Viene confermata l’impressione di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere.
Il secondo album dei finnici Kuolemanlaakso arriva dopo un ep di recente uscita (Musta Aurinko Nousee) del quale abbiamo parlato qualche mese fa su queste pagine .
Il lavoro su lunga distanza conferma l’impressione ricavata in tale circostanza, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere, e questo pur potendo annoverare in formazione uno come Mika Kotamaki, vocalist dei Swallow The Sun, il che farebbe presupporre sonorità in qualche modo ricondicibili a quella band.
In realtà croce e delizia del disco è la relativa disomogeneità della proposta che, se da un parte ha il pregio di mostrare diverse sfaccettature stilistiche, dall’altra tenta con qualche difficoltà di far convivere all’interno del lavoro brani tra di loro agli antipodi come per esempio la rocciosa opener Aarnivalkea e la discutibile “swing-doom” Glastonburyn Lehto.
La stessa Me vaellamme yössä, che avevamo già trovato in apertura di “Musta Aurinko Nousee” in versione “edit”, in questa sua veste integrale si conferma canzone di sicuro impatto e dal buon potenziale commerciale, ma inserita tra la pesantezza dei riff delle ottime Verihaaksi e Arpeni finisce per apparire persino come un brano troppo “leggero”.
Ma, a conti fatti, se escludiamo la sola Glastonburyn Lehto, eccessivamente fuori dagli schemi per poter essere realmente apprezzata, Tulijoutsen è decisamente un buon disco che oltre ad avvalersi delle sempre efficaci vocals di Kotamaki mette in luce le eccellenti doti compositive di Laakso, in grado di produrre brani convincenti sia quando calca la mano sul versante più cupo e intimista (Arpeni) sia quando riesce a trovare un equilibrio ideale tra la robustezza del sound e le aperture melodiche, come avviene nella conclusiva Tuonen Tähtivyö, impreziosita anche da una gradevole voce femminile. Kuolemanlaakso si rivela quindi un disco meritevole di attenzione, per quanto non troppo accessibile in tempi brevi in particolare per il ricorso alla lingua madre in sede di stesura dei testi; la sensazione è però quella che Laakso stia ancora testando sul campo la resa effettiva del suo progetto, come farebbe pensare l’elevata frequenza delle uscite (due full-length e un Ep) in un lasso di tempo relativamente breve.
Tracklist:
1. Aarnivalkea
2. Verihaaksi
3. Me vaellamme yössä
4. Arpeni
5. Musta
6. Glastonburyn lehto
7. Tuonen tähtivyö
Per entrambe le band ci troviamo probabilmente di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.
Chi pensa che gli split album siano tutto sommato operazioni trascurabili nel complesso della discografia di una band, pur non avendo del tutto torto a livello di principio, viene nell’occasione smentito da questo Immortal In Death, che vede alle prese, con un brano ciascuno, una sorta di internazionale del doom come gli Aphonic Threnody e gli emergenti georgiani Ennui.
Del resto, tre quarti d’ora di musica racchiusa in sole due tracce testimoniano quanta carne al fuoco ci sia all’interno di questo ottimo lavoro all’insegna del funeral-death doom più cupo e malinconico.
Lo split si apre con i venti minuti di Ruins, ad opera degli Aphonic Threnody, band che racchiude musicisti piuttosto noti nella scena quali l’inglese Riccardo V. (Dea Marica, Gallow God), gli italiani Roberto M. e Marco Z. (Dea Marica, Urna), il belga Kostas P. (Pantheist, Wijlen Wij) e l’ungherese Abel L..
Mai come in questo caso, l’unione di queste ottime individualità produce una somma di valori adeguata alle attese, regalando un brano eccellente che va a collocarsi oltre il livello standard raggiunto con le già quotate band di provenienza: Ruins risulta una vera e propria summa di tali esperienze con la quale, aderendo in toto ai dettami della scuola britannica, gli Aphonic Threnody fanno propria la lezione intrisa di decadente lirismo impartita un ventennio fa dai My Dying Bride, rielaborandola con la necessaria competenza ed ottenendo un risultato per certi versi inatteso, tale è il coinvolgimento prodotto da questo brano, capace di crescere in maniera esponenziale fino ad esaltare le caratteristiche peculiari del genere in un finale magnifico.
La traccia proposto dagli Ennui, Hopeless, ci consente di mettere a confronto una scuola più consolidata con quella di recente tradizione dell’area ex-sovietica: il duo georgiano composto da David Unsaved e Serj Shengelia ha all’attivo due album di recente uscita, “Mze Ukunisa” del 2012 e “The Last Way” del 2013, entrambi di ottima fattura e capaci di imporli immediatamente all’attenzione degli appassionati.
Rispetto ai compagni di avventura gli Ennui accentuano maggiormente l’aspetto malinconico della composizione, lasciando che il costante connubio tra la chitarra solista ed il growl profondo di David dipinga uno scenario di immane disperazione; il risultato è brano lungo quanto intenso e in grado di sprigionare emozioni a getto continuo, ale quale è pressoché impossibile restare indifferenti.
Ecco spiegato il motivo per il quale vale la pena di attribuire a questo split, pubblicato dall’etichetta russa GS Production, la stessa dignità di un full-length, non solo per la sua ragguardevole durata complessiva ma soprattutto per la qualità immessa da Aphonic Threnody e Ennui nei due brani spingendomi ad affermare che, per entrambe le band, ci troviamo di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.
I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.
L’album d’esordio dei varesini Fuoco Fatuo si presenta all’insegna del death-doom più rigoroso e incontaminato, una scelta stilistica invero non troppo diffusa dalle nostre parti.
The Viper Slithers in the Ashes of What Remainsinfatti, riesce nell’impresa di amplificare nel contempo sia l’esasperante lentezza del doom sia la sorda violenza del death: il risultato è uno spaventoso monolite sonoro di oltre cinquanta minuti, capace di afferrare alla gola i malcapitati ascoltatori trascinandoli nei suoi gorghi e spingendoli sempre più in basso, fino a quegli abissi mai lambiti da un barlume di luce e popolati da creature mostruose, simili a quelle che popolavano i visionari racconti di Lovecratf.
Avevamo lasciato il trio lombardo alle prese con un ep, “33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero”, che ne aveva messo in luce le indubbie potenzialità, vedendoli spaziare da una base solidamente doom, ora verso sfumature sludge ora di matrice dark ambient, senza disdegnare l’uso di un hammond capace di imprimere al sound un indubbio fascino; poco più di un anno dopo la direzione musicale appare molto più chiara e, mai come in questo caso, la compattezza stilistica a scapito di una certa versatilità si rivela paradossalmente essere più un vantaggio che non un limite.
I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.
Le rare accelerazioni, dai rimandi black, non vanno ad intaccare un quadro d’insieme che, per esemplificare al massimo, potrebbe ricordare sia una versione a 16 giri degli opprimenti Morbid Angel di “Covenant” sia, soprattutto, un’ulteriore estremizzazione del già pesante death-doom dei maestri statunitensi Evoken; una nera colata di note che non lascia speranze di salvezza alle anime dannate, pervicacemente percosse da una tale ottundente violenza.
Ascoltate The Viper Slithers in the Ashes of What Remainscome se fosse composto da un’unica traccia, ad un volume confacente ai biechi intenti dei Fuoco Fatuo, lasciandovi definitivamente seppellire da una lavoro dannatamente coinvolgente pur nella sua apparente linearità.
Tracklist:
1. Ancestral Devouring Anxiety
2. Junipers of Black Iridescence
3. Inner Isolation in a Sea of Mist
4. Eternal Transcendence into Nothingness
5. Requiem for Nulun
Quattro anni rispetto alla precedente uscita non sono passati invano portando al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.
Quando, nel 2010, i greci Shattered Hope pubblicarono il loro album d’esordio intitolato “Absence”, non tutta la critica fu concorde nel riconoscervi i prodromi di un’esplosione definitiva di quel potenziale, allora solo parzialmente dimostrato, convogliato in questo magnifico Waters Of Lethe.
In effetti, il lavoro d’esordio mostrava una band dal songwriting piuttosto lineare e, tutto sommato, orientato ad un death-doom pesante il giusto ma contenente pur sempre ampi squarci melodici, decisamente apprezzabile quindi, per quanto non ancora sufficiente a collocare il combo ateniese ai vertici del doom estremo. Waters Of Lethe dimostra, invece, quella crescita che appariva ineluttabile quasi si trattasse di un disegno delle divinità dell’Olimpo: gli ottanta minuti di opprimente e plumbeo dolore tradotto in musica spostano in maniera netta le coordinate sonore sul versante funeral, senza che per questo motivo la componente melodica venga messa in secondo piano.
Visti dal vivo lo scorso anno in quel di Romagnano nella loro unica apparizione italiana di fronte a pochi e fortunati intimi, gli Shattered Hope erano chiaramente quelli che, tra le band presenti, esibivano il suono meno immediato, più profondo eppure ricco di fascino, capace di lasciare allo spettatore il piacere di trovare la giusta chiave di lettura per assaporarne pienamente l’amaro calice musicale .
Con queste premesse l’attesa per il nuovo album era sicuramente giustificata e fortunatamente non è stata tradita, a conferma del fatto che questi quattro anni sono stati un periodo senz’altro lungo ma necessario per portare al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica. Waters Of Lethe prende l’avvio con Convulsion, brano caratterizzato da una struggente parte finale che mostra però, a tratti, un sound leggermente più aggressivo rispetto a quello che verrà proposto nel resto del lavoro; ma appare evidente che, dopo questa eccellente prova di forza di oltre dodici minuti, quello che ci attende è un viaggio agli inferi lento, terribile, opprimente e pregno di disperazione, ovvero tutto ciò che chi ama il funeral desidera ascoltare.
La successiva For the Night Has Fallen è, infatti, un classico brano nel quale le armonie chitarristiche si snodano in maniera ottimale su una struttura più tradizionalmente devota ai maestri My Dying Bride, mentre My Cure Is Your Disease va a rievocare le partiture bradicardiche degli Worship del brano capolavoro “All I Ever Knew Lie Dead” arricchendole di un relativo dinamismo e di un più spiccato gusto melodico, per un risultato finale splendido.
La bellezza di questo disco è riscontrabile anche nella sua costante progressione qualitativa che trova il suo apice in Obsessive Dilemma, traccia nella quale la chitarra dipinge desolanti affreschi sonori che vanno ad intrecciarsi con un growl cangiante ed espressivo.
Un lavoro già ampiamente al di sopra della media va a chiudersi con due tracce dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora che risultano nel contempo le più complesse del lotto, ma capaci di svelare sempre più il loro fascino dopo ogni ascolto: certo, i cinque minuti di funeral integralista collocati nella coda di Aletheia contribuiscono ad appesantire di molto l’ascolto, quasi a voler controbattere la relativa orecchiabilità della sua parte centrale, ma costituiscono pure un ideale viatico alle atmosfere sublimi poste ad introduzione della conclusiva Here’s To Death, lunghissima litania dai tratti delicati quanto funesti capace di uguagliare i miglior Esoteric e Mournful Congregation.
Come già ripetuto più volte in frangenti analoghi, il recente Canto III degli Eye Of Solitude, spostando ulteriormente in alto lo standard qualitativo del genere, si pone nel presente come ingombrante termine di paragone per chi voglia cimentarsi in questo medesimo terreno: ebbene, al riguardo si può dire che nessuno come gli Shattered Hope sia riuscito finora ad avvicinarsi alla magnificenza della band londinese, rispetto alla quale il sestetto greco risulta appena inferiore solo per l’impatto drammatico, essenzialmente a causa di una minore enfasi, conferita in quel caso dall’imponente lavoro delle tastiere che, invece, in Waters Of Lethe, svolgono un elegante quanto discreto lavoro di accompagnamento lasciando principalmente alle chitarre il compito di sviluppare armonie splendide quanto malinconiche.
Ma non c’è dubbio sul fatto che questo lavoro rappresenti un’ideale summa di quanto prodotto dal pantheon del funeral death-doom negli ultimi vent’anni, andando non solo a rimodellare con una rilettura del tutto personale quanto già fatto da chi ha scritto la storia del genere, ma riuscendo persino ad eguagliarne l’intensità e il pathos.
Tracklist:
1. Convulsion
2. For the Night Has Fallen
3. My Cure Is Your Disease
4. Obsessive Dilemma
5. Aletheia
6. Here’s to Death
I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
Il sound della band, infatti, appare incentrato sull’ottimo lavoro alle tastiere del leader Janne Kielinen, ma va detto che lo strumento non finisce per debordare come sovente avviene in simili frangenti, lasciando invece il giusto spazio anche al resto della strumentazione.
Proprio l’accentuato gusto melodico è ciò che più piace in Fields Of Nihilism: i quattro brani sono decisamente scorrevoli e, in fondo, se non ci fosse il growl di Jarko Rintee ad incattivire e conferire morbosità al songwriting, l’Ep resterebbe stabilmente ancorato ad atmosfere potenzialmente fruibili anche per ascoltatori non necessariamente avvezzi al genere.
Molto azzeccato tra gli altri, il tema portante di Homeless, ma un pò tutti i brani sono disseminati di passaggi emozionanti, avvincenti, spesso accostabili alla solennità di certe colonne sonore (Battle with the Bottle ) ed eseguiti in maniera eccellente dal punto di vista tecnico.
Peccato solo che il tutto si esaurisca in poco più di venti minuti, ma chi volesse, in attesa di un nuovo album, può andarsi tranquillamente a riscoprire il precedente full-length “Adagio in Self-Destruction” senza correre il rischio di restarne deluso.
Davvero bravi i Wraithmaze, i quali, pur senza reinventare la ruota, mettono sul piatto un lavoro affascinante e di grande sostanza, ideale viatico ad un auspicabile prossimo album.
Tracklist:
1. Shrine of the Unwanted
2. Homeless
3. Battle with the Bottle
4. Funeral Autumn
Line-up :
Janne Kielinen – Guitars, Keyboards
Jarkko Rintee – Vocals
Jan Siekkinen – Guitars
Lord Angelslayer – Bass
Il secondo album della band belga alterna momenti eccellenti ad altri piuttosto opachi, per un risultato complessivo soddisfacente ma non esaltante.
A sette anni dal disco d’esordio ritornano i doomsters belgi Wijlen Wij, progetto che vede coinvolto Kostas Panagiotou, conosciuto anche come leader dei più noti Pantheist.
Coronachs of the Ω esce per la Solitude, autentico marchio di garanzia per il funeral death doom e tutto sommato, anche in questo caso, tale assunto non viene smentito nonostante l’operato del trio belga sia caratterizzato da diversi alti e bassi.
L’opener … boreas apre le danze invero come meglio non si potrebbe, grazie alle sue sonorità devote ai migliori Skepticism, in virtù soprattutto del timbro tastieristico scelto da Kostas: il brano è decisamente evocativo, trascinante, dotato anche di un relativo dinamismo, con uno splendido break pianistico centrale, insomma possiede tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un disco del genere; la seguente Die Verwandlung rallenta di molto l’andatura alternando a buoni spunti chitarristici quella staticità del sound che la sua notevole lunghezza non contribuisce certo a migliorare, caratteristica, questa, che si accentua in maniera ancor più evidente in Laying Waste to the City of Jerusalem, autentica mattonata priva di qualsiasi sbocco melodico che rischia pericolosamente di affossare un lavoro nato invece sotto i miglior auspici.
Fortunatamente A Solemn Ode to Ruin…, accostabile per sonorità ai vicini di casa olandesi Officium Triste, pur essendo anch’essa un pò troppo dilatata, rimette le cose a posto mostrando atmosfere sufficientemente cariche di pathos, e la conclusiva From the Periphery è un’altra traccia decisamente riuscita con il proprio andamento dolente e malinconico. Coronachs of the Ω è in assoluto un buon disco, che gli amanti del genere apprezzeranno senz’altro anche se, al termine dell’ascolto, resta il rammarico di non aver potuto ascoltare un lavoro nel complesso qualitativamente all’altezza della traccia di apertura, e il motivo può dipendere da vari fattori: il growl del volenteroso Lawrence Van Haecke si rivela adeguato solo al’interno delle tracce migliori, mentre appare troppo piatto per risultare incisivo quando deve assumere suo malgrado un ruolo di primo piano come in Laying Waste to the City of Jerusalem (non male invece, nel complesso, le clean vocals); la produzione non fa molto per smussare qualche imperfezione che affiora qua è là e, in particolare, non viene valorizzato al meglio il suono della chitarra solista, capace sovente di brillanti intuizioni melodiche.
In fin dei conti la sensazione che si trae dall’ascolto di Coronachs of the Ωè che i Wijlen Wij siano l’altra faccia della medaglia dei Pantheist: tanto resta radicato nella tradizione il sound dei primi, conservando quell’alone vintage che può avere un suo fascino ma pure apparire irrimediabilmente datato, quanto è stata spinta forse all’eccesso dal buon Kostas l’evoluzione stilistica dei secondi finendo per spingerli ben oltre i confini riconosciuti del doom più canonico.
In mezzo resta un territorio sufficientemente vasto per essere ulteriormente esplorato con successo da diverse band e non ci sono dubbi sul fatto che tra queste possano esserci in futuro anche i Wijlen Wij.
Tracklist:
1. …boreas
2. Die Verwandlung
3. Laying Waste to the City of Jerusalem
4. A Solemn Ode to Ruin…
5. From the Periphery
Line-up :
Kris Villez – Drums
Kostas Panagiotou – Guitars, Keyboards
Lawrence van Haecke – Vocals
La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.
Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.
Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.
Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Altro ottimo prodotto sfornato dalla sempre prolifica, anche dal punto di vista qualitativo, Solitude Prod.
Stavolta tocca ai bielorussi Woe Unto Me ad essere portati alla ribalta della scena doom europea: la band, condotta dall’eccellente Artyom Serdyuk, viene descritta come dedita al funeral doom ma è evidente, sin dalle prime note, quanto l’approccio sia decisamente più intimista, quasi soffuso a tratti, senza che il senso di palpabile malinconia che contraddistingue il genere venga comunque in qualche modo scalfito. A Step into the Waters of Forgetfulnessè in effetti un lavoro che si discosta, pur senza snaturarsi, dalla coordinate classiche del funeral, proprio perché gli Woe Unto Me optano per composizioni lunghe come da copione che mettono però in risalto particolarmente il riuscito connubio tra le clean vocals dell’ottimo Sergey Puchok e le partitura acustiche, sempre contraddistinte da una certa eleganza di fondo.
L’uso delle voci è davvero il valore aggiunto del lavoro : il growl di Artyom è centellinato il giusto ritagliandosi il ruolo di adeguata spalla alla timbrica evocativa di Sergey (in certi frangenti accostabile ad un Eric Clayton meno enfatico), e lo stesso avviene con il controcanto femminile che ha per lo più un compito di supporto. Tutto ciò si realizza nel migliore dei modi nella traccia finale, la lunga e drammatica Angels To Die, che rappresenta, tra tutti, l’episodio più rispondente all’etichetta associata alla band, mentre i primi tre brani vivono ancor più invece sull’apporto decisivo di suggestioni acustiche, specie l’iniziale Slough Of Despond, che prende avvio con tonalità cristalline prima di abbandonarsi alle più consuete ritmiche funeree.
Il valore indiscutibile di un lavoro come A Step into the Waters of Forgetfulness risiede proprio nella volontà dei ragazzi bielorussi nel cercare con continuità una via maggiormente personale per esprimere il proprio mood malinconico senza cadere con entrambi i piedi nei, comunque graditi, clichè del genere.
Un’operazione che riesce pienamente grazie alle indubbie doti tecniche esibite dal combo di Grodno: evidentemente, nonostante questo disco sia di fatto un esordio su lunga distanza, denota sicuramente un percorso musicale tutt’altro che banale compiuto dai singoli musicisti prima di cimentarsi in quest’opera.
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Gran bel lavoro e altra graditissima sorpresa, è sempre un piacere rischiare di apparire ripetitivi ogni qual volta ci si trovi a lodare sperticatamente le doom band provenienti dal nordest europeo …
Tracklist:
1. Slough of Despond
2. The Gospel Reading
3. Stillborn Hope
4. 4
5. Angels to Die
Line-up :
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Sergey Puchok – male clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
Julia Shimanovskaya – female clean vocals
I Deadly Carnage ci regalano un lavoro maturo, che trasuda di umori antichi senza per questo apparire obsoleto, in virtù di una rara sensibilità compositiva.
Se è vero che invecchiando si imprimono maggiormente nella memoria i ricordi del passato, più o meno remoto, rispetto ad avvenimenti cronologicamente più vicini, allora non c’è da stupirsi se l’ascolto di Manthe mi ha riportato, a livello di sensazioni, alla fine del secolo scorso.
Era il 1999 quando una delle band più oscure che il sottobosco metal italiano abbia mai partorito, i Cultus Sanguine, pubblicavano il loro capolavoro “The Sum Of All Fears” prima di sparire nel nulla, lasciando negli appassionati quel senso di vuoto che così bene veniva evocato dalla loro musica. Molta acqua è passata sotto i ponti e altrettanti dischi sono transitati attraverso questi usurati padiglioni auricolari ma, solo oggi, ho ritrovato qualcuno in grado di farmi provare quello stesso tipo di emozioni. I riminesi Deadly Carnage, al loro terzo full-length, sono gli artefici di tutto questo ma, attenzione, è appunto di sensazioni che si sta parlando, quindi non bisogna fare l’errore di considerare Manthe solo alla stregua di un omaggio tardivo ad una band del passato. E’ indubbio, però, che la comune struttura compositiva, un black doom caratterizzato da atmosfere drammatiche, rende plausibile un tale accostamento, ulteriormente accentuato sia dall’azzeccata scelta di ricorrere ad un produzione capace di rinunciare a qualsiasi abuso di carattere tecnologico, sia dallo screaming aspro e diretto di Marcello che riposta direttamente a quello che fu di Fergieph. Un disco, questo, che ci consegna una band capace di proporre cinquanta minuti scarsi di musica dall’enorme impatto emozionale, priva di riempitivi o di momenti che non siano funzionali all’esito finale: brani meravigliosi come Dome of the Warders, post-black che sconfina nel finale in un progressive malinconico, e Carved in Dust, dalla ritmica avvolgente e il pathos spinto a livelli parossistici, sono i momenti più alti della prima parte del lavoro. La conclusione, affidata una splendida traccia come la lunga title-track, nella quale non viene tralasciato alcun umore, passando dal doom tout-cort a un lavoro chitarristico che rimanda alla pietra miliare “Gothic”, per finire lasciando spazio ad alcune sperimentazioni per nulla stucchevoli, non deve far dimenticare anche un altro episodio significativo quale Il Ciclo Della Forgia, cantato in italiano e nel quale, a differenza di quanto accade spesso in occasioni analoghe, viene scongiurato abilmente il rischio di infarcire il testo di banalità purtroppo comprensibili a tutti … I Deadly Carnage ci regalano un lavoro maturo, che trasuda di umori antichi senza per questo apparire obsoleto, in virtù di una rara sensibilità compositiva; Manthe non è un’opera di facile ascolto, infatti sono necessari diversi passaggi prima di poterne cogliere appieno l’essenza e non è detto ugualmente che ciò sia alla portata di tutti, ma riuscire ad entrarvi in sintonia può offrire la possibilità di assaporare pienamente un altro piccolo gioiello musicale partorito dalla nostra vituperata nazione.
Tracklist:
1. Drowned Hope
2. Dome of the Warders
3. Carved in Dust
4. Beneath Forsaken Skies
5. Il Ciclo della Forgia
6. Electric Flood
7. Manthe
Line-up :
Adres – Bass
Marco – Drums, Percussion
Marcello – Vocals
Dave – Guitars
Alexios – Guitars, Synths
Stoner doom annichilente, per il secondo bellissimo album della band toscana.
Come il lento discendere della lava dal pendio di un vulcano che inesorabilmente travolge ogni cosa al suo passaggio: questa è la sensazione primaria data dal secondo album dei fiorentini Gum, combo che suona uno stoner-doom apocalittico, inesorabile nel suo lento incedere, rabbioso e sofferto nella voce di una vittima travolta dalla lingua di fuoco.
Con sette jam che impressionano per maturità compositiva, i ragazzi toscani, forti di un songwriting eccezionale e compatti come un monolite, vanno a scomodare le migliori band del genere mantenendo però una propria e ben salda personalità.
Attivi dal 2006, dopo un paio di demo e un Ep, nel 2013 arrivano all’esordio su lunga distanza con “Agua Caliente”, bissato all’inizio di quest’anno da questo macigno sonoro che non lascia prigionieri, dalla tensione altissima; doom malato e ossessivo, alienato da una disperazione di fondo annichilente.
Un sound che trae spunto dagli Eyehategod, dallo stoner desertico dei Kyuss che appare in più di una occasione, consolidato nella bellissima title-track, il brano dalla ritmica più varia nel quale la band dimostra di saperci fare e non poco con gli strumenti e, ancora, più di un accenno ulteriormente appesantito anche a quel trip allucinato che fu il capolavoro “Sleep’s Holy Mountain”, capace oltre vent’anni fa di superare qualsiasi canone del genere.
La voce è sempre tarata su uno screaming che al primo ascolto potrebbe risultare monocorde ma che è invece l’elemento in più in grado di caratterizzare la musica di una band che non cede a qualsivoglia facile melodia.
I brani sono uno più bello dell’altro ma, oltre alla già citata title-track, a mio parere I’m The Universe, Crop Circle e la conclusiva Water sono capolavori stoner doom che vanno ad affiancarsi tranquillamente ai brani più riusciti dei maestri del genere.
Un altro grande album tutto italiano, che arriva dopo l’immenso lavoro degli Elevators To The Grateful Sky, due autentici must per il genere!
Tracklist:
1. Atomic God
2. But Woman Monkey
3. I’m the Universe
4. Children of Pripyat
5. Ferner & Cola Blues!
6. Crop Circle
7. Water
Line-up:
Boss – Vocals,bass
Gre – Guitar
Ambash – Guitar
Capitano – Drums
Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al funeral come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.
Belial (Ivan Manzano) è un musicista spagnolo che, con il monicker Dom, ha già all’attivo due full-length di realizzazione piuttosto recente.
Questa sua nuova uscita avviene invece nel formato dell’Ep, di lunghezza comunque considerevole visto che la sua durata sfiora la mezz’ora. Dom, non solo per l’assonanza, viene considerato un progetto funeral doom, anche se tale etichetta può apparire parzialmente fuorviante: le composizioni di Belial, integralmente strumentali, sono basate essenzialmente sulle note del pianoforte che, grazie ad un indubbio gusto melodico, guida la musica per lo più su lidi ambient, e della chitarra che sovente si lascia andare in progressioni non del tutto scontate.
Nulla a che vedere quindi, sia con la versione più claustrofobica sia con quella più avvolgente e malinconica del genere: Dom Vampyr, pur mantenendo le connotazioni cupe del funeral, non ne possiede né la ritmica bradicardica nè la pulsione drammatica.
Detto questo, i tre brani si rivelano piuttosto validi e per certi versi differenti tra loro: la lunga opener A Modern Prometheus mostra il lato più sperimentale di Belial il quale, partendo da umori quasi jazzistici si lancia in una fase centrale piuttosto vivace per approdare infine ad una chiusura all’insegna di ritmiche asfissianti. Les Avaleuses prende vita con una forte impronta Skepticism, dovuta ad un timbro simile delle tastiere, per poi lasciare spazio al consueto contenuto pianistico poggiato su spunti compostivi accostabili agli Ea.
L’episodio senza dubbio migliore e più caratterizzante è, però, The Tomb Of Ethelind Fionguala, traccia che, paradossalmente, tra tutte è proprio quella che meno ha a che vedere con il funeral: una bel giro di piano viene ripetuto per l’intero brano prima da solo, poi con l’ingresso delle tastiere finchè, attorno alla metà del brano, la chitarra solista si prende il proscenio liberandosi in uno splendido assolo di stampo classico. Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al genere come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.
Tracklist:
1. A Modern Prometheus
2. Les Avaleuses
3. The Tomb Of Ethelind Fionguala
Gli ateniesi Allochiria ci rovesciano addosso una cinquantina di minuti di rabbia controllata a base di un post-metal/sludge dalla qualità sorprendente, capace di mettere in fila molte delle uscite succedutesi nel settore negli ultimi tempi.
Gli ateniesi Allochiria ci rovesciano addosso una cinquantina di minuti di rabbia controllata a base di un post-metal/sludge dalla qualità sorprendente, capace di mettere in fila molte delle uscite succedutesi nel settore negli ultimi tempi.
Attivi da circa un quinquennio e con all’attivo un solo Ep autointitolato risalente al 2010, il gruppo ellenico fa il suo esordio su lunga distanza con Omonoia, autentico gioiellino privo di punti deboli, composto e suonato con un’urgenza ed una freschezza raramente riscontrabile. Capaci di passare con estrema fluidità da momenti costituiti da liquide aperture di matrice post-metal a sfuriate di caliginoso sludge, il tutto amalgamato da sapienti intervalli atmosferici, gli Allochiria affascinano e catturano con questa alternanza di stati d’animo, ben rappresentata dall’opener Today Will Die Tomorrow, che si apre con una citazione colta tratta da Wiliam S.Burroughs recitata su base acustica da una voce femminile, quella stessa che, protagonista la bravissima Irene, negli ultimi due minuti del brano e nel resto del disco aggredisce senza pietà i nostri padiglioni auricolari, vomitando tutta la frustrazione ben riassunta in un titolo come quello che chiude l’album, Humanity Is False (brano nel quale i nostri, peraltro, riescono a veicolare, sia pure in maniera trasfigurata, aromi musicali tipicamente mediterranei). Anche se fioccheranno in sede di recensione gli inevitabili accostamenti con Neurosis, Pelican e compagnia, funzionali comunque a descrivere il sound che caratterizza Omonoia, scordatevi lo sterile senso di impotenza e di incompiutezza che non di rado attanaglia le uscite di questo genere: gli Allochiria hanno molto da dire, e lo fanno con la personalità che appartiene solo ai grandi; se il talent scout di qualche label avesse intenzione di reperire qualche band emergente sulla quale puntare seriamente per il prossimo futuro, rivolga allora il proprio sguardo verso quella Grecia dove, evidentemente, la crisi economica, così come negli altri paesi dell’area mediterranea, sembra aver provocato per contrasto la crescita e lo sviluppo di nuove espressioni artistiche, musicali e non.
Tracklist:
1. Today Will Die Tomorrow
2. Oppression
3. Archetypal Attraction to Circular Things
4. We Crave What We Lack
5. Charikleia’s Intermission
6. K
7. Humanity Is False
Line-up :
Ted P. – Bass
Ilias N. – Drums
John K. – Guitars
Steve K. Guitars
Irene P. – Vocals
Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.
A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.
Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica. Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.
Un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.
La Soulseller Records, dopo il bellissimo disco dei Bloody Hammers, entrato di diritto nella mia top ten del 2013, rilascia nei primi giorni dell’anno nuovo il debut album dei Demon Eye, band del North Carolina, con all’attivo un Ep dello scorso anno dal titolo “Shades Of Black” ,autrice di un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.
Il disco, infarcito di suoni vintage, raccoglie infatti quello che i grandi maestri del suono del destino (Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus, Trouble, Obsessed, Sleep) hanno lasciato in eredità, : qui troverete di che dissetarvi alla fonte del doom, con accenni all’occulto a livello lirico, come il verbo sabbathiano insegna. A rendere il lavoro piacevole magari a chi non è un amante dei suoni pieni e ovattati, classici di questo genere, è la produzione che restituisce un suono pulito, dando risalto al lato hard rock del combo che, nei brani più dinamici, risulta oltremodo convincente. Da Hecate, che apre la danza sabbatica, in poi è un susseguirsi di ottime song, dove i suoni più duri degli anni settanta sono interpretati dalla band con ottimo piglio, non cadendo mai nel tranello stoner, ma mantenendo una linea guida per tutta la sua durata. Shades Of Black,Song, dall’incedere ritmato, con la chitarra di Larry Burlison, protagonista di un riff trascinante, lascia spazio alla bellissima Secret Sect, dove compaiono accenni all’heavy metal, chiaramente old school; Edge a Knife, altro gran brano, torna su atmosfere più doom, mentre Witch’s Blood, aperta da un riff hard rock, è un classico brano alla Pentagram. Ancora la band di Joe Hasselvander fornisce il suo marchio in Fires Of Abalam, vero manifesto di genere, dove il plauso va al vocalist Erik Sugg, cantore messianico del combo americano. C’è ancora tempo per The Banishing, altro brano che entusiasma per melodie e ritmiche, prima che From Beyond e Silent One chiudano un album davvero molto bello, aiutato da un songwriting elevatissimo, per un ascolto mai noioso, dal buon tiro, suonato da una band preparata.
Tracklist:
1. Hecate
2. Shades of Black
3. Secret Sect
4. Adversary
5. Edge of a Knife
6. Witch’s Blood
7. Fires of Abalam
8. Devil Knows the Truth
9. The Banishing
10. From Beyond
11. Silent One
Line-up
Paul Waltz – bass
Bill Eagen – drums, vocals
Larry Burlison – guitars
Erik Sugg – guitars, vocals
Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.
I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.
Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.
Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.
Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.
Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.
Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.
Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.
Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora. Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.
Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast
Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.
Non posso negare che nell’avvicinarmi a questo Ep sono stato inevitabilmente attratto dalla presenza in line-up di Mikko Kotamäki, ben più noto come cantante degli immensi Swallow The Sun.
Va quindi chiarito ogni tipo di equivoco dicendo subito che, al di là della presenza del vocalist, i tratti comuni tra le due band non sono poi moltissimi, in primis perché qui il songwriting non è ad opera di Juha Raivio bensì di Markus Laakso, chitarrista e tastierista ideatore del progetto (non a caso il monicker della band è costituito parzialmente dal suo cognome).
I Kuolemanlaakso hanno esordito nel 2012 con un buon full-length e questo breve Ep, che consta di quattro brani (una delle quali è una cover), è soprattutto propedeutico al prossimo album previsto in uscita nei primi mesi dell’anno; come detto, il sound, pur potendo essere classificato a buon titolo come death-doom, non ne possiede le caratteristiche specifiche che ci si potrebbero attendere da un band finlandese.
Infatti, nonostante Laakso svolga un ruolo fondamentale con le sue tastiere nei folli symphonic-industrial blacksters Chaosweaver, in quest’occasione relega lo strumento ad un ruolo di semplice accompagnamento lasciando che a parlare siano le chitarre e, ovviamente, la voce di Kotamäki: ciò che ne scaturisce è, pertanto, un songwriting dalle diverse sfaccettature.
La prima traccia, Me Vaellamme Yössä, è quella più orecchiabile e potrebbe essere approssimativamente definibile come una versione più aggressiva degli Amorphis, con una bella linea melodica ed il growl di Mikko a condurre le danze, mentre Tulenväki e Kalmoskooppi sono decisamente meno catchy pur rivelandosi tutt’altro che piatte, privilegiando un impatto sbilanciato sul versante death, e nelle quali il vocalist sfoggia anche il suo caratteristico screaming.
L’ultima traccia potrebbe essere catalogata come la più riuscita, anche se in realtà si tratta della cover di una rock band nota in Finlandia negli anni ‘80, gli Juha Leskinen Grand Slam: Musta Aurinko Nousee, che dà anche il titolo all’Ep, era un bel brano anche nella versione originale, ma i Kuolemanlaakso ne rallentano in maniera notevole l’andatura trasformando il tutto in un episodio dal sapore gothic, con il contributo di un Kotamäki che esibisce un’inedita timbrica alla Peter Steele.
La creatura di Markus Laakso mostra un potenziale interessante e, forse, l’unico ostacolo da superare nell’approccio è proprio l’utilizzo della la lingua madre, anche se mi chiedo se abbia ancora senso nel 2013 porsi delle barriere linguistiche quando ormai esistono diversi strumenti per capire il significato di testi redatti in qualsiasi lingua.
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.
Tracklist:
1. Me vaellamme yössä
2. Tulenväki
3. Kalmoskooppi
4. Musta aurinko nousee
“Evst” va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013
Sino ad oggi, musicalmente parlando, le isole Fær Øer avevano lasciato una traccia tangibile in ambito metal principalmente grazie ai Týr, la cui popolarità si è consolidata nell’ultimo decennio grazie a un solido folk metal.
Ben diverso è quanto proposto dagli Hamferð che, dalla piccola Thorshavn, capitale dell’arcipelago, ci incantano con un death-doom in grado di spiccare sulla concorrenza grazie a diversi elementi innovativi pur senza snaturare in alcun modo le coordinate del genere. Fin dall’opener Evst (che è anche il titolo dell’album) si può constatare che la band opta per uno stile vocale agli antipodi delle abitudini del death-doom più tradizionale: qui il consueto growl è affiancato da una voce stentorea quanto evocativa, il tutto regalatoci magnificamente dal solo Jón Aldará. Chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo disco degli Helllight non avrà potuto fare a meno di notare quanto la resa complessiva di un lavoro di ottima fattura sia stata penalizzata dal tentativo di utilizzare la voce pulita senza possedere una tecnica sufficientemente solida; ciò non accade affatto in Evst, dove la voce di Jón si erge protagonista indiscussa del lavoro, declamando con la giusta enfasi ed il necessario trasporto le liriche rigorosamente scritte in lingua madre. Se nei primi tre brani, che peraltro risplendono per la capacità degli Hamferð di rendere ariosa una materia musicale di norma opprimente, si palesa piuttosto evidente l’impronta degli Swallow The Sun, nel corso dell’album affiora anche una vena folk-prog che conduce i nostri alla composizione di un brano prevalentemente acustico come At jarða tey elskaðu. Sinnisloysi ci riporta ad atmosfere pregne di disperazione, con un predominio del growl sulle clean vocals che risulta però ingannevole, vista l’abilità dei faroeriani nell’imprimere svolte inattese ad un songwriting decisamente più vario rispetto alle altre band impegnate nel settore: nello specifico fa capolino una voce femminile che conferisce una certa solennità al sound, con l’aggiunta di un lavoro chitarristico impeccabile e di grande sensibilità. Dopo oltre mezz’ora di musica dalla grande intensità, la conclusiva Ytst arriva a confermare anche ai più scettici che gli Hamferð non sono certo la classica band capace di azzeccare quei tre o quattro accordi sui quali costruire un intero disco: questa traccia rappresenta lo stato dell’arte del doom-death, con un caleidoscopio di sensazioni capaci di sovrapporsi nel corso di dieci muniti dal raro impatto emotivo, ed è giusto che la pietra tombale su un disco meraviglioso lo ponga la voce di questo cantante in grado come pochi altri di far vibrare le corde dell’anima. Evst va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013 e, a chi ne è rimarrà estasiato, consiglio vivamente di andarsi a ripescare l’altrettanto valido Ep d’esordio “Vilst Er Síðsta Fet”.
Tracklist:
1. Evst
2. Deyðir varðar
3. Við teimum kvirru gráu
4. At jarða tey elskaðu
5. Sinnisloysi
6. Ytst
Line-up : Jón Aldará – vocals
John Egholm – guitar
Theodor Kapnas – guitar
Remi Johannesen – drums
Esmar Joensen – keys
Jenus í Trøðini – bass