Ataraxie – L’Etre et La Nausée

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

L’Etre et La Nausée, ultima fatica discografica del quartetto transalpino, dovrebbe essere portato ad emblema della capacità di esibire sfumature diverse da parte di un genere musicale che, essenzialmente per comodità ma talvolta in maniera semplicistica, viene definito funeral doom. Infatti, appiccicare tale etichetta a quest’album appare assai riduttivo perché, se è vero che non mancano rallentamenti ai limiti dell’asfissia, passaggi talmente densi ed opprimenti che il sangue quasi fatica a trasportare ossigeno al cervello, dall’altra abbiamo momenti nei quali viene sprigionata una rabbia quasi ferina e dagli accenti disperati, ma capace di stemperarsi un attimo dopo in delicati quanto instabili ricami acustici. Per una volta, in questo genere di lavori, l’elemento in più, quello capace di evocare i differenti stati d’animo, è proprio la voce di Jonathan Thery, in grado di interpretare (nel senso vero del termine) le liriche contenute nei brani, passando con eccellente versatilità dal growl più profondo ad un lancinante screaming ai confini del depressive, oppure modulando la voce in una sorta di punto d’incontro tra questi due stili senza dimenticare i passaggi quasi sussurrati che accompagnano i momenti più rarefatti del lavoro. L’Etre et La Nausée consta di quattro lunghi brani più un breve strumentale, suddivisi in due cd per un totale di un’ora e venti di musica al contempo avvolgente e straniante, che rappresentano l’ennesimo travagliato viaggio nei meandri della nostra psiche, un luogo dove in ogni individuo si nasconde il mostro in grado di generare debolezze, paure e rimpianti, in definitiva tutte le sensazioni che ci assalgono nel preciso momento in cui proviamo a porci qualche quesito appena più profondo rispetto alla routine del nostro vivere quotidiano. “La Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza” scrive Sartre in quello che è il suo romanzo più noto, e gli Ataraxie, che fin dal titolo dell’album citano il loro illustre compatriota, rappresentano come meglio non potrebbero, tramite la loro musica, lo sgomento che si impadronisce di un individuo allorché realizza quanto il suo passaggio terreno non solo sia effimero ma addirittura insignificante, se valutato da un punto di vista universale. Per una volta preferirei evitare di affrontare quest’opera “track by track” in maniera tradizionale: L’Etre et La Nausée va vissuto dall’ascoltatore nella sua interezza e con l’opportuna dedizione; gli Ataraxie indulgono in ben poche concessioni o aperture melodiche e proprio per questo, quando ciò accade, assumono ancor più valore all’interno dell’album. Ma se avrete la pazienza e la tenacia di dedicare all’ascolto diverse ore del vostro tempo, scoprirete che il brano preferito in prima battuta, la volta successiva verrà soppiantato da un altro; così, se la prima volta amerete l’opener Procession Of The Insane Ones per la sua capacità d’essere terribilmente “pesante” anche nelle sue fasi acustiche, successivamente sarà Face The Loss Of Your Sanity ad incantarvi per la sua anima profondamente death, poi sarà il turno di Dread The Villains, che in ”soli” undici minuti si rivela un’ideale sintesi delle doti del quartetto di Rouen, finendo poi per godere appieno della sfibrante bellezza dell’infinita Nausee. Come i connazionali Monolithe, anche gli Ataraxie, svincolandosi parzialmente dai consueti schemi compositivi, hanno impresso alla loro carriera una svolta decisiva che consentirà loro d’entrare di diritto nel gotha del doom metal.

Tracklist:
1. Procession Of The Insane Ones
2. Face The Loss Of Your Sanity
3. Etats d’Âme
4. Dread The Villains
5. Nausée

Line-up :
Jonathan Théry – vocals, bass
Frédéric Patte-Brasseur – guitars
Sylvain Esteve – guitars
Pierre Sénécal – drums

ATARAXIE – Facebook

Officium Triste – Mors Viri

La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom

Avevamo lasciato gli Officium Triste qualche mese fa alle prese con “Immersed”, split album condiviso con i tedeschi Ophis, che aveva una volta di più esibito la fedeltà della storica band olandese al death-doom più ortodosso.

Mors Viri conferma pienamente quanto sopra, ma ciò che colpisce favorevolmente è la qualità elevata della proposta, aspetto preponderante in un contesto dove spazio per inventarsi qualcosa, oggettivamente, ce n’è ben poco. La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom: questo è bastato e avanzato per fare degli Officium Triste una delle realtà europee più amate dagli appassionati del genere, e pazienza se talvolta certa critica “avanguardista” si sia mostrata ingenerosa nei loro confronti. Mors Viri dovrebbe far ricredere anche i più scettici, mostrando una band nel pieno della propria maturità e in grado di sciorinare tre quarti d’ora abbondanti di musica priva di cedimenti, che esibisce il meglio in apertura e chiusura del lavoro: infatti, sia Your Fall From Grace che Like Atlas vanno annoverati di diritto tra i migliori brani mai composti dai doomsters di Rotterdam. Non che tutto ciò che sta nel mezzo sia trascurabile: Burning All Boats And Bridges si segnala per un finale dalle dolenti cadenze funeral, To The Gallows si snoda sulle tracce di “My Charcoal Heart”, uno dei brani storici dei nostri, con il quale ha in comune l’efficace ricorso alle clean vocals; Your Heaven, My Underworld costituisce l’unico episodio che esula, almeno in parte, dal consueto canovaccio compositivo, grazie a melodie sicuramente di fruizione più immediata ed un mood neppure troppo oscuro, se raffrontato al resto del disco. The Wounded And The Dying, al contrario, pur essendo comunque un brano più dinamico e ritmato in alcune sue parti, si inserisce nei tipici canoni stilistici della band olandese, mentre One With The Sea è l’immancabile brano che fa leva sull’aspetto emozionale, abbinando il recitato a un tenue tappeto pianistico. Le malinconiche note di Like Atlas chiudono in maniera esemplare un lavoro davvero inattaccabile; del resto dagli Officium Triste costituiscono lo zoccolo duro del death-doom e dimostrano come la coerenza, la competenza e la genuina passione per il genere proposto siano, sempre e comunque, sinonimo di qualità.

Tracklist :
1. Your Fall from Grace
2. Burning All Boats and Bridges
3. Your Heaven, My Underworld
4. Interludium 0
5. To The Gallows
6. The Wounded and the Dying
7. One with the Sea (Part II)
8. Like Atlas

Line-up :
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard de Jong – Guitars
Pim Blankenstein – Vocals
Lawrence Meyer – Bass
Bram Bijlhout – Guitars
Niels Jordaan – Drums

OFFICIUM TRISTE – Facebook

Who Dies In Siberian Slush – We Have Been Dead Since Long Ago

Secondo uscita su lunga distanza per i moscoviti Who Dies In Siberian Slush, dopo il buon esordio “Bitterness Of The Years That Are Lost” datato 2010.

Il nuovo parto della band guidata da E.S. (Evander Sinque) si colloca nella scia del suo predecessore senza rappresentarne, di fatto, un’evoluzione vera e propria: We Have Been Dead Since Long Ago è il classico nero monolite dalle sembianze funeral death doom che, volendo fornire un indirizzo di massima a chi intenda approcciarlo, si colloca più sulla scia dei tedeschi Worship che non su quelle dei concittadini Comatose Vigil o Abstract Spirit.

Infatti, non aspettatevi le dolenti aperture melodiche caratteristiche del funeral doom russo, visto che i WDISS badano maggiormente ad un impatto di matrice death, accentuato dalla rinuncia all’uso delle tastiere. Non per questo il lavoro è trascurabile, brani lunghi e avvolgenti come, per esempio, In A Jar e The Spring possiedono più di un momento degno di nota, ma ciò avviene, guarda caso, proprio quanto le chitarre tracciano linee melodiche che spiccano proprio perché normalmente sacrificate all’interno del disco a favore di riff più rocciosi. Come detto, We Have Been Dead Since Long Ago paga forse il confronto con il suo predecessore che, senza dubbio, aveva dalla sua una superiore freschezza compositiva, oltre a una maggiore linearità di fondo. Discorso a parte lo merita un brano come Funeral March n°14, sicuramente affascinante pure nel suo incedere grottesco, ma oggettivamente un pò fuori contesto a livello stilistico; provate a immaginare una banda che, nell’accompagnare il defunto nel corso del suo ultimo viaggio, suoni una marcia funebre come se fosse un brano funeral doom: esperimento apprezzabile ma solo parzialmente riuscito Complessivamente questo lavoro merita senz’altro l’attenzione da parte degli appassionati delle frange più estreme del doom, ma la sensazione che resta è quella di un’opera incompiuta, dove passaggi di grande impatto emotivo si confondono con altri più manieristici. L’impressione finale è quindi, quella di un disco di passaggio: gli Who Dies In Siberian Slush hanno le potenzialità per fare molto meglio e non ho dubbi che ci riusciranno in futuro; per ora solo una sufficienza piena, ma con la certezza che si può fare senz’altro meglio di così.

Tracklist:
1. The Day of Marvin Heemeyer
2. Refinement of the Mould
3. In a Jar
4. The Spring
5. Funeral March №14
6. Of Immortality

Line-up:
E.S. – Guitars, Vocals
Flint – Guitars (lead)
A.S. – Drums
Tragisk – Bass

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Ennui – Mze Ukunisa

Un esordio che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Ennui è un progetto funeral doom dalla recente genesi proveniente da Tbilisi; David Unsaved e Serj Shengelia, a pochi mesi dall’inizio della loro collaborazione, hanno dato alle stampe questo Mze Ukunisa che si rivela un prodotto piacevolmente sorprendente per il livello compositivo raggiunto dai nostri.

Non è infrequente, del resto, imbattersi in esordi dai tratti approssimativi, sia dal punto di vista compositivo sia da quello esecutivo, ma ciò non avviene fortunatamente in questo caso: il lavoro dei due musicisti georgiani si rivela all’altezza della situazione in ogni frangente, pur nel suo sviluppo dalla durata ben superiore all’ora, potendosi avvalere peraltro di una produzione del tutto adeguata.
Il funeral degli Ennui è prevalentemente di stampo atmosferico, anche se la tastiera svolge essenzialmente una sapiente opera di raccordo, lasciando alla chitarra il compito di tratteggiare le malinconiche melodie che caratterizzano ogni brano del disco.
Le sei lunghe tracce possiedono un andamento piuttosto lineare, con una prima fase spesso dalle tonalità più cupe che lentamente conducono alle ampie ed azzeccate aperture melodiche collocate nella parte finale.
Così Dead Desires, Maybe The Time Will Come e Frozen Candle si rivelano ottimi esempi di songwriting di stampo funereo, anche se il picco viene raggiunto dal duo nella splendida The Way Of My Life’s End, con le sue dolenti note di chitarra screziate dal cavernoso growl di David.
Un esordio quindi, che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Track list :
1. Flowers Of Silence
2. Dead Desires
3. Maybe The Time Will Come
4. The Way Of My Life’s End
5. Frozen Candle
6. Memento Mori

Line-up :
Serj Shengelia – Bass, Drums, Guitars, Keyboards
David Unsaved – Guitars, Keyboards, Vocals

ENNUI – Facebook

Monolithe – Monolithe III

Monolithe III è un unico brano che pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento e progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.

I francesi Monolithe sono da diversi anni un nome piuttosto apprezzato, in ambito funeral doom, grazie ai due omonimi dischi pubblicati nella prima parte dello scorso decennio; dopo l’ uscita dell’ Ep “Interlude Premier” e un silenzio durato cinque anni, interrotto da un nuovo Ep, questo terzo episodio su lunga distanza ci offre una band animata da una ritrovata ispirazione, che la spinge ben oltre i confini del genere pur non smarrendone le caratteristiche peculiari.

Chiaramente le coordinate sonore legate a un sound poderoso e rallentato sono sempre ben evidenti, ma l’elemento innovativo è riscontrabile nella varietà stilistica e ritmica che contrassegna il lavoro in tutti i suoi abbondanti cinquanta muniti, peraltro concentrati in un solo brano.
A tale proposito sorge spontaneo fare un parallelismo con un’altra band funeral che quest’anno ha pubblicato un disco contraddistinto da una sola lunga traccia, ovvero gli Ea, ma appare subito evidente che le due interpretazioni della materia sono piuttosto distanti.
Se da una parte i misteriosi russi continuano imperterriti nello srotolare con la massima lentezza il loro sound incentrato su tastiere maestose e chitarre soliste sempre pronte a tratteggiare stupefacenti passaggi intrisi di malinconia, dall’altra i quattro transalpini donano alla loro lunga composizione una dinamismo che si va a contrapporre a quell’uniformità che, pur costituendone un aspetto positivo, è tratto caratteristico del genere.
Monolithe III racchiude in sé momenti psichedelici e sinfonici che, amalgamati con la pesantezza classica del doom e il perfetto growl di Richard Loudin (autore una decina d’anni fa col suo progetto solista Despond dello splendido “Supreme Funeral Oration”), consentono all’ascoltatore di fruire senza particolare fatica di un monolite sonoro di tale portata; l’intero brano pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento ma progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
Un’evoluzione per certi versi inattesa ma evidenziata nel migliore dei modi da Sylvain Begot e soci, grazie a un album che si va a collocare di diritto tra le migliori uscite di questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. Monolithe III

Line-up :
Benoit Blin – Bass, Guitars
Sebastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Begot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

Worship – Terranean Wake

I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile

I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile; i tedeschi fanno propria la lezione dei padri Thergothon (sentitevi la loro versione di “Evoken” nello splendido album tributo alla seminale band finlandese) portandone alle estreme conseguenze il rallentamento dei suoni, aspetto, questo, che potrebbe apparire paradossale se pensiamo che la caratteristica peculiare del funeral è proprio la dilatazione ossessiva delle note.

In attività ormai da oltre un decennio, i Worship con Terranean Wake sarebbero in teoria solo al loro secondo full-length, dopo l’ormai lontano “Dooom” del 2007, ma di fatto, il demo d’esordio “ Last Tape Before Doomsday” (1999) viene considerato alla stregua di un album vero e proprio, essendo stato unanimemente individuato come l’autentico manifesto musicale del combo bavarese.
Probabilmente la storia di questa magnifica realtà musicale sarebbe stata diversa se nel 2001 uno dei due membri fondatori, Max Varnier, non si fosse tragicamente tolto la vita. Rimasto senza il suo compagno d’avventura, Daniel “The Doommonger” Pharos ha atteso ben sei anni prima di dare alle stampe il magnifico “Dooom”, che presentava anche le versioni ultimate di alcuni brani incompiuti composti da Max. Dopo aver ricostituito una line-up completa, Daniel in questo Terranean Wake propone materiale del tutto inedito e, soprattutto, di produzione recente.
Nonostante questo, il particolare trademark della band tedesca non viene certamente meno e, a mio avviso, voler paragonare questa uscita a quelle precedenti appare un’operazione tutto sommato superflua: del resto il funeral dei Worship resta, come in passato, quanto di più simile possa esistere in campo musicale alla rappresentazione degli ultimi ansiti vitali di un organismo morente. Note dilatate all’inverosimile paiono essere ogni volta il preludio della fine, offrendo un senso di autentico soffocamento salvo poi arrancare anelando l’ultima particella d’ossigeno nel ripartire per l’ennesimo ciclo di questa interminabile agonia. Personalmente ritengo la creatura di Daniel Pharos qualcosa di unico, non solo nel variegato panorama metal, ma anche in quello più ristretto del doom estremo: chi si cimenta nell’ascolto dovrà percorrere una strada lunga, tortuosa e lastricata di sofferenza; ogni volta si proveranno sensazioni diverse rispetto all’occasione precedente, non sempre in senso positivo, giacché la diversa predisposizione d’animo con la quale ci si approccia ai Worship può determinare indifferentemente una dipendenza assoluta o un rifiuto totale e incondizionato.
Resta comunque, come punto fermo, l’elevato valore di un disco suonato e composto da musicisti perfettamente consci di presentare un lavoro dal target quanto mai ristretto e dedicato a pochi ma devoti appassionati.
Tide of Terminus, The Second Coming Apart, Fear Is My Temple e End of an Aeviturne sono solo i diversi titoli che separano in quattro parti un monolite di dolore rappresentato in maniera impietosa, senza alcun intento né effetto catartico: una fine ineluttabile, lenta e spaventosa, attende prima o poi ciascun essere pensante e (apparentemente) vivente su questo pianeta, e i Worship ce lo ricordano utilizzando per i loro testi ben tre lingue diverse (inglese, francese e tedesco) nel corso di Terranean Wake , quasi a voler essere certi che il loro messaggio di desolante rassegnazione giunga più efficacemente a destinazione …

Trackist :
1. Terranean Wake I – Tide of Terminus
2. Terranean Wake II – The Second Coming Apart
3. Terranean Wake III – Fear Is My Temple
4. Terranean Wake IV – End of an Aeviturne

Line-up :
The Doommonger – Guitars (lead), Vocals
Satachrist –  Guitars (rhythm)
Gravedrummer – Drums
Doomnike – Bass

The Howling Void – The Womb Beyond The World

Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto

I The Howling Void, progetto funeral doom del musicista statunitense Ryan, apparvero sulle scene nel 2009 con lo splendido “Megaliths Of The Abyss” sorprendendo per la capacità di amalgamare alla perfezione le sonorità plumbee che il genere richiede con eccellenti aperture melodiche.

Il successivo “Shadows Over the Cosmos” segnò una stagnazione nel processo creativo della one-man band americana, un po’ perché, dopo un esordio di tale livello, le aspettative erano decisamente alte ma, soprattutto, lo sviluppo dei brani denotava una certa staticità, quasi come se la progressione sonora fosse stata inibita dalla volontà di creare un suono affidato ad atmosfere maggiormente oppressive e allo stesso tempo più ponderate.
Nel frattempo Ryan è ulteriormente migliorato nell’esecuzione strumentale e l’attuale produzione rende i suoni decisamente più puliti; questa premessa farebbe presagire, per questo full-length, quel definitivo salto di qualità che ci si attendeva: purtroppo ciò non avviene, nonostante The Womb Beyond The World si riveli comunque di maggior spessore rispetto alla precedente uscita.
La sensazione è che la freschezza dell’esordio sia andata definitivamente perduta, a scapito di una scelta compositiva che ha portato i The Howling Void a focalizzare l’attenzione su partiture di tastiera ripetute in maniera quasi ossessiva, con frequenti sconfinamenti nell’ambient (ne sia prova il brano di chiusura Eleleth).
Le tre lunghe tracce che costituiscono l’ossatura del disco presentano un andamento in fotocopia: un’affascinante parte iniziale, che si protrae per diversi minuti, lasciandoci sospesi fino all’epilogo nella vana attesa della scintilla, di un qualcosa che renda il brano memorabile.
Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto; a conti fatti finisce per collocarsi in una sorta di terra di nessuno privo com’è, da un lato, del dolente senso melodico degli Ea e, dall’altro, troppo atmosferico per avvicinarsi al tetro incedere dei Krief De Soli, tanto per citare due maniere diametralmente opposte di ma ugualmente efficaci di interpretare il funeral doom.
A Ryan sembra essere venuto meno ciò che gli era riuscito con “Megaliths …” ovvero la realizzazione di una comunicazione empatica con l’ascoltatore; è probabile, temo, che la strada intrapresa con The Womb Beyond The World sia quella definitiva ma, il fatto che il musicista texano sia stato capace di produrre un disco intenso e del tutto convincente solo tre anni fa, consente di sperare che quanto mostrato nelle due uscite successive sia riconducibile a un momentaneo calo di ispirazione e che i The Howling Void siano, in futuro, nuovamente in grado di stupire.

Tracklist :
1. The Womb Beyond the World
2. The Silence of Centuries End
3. Lightless Depths
4. Eleleth

Line-up :
Ryan

Tempestuous Fall – The Stars Would Not Awake You

Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tempestuous Fall è la nuova incarnazione del musicista australiano Dis Pater, conosciuto finora nell’ambiente per il suo progetto principale Midnight Odyssey.

Se i lavori pubblicati con questo monicker sono sempre stati all’insegna di un affascinante black ambient, The Stars Would Not Awake You esplora gli oscuri meandri dei territori funeral-death doom, dando libero sfogo a quelle influenze primigenie che, a detta dello stesso autore, per qualche insondabile motivo fino a oggi non avevano trovato il loro naturale sbocco.
Il risultato è davvero apprezzabile anche perchè, nonostante il dichiarato riferimento ai lavori di My Dying Bride e Anathema degli anni ’90, l’album si sviluppa su coordinate tutt’altro che scontate nel corso della sua ora abbondante di durata distribuita su cinque lunghi brani, trovando i suoi picchi qualitativi nell’opener Old & Grey e nel brano di chiusura A Cold Stale Goodbye.
Nel primo caso colpiscono il grande gusto melodico e le clean vocals evocative, mentre nel secondo le atmosfere si fanno maggiormente plumbee e chiaramente di stampo funeral, con un sound che riporta direttamente ai mitici Thergothon.
In questo senso anche la title-track si rivela traccia di grande qualità, soprattutto quando un solenne assieme di chitarra, tastiere e growl irrompe brutalizzando letteralmente i delicati passaggi pianistici, mentre sia Beneath a Stone Grave che Marble Tears contribuiscono a mantenerne elevato il livello medio dell’intero lavoro.
Tenendo conto del fatto che Dis Pater si cimenta per la prima volta con questo genere e che l’album è uscito contemporaneamente a un lavoro immenso come “Atra Mors” degli Evoken, si può tranquillamente affermare che The Stars Would Not Awake You non esce affatto schiacciato dal confronto, inserendosi, invece, sulla scia dei maestri statunitensi grazie a un songwriting ispirato e tutt’altro che di maniera.
Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tracklist :
1. Old & Grey
2. Beneath a Stone Grave
3. Marble Tears
4. The Stars Would Not Awake You
5. A Cold Stale Goodbye

Line-up :
Dis Pater – Vocals, All Instruments

Malasangre – Lux Deerit Soli

“Lux Deerit Soli” è un’esperienza sonora che chiunque ami immergersi in atmosfere oscure e pervase da autentica sofferenza deve affrontare senza indugi.

Un bel viaggio agli inferi senza biglietto di ritorno è forse ciò che davvero ci serve per esorcizzare una realtà paradossalmente ancora più cupa di quella dipinta dai Malasangre, ma che continuiamo bellamente a ignorare “facendo finta di essere sani”

Lux Deerit Soli non cerca di indorarci la pillola nemmeno per un attimo, con la sua miscela soffocante di funeral e drone alla quale un cantato di chiara matrice black fornisce un ulteriore elemento letale.
L’incedere lento, quasi esasperante delle due pachidermiche tracce Sa Ta e Na Ma, entrambe dalla durata superiore alla mezz’ora, sono un autentica prova di resistenza per chiunque tenti di approcciarle ma, quando si giunge al termine dell’ascolto, la soddisfazione che si prova è direttamente proporzionale all’impegno profuso.
Descrivere in maniera organica un monolite sonoro di tale portata è un esercizio complesso: come termine di paragone può rivelarsi utile una comparazione con il recente “Munus Solitudinis” dei Krief de Soli, che al confronto, in certi frangenti, potrebbe apparire quasi “orecchiabile”…
I Malasangre, infatti, scarnificano fino all’osso la materia funeral e, scientemente, evitano di ricorrere ai lugubri intermezzi tastieristici, che spesso altre band utilizzano per dare un minimo di respiro alle proprie composizioni, ottenendo così un effetto magmatico e annichilente allo stesso tempo.
La band italiana ritorna con questo terzo full-length a ben sette anni di distanza dal precedente, offrendoci un lavoro dall’enorme valore oltre che un raro esempio d’integrità artistica e, perché no, di coraggio nel proporre una musica che, inevitabilmente, sarà sempre e comunque appannaggio di un limitato numero di persone dotate di particolare sensibilità.
Lux Deerit Soli è un’esperienza sonora che chiunque ami immergersi in atmosfere oscure e pervase da autentica sofferenza deve affrontare senza indugi.

Track-list :
1. Sa Ta
2. Na Ma

Line-up :
NC-9.5 – Bass
FH-37 – Drums, Samples
TK-7.8 – Guitars
VP-33 – Guitars, Samples
EM-00 – Vocals

Ankhagram – Thoughts

Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Avevamo lasciato Ankhagram nel 2010 alle prese con “Where Are You Now”, un buonissimo lavoro impregnato di death-doom atmosferico, che lasciava presagire interessanti sviluppi per il futuro.

Nonostante l’ancora giovane età di Dead, questo il nickname del musicista russo che è unico depositario del progetto, Thoughts è il quinto full-length pubblicato in sei anni: un intervallo di tempo già importante nel corso del quale il sound si è progressivamente evoluto, guadagnando in personalità e maturità rispetto ai primi album caratterizzati da apprezzabili slanci creativi alternati a evidenti ingenuità.
Ankhagram nel 2012 significa funeral-doom dall’accentuata componente ambient, un mix sonoro che scongiura la segregazione negli antri rumoristici del drone a vantaggio di un’indole melodica che solo di rado viene screziata dal growl di Dead.
L’opener Gates In Mind, pur essendo il brano di gran lunga più breve del lotto, risulta già indicativa dell’indirizzo stilistico dell’album, con il delicato giro di pianoforte che ci accompagna dall’inizio alla fine senza risultare, nonostante ciò, prolisso o stucchevole.
Ben più impegnativo si rivela l’ascolto di Don’t Feel This Life che ci riporta in territori funeral, sulla falsariga di Ea e Comatose Vigil, tanto per restare all’interno dell’ex-impero sovietico; i diciotto minuti di sviluppo della traccia sono pervasi, piuttosto che dalla disperazione o dal cupo nichilismo di altre uscite nello steso ambito, da un soffuso senso di malinconia che si rivela una caratteristica costante di Thoughts.
Lost In Reality è un altro bell’episodio di stampo ambient nel quale il costante sottofondo rappresentato dallo sferragliare di un treno non può che rappresentare metaforicamente lo scorrere del tempo, mentre I’m A Fake e Without Us ripropongono il funeral di stampo atmosferico che, come abbiamo visto, è nelle corde di Dead.
La title-track chiude degnamente l’album dopo quasi settantacinque minuti di ottima musica riportando alla ribalta il volto ambient della one-man band russa.
Proprio perché la componente ambientale è accompagnata da un deciso tratto melodico, l’ascolto dell’album si rivela tutt’altro che faticoso, ovviamente rapportando il tutto al genere proposto; personalmente non mi sento di muovere alcuna critica al musicista di Ekaterinburg, anzi, ritengo che Thoughts ne rappresenti il raggiungimento della definitiva maturità artistica.
Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Tracklist :
1. Gates in Mind
2. Don’t Feel this Life
3. Lost in Reality
4. I’m a Fake
5. Without Us
6. Thoughts

Line-up :
Dead – All instruments, Vocals

Krief De Soli – Munus Solitudinis

“Munus solitudinis” è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

I Krief De Soli tornano sulle scene con il secondo disco che segue, a due anni di distanza, l’interessante “Procul Este, Profani…” ; la one-man band canadese (Quebec), creatura del misterioso Egregoire De Sang, continua sulla strada già tracciata proponendo un funeral doom che estremizza in senso claustrofobico quanto già concepito in passato dai capiscuola del genere.

Per meglio chiarire le sonorità presenti in Munus Solitudinis, si potrebbe dire che questo lavoro, come già il suo predecessore, si pone come un’ideale evoluzione di quel monumento alla mestizia quale fu “Tides Of Awakening”, rimasto l’unico parto su lunga distanza dei Tyranny.
Evidentemente, pur non essendo il funeral certamente musica per tutti, questa sua particolare espressione si rivela, se possibile, ancora più ostica e di tormentata assimilazione; in gran parte dei suoi quasi settanta minuti, il disco si presenta come un inaccessibile monolite sonoro che, alla stregua di una processione di dannati, procede con lentezza esasperante verso una fine che pare non giungere mai.
Il growl di Egregoire è una sorta di rantolo che ben si addice alle atmosfere presenti nel lavoro, come si evince dalla prima traccia, che chiarisce subito gli intenti del nostro sia per il suo titolo, Nascentes Morimur, che per la sua durata superiore ai venti minuti.
Vita Memoriae – Exordium Sanctus è un breve (se rapportato al resto del disco) strumentale che rappresenta una pausa all’interno dell’ineluttabile cammino verso il nulla.
Ma è con Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae che il musicista canadese raggiunge il suo apice compositivo: partendo dalle medesime atmosfere della traccia iniziale, il brano si apre progressivamente verso un barlume di luce, un’illusoria speranza descritta con uno stile meno apocalittico e molto vicino al malinconico incedere dei magnifici Ea; la chitarra tratteggia pochi ma toccanti accordi e il senso di soffocamento lascia finalmente spazio alla commozione per ciò che non è stato e, sopratutto, per ciò che mai sarà …
Deo Volente… Caelo Tegi riporta il disco alle atmosfere soffocanti che tornano così a raffigurare quelli che potrebbero essere gli estremi ansiti di vita (ammesso che una vita ci sia mai stata), mentre Sanguis Et Umbra Sumus è dolore puro portato a livelli parossistici tanto che, quando si giunge all’ultima nota, non si capisce se si tratti di una liberazione o se questa sorta di catarsi purificatrice, per compiersi, debba continuare all’infinito.
Munus Solitudinis è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

Tracklist :
1. Nascentes Morimur
2. Vita Memoriae – Exordium Sanctus
3. Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae
4. Deo Volente… Caelo Tegi
5. Sanguis Et Umbra Sumus

Line-up :
Egregoir de Sang

Ea – Ea

Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.

Non è facile parlare in maniera obiettiva di qualcosa o qualcuno che in una certa fase della propria vita ha contrassegnato o accompagnato i momenti più belli oppure i più difficili.

Proprio per questo per me recensire un album degli Ea è sempre piacevole da un lato e tremendamente complesso da un altro, in considerazione del fatto che non posso nascondere il mio amore sconfinato per ogni nota composta da questa band. Quindi con questa recensione non posso fare altro che cercare di trasmettere le stesse sensazioni a chi mi leggerà, con la speranza di spingere più persone possibili all’ascolto di questa misteriosa band.
Evidentemente, al di là dell’aspetto affettivo non è certo per piaggeria che si può lodare l’operato di un gruppo del quale non si conosce l’identità dei componenti e che non possiede un sito internet, una pagina su Facebook o MySpace, nulla di nulla che possa far sperare il povero recensore di ricevere il minimo feedback …
Quel poco che sappiamo da voci ufficiose è che si dice siano musicisti russi (ma la stessa Solitude che in quelle lande ha la propria sede non accredita questa tesi), che Ea è il nome di una divinità della mitologia accadico-babilonese e che sia i testi sia la lingua utilizzata fanno riferimento a queste antiche civiltà.
Ma questi in fondo sono aspetti marginali perché gli Ea in realtà non sono una band, bensì una sensazione che penetra nell’anima, che si insinua nella mente con le sue note malinconiche guidate ora da efficaci linee di tastiera ora da una chitarra dal timbro desolatamente dilatato.
Il sound di questi anonimi cantori del dolore, infatti, non possiede i tratti disperatamente claustrofobici e l’attitudine nichilista dei Worship o il senso di ineluttabile tragedia che si annida dietro ad ogni nota composta dai Colosseum.
Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.
Questo episodio della loro discografia, il quarto in sei anni, è la logica prosecuzione dei precedenti, anche se per intensità emotiva si avvicina più a “Ea II” che non a “Ea Taesse” e “Au Ellai”: il piccolo elemento di novità risiede nell’aver scelto di presentare un unico brano di quarantotto minuti anziché suddividere come di consueto la musica composta in due o tre tracce.
Quello che impressiona realmente è la capacità che esibiscono questi musicisti nel toccare le giuste corde dell’emozione senza ricorrere a particolari virtuosismi e nemmeno esibendo una tecnica fuori dal comune. La grandezza della band si esalta proprio nell’estrema semplicità compositiva, quella che porta alcune frange della critica a snobbarli perché artefici di soluzioni non sufficientemente cervellotiche per chi si diletta nell’esercizio dello snobismo intellettuale.
Gli Ea hanno creato una via del tutto personale al funeral doom, battuta di recente pure dagli ottimi Comatose Vigil con il loro splendido “Fuimus … Non Sumus”, anche se non sarebbe onesto ignorare che tutti quelli che si cimentano con questo genere devono fare i conti con le inevitabili influenze dei Thergothon prima e degli Skepticism poi.
Questa musica non è certo per chi ricerca avanguardistiche novità o rumorismi assortiti spacciati come la nuova frontiera della musica estrema; al contrario è nutrimento essenziale per chi si “accontenta” di commuoversi al cospetto della malinconica colonna sonora di un’esistenza inevitabilmente destinata all’oblio.

Tracklist:
1. Ea

Dreams After Death – Embraced By The Light

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Il suo progetto Dreams After Death, alla resa dei conti, si va a collocare non lontano da coloro che hanno segnato, con la loro arte funerea, gli ultimi due decenni.
Qui, come già detto in altre occasioni, nulla si crea e nulla si distrugge, l’unico scopo è di tradurre in musica, in maniera onesta e sentita, la malinconia, la tristezza e il dolore che talvolta ci accompagnano nelle diverse fasi della nostra esistenza.
Tra le note di Embracing By The Light troviamo naturali riferimenti a tutti i numi tutelari di Andras, dai progenitori Thergothon agli altri totem del movimento finlandese come Colosseum, Skepticism e Shape Of Despair, passando dagli Ea, per il tappeto sonoro delineato dall’andamento dolente delle tastiere e dagli Worship, per la loro opprimente lentezza .
Il polistrumentista ungherese riesce nella non facile impresa di assimilare queste influenze e amalgamarle presentandole in una forma del tutto personale e senza apparire mai derivativo.
Se spesso le one-man band risentono di diversi sbalzi qualitativi a livello strumentale e compositivo, qui non c’è proprio nulla da eccepire : ogni strumento è suonato con la dovuta perizia, il growl, pur se usato con parsimonia, è sempre all’altezza della situazione e la produzione riesce a valorizzare degnamente il tutto.
Tra i sei brani, tutti di una lunghezza standard per il genere proposto, spicca in particolare il trittico iniziale : Genesis, che con le sue atmosfere a metà strada tra Ea e Comatose Vigil è l’ideale introduzione al senso di angoscia e disperazione che il musicista magiaro vuole rappresentare; Funeral, che fin dal titolo si presenta come il manifesto musicale di Andras, e Meeeting With The Ancestors, certamente il brano cardine del disco con i suoi 11 minuti intrisi d’intensa drammaticità e caratterizzati da azzeccate linee melodiche.
The Endless Time inizia a mostrare un altro aspetto dei Dreams After Death, ovvero quello ambient, decisamente efficace e mai fine a se stesso come spesso accade, mentre in From Time Immemorial Andras libera il suo probabile retaggio classico con alcuni passaggi che potrebbero apparire come una rilettura in versione doom delle composizioni di Bela Bartok.
L’album si chiude con il delicato e malinconico strumentale Outer Space lasciandoci l’impressione di aver scoperto un’artista che già ora merita un posto di rilievo in ambito funeral doom e che, in un futuro prossimo, potrebbe ambire a eguagliare se non superare i propri maestri.

Tracklist:
1. Genesis
2. Funeral
3. Meeting With The Ancestors
4. The Endless Time
5. From Time Immemorial
6. Outer Space

Line-up:
Andras Illes – vocals, all instruments

Mournful Congregation – The Book Of Kings

I Mournful Congregation con The Book Of Kings si confermano tra le realtà più importanti della scena funeral doom, sfoderando uno dei migliori lavori dell’anno assieme a quelli di Colosseum , Esoteric e Comatose Vigil.

Attivi dal 1993, gli australiani Mournful Congregation appartengono alla ristretta cerchia degli eredi legittimi dei Thergothon , ovvero i “padri” del funeral doom; nonostante la band sia sulla scena ormai da quasi due decenni, The Book Of Kings è solo il quarto full-length in una discografia comunque ricca di diverse uscite , sotto forma di compilation o split, tutte contraddistinte da un’elevata qualità compositiva.

Il brano iniziale The Catechism Of Depression già dal titolo appare come una dichiarazione d’intenti nei confronti dell’ascoltatore che si trova risucchiato in un vortice di atmosfere plumbee che di tanto in tanto vengono squarciate da emozionanti aperture melodiche.
Il successivo The Waterless Streams si mantiene sui livelli eccelsi del brano precedente ma è con The Bitter Veils Of Solemnity che si raggiunge uno dei picchi emotivi, grazie ai suoi dodici minuti di arpeggi acustici che in qualche modo ricordano gli Agalloch di “The White”, sebbene privati della loro componente folk.
Tre quarti d’ora di musica di simile fattura sarebbero più che sufficienti per chiunque ma gli australiani dimostrano di non soffrire di alcuna crisi compositiva chiudendo il disco con i trentatré minuti della title-track, un brano che, nonostante il suo lento incedere, non annoia mai grazie ai frequenti mutamenti di atmosfera ed i sapienti inserti di chitarra solista .
I Mournful Congregation con The Book Of Kings si confermano tra le realtà più importanti della scena funeral doom, sfoderando uno dei migliori lavori dell’anno assieme a quelli di Colosseum , Esoteric e Comatose Vigil.

Tracklist:
1. The Catechism of Depression
2. The Waterless Streams
3. The Bitter Veils of Solemnity
4. The Book of Kings

Line-up:
Adrian Bickle – Drums
Ben Newsome – Bass
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook