Second To Sun – The First Chapter

The First Chapter segue un’impetuosa narrazione, là dove il metal viene usato come codice da integrare con altri linguaggi come il folclore, per creare un punto d’incontro che serve da base per raccontare storie altrimenti dimenticate.

Il disco dei Second To Sun è una magnifica opera sonora, composta da diversi strati, molti livelli di lettura e stili ricchi e assai differenti tra loro.

The First Chapter segue un’impetuosa narrazione, là dove il metal viene usato come codice da integrare con altri linguaggi come il folclore, per creare un punto d’incontro che serve da base per raccontare storie altrimenti dimenticate.
Il tutto è strumentale e non potrebbe essere altrimenti, dato che ogni parola sarebbe estranea in questa cascata di note, vite e sogni spezzati. Lo stile è un metal super tecnico, con intarsi di djent e post metal, ma uno degli elementi più importanti è il folclore. Ogni canzone ha genesi e semantica diverse, ma tutte raccontano qualche accadimento, ed in più fanno sentire le musiche delle genti coinvolte. Red Snow narra degli avvenimenti accaduti al passo Dyatlov, dove vennero uccise nove persone, o dai locali o da qualcosa che sarebbe meglio non nominare nemmeno. In questa canzone i Second To Sun ci fanno sentire anche in fondo al pezzo dei loro rimaneggiamenti di pezzi tipici delle popolazioni di quei luoghi. E questo disco, grazie alla sua musica, tra Meshuggah e dintorni e un certo grado di distopia, regala grandi gioie, qui il metal diventa moderno narrando storie e visi antichi. La potenza e la tecnica dei Second To Sun fanno davvero la differenza, anche perché non sono usate affatto a caso, ma sempre con consapevolezza e sapienza. Quando poi il metal dei russi si fonde con il folk dei canti finlandesi riarrangiati, o con composizioni di popoli così lontani dalla nostra tecnocrazia, è qui che si raggiungono i momenti più alti del disco, che viaggia su di una qualità media davvero ragguardevole. La cosa migliore che si possa dire di questo disco è affermare la sua originalità, che continua la tradizione di dischi come Roots dei Sepultura, pur essendone molto diverso nell’essenza, parlando di popoli antichi e facendolo con un metal moderno e propositivo, molto differente rispetto al folk metal. Potrebbe sembrare un disco ostico ma non lo è, perché imponenti impalcature musicali nascondono al loro interno melodie importanti che vengono palesate in tutta la loro potentissima bellezza.
Un disco che riempe e che fa vedere dove dovremmo volgere il nostro sguardo, sia davanti che dietro di noi.
Potenza, tecnica e grandiosità.

TRACKLIST
1.Spirit Of Kusoto
2.Red Snow
3.Me Or Him
4.Land Of The Fearless Birds
5.The Blood Libel
6.Narčat
7.Virgo Mitt
8.Chokk Kapper (Bonus Track)
9.Narčat (Demo Version, Bonus Track)

LINE-UP
Vladimir Lehtinen
Theodor Borovski
Aleh Zielankievič

SECOND TO SUN – Facebook

An Argency – Through Existence

I già ottimi An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.

Se c’è qualcosa che mi mette di buon umore è la constatazione che, in ogni parte del mondo, ci sono sempre dei ragazzi che hanno voglia di esprimersi attraverso un veicolo meraviglioso come la musica.

Se poi questa racchiude la rabbia, l’urgenza, la freschezza e, perché no, anche l’ingenuità di un gruppo di imberbi giovanotti di Minsk, beh, tanto meglio.
Gli An Argency ti spiazzano fin dalle foto promozionali: se ascolti il loro disco senza conoscerne le sembianze pensi di imbatterti in rudi e cattivissimi esseri barbuti e capelluti, pronti a sfasciare qualsiasi locale in cui abbiano suonato per vendicarsi della scarsa quantità di birre messe a loro disposizione.
Ma, come ben sappiamo, l’abito non fa il monaco, ed il volto pulito dei nostri è ingannevole quanto mai, infatti Through Existence è una mazzata assestata tra capo e collo dalla quale ci si riprende a fatica: collocabile da qualche parte a cavallo tra Fear Factory e Meshuggah, volendo citare i nomi più noti, senza dimenticare il lato più estremo di band geniali quanto misconosciute come Xanthochroid e Mechina, il sound degli An Argency non fa sconti ed in mezz’ora rielabora e scarica tutto ciò che di spiacevole i ragazzi bielorussi hanno evidentemente già fatto tempo ad assimilare nella loro ancor breve esistenza.
Una durata giusta, anche se apparentemente breve, perché le tracce sono tutte intense quanto “piene” e l’ascolto di sicuro non rivela agevole; si diceva delle poche ingenuità, che possiamo individuare in qualche passaggio leggermente manieristico a base di metalcore tout court o qualcun altro in cui una certa anima djent prende il sopravvento, facendo calare un’intensità che, nella stragrande maggioranza della durata del lavoro, si mantiene a livelli spasmodici, con picchi rinvenibili nel singolo An Empty Shell, nella eccellente Condemned e nella conclusiva Torturer.
Sorpresa tra le più belle degli ultimi tempi, gli An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.
L’album è reperibile per ora sulle più note piattaforme digitali, ma direi che la band bielorussa è già ampiamente pronta per finire sotto l’egida di qualche label che abbia voglia di puntare ad occhi chiusi su gioventù, freschezza e talento da vendere.

Tracklist:
1.Above The Ashes
2.Torturer
3.An Empty Shell
4.False Recognitions
5.Condemned
6.Sheltered
7.A Place To Rest
8.My Solace
9.The Final Conclusion
10.Torturer

Line-up:
Vitaut Kashkurevich – Guitar
Ilya Miroshnichenko – Vocals
Zhenya Buyak – Guitar
Dmitry Romanenko – Drum
Roman Voronkevich – Bass

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TesseracT – Polaris

Una band di levatura superiore ma che non incide come potrebbe, esibendo solo ad intermittenza abbacinanti lampi di classe e preferendo per lo più specchiarsi nella propria perfezione formale.

Se non mi unisco ai peana che sento levarsi da più parti riguardo a quest’ultimo disco dei TesseracT non è perché mi piaccia fare il bastian contrario, per partito preso o per innescare chissà quale dibattito solo per ottenere qualche contatto in più.

Niente di tutto ciò, semplicemente penso che, in fondo, una recensione sia solo l’articolazione più completa di un’opinione e, in quanto tale, è del tutto soggetta ai gusti ed alle preferenze di chi scrive.
Sull’altro piatto della bilancia c’è invece l’oggettività, alla quale non ci si può sottrarre per onestà intellettuale, che mi obbliga ad affermare con convinzione che i TesseracT sono un ottima band, capace di portare a scuola decine di altri gruppi grazie alla tecnica indiscutibile esibita nel corso della loro ultradecennale carriera e che non viene certo meno in questo ultimo Polaris.
Il problema è che un sottogenere come il djent, che i nostri hanno contribuito in maniera decisiva a far crescere e prosperare esasperando all’ennesima potenza il lato tecnico e dissonante del prog metal, è piuttosto lontano dalla mia idea di musica fin dai suoi presupposti fondamentali.
Il risultato che ne scaturisce è, infatti, una perfetta e talvolta piacevole esibizione di virtuosismo musicale, senz’altro meno scontato rispetto ad altri esponenti del genere, ma ugualmente prevedibile a lungo andare.
Peccato, perché la proposta dei TesseracT funziona benissimo proprio quando emerge una vena che riporta ai Porcupine Tree e in genere al neo progressive albionico, costretta però a convivere con queste pulsioni di metallo iper-tecnico che, almeno a me, restituiscono solo una certa freddezza.
Le aperture melodiche di brani come Hexes, Tourniquet, Phoenix e della splendida Seven Names mostrano le stimmate di una band di levatura superiore ma che non incide come potrebbe, esibendo solo ad intermittenza abbacinanti lampi di classe e preferendo, per lo più, specchiarsi nella propria perfezione formale
Il ritrovato Daniel Tompkins è effettivamente un magnifico vocalist e il suo contributo si rivela fondamentale per le sorti di un album che è rivolto a chi apprezza più la tecnica del cuore finendo per risultare, quindi, musica per musicisti, i quali sono naturalmente facilitati nel godere appieno di lavori di questa fatta.
Almeno questo è il mio parere, quello di un appassionato soprattutto di generi che antepongono il pathos e le emozioni a tutto il resto; tenetene conto nel leggere queste righe, perché in fondo molti tra voi probabilmente riterranno invece Polaris un album eccezionale, con più di qualche “oggettiva” buona ragione.
I’m sorry, it’s not my cup of tea …

Tracklist:
1. Dystopia
2. Hexes
3. Survival
4. Tourniquet
5. Utopia
6. Phoenix
7. Messenger
8. Cages
9. Seven Names

Line-up:
Acle Kahney – Guitar
James Monteith – Guitar
Jay Postones – Drums
Daniel Tompkins – Vocals
Amos Williams – Bass

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