diversa le consuete atmosfere alternando maggiormente rispetto al passato l’impatto dei riff chitarristici a passaggi più rarefatti o sperimentali. Una naturale trasformazione che dimostra, pur senza apportare straordinari stravolgimenti, quanto i Lunar Aurora, con il loro ritorno, abbiano cercato innanzi tutto di non restare arroccati sulle posizioni di “Andacht”. Proprio l’elevato livello che accomuna tutte le tracce rende difficile citarne qualcuna in particolare: dovendo proprio fare una scelta evidenzierei Nachteule, che possiede un’impronta simile per certi aspetti a Der Pakt, o Beachgliachda, brano dall’andamento altalenante contraddistinto da parti lentissime ai confini del doom e brusche accelerazioni caratterizzate da un originale lavoro di tastiera; ma anche Sterna con le sue armonie malinconiche e Håbergoaß, che si distingue come l’episodio più cadenzato del lotto, non sono affatto da meno. Accompagnati da una produzione all’altezza, in grado di valorizzare ogni strumento ma anche di enfatizzare quei caratteristici suoni che talvolta sembrano provenire da una dimensione onirica, i Lunar Aurora del 2012 padroneggiano con disinvoltura la materia perdendo qualcosa in immediatezza ma guadagnando in pulizia ed eleganza compositiva; di sicuro con questo lavoro mantengono e consolidano le peculiarità chi li hanno resi unici all’interno della scena (un loro brano è immediatamente riconoscibile tra altri 1.000, non so per quante altre band si possa dire lo stesso). Probabilmente a causa della provenienza da una nazione dove il black metal non è un genere così radicato, al contrario di quanto avviene in Scandinavia, i bavaresi non hanno mai raccolto un successo comparabile alla straordinaria qualità espressa nei propri lavori; augurandoci che questa possa essere la volta buona, accogliamo con estrema soddisfazione il ritorno sulla scena di una di una band storica, sperando solo di non dover attendere un altro lustro per ascoltare nuovo materiale.

Tracklist:
1. Im Gartn
2. Nachteule
3. Sterna
4. Beagliachda
5. Håbergoaß
6. Wedaleichtn
7. Geisterwoid
8. Reng

Line-up:
Aran – All Instruments, Vocals
Whyrd – Vocals

TEMPLE OF BAAL/RITUALIZATION – THE VISION FADING OF MANKIND

Nel complesso lo split è uno dei migliori usciti nel 2011, e vale sicuramente l’acquisto anche per lo splendido artwork

Split fra due band estreme francesi sulla strada da tempo.

Gli approcci sono differenti, ma l’amore per le tenebre è lo stesso, e i Temple of Baal e i Ritualization sfornano una grande prova di aggressività e durezza. Iniziano i Temple of Baal con un death metal classico di matrice svedese, con una registrazione ruvida e molto molto viva. I Temple sono dei veterani della scena francese, e in questo split hanno registrato nuovamente una canzone del loro primo album, con il nuovo batterista Skum, che fa presagire grandi cose dal vivo. I loro 4 pezzi sono davvero una delizia per ogni palato death metal. A seguire i Ritualization ci danno dentro fin dal primo pezzo Ave Dominus, ma il Dominus in questione non è precisamente il papà di Gesù … I Ritualization sono maggiormente black rispetto ai Temple of Baal, ma hanno anche solide basi death metal, e il loro suono è floridamente vintage come per i loro conterranei e compagni di split. L’ultimo pezzo dei Ritualization è Devil speaks in tongue, una cover dei seminali Mortem, un gruppo peruviano che vale attente ricerche sulla rete. Nel complesso lo split è uno dei migliori usciti nel 2011, e vale sicuramente l’acquisto anche per lo splendido artwork di Christophe Jager.
Insomma la Francia continua a spaccare i culi in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1.Temple Of Baal – Ordeals Of The Void
2.Temple Of Baal – When Mankind Falls
3.Temple Of Baal – Slaves To The Beast
4.Temple Of Baal – Heresy Forever Enthroned
5.Ritualization – Ave Dominus
6.Ritualization – The Second Crowning
7.Ritualization – Devil Speaks In Tongues (Mortem Cover)

REX MUNDI – IVHV

Un album da scoprire, una riedizione di un demo uscito in sole 77 copie ed introvabile, un’opera unica in un genere che è stato devastante e disturbante grazie a dischi come questo.

Riedizione a cura della Debemur Morti del demo targato 2005 dei francesi Rex Mundi.

Questo è un grande album di black metal, con inserti di canti religiosi provenienti da diversi culti, che ne fa un lavoro occulto ed etereo. I  Rex Mundi con questa opera prima entrarono di diritto tra i migliori del genere, nonostante una produzione non eccelsa, ma nel black metal questo a volte non è un problema, quanto piuttosto un pregio. Il black metal è un genere minimale che dà grande spazio alle idee, senza soffocarle con la musica, che è cacofonica, ma in casi come questo è un incredibile tappeto sonoro che sublima il tutto. Certamente quest’album ha forti influenze da gruppi come i Satyricon di Rebel Extravaganza (a mio modesto avviso, uno dei grandi album black metal di sempre), ma rielabora tutto con fortissima personalità, a cominciare dall’inserire canti religiosi, per spingere il discorso all’estremo, caratteristica fondamentale del black metal. La traccia più notevole è la quarta Pious Angels (Sepher Seraphim), un viaggio di 11 e passa minuti in un altro mondo sospeso tra cielo ed inferno. Un album da scoprire, una riedizione di un demo uscito in sole 77 copie ed introvabile, un’opera unica in un genere che è stato devastante e disturbante grazie a dischi come questo.

Blut Aus Nord – 777:The Desanctification

L’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Devo ammettere che in passato band come i Deathspell Omega o gli stessi Blut Aus Nord, pur non essendomi affatto sgradite, non sono mai riuscite a far breccia nelle mie preferenze, forse perché quella particolare commistione tra black e industrial mi risultava in qualche indigesta.

Ma con questo 777 : The Desanctification i Blut Aus Nord mi fanno ampiamente ricredere proprio perché, pur mantenendo gli aspetti emozionali del black, se ne staccano quasi del tutto dal punto di vista compositivo per approdare a sonorità industrial arricchite da una personalissima impronta che spazia tra momenti ipnotici ed altri dalle sfumature rituali, per arrivare alle atmosfere claustrofobiche poste in chiusura del disco. Il risultato è un qualcosa che travalica la concezione stessa di genere musicale riuscendo nell’intento dichiarato di Vindsval (cantante, chitarrista e compositore) ovvero “ disumanizzare la nostra musica per non influenzare quello che ci auguriamo sia un viaggio occulto e mistico per l’ascoltatore”. A tal fine la band francese limita al massimo gli inserti vocali, lasciandoli spesso in secondo piano o filtrandoli, mettendo sempre in primo piano le proprie sonorità destabilizzanti che al primo impatto ti respingono per poi attrarti ed inghiottirti in maniera ineluttabile. Quest’album costituisce il secondo atto della trilogia iniziata con “777 : Sect(s)” (e che troverà il suo epilogo con l’uscita , probabilmente a fine 2012, di “777 : Cosmosophy”) che segna un progressivo distacco dal black metal nella sua accezione più tradizionale; ognuna di queste opere è costituita da brani intitolati “Epitome” contraddistinti da una numerazione progressiva. In The Desanctification ciascuna Epitome è una autentica opera d’arte, a partire dalle iniziali VII e VIII con le loro dissonanze graziate da improvvise aperture melodiche da considerarsi alla stregua di oasi nel bel mezzo di un’infinita distesa desertica, mentre IX è un breve intermezzo dagli inattesi riflessi orientaleggianti. Epitome X riprende impietosa con la sua incessante opera destrutturante ed è seguita da una XI che assume un andamento vagamente psichedelico, con influssi riconducibili ai Killing Joke, ma sono solo barlumi residui di quell’umanità che viene spazzata via senza alcuna misericordia. Epitome XII è un’esperienza sonora straordinaria, con una melodia che si ripete fino a portare l’ascoltatore in un piacevole stato di trance dal quale viene bruscamente ridestato con l’arrestarsi del brano per essere nuovamente scaraventato nei baratri della follia con la conclusiva XIII. Non sappiamo se a fine ascolto l’effetto catartico sia garantito, di certo i Blut Aus Nord con questo disco ci offrono un dono prezioso, quello di essere testimoni di un’opera che si colloca qualche anno-luce avanti rispetto alla quasi totalità delle uscite in ambito estremo. 777 : The Desanctification è un capolavoro che, se ascoltato al momento dell’uscita, avrebbe concorso con “The Book Of Kings” dei Mournful Congregation per la vetta del mio “best of 2011”; l’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Tracklist:
1. Epitome VII
2. Epitome VIII
3. Epitome IX
4. Epitome X
5. Epitome XI
6. Epitome XII
7. Epitome XIII

Line-up: Vindsval – All instruments, Vocals, Songwriting

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Opera IX – Strix Maledictae In Aternum

Il giudizio finale è positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di “Strix Maledictae In Aeternum” viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Ritornano dopo ben 7 anni gli Opera IX , una delle band storiche della scena black metal tricolore.

Diciamo subito che non ci dobbiamo attendere grandi novità da chi ha fatto della propria integrità stilistica una sorta di bandiera; la proposta risulta oscura e aggressiva, mentre le liriche vertono su tematiche care al gruppo quali stregoneria e occultismo. L’album presenta una serie di brani che colpiscono nel segno, a partire da 1313 , nella quale spiccano pregevoli parti di tastiera, proseguendo con l’altrettanto valida Dead Tree Ballad per arrivare al suo picco con Mandragora, contraddistinta da un impatto leggermente più immediato rispetto al resto del lavoro (e non è un caso che sia il pezzo prescelto per la realizzazione di un video, peraltro molto interessante sotto diversi aspetti …) e la successiva Eyes In The Well con il suo carattere epico. Da segnalare a livello lirico l’uso efficace dell’italiano negli ultimi due brani, abitudine che sta prendendo sempre più piede in ambito estremo, nonostante la nostra lingua ponga maggiori ostacoli dal punto di vista della metrica rispetto all’inglese. Nel suo complesso il platter della band piemontese viene in parte penalizzato sia dalla sua notevole durata sia dalla prevalenza dei mid –tempo che rendono alla lunga l’ascolto meno fluido . Ciò non impedisce agli Opera IX di riuscire nell’intento di condurci per mano nell’oscurità di epoche dominate dalla superstizione e da credenze arcaiche, nelle quali non occorreva molto affinché le maldicenze si trasformassero in accuse e le donne venissero additate come streghe e quindi responsabili di qualsiasi evento avverso. Il giudizio finale è dunque più che positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di Strix Maledictae In Aeternum viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Tracklist:
1. Strix the Prologue (Intro)
2. 1313 (Eradicate the False Idols)
3. Dead Tree Ballad
4. Vox in Rama (Part 1)
5. Vox in Rama (Part 2)
6. Mandragora
7. Eyes in the Well
8. Earth and Fire
9. Ecate – The Ritual (Intro)
10. Ecate
11. Nemus Tempora Maleficarum
12. Historia Nocturna

Line-up: Ossian – Guitars
Vlad – Bass
Dalamar – Drums
M. – Vocals, Guitars (rhythm)

NunFuckRitual – In Bondage To The Serpent

Questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore

I progetti paralleli dei musicisti norvegesi stanno fornendo frutti ben più prelibati rispetto alle band originarie.

Così come per i So Much For Nothing, qui trattati recentemente, pure in questa circostanza l’album si rivela un’autentica perla di arte nera. L’idea del polistrumentista e compositore Teloch (Nnidingr) e del vocalist Espen Hangard risale al 2006, ma è solo tre anni dopo che assume una struttura stabile con l’ingresso in formazione del drummer Andreas Jonsson e soprattutto di un autentico mito della scena estrema ovvero il bassista statunitense Dan Lilker, già nella prima incarnazione degli Anthrax, poi con i Nuclear Assault ed attualmente alle prese con i risorti Brutal Truth. Completata la line-up viene inciso il lavoro d’esordio che vede la luce però solo due anni dopo grazie alla lungimiranza della Debemur Morti. Insomma … “vede la luce” forse non è il modo più appropriato per descrivere l’uscita di questo disco, qui regna un’oscurità assoluta, originata da atmosfere plumbee sospese tra sonorità vicine al black old-school ed ai ritmi cadenzati che spesso confluiscono in una sorta di doom malato e perverso. I NunFuckRitual, fin dal monicker adottato, non si pongono certo scrupoli con i loro testi nel colpire i valori ed i postulati della cristianità, scelta sulla quale si può essere più o meno d’accordo, ma fedele a quelli che sono i dettami lirici del genere fin dalla sue origini. Non dimentichiamo che questa avversione verso le religioni monoteiste ha un fondamento storico che risale al X secolo d.c. quando, in Scandinavia, i templi pagani vennero abbattuti ed in loro vece vennero costruite chiese cristiane. Ma questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore, contrassegnato da un mid-tempo strisciante che accomuna l’intera opera e che ci avvolge nelle sue spire come il serpente citato nel titolo. Fare una disamina dei singoli brani diviene un esercizio superfluo, dato che il disco scorre come se fosse un corpo unico concedendoci rari momenti di tregua sotto forma di passaggi ambient e fornendo l’illusoria sensazione di trovare finalmente dell’aria respirabile, prima di riscoprirci definitivamente immersi nei miasmi infernali creati da Teloch e co…

Tracklist:
1. Theotokos
2. Komodo Dragon, Mother Queen
3. Christotokos
4. Cursed Virgin, Pregnant Whore
5. Parthenogen
6. In Bondage to the Serpent

Line-up:
Dan Lilker – Bass Espen
T. Hangård – Vocals, Keyboards, Effects
Teloch – Guitars
Andreas Jonsson – Drums

Necrodeath – Idiosyncrasy

“Idiosyncrasy” è un disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.

E’ stato veramente desolante constatare che diverse persone abbiano storto il naso a priori alla notizia che il nuovo lavoro dei Necrodeath sarebbe stato costituito da una suite di 40 minuti, per di più con una copertina con i nostri abbigliati in stile “Le Iene”.

Eppure dovrebbe essere noto a tutti, addetti ai lavori e non, che stiamo parlando di una band che per la propria storia, la perizia tecnica e le capacità compositive dei musicisti coinvolti, non ha certo bisogno di alcun beneplacito per discostarsi dalle consuetudini del metal estremo (al riguardo inviterei i più smemorati a ridare un ascolto ai due “Crimson” degli Edge Of Sanity…)
Del resto, fin dal magnifico album della rinascita “Mater Of All Evil”, edito nel 1999, Peso e compagni hanno avuto il merito di cercare ad ogni uscita nuove forme espressive pur senza snaturare la naturale componente black/thrash della loro proposta; va detto, onestamente, che non sempre i risultati sono stati all’altezza delle aspettative ma non è certo questo il caso di Idiosyncrasy , disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.
Come è facilmente intuibile, la scelta di presentare il disco sotto forma di un unico brano nasce dall’esigenza di fornire una struttura musicale adeguata ad un concept, che, in questo caso, verte sull’eterna dicotomia tra bene e male e sulla strada irta di difficoltà che deve percorrere ogni individuo alla ricerca della pace interiore; musicalmente ci troviamo dinnanzi ad una scrittura caratterizzata da una violenza disturbante, di sicuro nulla di noioso o di ridondante come magari temevano (o auspicavano…) le solite cassandre.
La caratteristica voce di Flegias, ideatore del concept, la terremotante base ritmica formata da Peso e G.L. e la riconosciuta tecnica chitarristica di Pier Gonella, sono messe al servizio di un album che necessita di diversi ascolti prima di far breccia nell’ascoltatore.
Forse sta proprio in questo aspetto la sola controindicazione riscontrabile nella scelta dei Necrodeath: non tanto a causa della sua limitata immediatezza o della conseguente assenza del caratteristico brano trainante quanto per la necessità di un ascolto integrale dell’intera opera per poterne cogliere in modo esauriente ogni sfumatura.
Ma, al di là questo inconveniente che è del tutto ascrivibile ad una scelta decisamente anti-commerciale, l’esperimento della band genovese può dirsi totalmente riuscito e non sono certo il solo a pensarla così a giudicare da questa recente dichiarazione rilasciata sul suo blog dal noto giornalista inglese Dom Lawson : “Ascoltate Idiosyncrasy, bevete grandi quantità di birra e fate finta che la collaborazione fra i Metallica e Lou Reed non sia mai esistita!”

Tracklist:
1. Part I
2. Part II
3. Part III
4. Part IV
5. Part V
6. Part VI
7. Part VII

Line-up:
Peso – Drums, Lyrics
GL – Bass
Pier Gonella – Guitars
Flegias – Vocals, Lyrics

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