Incantation – Dirges of Elysium

Gli Incantation regalano, a chi ha orecchie per intendere, cinquanta minuti di death che non necessita di alcun altro aggettivo per essere descritto.

Gli Incantation, per chi ascolta metal, non dovrebbero avere bisogno di presentazioni, visto che ormai da un quarto di secolo torturano puntualmente i nostri padiglioni auricolari con un death privo di compromessi ma, probabilmente anche per questo motivo, il loro nome è rimasto leggermente sotto traccia rispetto ad altri ben più famosi, pur se non necessariamente di superiore caratura.

Dirges Of Elysium è il decimo full-length di una discografia dal livello qualitativo medio elevatissimo e che, paradossalmente per una band dalla storia così lunga ed importante, si dimostra in costante crescendo negli ultimi anni; tutto ciò avviene senza ricorrere ad ammiccamenti groove-melodici o ad audaci sterzate stilistiche, bensì conferendo al proprio consolidato death dai tratti morbosi, che sovente sconfina in caliginose sonorità doom, un’intensità di gran lunga superiore a quella, comunque apprezzabile, mostrata dalla nouvelle vague del genere. Insomma, se anche molti dei nomi storici paiono segnare il passo o forse, non hanno più la convinzione o la forza per portare avanti pervicacemente queste sonorità sature di tenebrosa veemenza, gli Incantation regalano, a chi ha orecchie per intendere, cinquanta minuti di death che non necessita di alcun altro aggettivo per essere descritto: questa è l’essenza del genere, l’evocazione della morte, del disfacimento, la cronaca impietosa della caduta in voragini dove ogni parvenza di vita è stata fagocitata da una blasfema ed informe materia putrescente. La componente doom non mostra alcun parvenza malinconica o caratteristiche auto consolatorie come sovente accade nel genere in questione; i rallentamenti, piuttosto, appaiono funzionali alla rappresentazione di un immaginario ancora più cupo e denso di maligna oscurità. Se Carrion Prophecy è un brano che, per gli standard degli Incantation, potrebbe essere perfino definito “orecchiabile” se non si rischiasse di cadere nel grottesco, tracce come Debauchery o From A Glaciate Womb portano letteralmente a scuola decine di band di più recente formazione che, mi duole dirlo, hanno ancora molta strada da fare prima di raggiungere i livelli di intensità e di coinvolgimento raggiunti dai deathsters della Pennsylvania. Anche cimentandosi in un brano di oltre sedici minuti come la conclusiva Elysium, John McEntee e soci non perdono un’oncia della propria convinzione, chiudendo in maniera eccellente il miglior album death ascoltato dal sottoscritto da parecchio tempo a questa parte, con buona pace di chi non ritiene degno di attenzione chi “si limita” a perpetrare ai massimi livelli la tradizione di un genere con il quale tutti, piaccia o meno, dovranno fare i conti ancora molto a lungo.

Tracklist:
1. Dirges of Elysium
2. Debauchery
3. Bastion of a Plague Soul
4. Carrion Prophecy
5. From a Glaciate Womb
6. Portal Consecration
7. Charnel Grounds
8. Impalement of Divinity
9. Dominant Ethos
10. Elysium (Eternity Is Nigh)

Line-up:
John McEntee – Guitars (lead), Vocals
Kyle Severn – Drums
Chuck Sherwood – Bass

INCANTATION – Facebook

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Infecting The Swarm – Pathogenesis

“Pathogenesis“ è un buon disco che mette in mostra un gruppo in grado di fare sicuramente molto bene,

Death metal brutale cantato in growl per questo duo tedesco attivo dal 2012: Pathogenesis è la loro prima uscita sulla lunga distanza, dopo un demo pubblicato nel 2013.

Il disco è un concentrato di furia e devastazione, e gli Infecting Swarm hanno molto da dire, ma lo fanno con troppa foga a volte, rendendo tutto un po’ confuso.
Il gruppo ha un talento certo e il loro brutal death metal è davvero buono, ma se andassero leggermente più lenti sarebbero un gruppo fantastico.
I loro testi si basano sulla fantascienza, le vite aliene e la biologia, argomenti piuttosto atipici per un gruppo brutal, rivelandosi un punto di interesse notevole.
Il cantato in growl a volte aggiunge qualcosa, a volte toglie fascino alla canzone, nonostante la produzione sia buona.
Pathogenesis è un buon disco, che mostra un gruppo che può fare sicuramente molto bene, poiché i mezzi sono notevoli.
Il massacro sarà presto completato.

Tracklist :
1. Ionic Anomaly
2. Unknown
3. Exogenous Corruption
4. Aberated Antibiosis
5. Contamination
6. Cellular Shifting
7. Parasitic Mutation
8. Reshaping Life
9. Exponential Growth

Line-up:
Hannes S. – Vocals, Guitars, Bass Drums

Fragarak – Crypts Of Dissimulation

Ottimo lavoro, indicato per gli amanti degli Opeth, con il quale i Fragarak vi sorprenderanno.

Non male l’album di debutto di questa band, nata a Nuova Dehli nel 2012 ed arrivata all’esordio discografico lo scorso anno (l’album e’ datato 2013).

I Fragarak sono protagonisti di un death metal progressivo sullo stile dei primi Opeth, specialmente nelle numerose parti atmosferiche ma, mentre la band svedese nei primi album univa alla componente dark una forte connotazione black metal, gli indiani sono più orientati verso un old school death comunque sempre di matrice scandinava. L’album consta di sei brani dall’ottimo piglio, a partire dall’apertura acustica della bellissima Savor the Defiance, dove l’intro viene spezzato dall’entrata della ritmica e dall’urlo disumano del bravissimo singer Supratim Sen, ottimo sia nel cavernoso e animalesco growl sia nell’uso a tratti dello scream. Atmosfere drammatiche dall’impronta dark ed ottimi momenti acustici incontrano sfuriate elettriche dove la band, con cambi di tempo ed il buon uso delle soliste, riesce ad emozionare e quando l’acustica sfuma si riparte a mille con Insurgence, brano dall’impatto ultra heavy, dalle ritmiche vicine al black, per poi tornare a deliziarci con cambi di tempo, mentre sono sempre i due axeman (Arpit Pradhan e Ruben Franklin) a guidare il gruppo con solos drammaticamente malinconici. Stupendo il momento acustico che ci regala Effacing the Esotery, prima che il brano esploda in un vortice di suoni ed il basso introduca l’ennesima cavalcata chitarristica. Continua alla grande l’altalena tra momenti acustici ed altri elettrici (Dissimulation: An Overture), così l’album risulta affascinante e mai noioso, grazie al sapiente uso da parte della band di cangianti momenti tra calma apparente e furia death (Cryptic Convulsion). Tecnicissimi tutti i musicisti coinvolti, anche se la bravura tecnica non inficia l’emozionalità di un lavoro veramente ben riuscito. Crypts Of Dissimulation si chiude con un’altra perla acustica dal titolo Psalm of Deliverance, che mette la parola fine ad un disco sorprendente inciso da una band che merita d’ essere scoperta.

Tracklist :
1. Savor the Defiance
2. Insurgence
3. Effacing the Esotery
4. Dissimulation: An Overture
5. Cryptic Convulsion
6. Psalm of Deliverance

Line-up:
Kartikeya Sinha – Bass
Sagar Siddhanti – Drums
Ruben Franklin – Guitars
Arpit Pradhan – Guitars
Supratim Sen – Vocals

FRAGARAK – Facebook

Infest – Cold Blood War

Quinto full length del combo serbo degli Infest, devastante monolite death/thrash dai rimandi slayerani.

Jagodina, Serbia centrale, sulle rive del fiume Belica: il death/thrash si chiama Infest, combo dalla ormai nutrita discografia che conta dall’anno di esordio (2002) due demo, un Ep e quattro full-length.

Il loro ultimo, malefico parto si intitola Cold Blood War, un carro armato che schiaccia sotto i suoi micidiali cingoli i nostri poveri padiglioni auricolari a forza di mitragliante death thrash, diviso in parti uguali tra la tradizione dell’Est europeo e il metal estremo di scuola Slayer. Ne escono trenta minuti di belligeranza musicale dove i nostri sguazzano come soldati in un campo di battaglia, tra violentissime accelerazioni collocate in un songwriting già di per sé votato alla velocità e alla pura violenza sonora; death metal che non lascia spazio a nessuna traccia di melodia, per attaccarci con sfuriate metalliche precise mirate a uccidere senza nessuna pietà. Questo devastante platter, oltretutto, è suonato in maniera impeccabile dai quattro musicisti, ormai con la dovuta esperienza per far risultare il loro suono estremamente godibile nella sua furia iconoclasta, partendo dalle vocals di Zoran Sokolovic, neo Tom Araya perfetto con il suo vocione rabbioso, dalle graffianti rasoiate dell’axeman Tyrant e finendo con una sezione ritmica composta dal martellante drumming della piovra Zombie e dal basso di Warlust. In tutto questo monolitico e spaccaossa lotto di brani spiccano Destroyer of Their Throne, song successiva alla classica Intro dai tratti horror apocalittici, Among the Fallen Ones, la superba e unica traccia dove la velocità lascia spazio ad un accenno di ritmica leggermente più cadenzata ed intitolata Demonic Wrath, la title-track dal riff più modernista che si trasforma in un macigno thrash/death che tutto travolge e il razzo terra-aria Terror Lord, esaltante brano dal riff esplosivo che sarà colpevole di spaccare non poche teste in sede live. Album da avere se siete amanti di queste sonorità, uno dei più riusciti degli ultimi mesi, senza se e senza ma.

Tracklist:
1. Intro
2. Destroyer of Their Throne
3. Of Everlasting Hate
4. Kill Their Weakness
5. Among the Fallen Ones
6. Demonic Wrath
7. Nuclear Warlust
8. Cold Blood War
9. Terror Lord
10. Neka Vatre Gore (bonus)

Line-up:
Tyrant – Guitars (lead)
Vandal – Vocals, Guitars
Zombie – Drums
Warlust – Bass

INFEST – Facebook

Hour Of Penance – Regicide

Capolavoro brutal death confezionato dalla band romana Hour Of Penance.

Devastante sotto ogni punto di vista, il nuovo album dei romani Hour Of Penance è a tutti gli effetti un prodotto di livello internazionale e si iscrive di diritto alla sfida per il miglior album del genere in questo 2014.

Un’avventura, quella del combo della capitale, iniziata nel 2000 ed arrivata al sesto full-length che segue “Sedition”, pubblicato due anni fa.
E’ cambiata la sezione ritmica, con gli innesti di Marco Mastrobuono al basso e della macchina da guerra James Payne, dietro le pelli nell’ultimo album degli Hiss From The Moat ed autore di una prova eccezionale.
Si ha la sensazione di trovarci ad un livello talmente alto che, per descriverne il sound a chi ancora non li conoscesse, non si deve parlare di influenze ma, al limite, di somiglianze, proprio perché gli Hour Of Penance hanno dalla loro una personalità da grande band che li aiuta ad avere un loro suono distinguibile; il loro brutal death, che definire tecnico è un eufemismo, a questo giro fa meraviglie risultando un macigno nichilista, di una profondità e magniloquenza disarmante.
Copertina da ultimi fotogrammi dell’apocalisse, con un ultimo processo inferto dai suoi tirapiedi al figlio dell’altissimo e una bordata sonora che annichilisce, una discesa senza freni tra drumming disumano, assoli e riff spettacolari e suonati alla velocità della luce, accenni di canti gregoriani che arricchiscono l’atmosfera di devastazione con un quid sinistro di epico disfacimento (Desecrated Souls, Sealed Into Ecstasy).
Non c’è speranza né il benché minimo accenno di salvezza, l’atmosfera di caos è sovrana e il gruppo sguazza in questo sfacelo, lasciando che il growl da Oscar di Paolo Pieri infligga il colpo mortale ai nostri poveri padiglioni auricolari.
Senza un attimo di respiro si fugge inseguiti dai quattro, che continuano il massacro senza soluzione di continuità, la sezione ritmica offre la sensazione di un palazzo che crolla, precisa e potente asseconda le due chitarre (lo stesso Paolo Pieri e Giulio Moschini) che come mitragliatori impazziti sparano riff sull’ascoltatore sterminando chiunque e non lasciando prigionieri.
Album che alla fine lascia la gradevole sensazione di aver potuto godere della prova di una delle migliori band brutal in circolazione, inutile dire che l’acquisto è assolutamente obbligato.

Tracklist:
1. Through the Triumphal Arch
2. Reforging the Crowns
3. Desecrated Souls
4. Resurgence of the Empire
5. Spears of Sacred Doom
6. Sealed into Ecstasy
7. Redeemer of Atrocity
8. Regicide
9. The Sun Worship
10. The Seas of Light
11. Theogony

Line-up:
Paolo Pieri – Vocals, Guitars
Marco Mastrobuono – Bass
James Payne – Drums
Giulio Moschini – Guitars

HOUR OF PENANCE – Facebook

Necrodeath – The 7 Deadly Sins

“The 7 Deadly Sins” è l’essenza del metal estremo, è tutto quanto vorrebbe ascoltare chi apprezza sonorità potenti, dirette, asciutte e tecnicamente ineccepibili in costante bilico sul sottile confine tra black, death e thrash.

The 7 Deadly Sins è l’essenza del metal estremo, è tutto quanto vorrebbe ascoltare chi apprezza sonorità potenti, dirette, asciutte e tecnicamente ineccepibili in costante bilico sul sottile confine tra black, death e thrash.

Il fatto che questo risultato venga ottenuto dai Necrodeath, ovvero coloro che in Italia hanno fatto la storia del genere, in occasione del loro undicesimo full-length, non deve sorprendere né d’altra parte, deve costituire un motivo per sminuire il resto delle band che animano una scena in grande fermento.
Semplicemente, dopo gli esordi a fine anni ‘80 che li ha fatta assurgere allo status di band di culto, il terremotante ritorno a cavallo dello scorso secolo con una coppia di dischi eccellenti, la fase di lieve appannamento nella seconda metà dello scorso decennio coincisa qualche lavoro contraddistinto da scelte stilistiche non sempre condivisibili, e l’ottimo ritorno tre anni fa con l’ispirato “Idiosincrasy”, la band genovese torna ad impadronirsi del trono che le spetta di diritto, mettendo sul piatto una quarantina di minuti di furia iconoclasta veicolata da capacità tecniche sopra la media e presentando un rilevante elemento di novità, racchiuso non tanto nel versante stilistico quanto in quello lirico.
Per la prima volta, infatti, i Necrodeath utilizzano in maniera continua e convincente la lingua italiana per descrivere la loro personale visione dei sette vizi capitali, un esperimento che riesce alla perfezione anche perché abilmente mediato dalla costante alternanza con il più tradizionale idioma inglese.

Sloth (accidia, assieme al’avarizia il peggiore dei sette vizi, sempre ammesso che gli altro lo siano tutti realmente …), Envy e Wrath sono sfuriate che lasciano il segno e che in maniera sintetica ed ugualmente efficace ribadiscono le coordinate di un genere, mentre Greed chiude l’elencazione dei Seven Deadly Sins esulando parzialmente dal contesto con l’esibizione di una componente melodica che consente a Pier Gonella di liberare le sue indiscusse di chitarrista.

La reincisione di due classici, provenienti rispettivamente da “Fragment Of Insanity” (Thanatoid) e “Into The Macabre” (Graveyard of the Innocents), sono il gradito omaggio volto ad impreziosire un disco che conferma quanto una storia ormai quasi trentennale (anche se dei protagonisti originari è rimasto il slo Peso) sia ben lungi dall’essere vicina al suo epilogo.
Chi si è entusiasmato, peraltro con più di una buona ragione, per quelle band che in quest’ultimo periodo hanno riportato all’attenzione il thrash riproponendolo sia nella sua versione più pura sia contaminandolo con il black o con il death, provi ad ascoltare con attenzione quest’album che chiarisce in maniera inequivocabile quali siano le gerarchie all’interno del genere.

Tracklist:
1. Sloth
2. Lust
3. Envy
4. Pride
5. Wrath
6. Gluttony
7. Greed
8. Thanatoid
9. Graveyard of the Innocents

Line-up:

Peso – Drums
GL – Bass
Pier – Guitars
Flegias – Vocals

NECRODEATH – Facebook

Morbid Flesh – Embedded In The Ossuary

Copertina che più death metal non si potrebbe, un’intro che ci prepara al massacro e via, si viaggia tra i gironi infernali dell’old school insieme agli spagnoli Morbid Flesh

Copertina che più death metal non si potrebbe, un’intro che ci prepara al massacro e via, si viaggia tra i gironi infernali dell’old school insieme agli spagnoli Morbid Flesh, ex Undertaker, al terzo lavoro dopo un demo del 2009 ed il full-length “Reborn in Death” del 2011.

Embededd In The Ossuary è un EP di cinque brani più intro, totalmente devoto allo scandinavian death di Dismember, Entombed e compagnia malefica, un buon tuffo nelle sonorità dei primi anni novanta, quando quelle band erano alla testa dell’esercito che, partendo dal freddo nord, di lì a poco avrebbe conquistato tutta l’Europa metallica. I ragazzi spagnoli ci fanno riassaporare tutto il buono di dischi che hanno fatto la storia del metal estremo europeo, come “Left Hand Path” (Entombed) e “Like An Ever Flowing Stream” (Dismember), riuscendoci alla perfezione grazie a una buona padronanza strumentale e ad un dischetto ben prodotto, che si rivela un piccolo orgasmo di ventitre minuti per tutti i fan della vecchia scuola. Dopo l’intro la band mette la quarta e parte il massacro dove si staglia feroce il growl del singer Vali: i ritmi si mantengono velocissimi per tutto l’Ep con il brano Under Ragged Hoods vero apice della distruzione sonora messa in campo dai nostri, fino ad arrivare alla bellissima e conclusiva Summoning The Sorcery Of Death, nella quale un’iniziale atmosfera doom/death sulla falsariga degli Asphyx si trasforma in una cavalcata da antologia. Buon prodotto dunque, questo Ep che, pur non portando alla causa niente di nuovo, si fa apprezzare risultando un buon antipasto in vista del prossimo album che, a questo punto, aspettiamo fiduciosi.

Tracklist:
1. Entrance to the Ossuary (Intro)
2. Charnel House
3. Under Ragged Hoods
4. Rising of Shadows
5. From Beyond the Bounds
6. Summoning the Sorcery of Death

Line-up:
Makeda – Bass
Mitchfinder General – Drums
C. – Guitars
Gusi – Guitars, Vocals (backing), Drums
Vali – Vocals

MORBID FLESH – Facebook

Kuolemanlaakso – Tulijoutsen

Viene confermata l’impressione di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere.

Il secondo album dei finnici Kuolemanlaakso arriva dopo un ep di recente uscita (Musta Aurinko Nousee) del quale abbiamo parlato qualche mese fa su queste pagine .

Il lavoro su lunga distanza conferma l’impressione ricavata in tale circostanza, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere, e questo pur potendo annoverare in formazione uno come Mika Kotamaki, vocalist dei Swallow The Sun, il che farebbe presupporre sonorità in qualche modo ricondicibili a quella band.
In realtà croce e delizia del disco è la relativa disomogeneità della proposta che, se da un parte ha il pregio di mostrare diverse sfaccettature stilistiche, dall’altra tenta con qualche difficoltà di far convivere all’interno del lavoro brani tra di loro agli antipodi come per esempio la rocciosa opener Aarnivalkea e la discutibile “swing-doom” Glastonburyn Lehto.
La stessa Me vaellamme yössä, che avevamo già trovato in apertura di “Musta Aurinko Nousee” in versione “edit”, in questa sua veste integrale si conferma canzone di sicuro impatto e dal buon potenziale commerciale, ma inserita tra la pesantezza dei riff delle ottime Verihaaksi e Arpeni finisce per apparire persino come un brano troppo “leggero”.
Ma, a conti fatti, se escludiamo la sola Glastonburyn Lehto, eccessivamente fuori dagli schemi per poter essere realmente apprezzata, Tulijoutsen è decisamente un buon disco che oltre ad avvalersi delle sempre efficaci vocals di Kotamaki mette in luce le eccellenti doti compositive di Laakso, in grado di produrre brani convincenti sia quando calca la mano sul versante più cupo e intimista (Arpeni) sia quando riesce a trovare un equilibrio ideale tra la robustezza del sound e le aperture melodiche, come avviene nella conclusiva Tuonen Tähtivyö, impreziosita anche da una gradevole voce femminile.
Kuolemanlaakso si rivela quindi un disco meritevole di attenzione, per quanto non troppo accessibile in tempi brevi in particolare per il ricorso alla lingua madre in sede di stesura dei testi; la sensazione è però quella che Laakso stia ancora testando sul campo la resa effettiva del suo progetto, come farebbe pensare l’elevata frequenza delle uscite (due full-length e un Ep) in un lasso di tempo relativamente breve.

Tracklist:
1. Aarnivalkea
2. Verihaaksi
3. Me vaellamme yössä
4. Arpeni
5. Musta
6. Glastonburyn lehto
7. Tuonen tähtivyö

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Warknife – Amorphous

Gli Warknife con il loro nuovo lavoro hanno veramente fermato l’attimo, spingendosi non troppo lontano dalla perfezione

Ora stiamo veramente esagerando (in positivo): la nostra bistrattata penisola sta diventando la culla del metal in tutte le sue forme e non esiste più regione, città o paesino dove non ci siano gruppi di altissimo livello, da prendere seriamente in considerazione.
Per esempio quella dei Warknife, da Lecce, una creatura post hardcore, evolutasi in questo secondo magnifico album, in un mostruoso connubio tra death moderno, prog e sonorità core, è solo l’ultima in ordine di tempo tra le uscite in grado di destabilizzare il mercato.
Formatasi nel 2005, con all’attivo un demo ed un primo full-length uscito nel 2009 dal titolo “Dream of Desolation”, i quattro ragazzi salentini stupiscono con Amorphous per intensità, maturità compositiva e tecnica strumentale, confezionando un lavoro superbo.
Tecnica strumentale: partendo dalla performance di Simone Mele alla sei corde, chitarrista dalla tecnica ed emozionalità unica, passando da una sezione ritmica, fondamenta del disco, sempre perfetta sia nei brani dove deve picchiare il dovuto sia nei momenti nei quali il sound si apre su scenari death-prog e composta da Cesare Zuccaro alle pelli e Daniele Gatto al Basso, si arriva a Marco Landolfo, vocalist di razza, superlativo cantore su tutto l’album.
Intensità: ogni nota di questo disco sembra di vederla uscire dagli strumenti, la tensione rimane altissima così come l’emozionalità.
Maturità compositiva: un songwriting stellare costringe non solo a sentire l’album ma a viverlo per tutta la sua durata e ad ogni ascolto si scopre sempre un dettaglio,una nota nuova; non di semplice ascolto, ma i brani sono talmente belli che si arriva alla fine con la voglia di ricominciare tutta l’esperienza dall’inizio.
The Veil Fragments è la song dove, credo, tutto quanto ho scritto viene confermato dalla musica della band, il punto più alto di questo gioiello musicale tutto da scoprire: Machine Head, Lamb of God, Dark Tranquillity e Opeth sono solo nomi che potrete trovare nei solchi dell’album ma, ad un ascolto attento, troverete molto di più.
Gli Warknife con il loro nuovo lavoro hanno veramente fermato l’attimo, spingendosi non troppo lontano dalla perfezione …
Grande album, grande band.

Tracklist:
1. Act I. Shapeless Birth
2. The Infected Enigma
3. A Bleeding Sunset
4. Behold Regression
5. A Veil Fragments
6. Act II. Shape Shifting
7. Hateseed
8. Ill Becomes Order
9. Shining Phoenix
10. F.A.I.L.

Line-up:
Cesare Zuccaro Drums
Simone Mele Guitars
Marco Landolfo Vocals
Daniele Gatto Bass

WARKNIFE – Facebook

Hiss From The Moat – Misanthropy

Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Un assalto sonoro di matrice death/black metal è quello che offrono i lombardi Hiss From The Moat, band che farà parecchio parlare di sè, vuoi per i musicisti coinvolti, vuoi per la qualità del prodotto, di livello alto, pronto per fare sfracelli anche fuori dai patri confini.

Siamo all’esordio sulla lunga distanza, che arriva dopo un EP di un paio di anni fa dal titolo “The Carved Flesh Message” dai rimandi metalcore, con il quale i nostri virano in questo album verso sonorità death metal dal forte impatto black, oscuro e devastante. I musicisti sono di primissimo piano e oltre a James Payne (House Of Penance) e Carlo Cremascoli (Tasters), troviamo Giacomo Poli (ex-Stigma) alla sei corde e, a vomitare puro odio nel microfono, quel Paolo Pieri già con House Of Penance e Aborym. Anche gli ospiti non sono da meno, infatti fanno la loro apparizione in due brani Tommaso Riccardi, voce e chitarra dei romani Fleshgod Apocalypse, e Ryan Knight, chitarrista degli americani The Black Dahlia Murder. Stampato dalla Lacerated Enemy Records, il disco ha avuto una prima pubblicazione digitale da parte addirittura della Nuclear Blast, confermando le buone prospettive della band, che convince con trenta minuti di distruzione in puro Behemoth style, assecondato da musicisti capaci, che formano un combo compatto e sicuro nei propri mezzi. Le song, tutte dirette, puntano al sodo, senza inutili orpelli, risultando nella loro natura estrema assimilabili, grazie anche ad un songwriting ispirato, così brani come Honor To The Mother Of Death, Misanthropy, The Descent from the Throne e Caduceus raccolgono l’eredità della band polacca, risultando comunque freschi e suonati da musicisti dalla grande personalità. Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Tracklist:
1. Intro
2. Conquering Christianity
3. Honor to the Mother of Death
4. Moralism as Anesthetic
5. Misanthropy
6. The Path of the Pilgrims
7. The Descent from the Throne
8. Ave Regina Caelorum
9. Caduceus
10. Outro

Line-up:
Giacomo “Jack” Poli – Guitars
James Payne – Drums
Carlo Cremascoli – Bass

HISS FROM THE MOAT – Facebook

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Karnak – The Cult Of Death

Ventidue minuti di death metal privo di compromessi e suonato in maniera impeccabile.

Per chi non li conoscesse, i Karnak non sono affatto dei novellini della scena death tricolore, essendo attivi già dalla metà degli anni novanta, la band di Gorizia ha nel suo curriculum tre full-length: “Perverted” del 1997, “Melodies Of Sperm Composed” del 1999 e “Dismemberment” datato 2010, più un paio di Ep, licenziati all’inizio del millennio.

Alla già consistente discografia si va ad aggiungere l’ultimo The Cult Of Death, ancora un Ep contraddistinto da un death metal ai limiti del brutal in certi passaggi, molto vicino quindi allo spirito di Gorguts, Morbid Angel e Nile.
Il lavoro dei nostri è composto da un’intro, tre brani e la cover riuscitissima di Jewel Throne dei seminali Celtic Frost, in tutto ventidue minuti di privi di compromessi, sempre suonati in maniera impeccabile, con diversi rimandi old school, tra un growl demoniaco, sfuriate violentissime e frenate, sull’orlo di un abisso sonoro pronto ad inghiottirci.
Stupendo esempio di ciò è The Construction Of The Pyramid Beta (Invocation), brano veramente terrificante nel suo lento discendere nei meandri di un sound, nel quale non esiste più speranza di luce ma solo dannazione eterna.
Le altre due parti di The construction, The Demon’s Breath e Gamma, sono un massacro brutal death dove le due asce sciorinano assoli e ritmiche inumane e la batteria di Stefano Rumich è un tir senza freni che tutto travolge.
Se questo è l’antipasto del prossimo lavoro sulla lunga distanza ne vedremo, ma soprattutto sentiremo, delle belle.

Tracklist:
1. Intro
2. The Construction of the Pyramid -α- (The Demon’s Breath)
3. The Construction of the Pyramid -β- (Invocation)
4. The Construction of the Pyramid -γ-
5. Jewel Throne (Celtic Frost cover)

Line-up:
Stefano Rumich – Drums, Egyptian percussions
Francesco Ponga – Vocals, Guitars
Lorenzo Orsini – Bass, Vocals
Marco Polo – Guitars

KARNAK – Facebook

Paganizer – Cadaver Casket (On A Gurney To Hell)

Un assaggio di death old school fornitoci tra un album e l’altro da una band dalla qualità non intaccata da una certa prolificità

Veterani della scena Death metal svedese, i Paganizer tornano con un mini CD, dopo World Lobotomy, lavoro sulla lunga distanza licenziato in questo 2013, a dimostrazione della prolificità del combo; sono ben nove, infatti, gli album immessi sul mercato dal 1998, anno di debutto, più svariati mini e split.

Rogga Johansson, leader, voce e chitarra, sembra essere instancabile vista la moltitudine di band della scena con cui ha collaborato, ma i Paganizer sono sicuramente la creatura a cui è più legato e alla quale dedica buona parte delle sue energie. Il mini in questione, sorta di appendice dell’ultimo album, non si discosta né musicalmente né concettualmente dai lavori passati, sempre di old style death metal si tratta, dalle tematiche gore e anticristiane e fortemente influenzato o per meglio dire, visti gli anni di militanza di Rogga nella scena, vicino a band del calibro di Dismember e Grave.
I cinque pezzi che compongono il lavoro risultano così dei buoni esempi di death old school e dove, nell’ultimo album, si riscontravano elementi di scuola grind, in questa occasione i Paganizer sterzano verso sonorità e ritmiche più thrash oriented.
Buoni come sempre sono gli assoli della sei corde e lavoro di ordinaria amministrazione per tutti i musicisti, va elogiata sempre e comunque la volontà e la passione che artisti come Johansson mettono ancora, dopo così tanti anni, nel portare avanti un discorso musicale fuori dai circuiti modaioli, aggiungendo qualità e esperienza alla scena underground e meritandosi doverosamente il massimo rispetto.

Tracklist:
1. On a Gurney to Hell
2. Rot
3. Souls for Sale
4. Afterlife Burner
5. It Came from the Graveyard

Line-up:
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Matthias Fiebig – Drums
Dennis Blomberg – Guitars (lead)

PAGANIZER – Facebook

Hecate Enthroned – Virulent Rapture

Alla fine dell’ascolto rimane comunque la sensazione che la band di Cruelty And The Beast sia ancora fonte di ispirazione per il gruppo, ma il mio dubbio semmai è un altro: siamo proprio sicuri che oggi i Cradle Of Filth riuscirebbero a fare di meglio?

Gli Hecate Enthroned possono essere considerati ormai dei veterani della scena estrema europea: infatti, il loro esordio risale a un ventina di anni fa.

Era il lontano 1995 quando uscì sul mercato il loro mini cd seguito, nel 1997, dal full-length “In Slaughter Of Innocence: A Requiem For The Mighty”; all’epoca vennero tacciati come cloni dei più famosi Cradle Of Filth e pure il successivo lavoro, l’anno seguente, non fu ben accolto dalla critica metallara. All’inizio del nuovo millennio i sei ragazzi inglesi aggiustarono il tiro, portando il loro sound verso lidi più death oriented ma, tant’è, neanche così riuscirono a portarsi dalla loro parte i favori della stampa di settore. Dopo la compilation del 2005 “The Blackened Collection” tornano dopo un silenzio di otto anni con un album nuovo e nuove speranze; mettiamo subito le cose in chiaro: a me piacciono e, sinceramente, non ho mai condiviso le critiche, a volte feroci, con le quali venivano descritti i loro album, quasi che la band fosse l’unica colpevole, nel mondo Metal, di uno stile ed un gruppo a cui fare riferimento per il proprio sound. In particolare quest’ultimo album l’ho trovato ispirato e maturo; certo, qui di black metal non ce n’è neppure l’ombra, a meno che non si consideri in maniera semplicistica come black un album dove appare la voce in screaming. Virulent Rapture è invece un buon esempio di metal estremo, nel quale anche l’etichetta death metal viene usata giusto per affibbiare un marchio, suonato bene, prodotto anche meglio, e fila via tra brani tiratissimi, mai noiosi, infarciti di tastieroni gothic, ritmiche assatanate e una voce come quella di Elliot Beaver efficace sia nello scream (ebbene sì, simile a quello di Dani Filth) sia nel growl. L’uso delle tastiere è molto migliorato rispetto agli album precedenti, collocandosi sempre al posto giusto e al momento giusto, e non venendo relegate al solo ruolo di accompagnamento, ma ergendosi a protagoniste di momenti solistici dal forte impatto. Ho trovato notevole almeno una manciata di brani: Abyssal March, Plagued by Black Death accarezzata da un bellissimo giro di piano, la title-track, Life e la conclusiva Paths Of Silence. Alla fine dell’ascolto rimane comunque la sensazione che la band di “Cruelty And The Beast” sia ancora fonte di ispirazione per il gruppo, ma il mio dubbio semmai è un altro: siamo proprio sicuri che oggi i C.O.F. riuscirebbero a fare di meglio?

Tracklist:
1. Thrones of Shadow
2. Unchained
3. Abyssal March
4. Plagued by Black Death
5. Euphoria
6. Virulent Rapture
7. Life
8. To Wield the Hand of Perdition
9. Of Witchery and the Blood Moon
10. Immateria
11. Paths of Silence

Line-up:
Nigel – Guitars
Dylan Hughes – Bass
Andy – Guitars
Pete – Keyboards
Gareth Hardy – Drums
Elliot Beaver – Vocals

HECATE ENTHRONED – Facebook

Code – Augur Nox

Il prog death dei Code convince nonostante una proposta d’impatto tutt’altro che immediato

Il ritorno al full-length dei britannici Code, dopo quattro anni, ci mostra un approccio decisamente interessante al metal di stampo avanguardistico.

Curiosamente, la Agonia Records ha pubblicato quasi in contemporanea questo lavoro e l’ultima fatica degli Ephel Duath benché entrambi, sempre secondo un metodo di catalogazione piuttosto sommario, possano essere inseriti nel filone stilistico sopra accennato.
Le differenze tra questi due album sono però sostanziali, dimostrando quanto sia ampio il margine di manovra, e l’unico tratto comune individuabile senza troppa fatica è un suono in costante progressione e contraddistinto da un esecuzione strumentale di prim’ordine; ma, mentre la creatura di Davide Tiso preferisce indulgere in un mood soffocante , relegando a sporadiche apparizioni l’aspetto melodico, il combo inglese guidato da Aort, unico superstite della precedente line-up nonché bassista degli ottimi Indesinence, mostra un songwriting relativamente più fruibile nonostante sia evidente che un disco come Augur Nox debba essere ascoltato e riascoltato prima di poterne cogliere le diverse sfumature.
Se è innegabile che le atmosfere opethiane si manifestano più di una volta in maniera piuttosto evidente, è altresì vero che i ritmi impressi dai Code sono spesso decisamente elevati e riservano i rari momenti di riflessione confinati ai brevi strumentali inseriti nei punti strategici della track-list: questo conferisce al sound quella dinamicità che spesso riesce a compensare la frammentarietà insita in un genere come questo.
Se a tutto ciò aggiungiamo una prestazione vocale di grande versatilità ed efficacia da parte di Wacian, capace di spaziare dal growl a passaggi dalla spiccata eleganza , non si può che approvare senza particolari riserve l’operato della band londinese.
Augur Nox è un disco che, pur nella sua complessità, potrebbe trovare estimatori dalle ampie vedute provenienti da qualsiasi schieramento, metallico e non; brani come Ecdysis, autentico labirinto compositivo capace di disorientare lo stesso Minotauro, The Shrike Screw, dai vaghi sentori anathemiani, almeno nella parte iniziale, o la conclusiva White Triptych, avvicinabile alle atmosfere dei connazionali A Forest Of Stars, sono gli episodi migliori assieme alla splendida The Lazarus Chord, vero manifesto musicale di una band sicuramente non per tutti, ma ugualmente accattivante per chi abbia voglia e tempo di approfondirne la conoscenza.

Tracklist:
1. Black Rumination
2. Becoming Host
3. Ecdysis
4. Glimlight Tourist
5. Dx.
6. Garden Chancery
7. The Lazarus Chord
8. The Shrike Screw
9. Rx.
10. Trace Of God
11. Harmonies In Cloud
12. White Triptych

Line-up :
Wacian (Voce)
Aort (Chitarre)
Andras (Chitarre)
Syhr (Basso)
Lordt (Batteria)

CODE – Facebook

Down Among The Dead Men – Down Among The Dead Men

Il ritorno di Dave Ingram, storico ex-cantante di Benediction e Bolt Thrower, non possiede alcun tratto nostalgico ma porta con sé una carica distruttiva difficilmente riscontrabile anche in chi, agli albori della propria carriera, dovrebbe essere naturalmente spinto dall’entusiasmo e dalla voglia di spaccare il mondo, non solo in senso metaforico.

Il ritorno di Dave Ingram, storico ex-cantante di Benediction e Bolt Thrower, non possiede alcun tratto nostalgico ma porta con sé una carica distruttiva difficilmente riscontrabile anche in chi, agli albori della propria carriera, dovrebbe essere naturalmente spinto dall’entusiasmo e dalla voglia di spaccare il mondo, non solo in senso metaforico.

I Down Among The Dead Men, completati dai due Paganizer Rogga Johansson (anche The Grotesquery e qualche altra decina di band) alla chitarra e Dennis Blomberg al basso, sono una creatura venuta alla luce per tranciare tutto ciò che si trova qualche centimetro al di sopra del suolo, grazie al magnifico ed efferato growl dell’esperto vocalist ed il chirurgico contributo dei suoi due sodali. Un death con una dannata attitudine punk, un’ipotetica session tra Motorhead, Discharge, Napalm Death ed Entombed epoca “To Ride …”, un treno lanciato a tutta velocità pronto ad abbattere ogni ostacolo nella sua corsa impostata su una velocità costantemente elevata, questa è la descrizione sommaria del contenuto dell’album Non attendetevi, quindi, una particolare versatilità da questo lavoro autointitolato, le tredici tracce hanno una durata media di due minuti e fanno della loro sinteticità una carta vincente; Draconian Rage è un titolo magnifico per inaugurare un disco, oltre che una scelta appropriata in quanto racchiude l’essenza di un lavoro che potrà far storcere il naso a chi ricerca sonorità innovative, ma che si rivelerà invece un godimento assoluto per chi si “accontenta” di farsi trascinare da suoni irresistibili nella loro essenzialità. Rari come oasi nel deserto sono i rallentamenti o i momenti concessi agli assoli di Rogga (Venus Mantrap) e non è un caso che il disco si chiuda esattamente come si è aperto, con un brano come The Stones Lament il quale, più che le pietre del titolo, costringe al lamento le casse, mai così vicine vicino al cedimento strutturale a causa dei toni ultra ribassati utilizzati da Blomberg. Un disco che, come recita la pubblicità di un noto energy-drink, “ci mette le ali” e, in questi tempi grami e bastardi, musica come questa può fornire la giusta dose di grinta per affrontare a viso aperto le battaglie, piccole o grandi che siano, che la vita di tutti i giorni ci propone …

Tracklist:
1) Draconian Rage
2) The Doomsday Manuscript
3) As Leeches Gorge
4) The Epoch
5) Adolescence Of Time
6) Bones Of Contention
7) Dead Man’s Switch
8) A Handful Of Dust
9) Infernal Nexus
10) Dead Men Diaries
11) Venus Mantrap
12) Down Among The Dead Men
13) The Stones Lament

Line-up:
Dave Ingram – Vocals
Dennis Blomberg – Guitars
Rogga Johansson – Guitars/Bass

DOWN AMONG THE DEAD MEN – Facebook

Demonical – Darkness Unbound

Gli svedesi Demonical tagliano il traguardo del quarto album nel corso di una carriera contrassegnata da uscite mediamente di buon livello.

Gli svedesi Demonical con Darkness Unbound tagliano il traguardo del quarto album nel corso di una carriera contrassegnata da uscite mediamente di buon livello.

Questo nuovo lavoro non fa eccezione, muovendosi all’insegna di un death metal dai tratti piuttosto classici ma capace di integrare con una certa disinvoltura sia ingredienti più melodici sia passaggi contrassegnati da una discreta dose di brutalità. Darkness Unbound ha una durata piuttosto limitata, così come gran parte delle tracce che scivolano via alla stregua di brevi stilettate, risultando senz’altro gradevole all’ascolto ma carente di elementi peculiari in grado di impressionare realmente. Il growl di Sverker Widgren è oggettivamente uno dei migliori ascoltati recentemente e il resto della band sa decisamente il fatto proprio, pigiando sull’acceleratore quando serve senza alcuna sbavatura, agevolato in questo dall’ennesimo buon lavoro di produzione proveniente da uno studio svedese. Il problema di questo disco, come di molti altri usciti di recente, è quello d’essere impeccabile formalmente oltre che dotato di una certa sostanza, non abbastanza però per evitare che dopo qualche ascolto il tutto venga accantonato per passare a qualcos’altro di simile, perpetrando così una sorta di infinita catena di Sant’Antonio senza che le singole band, in fondo, abbiano colpe particolari per questo andazzo. Infatti i Demonical sono sicuramente un combo preparato e sono certo che anche dal vivo il loro death chirurgico e malevolo non faccia prigionieri, resta il fatto che forse, per certi generi musicali, l’unico modo per salvaguardare e valorizzare le band più meritevoli (tra le quali anche i Demonical, sia chiaro) potrebbe essere, per assurdo, l’introduzione del numero chiuso come avviene per l’accesso a certe facoltà universitarie … Al di là delle mie pessimistiche considerazioni, che possono lasciare il tempo che trovano, Darkness Unbound è un lavoro di indiscutibile qualità in grado di risultare sicuramente gradito a molti e non solo ai consumatori bulimici di death metal.

Tracklist:
1. Darkness Unbound
2. The Order
3. An Endless Celebration
4. Contempt and Conquest
5. King of All
6. The Healing Control
7. Hellfire Empire
8. Words Are Death
9. Deathcrown
10. The Great Praise
11. World Beyond (Kreator cover)
12. Burned Alive (re-recording)

Line-up :
Sverker Widgren – vocals
Martin Schulman – bass
Daniel Gustavsson – guitars
Johan Haglund – guitars
Ämir Batar – drums

DEMONICAL – Facebook

Taketh – Ignorance Is Strength

Questo secondo full-length dei Taketh, che giunge a ben otto anni dal quello d’esordio, potrebbe segnare l’inizio di una fase nuova della carriera per gli svedesi, autori di una prova assolutamente gradevole pur se non ancora degna d’essere tramandata ai posteri.

Ignoranza è forza, ci urlano in faccia i Taketh e, in fondo, come dare loro torto, sia che si voglia intendere la cosa in senso negativo (essere disinformati o comunque “ignorare” i problemi altrui sotto certi aspetti può aiutare a vivere meglio), sia che invece il significato venga associato all’ambito musicale, dove viene definito “ignorante”, in senso positivo, chi suona in maniera spontanea e senza porsi troppi problemi di carattere estetico o formale.

La band svedese è in circolazione da oltre un decennio, prima con il monicker Pergamon e, dal 2003, con quello attuale; vista la provenienza geografica non è così sorprendente scoprire che i nostri sono dediti ad uno degli stili musicali che a quelle latitudini è nato, cioè il death melodico. In effetti, i poco rassicuranti cinque figuri di Linköping ci spiazzano parzialmente con l’incipit elettronico dell’opener Moving One, e il brano stesso, scelto dalla band come signolo, ci porta a spasso per insidiosi sentieri vicini al metalcore, con tanto di ritornello con (rivedibile) voce pulita; nonostante questo però, si intuisce ugualmente che non tarderemo ad ascoltare episodi molto più canonici ed oggettivamente riusciti, dai chiari rimandi ai campioni indiscussi del genere quali i Dark Tranquillrty. Alla band guidata dai fratelli Dahl va riconosciuta la volontà di ricercare qualche sbocco compositivo meno canonico ma l’operazione spesso non riesce del tutto, pur risultando comunque lodevole (vedere la già citata Moving One o Your Master, con le sue parti corali); molto meglio, quindi, quando vengono esplorati territori conosciuti facendo venire meno qualsiasi effetto sorpresa ma colpendo efficacemente con brani inappuntabili come Burning o 1984. Il buon David prova a variare per quanto possibile la gamma vocale a sua disposizione e il resto della band ci dà dentro con sufficiente convinzione, ma appare comunque evidente che il livello raggiunto dai modelli compositivi di riferimento si trova ancora diversi passi più avanti; ciò nonostante, questo secondo full-length dei Taketh, che giunge a ben otto anni dal quello d’esordio, potrebbe segnare l’inizio di una fase nuova della carriera per gli svedesi, autori di una prova assolutamente gradevole pur se non ancora degna d’essere tramandata ai posteri …

Tracklist:
1. Moving On
2. We Are Slaves
3. Your Master
4. In Memory
5. Burning
6. Flaws
7. Innocent Again
8. Inside of Me
9. 1984
10. Mind Numbing Crap

Line-up :
David Dahl – Vocals
Mikael Lindquist – Bass
Johan Dahl – Drums
Atahan Tolunay – Guitar
Johan Ejnarsson – Guitar

TAKETH – Facebook

Paganizer – World Lobotomy

Il classico disco che non cambierà il corso della storia ma del quale i cuori metallici, magari un po’ più datati come il mio, hanno sempre dannatamente bisogno …

I Paganizer sono una delle tante death metal band svedesi la cui attività ha preso il via nel secolo scorso: con World Lobotomy arrivano al nono album, come sempre all’insegna di un death old school che potrebbe essere tranquillamente utilizzato come esempio di ortodossia del genere.

L’instancabile Rogga Johansson è reduce da un altra ottima prova, risalente allo scorso anno con i The Grotesquery con i quali, grazie alla compartecipazione di Kam Lee, esplorava anche a livello lirico il lato più orrorifico del death; in questa occasione, oltre ai suoi taglienti riff ci gratifica anche di un growl profondo quanto convincente, dimostrando che i Paganizer sono fondamentalmente la “sua” band, nonostante la miriade di altri progetti che lo vedono coinvolto. World Lobotomy si fa apprezzare per il senso di coesione tra i musicisti che traspare dalle note, agevolato in tal senso dal fatto, non così scontato, che tre quarti della band facevano parte della line-up che incise il demo d’esordio nell’ormai lontano 1998. I quaranta minuti di aggressione sonora risultano così tutt’altro che stantii, seppure devoti ad un sound che a qualcuno potrà apparire sorpassato; per assurdo brani devastanti come la title-track, la “carcassiana” You Call It Deviance o Hunt Eat Repeat, solo per citarne alcuni, risultano piacevolmente freschi nonostante provengano da molto lontano, a livello di attitudine e di ispirazione; nessuna concessione a tentazioni moderniste, nessun rallentamento, nessuno scampolo di facili melodie, il tutto supportato da una produzione adeguata. Il classico disco che non cambierà il corso della storia ma del quale i cuori metallici, magari un po’ più datati come il mio, hanno sempre dannatamente bisogno …

Tracklist :
1. Prelude to the Lobotomy
2. World Lobotomy
3. The Sky on Fire
4. Mass of Parasites
5. As Blood Grows Cold
6. Ödeläggaren
7. You Call It Deviance
8. As the Maggots Gather
9. Trail of Human Decay
10. The Drowners
11. The Last Chapter
12. Hunt Eat Repeat

Line-up :
Jocke Ringdahl – Drums
Andreas ‘Dea’ Carlsson – Guitars
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Dennis Blomberg – Bass

PAGANIZER – pagina Facebook

Right To The Void – Kingdom Of Vanity

I Right To The Void sono una giovane band francese che esordisce su lunga distanza con questo disco di prossima uscita intitolato Kingdom Of Vanity.

I ragazzi della Linguadoca ci regalano quaranta muniti di aggressione sonora a base di un death-core-thrash sicuramente ben eseguito e ben prodotto ma con il difetto d’essere piuttosto ripetitivo: la ricetta viene riproposta, di fatto, in ogni brano, con partenza a razzo, triggerate a manetta, alternanza tra screaming e growl per un risultato che potrebbe ricordare i primi In Flames, privati però di gran parte della componente melodica del loro sound. La forza d’impatto dei Right To The Void è comunque rimarchevole e Kingdom Of Vanity è un lavoro tutt’altro che disprezzabile, ciò che colpisce in negativo è essenzialmente la scarsa identità dei singoli brani all’interno della tracklist. Il chitarrista Gauthier sembra quasi voler centellinare i propri assoli ed è un vero peccato, vista l’incisività che mostra in tali frangenti; la base ritmica svolge in maniera competente il proprio lavoro mentre Guillame si sgola alternando costantemente i due stili vocali, facendosi preferire comunque quando opta per il growl. Il finale del disco riserva le cose migliori rappresentate dalla titletrack, dotata di un bel tiro e decisamente coinvolgente e, soprattutto, dal brano di chiusura, We Have Failed, un titolo che per fortuna non corrisponde all’esito finale di Kingdom Of Vanity. In quest’ultima occasione i ragazzi transalpini mostrano cosa potrebbero fare se solo provassero ad uscire con maggiore frequenza dal proprio canovaccio sonoro, sia con qualche sapiente rallentamento sia con un occhio di riguardo all’aspetto melodico del songwriting. Quindi, parafrasando l’ultimo titolo, è lecito affermare che i Right To The Void non hanno affatto fallito, lo dimostra l’encomiabile intensità che pervade l’intero lavoro, d’altra parte, però, possono e devono variare maggiormente la loro proposta per ritagliarsi uno spazio adeguato nella scena metal europea.

Tracklist:
1.Like A Disease
2.Phoenix
3.World Decay
4.A Black Conclusion
5.War Of Glory
6.In Oblivion
7.Reborn From Ashes
8.Again And Again … Until The End
9.Kingdom Of Vanity
10.Stay
11.We Have Failed

Line-up :
Guillaume – Vocals, Bass
Paul – Guitars
Gauthier – Guitars
Hugo – Drums

RIGHT TO THE VOID – Facebook

Carved – Dies Irae

L’interessante uso delle tastiere e la voglia di non appiattirsi su modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che mette a frutto l’intensa attività live svolta dai Carved a supporto di nomi prestigiosi della scena metal italiana.

Interessante il potenziale esibito dagli spezzini Carved con questo loro esordio su lunga distanza.

Il death melodico proposto dai nostri, infatti, differisce senza dubbio dagli schemi consueti e, pur condividendone la catalogazione di sottogenere e la data di pubblicazione del disco, per esempio, non hanno neppure troppi punti in comune con i compagni d’etichetta Kruna.
In effetti, come accade, sia pure con modalità diverse, alla band friulana, tutto sommato anche i Carved aderiscono solo a tratti agli stilemi classici della scuola svedese, prendendo come possibile riferimento, specialmente nei brani più sinfonici, i Dark Lunacy, pur mostrando rispetto a questi una ridotta componente orchestrale; azzarderei anche, per attitudine e varietà compositiva, una certa affinità con i primi due lavori dei tedeschi Pyogenesis, usciti a metà degli anni ’90.
Dies Irae si snoda pertanto in maniera snella alternando, nei suoi quaranta minuti scarsi, brani dalla notevole forza evocativa, quali Echo Of My Cinderella, The Perfect Storm e Black Lily Of Chaos, ad altri episodi più diretti ma non privi di azzeccati inserti melodici (Enter The Silence, Scripta Manent, Ashes Of A Scar).
Un interessante uso delle tastiere e la voglia di non omologarsi più di tanto a modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che, peraltro, mette a frutto l’intensa attività live svolta a supporto di nomi prestigiosi (uno su tutti, i corregionali Necrodeath), anche perché questo pare essere solo il primo passo di un percorso che potrebbe riservare alla band ligure non poche soddisfazioni.

Tracklist :
1. Dies Irae (Praeludium)
2. Echo of My Cinderella (The Final Symphony)
3. Enter the Silence
4. Scripta Manent (Bullshit)
5. The Perfect Storm
6. At the Gates of Ice
7. Ashes of a Scar 0
8. Black Lily of Chaos
9. A New World (Postludium)

Line-up :
Nicola Paganini – Bass
Francesco Daniele – Drums
Alessio Rossano – Guitars
Alessandro Ferrari – Guitars
Mattia Nuti – Keyboards
Cristian Guzzon – Vocals

CARVED – Facebook