Painqirad – Empires’ Sema’yi

Qui tutto ha il suo tempo, la crescita di melodie molto diverse da come le intendiamo è graduale e credibile, portando avanti l’essenziale concetto che ascoltare la musica di popoli diversi fa parte del processo di comprensione della loro cultura.

Nel sottobosco musicale ci sono spesso vere e proprie gemme da scoprire e da cullare, come questo lavoro del multistrumentista Damiano Notarpasquale sotto il nome Painqirad.

Damiano è uno studioso della musica in tutte le sue forme e si è sviluppata in maniera binaria: l’universo metal è sempre stata la sua passione, mente ha portato avanti studi classici musicali al conservatorio studiando inizialmente clarinetto e trombone, per poi avvicinarsi al jazz, al sassofono e alle musiche del mondo, in special maniera quella araba. Questo lavoro è infatti una bellissima dichiarazione d’amore in musica per il mondo e la sue diversità. Damiano si è innamorato della musica araba nel 2014 e la sua seconda tesi di conservatorio è un metodo per trombone per suonare musica araba e turca. Nasce da queste sonorità, unite ad una certa visione del metal, questo disco che è qualcosa di magnifico, un’eruzione musicale, un’unione di stili e di ritmi diversi che si incontrano nel deserto e proseguono ben oltre. Preponderante è la parte della musica araba, che possiede una metrica molto diversa dalla nostra, e che in questo caso viene supportata da intarsi metal molto adeguati. Il disco è stato registrato in soli dieci giorni, ma c’è un lavoro immenso dietro, con una produzione maestosa che ne rende al meglio le atmosfere. Empires Sema’Yj è un disco dall’immaginario potentissimo, trasporta in un futuro, o forse un passato in cui le dune incontravano il silicio, montagne di sabbia da attraversare senza posa, un miraggio nel caldo soffocante del deserto e tanto altro. Damiano riesce a rendere della atmosfere magiche ed uniche, unendo alla perfezione tutte le componenti e facendolo non in maniera fragorosa e caciarona nella quale ci si imbatte altrove in più di un qualche caso. Qui tutto ha il suo tempo, la crescita di melodie molto diverse da come le intendiamo è graduale e credibile, portando avanti l’essenziale concetto che ascoltare la musica di popoli diversi fa parte del processo di comprensione della loro cultura. E qui l’ascolto è ricchissimo, per un risultato unico nel suo genere.

Tracklist
1.Tahmila
2.Saz Temple
3.Nubah No. 10
4.Dunes
5.Allayl Nahawand
6.Taksim
7.Nawakht
8.Iron, Far Away

Line-up
Damiano Notarpasquale – soprano clarinet, G clarinet, alto sax, tenor sax, trombone, ney, zurna, bağlama, algerian mondol, mandolin, keyboards, guitars, bass, bendir, darbuka

PAINQIRAD – Facebook

Shibalba – Psychostasis-Death Of Khat

L’operato dei Shibalba è strettamente consigliato a chi condivide con i tre musicisti la fascinazione esercitata dall’aura mistica delle discipline orientali.

Può stupire il fatto che un’opera come questo Psychostasis-Death Of Khat dei Shibalba sia stata pubblicata da una label come la Agonia Records che, normalmente, è dedita a generi estremi come black o death, visto che qui siamo in presenza invece di un’ambient dark trance, meditativa e sciamanica (citando letteralmente la scheda di presentazione).

L’apparente scollamento trova una sua spiegazione nel dato che due dei tre musicisti coinvolti nel progetto sono attivi da anni nell’ambito del black metal, trattandosi di Acherontas V.Priest, leader degli ellenici Acherontas, e Karl NE/Nachzehrer, che ha guidato fino allo scorso anno gli ormai disciolti svedesi Nåstrond; ai due si aggiunge il meno conosciuto Aldra-Al-Melekh.
Del resto non è neppure così infrequente l’incursione di musicisti dal background estremo in territori sperimentali, così come abbastanza spesso i risultati sono più che soddisfacenti; quella degli Shibalba è una proposta ovviamente rivolta ad un’audience differente da quella canonicamente dedita al metal o comunque, dotata di una grande disponibilità ad accogliere istanze sperimentali.
Psychostasis-Death Of Khat è fondamentalmente un prolungato (forse troppo) flusso sonoro nel quale rumore dronico, campane tibetane e invocazioni assortite si sovrappongono, offrendo a tratti momenti notevoli (l’acustica Reanimation of Akh che va a lambire la forma canzone e la minacciosa Opening the Shadow Box) ma restando quasi costantemente nell’alveo di un’ambient pesantemente ammantata di un’aura meditativa, strettamente connessa con la visione del mondo tipica delle filosofie orientali.
L’operato dei Shibalba, pertanto, è strettamente consigliato a chi condivide con i tre musicisti la fascinazione esercitata dall’aura mistica di tali discipline.

Tracklist:
1. Phychostasis-Death of Khat
2. Ihag Mthong
3. Kaoshikii Mahayana
4. Aether Ananda Aiwass
5. Naljorpa
6. Reanimation of Akh
7. Five Points of Desire
8. Orgasmic Inebriation
9. Opening the Shadow Box
10. Svarna Khecari Mudra

Line-up:
Acherontas V.Priest
Aldra-Al-Melekh
Karl NE/Nachzehrer

SHIBALBA – Facebook

BVDK – Architecture of Future Tribes

Un lavoro davvero particolare, ma meritevole di grande attenzione, che rappresenta l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal.

Tanto per cambiare è dalla vicina Francia che arriva l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal, questa volta ad opera del trio denominato BVDK.

Una tantum il termine black non va associato solo al metal ma anche alla musica proveniente dall’Africa: in Architecture of Future Tribes avviene infatti l’audace tentativo di fondere i furiosi blast beat con elementi tribali ed elettronici, andando a formare un ibrido tanto improbabile quanto efficace; inutile specificare pertanto che qui siamo molto lontani dalle dissonanze sperimentali in quota Blut Aus Nord o Deathspell Omega, per lasciare sfogare piuttosto un’indole industrial sulla quale va ad aderire una sorprendente e melodica capace di catturare l’attenzione ogni singolo brano.
L’unico elemento riconducibile alla normalità è la voce, che strepita in maniera esasperata ed in lingua madre liriche sopraffatte, a livello di produzione, dalla furia organizzata della strumentazione; se Snatcher esibisce un volto ballabile, Nana Buluku parrebbe sfogare all’infinito un rabbioso black atmosferico, prima che il break centrale ci faccia piombare nel bel mezzo del continente nero e delle sue affascinanti nenie tribali, e se La Langue Sanglante è un notevole strumentale che mette in luce anche un buon lavoro chitarristico all’interno di un’inquietante atmosfera cinematografica, Jericho’s Pride è un crescendo emotivo che quando sembra pronto per esplodere si suddivide in velenosi rigagnoli elettro-tribali.
Psalm 32 chiude l’album risultando inferiore per suffisso numerico del brano dei Ministry, ma eguagliandolo o quasi in quanto a penetrazione ed ossessività, a suggello di un lavoro davvero particolare ma meritevole di grande attenzione, soprattutto da parte di chi ama farsi sorprendere dalle soluzioni originali che non difettano certo ai nostri cugini d’oltralpe.

Tracklist:
1. Snatcher
2. Surreptitious Cluster
3. Nana Buluku
4. La Langue Sanglante
5. Bahir Dar
6. Jericho’s Pride
7. Dar es Salaam
8. Psalm 32

Line-up:
Scree – Guitars
A-152 – Guitars, bass, electronics
Lvx – Vocals, electronics

BVDK – Facebook

Arallu – Six

Gli israeliani Arallu proseguono la loro opera di distruzione a base di un black/death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.

Etichetta : Transcending Obscurity Records
Anno : 2017
Titolo (autore + titolo) :

Quando arrivano proposte di matrice estrema dal Medio Oriente si tende spesso a pensare a band di nuovo conio, visto che, a parte Orphaned Land e Melechesh non è che siano poi molte altre le realtà capaci di guadagnarsi nel recente passato una certa notorietà.

Molte volte, però, il fatto di appartenere ad una scena lontana da quelle canoniche finisce per trarre in inganno come avviene per gli Arallu,  la cui genesi musicale risale addirittura alla fine del secolo scorso.
Six, come è facile intuire, rappresenta appunto il sesto full length del gruppo guidato dal bassista/cantante Butchered (con un passato da live session nei già citati Melechesh), che prosegue così la propria opera di distruzione a base di un black death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.
Degli Arallu si apprezzano senz’altro la padronanza della materia ed un approccio abbastanza ruvido e diretto, anche se ogni tanto, quest’ultimo aspetto rende il lavoro un po’ caotico.
In ogni caso diversi brani si rivelano piacevoli mazzate intrise di umori mediorientali che, anche se non sorprendono più come un tempo, si rivelano pur sempre un valore aggiunto in opere di questo tipo, andando a spezzare opportunamente un incedere che, altrimenti, risulterebbe piuttosto monolitico.
Avviene così che episodi come Adonay e Victims of Despair rendano al meglio il potenziale di una band di sicuro spessore,  nei confronti della quale, per chi apprezza la commistione tra metal estremo e musica etnica orientale, potrebbe rivelarsi quanto mai opportuno rivisitare anche la ricca produzione del passato.

Tracklist:
1. Desert Moonlight Spells
2. Only One Truth
3. Adonay
4. Possessed by the Sleep
5. Subordinate of the Devil
6. The Universe Secrets (Six)
7. Victims of Despair
8. Oiled Machine of Hate
9. Philosophers view
10. Soulless Soldier

Line up:
Butchered (Genie King) – Vocals, Bass
Gal Pixel – Guitar and Backing Vocals
Omri Yagen – Guitar and Backing Vocals
Assaf Kasimov – Drums
Eylon Bart – Saz, Darbuka and Backing Vocals

ARALLU – Facebook

The Ruins Of Beverast – Exuvia

La musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre.

Pochi mesi dopo l’ottimo ep Takituum Tootem, ecco giungere l’atteso nuovo full length dei The Ruins Of Beverast.

Alexander Von Meilenwald, il musicista tedesco che è dietro questo progetto, prosegue con questo suo quinto lavoro su lunga distanza l’opera di consolidamento di uno status derivante da un’espressione stilistica peculiare ed in costante evoluzione.
Rispetto all’ep vengono mantenuti i riferimenti etnici riferiti alla cultura dei nativi americani, che in più di un brano si manifestano tramite invocazioni rituali e vocalizzi femminili, il tutto all’interno di una struttura definibile black/doom solo per consentirne un’approssimativa identificazione.
In realtà, la musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre, in virtù di una capacità si scrittura non comune che consente a Von Meilenwald di piazzare, in ogni traccia, passaggi chiave capaci di attrarre fatalmente l’attenzione avvinghiando l’ascoltatore senza alcuna remissione.
Ne è l’esempio più eclatante la lunga title track posta in apertura, magnifico viaggio rituale di oltre un quarto d’ora nel quale le ossessive note in sottofondo si ripetono come un mantra, mentre la musica fluttua sovrapponendosi a voci salmodianti o a quella più canonica dell’autore, che invece in altri frangenti dell’album esibisce tonalità in scream e un growl.
Il resto di Exuvia si dipana così tra sentori sperimentali, sprazzi industriali, dissonanze che difficilmente si dissolvono in melodie compiute ma che mantengono sempre elevatissimo il carico di tensione, spingendosi oltre l’ora di durata, un qualcosa di molto vicino ad un suicidio artistico per chiunque non fosse in grado di esibire la stessa chiarezza d’intenti del musicista di Aachen .
L’album va ascoltato uscendo dalla logica del track by track, perché ne verrebbe sminuito l’impatto avvolgente, ed arrivare alla nuova versione di Takitum Tootem!, posta in chiusura, risulterà impegnativo quanto gratificante.
Così, come l’exuvia (l’esoscheletro abbandonato da diverse specie di crostacei, insetti e aracnidi dopo la muta), la musica targata The Ruins Of Beverast si trasforma dopo ogni ascolto in un involucro testimone di un estro compositivo che, nello stesso momento in cui viene rilevato si sta già trasferendo altrove, pronto ad mostrare ulteriori e visionari bagliori creativi.

Tracklist:
1.Exuvia
2.Surtur Barbaar Maritime
3.Maere (On A Stillbirth´s Tomb)
4.The Pythia´s Pale Wolves
5.Towards Malakia
6.Takitum Tootem (Trance)

Line up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

AlNamrood – Enkar

Enkar si mantiene sulla linea dei lavori precedenti degli AlNamrood, lasciando pressoché immutate le coordinate e, conseguentemente, le buone impressioni che ne derivano.

A chi è convinto (un gran numero di persone, purtroppo) che tutti gli arabi, indistintamente, siano dei fanatici devoti ad Allah e pronti a farsi saltare per aria accecati dalla fede per il proprio dio, consiglierei, se non di ascoltare questo disco, quanto meno di prendere atto che esiste chi alla tirannia religiosa prova a ribellarsi anche nei paesi più strettamente connessi con la jihad islamica, quale è appunto l’Arabia Saudita.

Uno strumento di dissenso magari non consueto, e forse anche per questo più efficace, può essere suonare musica metal, un genere che sappiamo non essere visto di buon occhio neppure in paesi teoricamente a minore rischio di integralismo; se poi il tutto si trasforma in un black death dai testi chiaramente antireligiosi, si può ben capire come mai degli AlNamrood si conoscano solo gli pseudonimi, vista la necessità di mantenere l’anonimato per salvare essenzialmente la pelle (pur avendo base i nostri, probabilmente, nel ben più accogliente Canada).
Non si creda peraltro che questo sia un problema esclusivamente islamico: in India, per esempio, gli Heathen Beast, con la loro feroce critica nei confronti della tirannia di matrice induista, corrono esattamente gli stessi rischi. Alla fine il messaggio di tutti questi musicisti coraggiosi è finalizzato a far capire, anche a chi segue culti oggi un po’ più “annacquati” e di convenienza, quanto la religione sia in assoluto il vero cancro del pianeta, il male capace di obnubilare le menti costituendo una delle leve principali manovrate dai dai potenti per controllare le masse.
Venendo all’aspetto prettamente musicale, degli AlNamrood avevamo già parlato in occasione del loro precedente lavoro, apprezzandone il tentativo di fondere le sonorità estreme con quelle tradizionali della propria terra; Enkar si mantiene su questa linea lasciando pressoché immutate le coordinate e, conseguentemente, le impressioni derivanti dall’ascolto: la musica degli AlNamrood gode di una notevole intensità, è suonata e prodotta in maniera soddisfacente e risulta coinvolgente il giusto, anche se proprio per come è strutturata non sempre scorre in maniera fluida come dovrebbe.
In effetti, il black proposto dal trio arabo ha un andamento piuttosto simile per tutta la durata del lavoro, con rade accelerazioni rispetto alle quali viene privilegiato un mid tempo la cui ritmica si adegua, necessariamente alla particolare metrica della lingua araba: in definitiva, la condizione essenziale per apprezzare Enkar e tutta la precedente produzione degli AlNamrood è quella d’essere appassionati non solo di metal estremo ma anche di sonorità etniche, e mediorientali in particolare.
Non so quante persone rispondano effettivamente a tali requisiti, per cui l’album potrebbe essere anche un buon pretesto, da parte di chi predilige uno dei due aspetti, per fare un full immersion nell’altro. Per quanto mi riguarda, ascolto sempre con piacere soluzioni sonore di questo genere, provando a non farmi influenzare dalla naturale empatia nei confronti di questi ragazzi, anche se mi rendo conto di quanto questi quaranta minuti possano rivelarsi di complessa digestione per molti.
A tutti consiglio di ascoltare una traccia come Ensaf, quella in cui la commistione tra gli strumenti tradizionali ed il metal estremo funziona decisamente meglio: fatto questo passo e presa familiarità con il sound degli AlNamrood, Enkar  potrebbe rivelarsi molto più di una semplice anomalia geo-musicale.

Tracklist:
1. Nabth
2. Halak
3. Xenophobia
4. Estibdad
5. Efsad
6. Estinzaf
7. Ensaf
8. Egwaa
9. Ezdraa
10. Entiqam

Line-up:
Mephisto: Guitars/Bass
Ostron: Middle Eastern Instruments
Humbaba: Vocal

ALNAMROOD – Facebook

Cripta Oculta – Lost Memories

Lost Memories è un viaggio dentro un passato che riposa dentro di noi e che non aspetta altro che risvegliarsi, ed è anche un ottimo disco di black metal selvaggio e fatto con passione.

Tornano con il loro quarto album i portoghesi Cripta Oculta, uno dei gruppi principali della scena black metal portoghese. Il duo pubblica, con la label di riferimento portoghese Signal Rex, un altro grande disco di black metal classico, intriso di misticismo e di ricerca di qualcosa che va molto oltre gli schemi di questa società.

Il Portogallo è una terra antica ed inquieta, che da moltissimo tempo vive di inquietudine e di uno strano modo di sentire le cose, che ha portato il suo popolo a sviluppare una sensibilità molto particolare, con uno sguardo melanconico verso la vita. Tutto ciò si è spesso tradotto in svariati capolavori nelle più disparate discipline, e Lost Memories si inserisce a pieno titolo in questa casistica. I Cripta Oculta sono difensori e diffusori delle tradizioni lusitane, e in questo disco ci conducono per antichi sentieri grazie al loro black metal selvaggio, lo fi e classicheggiante, di grande impatto. Qui la musica è un mezzo per comunicare empaticamente qualcosa che non potrebbe essere comunicato qualcosa, e chi apprezza il black metal conosce benissimo questo processo. La narrazione ci porta in boschi, sentieri e nel cuore del Portogallo, e il black metal dei Cripta Oculta ci fa vedere cose celate allo sguardo dell’uomo moderno. Si torna indietro in un’esperienza davvero coinvolgente, grazie ad un gruppo assolutamente fuori dal comune per capacità di comunicare e per la sua potenza di fuoco. Si cambia spesso registro in questo disco, passando da cavalcate black metal a momenti di dark ambient con strumenti tradizionali lusitani, andando a ricercare un passato che non è solo nostalgia, ma riproposizione di una tradizione che era e che ora non è più. Lost Memories è un viaggio dentro un passato che riposa dentro di noi e che non aspetta altro che risvegliarsi, ed è anche un ottimo disco di black metal selvaggio e fatto con passione.

TRACKLIST
1.Mistérios do Sangue
2.Uma Noite de Trevas
3.Para o reavivar das Tradições
4.Batalha Nocturna
5.A Dança do Fado Negro
6.A Mão de Ferro que Esmaga Sião

SIGNAL REX – Facebook

Nekhen – Entering The Gate Of The Western Horizon

Non resta che immergersi in questa ideale esplorazione delle dimore eterne dei faraoni, accompagnati dall’ininterrotto ed avvolgente flusso sonoro di Entering The Gate Of The Western Horizon.

La fascinazione esercitata dalla civiltà egizia nei confronti dei musicisti che si muovono nell’ambito metal non è certo una novità: tralasciando l’inevitabile riferimento ai Nile, non sono poche le band che, spesso con ottimi risultati, riescono a fondere la materia estrema con le sonorità tradizionali originarie del paese nordafricano (ultimi trattati in ordine di tempo sono stati gli ottimi Akhenaten).

Il caso dei Nekhen è però diverso sia per provenienza che modalità: trattasi infatti di un progetto solista italiano e qui la componente etnica trova accoglienza all’interno di una forma musicale accostabile al doom piuttosto che al death o al black, in virtù di ritmiche piuttosto rallentate (salvo alcune notevoli progressioni percussive) ed un riffing ribassato e minaccioso che, sovente, va a braccetto con le più canoniche sonorità acustiche.
Il risultato è notevole, ancorché non semplicemente digeribile, sia perché l’assimilazione di certi suoni non è cosi scontata per chiunque, sia per la sua natura del tutto strumentale e, tanto per tornare ai Nile, potrebbe risultare utile far riferimento più che ai lavori della band a quelli solisti del leader Karl Sanders, soprattutto per l’approccio alla materia, visto che i due Saurian pubblicati dal chitarrista statunitense mostrano un volto per lo più acustico, oltre a sporadici interventi vocali.
Uguali sono senza dubbio la passione e la competenza esibite nei confronti della materia, componenti essenziali per rendere credibile un’operazione di questo genere: anche per questo ritengo che, pur non essendoci molto in comune, se non il riferimento alla civiltà egizia, con lavori come Annihilation Of The Gates, sia proprio quella degli estimatori dei tali sonorità la fascia di ascoltatori che più facilmente potrà essere raggiunta da questi tre quarti d’ora di ottima musica, suddivisa per comodità in dodici tracce nonostante si si tratti, di fatto, di una lunga suite; non resta quindi che immergersi in questa ideale esplorazione delle dimore eterne dei faraoni, accompagnati dall’ininterrotto ed avvolgente flusso sonoro di Entering The Gate Of The Western Horizon.

Tracklist:
1 – Waters of Ra
2 – Baw of the Duat
3 – Water of the Unique Master, which brings forth offerings
4 – With living forms
5 – West
6 – The depths, waterhole of those of the Duat
7 – Mysterious cavern
8 – Sarcophagus of her gods
9 – With images flowing forth
10 – With deep water and high banks
11 – Mouth of the cavern which examines the corpses
12 – With emerging darkness and appearing births

NEKHEN – Facebook

Ra Al Dee Experience – Diatessaron

Musica che affonda le radici nella tradizione mediorientale, esprimendosi con arpeggi ossessivi tra i quali solo di rado trovano uno sviluppo prolungato di linee melodiche convenzionali.

Conosciamo Mors Dalos Ra quale frontman degli interessanti tedeschi Necros Christos, band dedita ad un black death intriso di riferimenti all’occultismo ed alla religione; lo ritroviamo oggi, assieme al percussionista Ben Ya Min Al Dee, alle prese con un particolare progetto acustico denominato Ra Al Dee Experience, del quale Diatessaron è il primo parto discografico.

Così come con i Necros Christos, l’approccio alla materia non è affatto diretto né semplice da decrittare, visto che le citate componenti concettuali che vi vengono immesse rendono ancor più ostica una fruizione immediata.
La veste acustica del lavoro non deve ingannare, infatti, sulla sua natura: quanto contenuto in Diatessaron non è il più consueto neo folk, bensì musica che affonda le radici nella tradizione mediorientale, esprimendosi con arpeggi ossessivi tra i quali solo di rado trovano uno sviluppo prolungato di linee melodiche convenzionali. Se vogliamo, fa eccezione l’unico tentativo di forma canzone che corrisponde alla title track, non fosse altro perché si tratta del solo brano in cui appare la voce e, in effetti, fa un certo effetto sentir cantare in tedesco sopra un tessuto sonoro che si ispira a lande ben lontane geograficamente e culturalmente da quelle germaniche.
Indubbiamente, chi apprezza gli album improntati sulla chitarra acustica potrebbe trarre un certo piacere dall’ascolto di Diatesseron, mentre ho qualche dubbio che lo stesso possa accadere per chi segue i Necros Christos, visto che l’unico tratto comune con i Ra Al Dee Experience, oltre alla presenza di Dalos Ra, è quell’impronta spirituale che, ovviamente, qui viene veicolata in maniera ben diversa.
Un lavoro sicuramente interessante ma che temo sia destinato ad essere derubricato alla stregua di un mero sfogo compositivo del suo autore principale, nonostante l’oggettivo valore, un po’ come accaduto in passato per i due “Saurian” di Karl Sanders dei Nile.

Tracklist:
1 Das Aleph, welches der Ewige, gelobet sei Er, am Berge Sinai intonierte
2 Aller Tage enden im Dunkel
3 Moses geht den Exodus
4 :Diatessaron:
5 Steine sprechen in der Ödnis von Sin
6 Das Wasser von Mara

Line-up:
Ben Ya Min Al Dee – Percussion
M. Dalos Ra – Guitars

RA AL DEE EXPERIENCE – Facebook

Shataan – Weigh of the Wolf

Il gruppo americano fa largo uso di flauti e strumenti tradizionali americani, creando un atmosfera ed un pathos davvero particolari ed unici.

I Shataan sono un gruppo americano appartenente al misterioso ed interessante collettivo americano di gruppi black metal Black Twilight Circle.

Per gli Shataan il black metal è un punto di partenza per trovare una natura personale e non, molto più profonda rispetto a quella visibile. Partendo dal nero metallo, ed usandolo come linguaggio i nostri ci guidano attraverso la storia ed il corpus mitologico dell’area mesoamericana, ovvero America Centrale, una civiltà molto evoluta, che ovviamente la civiltà europea ha cancellato. Gli Shataan cantano e narrano di cuori ed anime appartenuti al passato che però sono rimasti in noi, dentro ed anche fuori. Il gruppo americano fa largo uso di flauti e strumenti tradizionali americani, creando un atmosfera ed un pathos davvero particolari ed unici. Come album di debutto supera di molto le già grandi aspettative create dal demo War Cry Lament del 2011. Si narra di altre civiltà anche per scappare dalla nostra, essendo effettivamente troppo brutta, e forse anche il morire in battaglia difendendo il proprio popolo è meglio che morire ogni giorno in ufficio. Gli Shataan fanno un tipo di black metal al quale è proprio difficile dare etichette, ascoltandoli potrete farvi un’ idea vostra, cosa molto più auspicabile. Io vi posso solo dire che questo disco è davvero particolare, molto originale, con alla basse molte grandi idee. L’appartenenza al particolare Black Twilight Circle , ovvero quasi tutti i gruppi che gravitano intorno alla Crepuscolo Negro Records, è figlia di un ideale diverso di musica e di cultura metallica. I gruppi che appartengono al Black Twilight si conoscono tutti e spesso si scambiano i componenti, per poter dare una poetica ben precisa alla loro musica. Gli scopi del collettivo sono molti, collettivo che ricorda quello francese delle Legions Noires, quello principale è di dare una diversa connotazione storica e di immaginario al black metal, e questo disco degli Shataan ne è la testimonianza. Approfondite la visione del Black Twilight Circle partendo da questo disco, perché è un collettivo davvero interessante ed in continua mutazione.

TRACKLIST
1 Scorn at Heart
2 Leave Behind
3 Release
4 Chamber
5 Stand Apart
6 Eulogy
7 Inst. in E minor
8 Night comes Along

SHATAAN – Facebook

https://soundcloud.com/blacktwilight/shataan-06-eulogy

Al Namrood – Diaji Al Joor

Questo stuzzicante connubio tra black metal e musica araba non è affatto qualcosa di banale, possa piacere o meno, e se sviluppato ulteriormente, potrebbe portare in tempi brevi a risultati sorprendenti.

Nel parlare di metal proveniente da paesi arabi, specialmente poi in questo caso che vede la band in oggetto arrivare proprio dall’Arabia Saudita (anche se ho la sensazione che la sua base sia altrove), in questi tempi grami è facile finire per occuparsi di questioni che esulano dal contesto prettamente musicale.

Cercherò quindi di non cadere in questa trappola, raccontando brevemente di questo quarto full length dei sauditi Al Namrood, autori di un black death fortemente influenzato dalle sonorità tipiche della loro area geografica.
Diciamo che l’interpretazione del genere non appare né raffinata né artefatta: il trio ci va giù bello pesante, ed anche le parti suonate con gli strumenti tradizionali (ad opera di Ostron) conservano un’aura selvaggia che le rende ancor più intriganti; detto del lavoro di mero accompagnamento di chitarra e basso, a cura dell’altro membro fondatore Mephisto, il ringhio di Humbaba è forse l’elemento meno convincente del contesto, visto che più che cantare strepita in lingua madre testi che, ahimè, sono di impossibili da comprendere senza una traduzione.
Non riesco darmene una spiegazione logica, ma dopo il primo ascolto di Diaji Al Joor ho pensato che dei Rammstein, risvegliatisi dopo un trip susseguente ad un’orgia dall’ambientazione araba, suonerebbero esattamente così, un po’ perché ogni tanto il vocalist può ricordare una versione più grezza di Lindemann, ma soprattutto perché si intravvede negli Al Namrood quello stesso spirito sardonico che è una delle più sottovalutate doti della grande band teutonica.
Detto ciò, anche se quaranta minuti non sono tanti, per godere appieno di questo lavoro è basilare apprezzare la musica tradizionale araba: io che, devo confessare, la digerisco sostanzialmente solo se assunta in dosi moderate, ho fatto una certa fatica a completare i diversi ascolti del disco, ma è innegabile che lo stesso racchiuda un suo fascino ancestrale che potrebbe non lasciare indifferente chi è alla ricerca di qualche sonorità estrema dai tratti meno convenzionali.
Rivedibile in certi passaggi dal punto di vista della produzione, Diaji Al Joor contiene alcuni brani killer, come il singolo Hayat Al Khezea o Zamjara Alat, ed è sicuramente un disco che lascia una certa acquolina in bocca alla luce del potenziale espresso degli Al Namrood: questo stuzzicante connubio tra black metal e musica araba non è affatto qualcosa di banale, possa piacere o meno, e se sviluppato ulteriormente, potrebbe portare in tempi brevi a risultati sorprendenti.
Da provare, senza pregiudizi.

Tracklist:
1. Dhaleen
2. Zamjara Alat
3. Hawas Wa Thuar
4. Ejhaph
5. Adghan
6. Ya Le Taasatekum
7. Hayat Al Khezea
8. Ana Al Tughian
9. Alqab Ala Hajar

Line-up:
Mephisto – Guitars, Bass, Percussion
Ostron – Keyboards, Percussion
Humbaba – Vocals

AL NAMROOD – Facebook