Thirteen è la compilation che celebra i tredici anni di attività della label portoghese Ethereal Sound Works, nel cui roster sono comprese band lusitane dedite ai generi più disparati, ma tutte accomunate da una notevole qualità di fondo e da altrettanta verve creativa.
Thirteen è la compilation che celebra i tredici anni di attività della label portoghese Ethereal Sound Works, nel cui roster sono comprese band lusitane dedite ai generi più disparati, ma tutte accomunate da una notevole qualità di fondo e da altrettanta verve creativa.
Sono ben 19 i brani contenuti in questa raccolta piuttosto esaustiva con la quale il buon Gonçalo esibisce i suoi gioielli, anche quelli più preziosi ma, purtroppo, non più attivi come i Vertigo Steps.
Così, in questo caleidoscopio di suoni ed umori, troviamo il metal con il death dei Rotem e il power/thrash degli Hourswill, il rock alternativo di Secret Symmetry, Painted Black, Dream Circus e Artic Fire, il punk di The Levities, Chapa Zero e Punk Sinatra, il dark di And The We Fall, Rainy Days Factory e My Deception, l’indie dei The Melancholic Youth Of Jesus, il folk dei Xicara , la sperimentazione pura dei Fadomorse e l’ ambient degli Under The Pipe e dei Soundscapism Inc., quest’ultimo fresco progetto di Bruno A., successivo allo split dei Vertigo Steps, qui rappresentati dalla splendida Silentground.
L’eclettismo è il vero marchio di fabbrica della ESW, grazie alla quale abbiamo la possibilità di constatare come in Portogallo si produca tanta musica di qualità, in più di un caso oggetto delle nostre recensioni (che possono essere lette nella sezione sottostante denominata articoli correlati).
Non ci sono solo i Moospell o il fado, quindi, a rappresentare il fatturato musicale lusitano, e questa compilation offre una ghiotta possibilità di farsi un’idea più precisa di quel movimento, portando alla luce diverse realtà oltremodo stimolanti.
Tracklist:
1.Secret Symmetry – Disarray And Silver Skies
2.Vertigo Steps – Silentground
3.Painted Black – Quarto Vazio
4.Hourswill – Atrocity Throne
5.My Deception – Daylight Deception
6.Dream Circus – Ticking
7.Rotem – The Pain
8.The Levities – Split Lip
9.Chapa Zero – Vai Lá Vai
10.Punk Sinatra – Nunca Há Paciência
11.Under The Pipe – No Need Words
12.Artic Fire – Running
13.The Melancholic Youth Of Jesus – Insensivity
14.And Then We Fall – Ancient Ruins
15.Rainy Days Factory – Deep Dive
16.Fadomorse – Deicídio
17.Xícara – Cantiga (Deixa-te Estar na Minha Vida)
18.Dark Wings Syndrome – In My Crystal Cage (2015)
19.Soundscapism Inc. – Planetary Dirt
Capolavoro tra prog e folk, per questi giganti norvegesi.
Disco davvero illuminante e bellissimo per questi bardi nordici che musicano le storie del folclore della zona di Oslo, soprattutto delle storie che trattano della morte e dei mondi dentro e fuori di noi. Tutto è magnifico in questo disco, innanzitutto un senso pervasivo e fantastico di grande prog, con composizioni curatissime in tutti i dettagli, mai noiose e con un sottobosco folk quasi metal. Tute le canzoni sono suonate e cantate come se fossero favole autosufficienti, che ci conducono nottetempo per stagni, fiumi e tronchi che nascondono altre vite ed altre storie. I Tusmørke hanno imparato moltissimo dalla psichedelia settantiana anatolica, ma hanno rielaborato personalmente il tutto dando vita ad una fantastica miscela. Fort Bak Lyset significa andare dietro alla luce, e la luce dei Tusmørke si fa seguire più che volentieri. Un lavoro straordinario, di un’atmosfera incredibile, dove tutto è bellissimo, e nel quale si può praticare un vero escapismo, cercandovi e trovandovi rifugio dalla pazzia del nostro mondo. In alcuni punti possiamo addirittura sentire odore di funky psichedelico, amazing.
Ennesimo ottimo disco norvegese non black metal, conferma che la Norvegia è una ricchissima terra musicale.
TRACKLIST
1. Ekebergkongen
2. Et Djevelsk Mareritt
3. De Reiser Fra Oss
4. Fort Bak Lyset
5. Spurvehauken
6. Nordmarka
7. Vinterblot
LINE-UP
Benediktator
Krizla
HlewagastiR
The phenomenon Marxo Solinas.
DreymimaðR.
Quella dei Negură Bunget è, oggi come ieri, musica dal respiro universale, che affonda profondamente le proprie radici nella tradizione popolare rumena.
Sarà un modo di dire abusato, ma mai come nel caso della storia recente dei Negură Bunget si può affermare a buon diritto che non tutti i mali vengano per nuocere.
La separazione, tutt’altro che indolore e priva si strascichi, verificatasi nello scorso decennio tra i componenti storici della band rumena, ha prodotto alla fine due realtà sicuramente contrapposte dal punto di vista personale ma unite da una qualità musicale non comune.
Quest’ultimo lavoro dei Negură Bunget di Negru (Gabriel Mafa) ha avuto una gestazione piuttosto lunga, se pensiamo che il precedente lavoro “Vîrstele Pămîntului” risale al 2010 ma, come spesso accade , tale attesa è stata ampiamente ripagata. L’intesa attività live intercorsa in quest’ultimo periodo, peraltro, ha consentito il consolidamento della line-up e l’ulteriore coesione dei vari musicisti, portando quei benefici che i cinquanta minuti di Tăudimostrano ampiamente.
Il primo dei lavori della prevista trilogia dedicata alla Transilvania quale simbolo di natura e spiritualità (nulla anche vedere, quindi, con le ben note leggende dalle tematiche vampiresche) possiede quasi i crismi dell’evento, tale è la peculiare qualità esibita dal combo rumeno.
Quella dei Negură Bunget, infatti, è oggi come ieri musica dal respiro universale, che affonda profondamente le proprie radici nella tradizione popolare rumena, rimodellando in maniera ispirata quelle sonorità ancestrali che non possono neppure essere definite folk nel senso più classico del termine, se non per gli l’umori di cui è intriso un brano come Împodobeala Timpului: una traccia, questa, che rappresenta una sorprendente incursione nella musica balcanica (molto meno caciarona di quella che ci viene abitualmente proposta, sia ben chiaro) ma che, non a caso, si dimostra l’episodio più debole del disco, soprattutto se rapportato alla capacità riconosciuta a Negru e soci nel portare la componente etnica del loro sound su un piano ben più elevato.
La componente black metal, comunque, è tutt’altro che scomparsa, ma, con la sola eccezione di Tărîm Vîlhovnicesc (brillante e comunque eclettica traccia che ospita alla voce Sakis dei Rotting Christ), non costituisce più la base bensì l’arricchimento di un sound che, grazie all’uso di una strumentazione estremamente variegata e al contributo di altri ospiti provenienti dai più disparati generi musicali, rende Tău uno dei migliori lavori usciti finora bel 2015, con la concreta chance di restare tale anche tra una decina di mesi.
A tale proposito, può rivelarsi fuorviante catalogare la band di Timișoara in un ambito estremo senza porre le opportune distinzioni del caso, alla luce del rischio di indurre in errore chi vi si dovesse avvicinare ignorando una parabola artistica capace di segnare gli ultimi ultimi vent’anni della musica europea in senso lato, non solo in ambito metal.
La bellezza struggente di brani come Nămetenie e Izbucul Galbenei mette subito il lavoro sui giusti binari sgombrando il campo da ogni equivoco: i Negură Bunget sono tornati per riaffermare il loro primato e la loro diversità ed il crescendo dell’opener è, a tratti, di uno splendore abbacinante.
Ma è difficile trovare un momento nel disco che non rientri in tale definizione, salvo appunto Împodobeala Timpului, non tanto per il suo valore intrinseco, quanto perché, come detto, si rivela piuttosto in contrasto con un’atmosfera complessiva che, quando non è bucolica, pervade l’intera opera con una certa aura di drammaticità. La Hotaru Cu Cinci Culmi é un’altra perla che, assieme a Curgerea Muntelui, rende la prima metà dell’album qualcosa che da tempo non era dato ascoltare; il fisiologico e leggero calo di intensità della sua seconda metà (ma le conclusive Picur Viu Foc e Schimnicește sono brani che il 90% delle band utilizzerebbe quali pietra angolare dei propri lavori) non inficia il giudizio complessivo di disco magnifico, da ascoltare più e più volte in un ambito rigorosamente silenzioso e pervaso da una pace che, forse, si può rinvenire solo se immersi nei luoghi magici evocati dai video della band.
Ennesima prova magnifica per una realtà musicale unica …
Tracklist:
1. Nămetenie
2. Izbucul galbenei
3. La hotaru cu cinci culmi
4. Curgerea muntelui
5. Tărîm vîlhovnicesc
6. Împodobeala timpului
7. Picur viu foc
8. Schimnicește
Line-up:
Negru – Drums, Percussion, Dulcimer, Xylophone, Horns
Ovidiu Corodan – Bass
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Petrică Ionuţescu – Pan Flute, Pipes, Horns
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing
Il lavoro è nel suo complesso pregevole, anche se talvolta affiorano diversi cali di tensione sotto forma di brani meno ispirati che finiscono per appesantire inevitabilmente l’ascolto
Nuovo album del duo brasiliano Olam Ein Sof, attivo da oltre un decennio nel proporre il proprio folk dai tratti medievali.
Reino De Cramfer si snoda, quindi, per lo più su queste coordinate, con qualche digressione neofolk ed una puntatina su sonorità di stampo andino (Invocando a Lua Azul), grazie ai diversi strumenti a corda suonati da Marcelo Miranda, il quale viene coadiuvato in tale compito da Fernanda Ferretti, che presta anche la propria voce in alcuni brani.
Il lavoro è nel suo complesso pregevole, anche se talvolta affiorano diversi cali di tensione sotto forma di tracce meno ispirate che finiscono per appesantire inevitabilmente l’ascolto (in particolare Jornada Etérea), con l’aggravante di una durata non indifferente per le abitudini di chi si cimenta con il genere.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che Miranda è un buonissimo chitarrista ma non è certo un virtuoso alla Paco De Lucia, per intenderci, mentre la voce della Ferretti è nella norma, adeguata in certi passaggi e meno in altri: anche questi aspetti finiscono per incidere sulla resa complessiva dell’album, specie quando viene meno quella brillantezza sul versante compositivo esibita in brani quali Vimana, Glaskar, la title-track e la già citata Invocando a Lua Azul.
Gli Olam Ein Sof, comunque, in virtù di una carriera già abbastanza lunga e disseminata di diversi album, sono assolutamente credibili nella loro sincera riproposizione del genere; la resa un po’ altalenante rende però Reino De Cramfer un lavoro dedicato agli aficionados del genere piuttosto che ad ascoltatori occasionali, proprio perché la sua piena fruizione è strettamente connessa ad una certa dimestichezza con la materia.
Gradevole ma non imprescindibile.
Tracklist:
1.Mar Cósmico
2.Vimana
3.A Caminho das Montanhas de Nuvens
4.Murmúrio das Águas
5.Reino de Cramfer
6.Jornada Etérea
7.Invocando a Lua Azul
8.Glaskar
9.Dança da Floresta
Line-up:
Marcelo Miranda – steel and nylon acoustic guitars, mandolin, charango, cistre, eletric guitar and treble recorder
Fernanda Ferretti – vocals, nylon acoustic guitar, cuatro venezoelano, citara vox e jaw harp
Primo album dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan rimasterizzato dalla Universal.
L’ importanza del “divino” Marc Bolan sul rock contemporaneo è pari a quella della manciata di musicisti che hanno fatto la storia della musica contemporanea: geniali sia musicalmente sia, in questo caso, venditori di se stessi, diventati icone rivoluzionando non solo il mercato discografico ma influenzando culturalmente un’intera generazione.
Da sempre il nome di Bolan è giustamente accomunato al glam rock, ancor prima dei viaggi psichedelici di Ziggy Stardust, un genere che prima della musica diede molta importanza al look di cui Marc fu il perenne modello.
Fortemente influenzato dalla scena hippie, il glam all’epoca fu uno schiaffo alla società del Regno Unito, bigotta fino al midollo e stravolta dall’arrivo di questo bel ragazzo vestito di lustrini e pailettes.
La Universal rimasterizza con bonus CD i primi tre lavori della prima incarnazione dei T.Rex, e questo My People … è il primo bellissimo vagito di un giovane Marc che, aiutato solo dai bonghi dell’ex batterista Steve Peregrine Took e dalla sua chitarra acustica, ammalia con dieci brani tra folk, blues ed uno spirito freak geniale, lasciando che atmosfere orientaleggianti e neanche troppo velati rimandi alla cultura Hare Krishna (eredità della cultura hippie, ancora fortemente presente nel giovane musicista) conquistassero i giovani ascoltatori dell’epoca, quei glamster che ebbero quasi una decina di anni gloriosi prima dell’esplosione del punk rock.
Prodotto da Tony Visconti e da John Peel, innamorato perso del personaggio Bolan, My People … suona scarno anche per l’epoca ma, tra i solchi di queste perle acustiche, esce il talento di un artista eccezionale, non solo ottimo chitarrista ma icona a tutto tondo e, a modo suo, un rivoluzionario.
Poco rock e tanto folk , un rhythm and blues nascosto tra lo spartito e gli accordi, venati da una divertente vena psichedelica che il talento di Bolan nasconde, per poi farcela assaporare a piccole dosi, lasciandoci sognare, come in preda ad un bel trip di cui l’artista è l’ambiguo sacerdote.
L’album , accompagnato da un secondo bonus cd e da una versione in vinile, è assolutamente consigliato ai fan e a chi vuole davvero entrare nel mondo di Bolan dalla porta principale, con questo primo testamento di una carriera folgorante.
Tracklist:
Side A
1. Hot Rod Mama 2014 Remaster / Mono Version
2. Scenescof 2014 Remaster / Mono Version
3. Child Star 2014 Remaster / Mono Version
4. Strange Orchestras 2014 Remaster / Mono Version
5. Chateau In Virginia Waters 2014 Remaster / Mono Version
6. Dwarfish Trumpet Blues 2014 Remaster / Mono Version
Side B
1. Mustang Ford 2014 Remaster / Mono Version
2. Afghan Woman 2014 Remaster / Mono Version
3. Knight 2014 Remaster / Mono Version
4. Graceful Fat Sheba 2014 Remaster / Mono Version
5. Weilder Of Words 2014 Remaster / Mono Version
6. Frowning Atahuallpa (My Inca Love) 2014 Remaster / Mono Version
Side C
1. Debora
2. Child Star Take 2 / Joe Boyd Session
3. Hot Rod Mama BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
4. Strange Orchestras BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono
5. Chateau In Virginia Waters Take 3 / Joe Boyd Session
6. Mustang Ford BBC Top Gear, London / Live / 1968/ Mono
7. Pictures Of The Purple People BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
8. Afghan Woman (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono
Side D
1. Highways (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
2. Puckish Pan Demo
3. Dwarfish Trumpet Blues Tony Visconti’s Home Demo
4. Knight Tony Visconti’s Home Demo
5. Scenescof BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
6. Lunacy’s Back Demo
7. Frowning Atahuallpa (With Chat)
Line-up:
Mark Bolan – Guitars
Steve Peregrine Took- Bongo
Arjan Hoekstra ci guida in un mondo dai colori tenui ma tendenti invariabilmente a rivestirsi di una cappa di grigio, stante il mood malinconico che pervade anche episodi ingannevolmente più spensierati.
Mirna’s Fling è il progetto solista del musicista olandese Arjan Hoekstra (The Good Hand, Alvenrad) e For The Love Of Me ne è la prima testimonianza discografica edita dalla piccola ma qualitativa Trollmusic.
Se dovessi cominciare ad elencarvi tutte le influenze, i riferimenti, gli accostamenti che fa scaturire l’ascolto di questo lavoro mi ridurrei ad elencare un arido elenco di artisti più o meno noti, quindi per l’occasione mi limiterò a dire che, per farvi un’idea di ciò che vi dovrete attendere nell’approcciarvi a questo disco, è sufficiente pensare a chiunque, negli ultimi trent’anni, sia stato in grado di emozionarvi solo con la propria voce accompagnata da una chitarra acustica, dal pianoforte e qualche altro strumento non elettrico collocato sapientemente e sobriamente all’interno dei singoli brani.
Qualsiasi nome vi sia venuto in mente in prima battuta, senz’altro lo ritroverete tra le note di questa raccolta, siano esse racchiuse in brani dalle sfumature dark, dalle reminiscenze neo folk o in semplici ballate: la voce di Arjan ci guida in un mondo dai colori tenui ma tendenti invariabilmente a rivestirsi di una cappa di grigio, stante il mood malinconico che pervade anche episodi ingannevolmente più spensierati.
La produzione di Markus Stock (Empyrium, The Vision Bleak) valorizza al massimo le undici perle elargite da Hoekstra, a fronte di una struttura compositiva apparentemente semplice che, al contrario, racchiude diversi passaggi ricchi di particolari che una registrazione non ottimale avrebbe finito per occultare. Misery, Goodbye, Winter’s Breeze e il capolavoro assoluto World of Make Believe sono solo i picchi di un lavoro che non conosce cali e che sussurra all’anima di ciascuno lasciandole in eredità più di una ferita, nonostante le armi utilizzate sembrino a prima vista poco affilate.
Del resto, “che cosa succede alla vostra anima quando un rapporto ha causato distruzione e disperazione per troppo tempo”? Questo è quanto ci chiede Arjan Hoekstra nelle note di presentazione: non ho una risposta vera e propria a questa domanda, di sicuro For The Love Of Me giunge a spargere ulteriore sale laddove ci sono già state frequenti lacerazioni.
Contro ogni previsione sto letteralmente consumando questo disco, che per certi versi mi procura un senso di malinconico smarrimento più insanabile di quanto non riescano a fare molti album del mio amato doom.
“Melancholy is not a sickness … ”
Tracklist:
1. Misery
2. Goodbye
3. Surreal
4. Rendez-vouz
5. Lost in light
6. World of make believe
7. Trouble
8. Winter`s Breeze
9. The final mourning song
10. For the love of me
11. Stranded
Ciò che stupisce in “Cromagia” è un senso melodico che non viene mai meno,trasformandosi nel vero filo conduttore di un lavoro che è spettacolare tanto musicalmente quanto a livello lirico.
Il terzo album degli In Tormentata Quiete si rileverà una delle consuete croci per chi tenta chi catalogare la musica come se si trattasse di riordinare dei libri in una biblioteca, rispettando un rigoroso ed ineluttabile ordine alfabetico.
L’ensemble bolognese, ed è questo ciò che conta, regala l’ennesima perla di una carriera che, come spesso accade dalle nostre parti per chi tenta di fare musica nella sua accezione artistica più elevata, è destinata più allo status di culto che non a quello di realtà di successo.
Del resto, non credo che gli In Tormentata Quiete si siano mai posti prioritariamente quest’ultimo obiettivo, soprattutto operando e vivendo in un paese come l’Italia nel quale se non appari non esisti e dove, se proponi musica che costringe ad essere ascoltata e non semplicemente sentita, sei irrimediabilmente destinato a restare nel cuore di pochi fortunati.
All’interno di Cromagiapossiamo trovare folk, prog, black e cantautorato italiano, una ricetta che parrebbe, messa giù così, dannatamente intricata, eppure tutto scorre senza che nessuna di queste componenti prevarichi mai l’altra, stupendo per l’equilibrio raggiunto, quasi come quando si osservano quei folli funamboli che attraversano i canyon camminando su una sottile fune tesa sopra baratri profondi centinaia di metri …
Per una volta mi trovo piuttosto d’accordo con le note di presentazione, nelle quali si accenna a nomi quali Solefald, Ulver e Devil Doll, riferimenti che, francamente, potrebbero risultare controproducenti al momento del dunque: nonostante ciò i nostri si rivelano del tutto degni, se non proprio a livello di sonorità sicuramente per attitudine, dell’accostamento a questo manipolo di geniali sperimentatori.
Ciò che stupisce ulteriormente, con tali premesse, è un senso melodico che in Cromagianon viene mai meno, trasformandosi nel vero filo conduttore di un lavoro che è spettacolare tanto musicalmente quanto a livello lirico, con il suo concept incentrato sulle emozioni ed i sentimenti associati ai singoli colori.
L’intreccio vocale è un ulteriore aspetto capace di elevare gli In Tormentata Quiete sul resto della concorrenza: due voci pulite, l’una maschile, l’altra femminile, si scambiano continuamente i ruoli “disturbate” da uno screaming acido che opera per lo più con la funzione di controcanto, quasi a voler sporcare, con le sue efferate incursioni, quelle tessiture melodiche che, a lungo andare, si insinuano nella mente e nel cuore di chi ascolta.
Bastano dodici minuti, quelli nei quali si sviluppa l’accoppiata iniziale Blu / Il Profumo del Blu, a chi non avesse mai ascoltato una nota degli ITQ, per capire d’essere al cospetto di una realtà unica nel panorama italiano e per attendersi ulteriori meraviglie sonore (tra le quali spiccano l’elegia di Verde ed il black/folk di La Carezza Del Giallo) nel corso dei restanti tre quarti d’ora.
Ma, intanto, il destino di talenti trasversali come questi è quello d’essere capiti da pochi: troppo colti per chi ha bisogno di musica usa e getta, troppo metallici per i tolemaici del progressive (mi pare di sentirli “ …. ah, quella voce gracchiante …”), troppo melodici per i metallari, infine troppo superiori alla media per poter diventare, anche solo per sbaglio, un fenomeno di massa.
Quei pochi che, appunto, non si sono mai adeguati al minimalismo spastico degli sms e riescono a leggere almeno tre righe di una mail senza avvertire un calo di attenzione, provino a dare una chance agli In Tormentata Quiete …
Tracklist:
1. Blu
2. Il Profumo del Blu
3. Rosso
4. Il Sapore del Rosso
5. Verde
6. Il Sussurro del Verde
7. Giallo
8. La Carezza del Giallo
9. Nero
10. La Visione del Nero
11. InVento
Line-up:
Maurizio D’Apote – Bass
Francesco Paparella – Drums
Lorenzo Rinaldi – Guitars
Antonio Ricco – Keyboards
Marco Vitale – Vocals (harsh)
Irene Petitto – Vocals
Simone Lanzoni – Vocals
Castellum è un lavoro che soddisferà chi ama un black metal rivestito di una consistente patina epic-folk.
Al loro terzo album, i francesi Darkenhöld hanno probabilmente scovato la loro pietra filosofale, sotto forma di quell’equilibrio non sempre facile da ottenere nel tentativo di amalgamare l’anima black metal e l’ispirazione epico medievale dei testi e delle melodie.
Castellum porta la band nizzarda dritta al risultato auspicato, ovvero quello di comporre un lavoro privo di apparenti punti deboli e che fa proprio della compattezza il proprio punto di forza. Sin dall’opener Strongholds Eternal Rivalry, i Darkenhöld imprimono il giusto ritmo all’album, presentandosi con un brano piuttosto tirato ma non privo di quelle aperture melodiche che più si evidenziano in tracce quali Le Castellas du Moine Brigand e Glorious Horns. Se è vero che la matrice black è quella scandinava, nelle parti in cui sono gli spunti epici a prevalere i transalpini mostrano la giusta dose di personalità, il che consente loro di affrancarsi con buona disinvoltura dal rischio di venire sopraffatti da uno sterile manierismo; alcune soluzioni possono portare alla mente anche i Bal Sagoth, ma con molta enfasi in meno sul versante sinfonico e, soprattutto, con uno screaming tipicamente black anziché il verboso recitato di Byron. Del resto le soluzioni melodiche adottate si rivelano oltremodo apprezzabili per la loro varietà, essendo affidate ora ad un tenue lavoro di tastiera, ora a strumenti acustici, oppure ancora alla chitarra solista, capace di produrre armonie di ottimo gusto, come avviene nell’ottima L’Incandescence Souterraine. In buona sostanza Castellumè un lavoro che soddisferà chi ama un black metal rivestito di una consistente patina epic-folk.
Tracklist:
1. Strongholds Eternal Rivalry
2. Le Castellas du Moine Brigand
3. Majestic Dusk Over the Sentinels
4. Glorious Horns
5. Feodus Obitus
6. Le Souffle des Vieilles Pierres
7. L’Incandescence Souterraine
8. Mountains Wayfaring Call
9. The Bulwarks Warlords
10. Medium Aevum
Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio.
Il secondo full-length del solo project Oberon arriva dopo ben tredici anni di silenzio, nel corso dei quali colui che ne è l’artefice, il norvegese Bard Oberon, è rimasto ai margini dell’ambiente pur continuando a comporre musica.
Molta di questa è confluita poi in Dream Awakening, il disco che, in fondo, costituisce la chiusura di un cerchio, giacché l’etichetta che lo licenzia è quella stessa Prophecy che, nel 1997, tra le prime produzioni immesse sul mercato, pubblicò proprio l’omonimo mini di Oberon. Diciamo subito che questo album è l’ennesimo centro da part di una label che, da anni, continua a proporre musica sempre contraddistinta da un incommensurabile valore artistico. Devo ammettere, senza particolari remore, che prima di oggi il nome Oberon mi era del tutto sconosciuto; ne deriva, quindi, che la valutazione di questo lavoro e le sensazioni scaturite dall’ascolto esulano inevitabilmente da qualsiasi raffronto con la produzione passata. Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio. Una voce limpida ed evocativa conduce l’ascoltatore lungo un percorso disseminato di momenti incantevoli, un qualcosa di avvicinabile alla purezza dell’acqua che sgorga da una fonte; caratteristica, questa, che non viene meno neppure quando i suoni si irrobustiscono, ma che semmai viene ulteriormente esaltata dal gioco di luci ed ombre. Empty And Marvelous inaugura questo magnifico album con umori folk, soppiantati dal successivo brano capolavoro Escape nel quale, a tratti, viene evocato nientemeno che Jeff Buckley e, tutto sommato, il mai abbastanza compianto singer statunitense può costituire un valido punto di riferimento per capire meglio ciò di cui è capace Bard in Dream Awakening. Certo, la voce del musicista norvegese, pur pregevole, non è comparabile con quella di Jeff, ma la sensibilità compositiva e la capacità di tratteggiare brani dell’enorme impatto emotivo non sono affatto da meno. Anche quando è il folk ad impadronirsi del songwriting il risultato merita il nostro plauso, ma è certo che gli episodi che restano più impressi sono quelli in cui vengono messe in evidenza sia una più spiccata anima melodica (Flight Of Aeons), sia un’impronta di stampo prog/rock (I Can Touch The Sun With My Heart ). Le atmosfere sottilmente inquietanti di Machines sono la penultima perla di un lavoro che regala in chiusura un altro brano splendido (Age Of The Moon) nel quale la chitarra elettrica si ritaglia un ultimo spazio all’interno di suoni che, se trasposti visivamente, assumerebbero delicati color pastello. Oberon è stata un autentica folgorazione con la scoperta di un musicista rimasto per anni in una sorta di oblio: questo è un altro buon motivo, tra i tanti, per il quale nessuno dovrebbe mai ritenersi appagato di ciò che ha ascoltato in passato. Per chi come me , si è innamorato a prima vista di questa eccellente entità musicale, sarà cosa gradita sapere che la Prophecy ha programmato anche la ristampa dell’intera produzione targata Oberon, una buona occasione per approfondire la conoscenza e magari scovare altre gemme dimenticate composte dall’ottimo Bard.
Tracklist:
01. Empty And Marvelous
02. Escape
03. In Dreams We Never Die
04. Dark World
05. Flight Of Aeons
06. Dream Awakening
07. I Can Touch The Sun With My Heart
08. Phoenix 09. Secret Flyer
10. Machines That Dream
11. Age Of The Moon
Interessante debutto per i lombardi Holy Shire,che si allontanano dai soliti clichè symphonic per un album folk/epic metal d’autore.
Interessante debutto sulla lunga distanza per i milanesi Holy Shire, freschi di firma con Bakerteam e autori di un album che di questi tempi riesce ad essere originale, allontanandosi dai soliti clichè power, gothic e symphonic cari a molte band della scena, mostrando un approccio più ottantiano, meno pomposo ma altrettanto riuscito.
Fondato nel 2009, con all’attivo un demo ed un Ep (“Pegasus” – 2011), il gruppo è composto da ben otto elementi; Midgard, che si rifà per la maggior parte, a livello di tematiche, alla saga “Il trono di spade”, opera Fantasy di George R.R Martin, è un’opera prima affascinante e molto raffinata. Di non semplice lettura, il lavoro come detto è spogliato da tutti quegli elementi che caratterizzano le classiche opere che tanto vanno di moda in questi tempi, qui l’heavy metal dalla forte epicità è levigato da una spiccata connotazione folk cantautorale e da tanto Rock; i suoni, mai troppo magniloquenti nelle orchestrazioni, rendono il disco sognante, maturo nel saper trasmettere le atmosfere senza forzare la mano, arrivando all’ascoltatore in modo genuino. Gli Holy Shire sanno anche essere incisivi, infatti chitarre metalliche e ritmiche più heavy sono protagoniste in brani potenti ed epici come l’opener Bewitched, The Revenge of The Shadow e Holy War, mentre il flauto e le tastiere ricamano melodie che si fanno a tratti incantevoli nelle magnifiche Winter Is Coming e Holy Shire. Buone le voci delle vocalist e di spessore le prove dei musicisti, in particolare quella di Ale che coinvolge con il suono del suo flauto, strumento protagonista indiscusso di tutto il lavoro e che, a tratti, riprende sonorità provenienti direttamente dagli anni ’70 (Jethro Tull). È indubbio che l’epic metal ottantiano faccia parte del background della band, così come penso siano ascolti abituali per il gruppo quelli di cantanti folk come Loreena McKennitt, elemento che contribuisce a fornire quel tocco di originalità rendendo quello che poteva essere un “semplice” album metal un lavoro d’autore. Complimenti alla band, quindi, così come alla Bakerteam per aver dato fiducia ad un gruppo dalle sonorità leggermente fuori dagli schemi abituali. Senza ombra di dubbio, buona la prima.
Tracklist:
1. Bewitched (My Words Are Power)
2. Winter Is Coming
3. Gift of Death
4. Overlord of Fire
5. Holy Shire
6. The Revenge of the Shadow
7. Beyond
8. Holy War
9. Midgard
Line-up:
theMaxx – Drums
Reverend Jack – Keyboards
Aeon – Vocals (lead)
Ale – Flute
Andrew Moon – Guitars (lead)
Ed Gibson – Guitars (rhythm)
Piero Chiefa – Bass
Sisiki – Vocals (choirs)
L’unica maniera per apprezzare pienamente i dieci minuti di musica contenuti in Gind A Prins è quello di liberarsi dell’ingombrante pregiudizio che può derivare dal nome della band stampato sulla copertina.
Non volendo prendere le parti di alcuno, l’unica osservazione che si può fare è che forse sarebbe stato meglio che anche Negru, così come i suoi ex-compagni che in seguito allo split hanno dato vita ai Dordeduh, avesse scelto di utilizzare un nome diverso per il suo attuale progetto, a maggior ragione ora che ha nuovamente rivoluzionato la line-up rispetto a “Poarta de Dincolo”; del resto la qualità della musica espressa è comunque innegabile e, in caso contrario, mantenere un monicker già affermato non sarebbe servito a coprire eventuali pecche.
Ma tant’è … , i Negura Bunget, come anticipazione del loro secondo album nella versione “mark II”, pubblicano questo incantevole 7” che, in linea con le tendenze già manifestate nelle uscite più recenti, è costituito da un folk ambient dal sapore ancestrale e che reca impressa a fuoco la propria provenienza geografica. Curgerea Muntelui e Taul Fara Fund sono due brani piuttosto brevi in ossequio al formato prescelto, il che non fa che aumentare il desiderio di sentire al più presto nuove composizioni; mentre la prima delle due possiede un struttura canzone più tradizionale e si rivela un episodio maestoso ed emozionante , con la bella voce di Tibor Kati a declamare i consueti testi in lingua madre adagiati su un tappeto di tastiere e strumenti a fiato, la seconda è un esempio ben riuscito di ambient dalla forte componente etnica, dove una litania corale diviene un tutt’uno con il flauto di Petrica Ionutescu.
La magnificenza di “Om” è un ricordo lontano, un paragone improponibile e pure ingiusto, e l’unica maniera per apprezzare pienamente i dieci minuti di musica contenuti in Gind A Prins è quello di liberarsi dell’ingombrante pregiudizio che può derivare dal nome della band stampato sulla copertina.
“Fragments: A Mythological Excavation” è uno split album, nato dalla collaborazione tra le due label tedesche Prophecy Productions e Vàn Records, che vede impegnate due band forse non troppo conosciute dalle nostre parti ma sicuramente di grande spessore artistico.
Fragments: A Mythological Excavation è uno split album, nato dalla collaborazione tra le due label tedesche Prophecy Productions e Vàn Records, che vede impegnate due band forse non troppo conosciute dalle nostre parti ma sicuramente di grande spessore artistico.
Parliamo degli Helrunar, senz’altro più noti anche perché attivi da ben oltre un decennio, anch’essi tedeschi, e degli Árstíðir Lífsins, combo dalla formazione recente che racchiude musicisti provenienti da diverse nazioni del nord Europa: li accomuna, oltre il genere suonato, anche una passione e una conoscenza tutt’altro che superficiale della mitologia nordica (e non solo, come vedremo).
Entrambe dedite a una forma di black epico, atmosferico e dalla forte componente etnica, le due band colgono questo occasione per presentare ognuna un lungo brano che ne ribadisce una volta di più le capacità già espresse in passato.
Lo split si apre con Wein Fur Polyphem degli Helrunar, i quali , attraverso il proprio leader Skald Draugir, spostano la loro attenzione verso la mitologia mediterranea, affrontando quello che probabilmente ne è il poema più conosciuto, l’Odissea. Il brano è un perfetto esempio di musica colta ed evocativa a 360 gradi: nel suo quarto d’ora si alternano parti corali, passaggi di enorme impatto caratterizzati da riff, ora chirurgici, ora capaci di evocare il fascino mai sopito delle gesta di Ulisse e dei suoi compagni di avventura.
Gli Árstíðir Lífsins, se come già detto si possono considerare in qualche maniera appartenenti allo stesso filone dei propri compagni di split, in realtà spostano ancora più l’asticella verso il lato maggiormente malinconico e sinfonico del genere; intendiamoci, qui non abbiamo a che fare con tastiere bombastiche bensì con strumenti classici che si integrano alla perfezione con le sfuriate di matrice black. Ammetto colpevolmente di non conoscere quanto composto in passato da questa magnifica band, ma il livello compositivo di Vindsvalarmál è tale da indurmi a pensare d’essermi perso qualcosa di importante.
In questi venti minuti la band condotta dal polistrumentista Stefan ci conduce per mano nel mondo dei miti norreni e il tutto avviene con la competenza e la cognizione di causa che proviene solo da uno studio approfondito della materia (lo stesso vale anche per Skald Draugir): tutto ciò trova nella musica il suo naturale sbocco rendendo questo brano una vera e propria perla, superiore al già di per sé notevole contributo degli Helrunar.
Devo dire che ho sempre considerato gli split album alla stregua di opere minori e dal carattere un po’ dispersivo, ma non posso che approvare al 100% quest’operazione, che ci consegna mezz’ora abbondante di ottima musica, oltre ad aumentare l’attesa per le prossime uscite su lunga distanza delle due band.
Dopo tre dischi nel segno di un funeral doom dai tratti atmosferici, i The Howling Void decidono di esplorare nuove strade con il chiaro intento di ritrovare un ulteriore impulso dopo il poco convincente full-length risalente allo scorso autunno.
Nell’esaminare The Womb Beyond the World, infatti, non si poteva fare a meno di notare che la creatività di Ryan (unico titolare del progetto) sembrava essersi progressivamente affievolita e, per assurdo, l’aver pubblicato un esordio di indiscutibile valore come “Megaliths Of The Abyss” pareva aver provocato nel musicista statunitense l’ansia di non riuscire più ad esprimersi a quei livelli. Il recente disco uscito per la Solitude era formalmente impeccabile, ma incapace di trasmettere emozioni all’ascoltatore, difetto tutt’altro che marginale per un genere fondato sul pathos come il funeral doom. Per fortuna, però, quella che era apparsa come un’irreversibile stasi creativa è stata smentita dal contenuto di questo breve Ep, fatto di due sole tracce per poco più di un quarto d’ora di durata, sufficienti però per mostrare la ritrovata vena di Ryan, nonché la sua ammirevole onestà nel rifiutare l’appiattimento su standard compositivi confortevoli ma privi di alcun tipo di sbocco. Certo, il cambio di rotta è netto quanto sorprendente, se pensiamo che, ascoltando Irminsûl e Nine Nights, il primo accostamento che viene in mente è quello con i Moonsorrow: è pacifico, però, che il retaggio doom dei The Howling Void non viene meno e che l’elemento folk inserito in tale contesto possiede, comunque, uno sviluppo diverso rispetto a quello dei maestri finnici, nei quali la base estrema è invece riconducibile al black metal. La scelta di Ryan implica, dunque, la rinuncia totale al growl, rimpiazzato da clean vocals sufficientemente evocative, ma soprattutto il recupero di una vena melodica sacrificata nell’ultima uscita a scapito di interlocutori passaggi di stampo ambient. Tutto questo non può che essere salutato con favore da chi, solo quattro anni fa, aveva individuato The Howling Void come uno dei nomi emergenti della scena doom; infatti, è tutto sommato lecito pensare che questo cambio di rotta non verrà considerato come un’abiura delle proprie radici, visto che le caratteristiche peculiari del sound non vengono del tutto meno, pur se veicolate in maniera differente. Bene così, dunque, per il bravo Ryan; con queste premesse il prossimo full-length potrebbe rilanciare in maniera definitiva le quotazioni del suo progetto.
Zgard è un progetto pagan black metal del prolifico musicista ucraino Yaromisl, che con Astral Glow giunge al terzo disco in poco più di un anno.
Ammetto subito di non essere in possesso di elementi sufficienti per poter fare un raffronto attendibile con le opere precedenti, di certo però, Astral Glow si rivela un lavoro sorprendente per maturità compositiva e per la carica evocativa che sprigiona da ogni nota.
La musica degli Zgard si muove su un’ideale di linea di contatto tra i Moonsorrow ed i Negura Bunget/Dordeduh: con questi ultimi il polistrumentista ucraino condivide non solo l’amore per sonorità folk affidate ad un uso particolare del flauto, ma anche per la natura incontaminata dei Carpazi (in un’epoca che disdegna l’insegnamento della geografia, è bene ricordare come, nel suo sviluppo, la catena montuosa attraversi sia l’Ucraina sia la Romania). I ritmi proposti sono impostati su dei mid-tempo nei quali la chitarra ricerca sovente linee malinconiche, talvolta accompagnate da solenni momenti corali (Stars in the Night Sky), ma anche quando la velocità aumenta non viene mai meno la componente bucolica, ottimamente rappresentata, come detto, dal flauto suonato da Hutsul. Il disco offre il suo meglio probabilmente nella parte iniziale, nella quale spiccano due gioielli come l’opener Balance In Universe e l’altrettanto lunga ed emozionante Letargy Dream, ma va detto che una lieve perdita di intensità nel complesso di un lavoro della durata di circa settanta minuti si può considerare un peccato veniale. Intendiamoci, gli Zgard non raggiungono le vette compositive pressoché inarrivabili dei maestri finnici e la loro musica appare meno intrisa dell’alone di spiritualità che contraddistingue le band di Hupogrammos e Sol Faur, ma proprio la sua maggiore immediatezza rende Astral Glow un lavoro piacevole da ascoltare, anche ripetutamente. Promozione a pieni voti, quindi, per la creatura di Yaromisl e, considerando il suo ritmo di un full-length ogni sei mesi, è lecito attendersi in tempi brevi ulteriori e stimolanti novità.
Tracklist :
1. Balance in Universe
2. When Breakin Down All the Ideals
3. Letargy Dream
4. Stars in the Night Sky
5. Old Woods
6. Astral Glow
7. Return to the Void
8. When Time Comes to Go Away
Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.
Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.
Gli Aylwin sono un duo californiano dedito ad un post-black atmosferico che si colloca sulla scia degli Wolves in The Throne Room: dopo un intro ambientale, Hymns mostra subito sonorità interessanti e avvolgenti, con un bel tema melodico violentato dalla doppia cassa e dal consueto screaming sgraziato ma efficace, mentre Hymns II esordisce sconfinando in territori depressive per poi riacquistare un ritmo parossistico nella sua fase centrale e sfumare in un finale di stampo ambientale. Hymns III non modifica in maniera sensibile le coordinate sonore e chiude in maniera positiva la parte dedicata alla band statunitense che, seppure parzialmente penalizzata da una registrazione rivedibile, mostra potenzialità assolutamente da non sottovalutare.
La one-man band spagnola Zinvmm occupa gli ultimi tredici minuti dello split album con una sola traccia, Beith, che ci trasporta verso sonorità di tipo ambient folk dal sapore ancestrale. Nonostante venga naturale il riferimento a realtà quali Burzum et similia, la componente mediterranea del sound prende piacevolmente il sopravvento anche grazie all’uso di una strumentazione non convenzionale ma sempre appropriata.
Split interessante, dunque, e due nomi da tenere senz’altro sotto osservazione.
Tracklist:
1. Aylwin – The imaged engraved (intro)
2. Aylwin – Hymns
3. Aylwin – Hymns II
4. Aylwin – Remain in trance (Evening Ritual)
5. Aylwin – Hymns III
6. Zinvmm – Beith