Aspercrucio – Dead Water

Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà

La Russia è l’ultima frontiera del metal gotico e romantico, lo è per quantità ma anche per qualità.

Non sono poche, infatti, le band provenienti da quelle lande che si sono rese autrici negli ultimi anni di ottime prove, più o meno estreme o comunque intrise di una componente doom. I siberiani Aspercrucio appartengono a questo novero e, come avvenuto per altre band dell’area ex-sovietica, la Nihil Art ha contribuito a promuovere fuori dai confini il lavoro già edito dalla Dark East, rendendolo più appetibile con la diffusione di note biografiche particolareggiate e rendendo comprensibili ai più i titoli dell’album e dei brani, grazie alla loro traduzione in inglese.
Infatti, il gothic doom degli Aspercrucio è cantato interamente in lingua madre, il che tutto sommato non incide più di tanto sulla sua fruibilità, visto che poi alla fine è sempre la musica a parlare e che, comunque, al giorno d’oggi ottenere una traduzione dei testi è piuttosto agevole.
L’aspetto principale di Dead Water è però il suo essere una sorta di emanazione del gothic doom novantiano: romantico, orecchiabile, con un bel lavoro solista delle chitarre, una tastiera che conduce le danze senza essere invadente ed il growl molto efficace del leader Stanislav Filinov, riporta piacevolmente alla memoria gli Evereve quand’erano ancora guidati dal povero Tom Sedotschenko, oppure quella scuola olandese che aveva per protagonisti, oltre ai più noti The Gathering, nomi “minori” come Moon Of Sorrow, Celestial Season ed Orphanage .
Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà (vedasi anche l’uso appropriato degli inserti vocali femminili), nel senso che non si ricorre mai a soluzioni debordanti per cercare di stupire ad ogni costo.
Pertanto, gli amanti del genere avranno di che godere ala cospetto di brani di ottima fattura come Broken Heart, Dreams e soprattutto Silence … Despair, canzone di oltre diciassette minuti che chiude l’album e che mette in mostra la capacità di offrire sonorità di volta in volta drammatiche, evocative ed intrise di splendide.
Tutto ciò è quanto gli Aspercrucio sono in gradi di offrire: oggettivamente, non poco.

Tracklist:
1.The Darkness Inside
2.Endless Leaf Fall
3.Broken Heart
4.Abyss
5.Alien Reflection
6.Dreams
7.Silence… Despair

Line-up:
Stanislav Filinov – guitars, vocals
Ahndor Yukhnevich – guitars, vocals
Mikhail Sartakov – bass guitar
Natalia Stupina – keyboards
Alexander Schukin – drums

On Thorns I Lay – Eternal Silence

Il settimo album degli On Thorns I Lay ha visto finalmente la luce, non fatevelo sfuggire, ve ne innamorerete perdutamente.

Intorno alla metà degli anni novanta il doom/death dalle atmosfere gotiche ebbe il suo momento di gloria, trainato dal successo di band come Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride, a cui si aggiunsero molti altri gruppi da ogni parte d’Europa.

Tra le label come sempre in questi casi iniziò una gara alla ricerca della new sensation del genere, ma fu nell’underground che nacquero le proposte più interessanti.
La Holy Records in quegli anni vedeva tra le proprie file un buon numero di gruppi dalle indubbie qualità, il suo roster era composto da realtà che andavano dal death al doom, dal black classico all’avantgarde, regalando piccoli gioielli di musica estrema ed buone band, tra le quali i greci On Thorns I Lay, che a quel tempo debuttarono con l’ottimo Sounds of Beautiful Experience.
Ancora cinque lavori tra il 1997 ed il 2003, con il bellissimo Crystal Tears a fare da picco qualitativo, prima del trasferimento in Romania per finire gli studi dei due membri fondatori, Stefanos Kintzoglou (basso e voce) e Chris Dragamestianos (chitarra).
Un silenzio durato una dozzina d’anni, ed un album da completare, Precious Silence, che torna rimasterizzato e rimixato sul finire dello scorso anno, licenziato per la Sleaszy Rider e con un titolo nuovo di zecca, Eternal Silence.
Sono della partita Maxi Nil, female vocals ex Visions Of Atlantis, Fotis alle pelli, Antony alle tastiere e l’ospite Labros Kiklis al violino, anche se l’attuale line up vede la singer Anna prendere il posto dietro al microfono della bravissima musa che con la la sua voce incanta su questa opera.
Eternal Silence si apre con tutti i cliché del genere, ed almeno per chi ha vissuto in presa diretta la musica di quel periodo risulta un bel sentire, con il violino a dispensare melodie melanconiche su un tappeto di death metal che la voce brutal di Stefanos rende aggressivo e ruvido, questa è Breathing, primo brano e centro pieno.
Dalla title track in poi entra sulla scena la voce della Nil, prima a contendersi le luci della ribalta con il growl, poi assoluta protagonista dei restanti brani con il suo tono di celestiale, sulfurea e raffinata sirena.
Le atmosfere sono quelle a cui la band ci aveva abituato, d’altronde i brani sono stati scritti dodici anni fa e continuano la tradizione del gruppo, con songs più ritmate e death oriented che lasciano spazio a passaggi gothic, dalla sempre raffinata qualità, con violino e piano che accompagnano la voce dell’eterea musa, ispiratrice di viaggi adagiati sulla coltre di nebbia autunnale (People We Hurt).
Le linee seguite dal gruppo greco, sono quelle delle produzioni, se mi concedete il termine tanto di moda di questi tempi, old school e seguono il sound primigenio del death/doom dalle atmosfere gotiche, così da affiancare Eternal Silence alle opere dei vari My Dying Bride, Celestial Season, Theatre Of Tragedy, primi Within Temptation e
3rd And The Mortal.
Il settimo album degli On Thorns I Lay ha visto finalmente la luce, non fatevelo sfuggire, ve ne innamorerete perdutamente.

TRACKLIST
1. Believe
2. Breathing
3. Eternal Silence
4. Cursed
5. Life Without You
6. People We Hurt
7. Escape From Loneliness
8. One Day To Live
9. Touching The Unknown
10. Eternal Silence (bonus video)

LINE-UP

CURRENT LINE-UP
Stefanos – bass, brutal vocals
Chris D. – guitars
Anna – vox
Fotis – drums
Antony – keyboards

RECORDING LINE-UP
Stefanos – bass, brutal vocals
Chris D. – guitars
Maxi Nil – vox
Fotis – drums
Antony – keyboards
*guest: Labros Kiklis – violins

ON THORNS I LAY – Facebook

Defiance of Decease – Suicide

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta, allora divise tra la scena olandese e quella britannica.

La band russa Defiance Of Decease, all’esordio con questo album licenziato dalla Narcoleptica Prod. in edizione limitata nel supporto musicassetta, si posiziona esattamente fra le due scene, fondamentali per l’evoluzione dei suoni dark, doom e gothic.
E Suicide, il loro debutto accompagnato da una bellissima copertina, torna a far respirare ai fans del genere le atmosfere malinconiche e dark, accompagnate dall’estremismo sonoro del doom/death di quegli anni.
Voce femminile delicata, growl possente, lenti passaggi oscuri, note eleganti dei tasti d’avorio, che passano come banchi di nebbia su tappeti metallici e tanta, drammatica melanconia, fanno di Suicide un buon esempio del genere, come detto lontano dalle produzioni bombastiche a cui ci hanno abituato le symphonic gothic bands odierne.
La band inizia il calvario che porta al suicidio con la dark song Like a Star in The Sky, nella quale l’elegante voce di Anna Velichko accompagna il growl di estrazione doom/death di Ricardo Digolos, ma già dalla seconda traccia (Possessed by a Demon) i suoni si induriscono, il lento incedere verso la morte passa dal monolitico muro sonoro costruito dal gruppo, rendendo il sound pregno di tragiche atmosfere gothic, dove affiorano i demoni che portano la protagonista al fatale gesto.
Nelle oscure trame di brani come Farewell in Heart, Blade of Death e Ribbon of Life, vivono e si rigenerano le note passionali e drammatiche dei primi The Gathering, Paradise Lost, Orphanage e My Dying Bride, nomi di spicco della straordinaria scena gothic doom dei primi anni novanta.
Certo, la produzione non è delle migliori e la band pecca in qualche passaggio monocorde, ma se siete amanti del genere un ascolto è assolutamente consigliato: album per anime tragicamente romantiche.

TRACKLIST
1. Like a Star in the Sky
2. Possessed by a Demon
3. Death in Fire
4. Farewell in Heart
5. Blade of Death
6. Drowned
7. Cruel World
8. Ribbon of Life

LINE-UP
Sergio Darksol – Bass
Paul Stadman – Guitars
Ricardo Digolos – Guitars, Vocals
Juliana Stadman – Keyboards, Vocals (backing)
Arthuro Doretti – Drums

DEFIANCE OF DECEASE – Facebook

Draconian – Sovran

Prendiamo in esame l’ultimo album dei Draconian a qualche mese dalla sua uscita, il tempo necessario per elaborare una valutazione meno istintiva e più ragionata, come va fatto per nomi di questo spessore.

La band svedese è stata, ed è ancora, la virtuale portabandiera del gothic doom, titolo conquistato grazie ad una manciata di album magnifici pubblicati nello scorso decennio.
Ma, se già Turning Season Within, ultimo di questi e risalente al 2008, mostrava i primi segni di appannamento, A Rose for the Apocalypse esibiva suoni un po’ troppo leccati ed inoffensivi per pensare di eguagliare quanto fatto in passato.
Dopo diversi anni, la band di Johan Ericson si ripresenta con questo Sovran, disco nel quale la prima cosa che salta all’occhio è l’avvicendamento alla voce femminile, affidata oggi alla sudafricana Heike Langhans in sostituzione della storica Lisa Johansson; nonostante il timbro della nuova vocalist abbia un impronta meno lirica e più ordinaria, a livello di sound i Draconian paiono aver fatto un gradito passo indietro, tornando a sciorinare un gothic doom melodico sì, ma altrettanto cupo e recuperando almeno in parte il proprio trademark romantico e malinconico.
Se non si può che salutare con soddisfazione questa sorta di retromarcia, va anche detto che il livello di intensità che caratterizzava i brani contenuti in Arcane Rain Fell e The Burning Halo non viene comunque eguagliato: i Draconian odierni sono una band che propone in maniera impeccabile il genere musicale che ha contribuito ad elevare ai massimi livelli, ma la perfezione formale finisce alla lunga per sovrastare l’impatto emotivo.
A sprazzi riaffiorano momenti dal grande potenziale evocativo (Dusk Mariner su tutte) ma, nel complesso, sembra proprio che le proprie pulsioni più oscure e drammatiche Ericson le abbia convogliate principalmente nel suo splendido progetto funeral/death doom Doom:Vs.
Intendiamoci, Sovran è un album di buonissimo livello che non potrà deludere chi ama questo tipo di sonorità, rafforzato da una tracklist che non presenta momenti deboli ma neppure picchi degni di farsi ricordare negli anni a venire e, alla fine, proprio quest’ultimo aspetto costituisce la vera pecca, tanto più quando la band che ne è protagonista si chiama Draconian.

Tracklist
1. Heavy Lies the Crown
2. The Wretched Tide
3. Pale Tortured Blue
4. Stellar Tombs
5. No Lonelier Star
6. Dusk Mariner
7. Dishearten
8. Rivers Between Us
9. The Marriage of Attaris
10. With Love and Defiance

Line-up:
Johan Ericson – Guitars
Anders Jacobsson – Vocals
Jerry Torstensson – Drums
Daniel Arvidsson – Guitars
Fredrik Johansson – Bass
Heike Langhans – Vocals

DRACONIAN – Facebook

Motus Tenebrae – Deathrising

In Deathrising il gothic doom viene espresso a livelli ottimali da un gruppo di musicisti esperti e competenti

Togliamoci subito il dente: a chi obietterà che i Motus Tenebrae assomigliano in maniera spiccata ai Paradise Lost non si può che rispondere affermativamente.

Detto questo, e messa una pietra tombale sopra ogni desiderio o ricerca di originalità, quello che resta di questo Deathrising, quinta fatica su lunga distanza della band pisana, non è ne poco né tanto meno trascurabile.
Gli 11 brani che compongono la tracklist dell’album faranno sicuramente la gioia di chi ama questo tipo di sonorità e, ovviamente, stravede anche per le ultime uscite della premiata ditta Mackintosh/Holmes.
Ribadisco il mio pensiero: l’originalità, se non é accompagnata da una scrittura all’altezza, rimane un esercizio di stile coraggioso ma fine a sé stesso, mentre, al contrario, anche un lavoro fortemente influenzato da quanto fatto da altri in passato (a patto di non scadere nel mero plagio) può risultare assolutamente efficace se composto e suonato da musicisti adeguatamente ispirati.
E questo il caso di Deathrising, dove il gothic doom viene espresso a livelli ottimali da una band esperta e competente, con alcuni picchi non indifferenti raggiunti nelle tracce contraddistinte da linee melodiche più accentuate, mentre risultano un po’ meno avvincenti le canzoni caratterizzate da riff più pesanti: fa eccezione in tal senso un episodio magnifico come Light That We Are, che ci teletrasporta all’epoca di Icon, senza neppure sfigurare al confronto.
È chiaro, però, che la malinconica opener Our Weakness e Black Sun, sorta di Forever Failure dei giorni nostri, aprono come meglio non avrebbero potuto un lavoro indubbiamente bello, che vede almeno un’altra perla come Haunt Me, senza dimenticare l’ambientazione oltremodo cupa della title track ed una For A Change che mostra uno svincolo dalle influenze lostiane per approdare sui territori dei Novembers Doom più aggressivi.
Del resto la voce di Luis McFadden, fondatore dei Motus Tenebrae assieme al chitarrista Andreas Das Cox, e al ritorno in formazione dopo qualche anno di assenza, finisce per accentuare ulteriormente le affinità con i maestri di Halifax per la sua intonazione contigua a quella di Nick Holmes, ma il vocalist toscano, in quest’occasione, fornisce una prova ancor più convincente di quanto fatto su The Dark Days dei Disbeliever, in quanto a mio avviso maggiormente a suo agio con le più robuste sonorità di Deathrising.
E’ nella natura delle cose il fatto che artisti seminali creino uno stuolo di seguaci, alcuni bravi e preparati, altri meno: i Motus Tenebrae appartengono sicuramente alla prima di queste categorie, dall’alto di un’esperienza ultradecennale che depone indubbiamente a loro favore, visto che qui non si parla certo di un manipolo di ragazzini folgorati da un giorno all’altro sulla via di Damasco …
Se mi si concede il parallelismo, i Motus Tenebrae stanno ai  Paradise Lost come gli NFD stanno ai Fields Of The Nephilim: penso che neppure lo stesso Peter White abbia mai negato (anche per la presenza di ex FOTN in line-up) di attingere dall’immenso patrimonio musicale lasciato dalla band di McCoy, ma nonostante ciò Waking The Dead è stato considerato a ragione uno dei migliori album usciti lo scorso anno in ambito gothic metal, un motivo in più per mantenere lo stesso metro di giudizio rispetto a quanto offertoci dai Motus Tenebrae con Deathrising.

Tracklist:
1. Our Weakness
2. Black Sun
3. For a Change
4. Light That We Are
5. Faded
6. Deathrising
7. Haunt Me
8. Grace
9. Cold World
10. Cherish My Pain
11. Desolation

Line-up:
Luis McFadden – Vocals
Andreas Das Cox – Bass
Daniel Cyranna – Guitars
Omar Harvey – Keyboards, Synth
Andrea Falaschi – Drums

MOTUS TENEBRAE – Facebook

Fungi From Yoggoth / Liturgia Maleficarum

Split in cassetta di altissima qualità, direttamente dagli abissi di un inferno che striscia nel sottobosco musicale, e che fortunatamente non ci lascia mai, grazie ad etichette come la Diazepam.

Split in cassetta da sessanta minuti per la Diazepam, etichetta che continua a popolare i nostri incubi.

Il lato a è territorio dei Fungi From Yoggoth con un suono dark ambient rituale vecchio stile, che ci da la possibilità di ascoltare qualcosa che non gira molto negli ultimi tempi. Fungi From Yoggoth più che musica fa ambientazioni sonore, come un gas che passa da sotto una porta chiusa ed invade il nostro ambiente in silenzio. Il darkambient è un genere particolare, e caricato di ritualità come in questo caso è ancora più particolare. I cinque pezzi sono malati ed insani, prodotti molto bene con passione e dedizione, ed ululano come si deve.
L’altro lato della cassetta contiene qualcosa che non ti aspetteresti solo se non conosci la Diazepam, ecco quindi il nerissimo doom ambient con tocchi black metal dei Liturgia Maleficarum. Il gruppo proviene da Dunwich e fa una musica morbosa e quasi fastidiosa nella sua tenebrosa bellezza, e le tastiere sullo sfondo danno una pennellata particolare, quasi che una primitiva elettronica contaminasse la tavolozza di un pittore già morto.
Split in cassetta di altissima qualità, direttamente dagli abissi di un inferno che striscia nel sottobosco musicale, e che fortunatamente non ci lascia mai, grazie ad etichette come la Diazepam.
Edizione limitta in quarantasette copie ordinabile su http://dzpm.blogspot.it/p/store.html

TRACKLIST
01 Fungi From Yuggoth : I
02 Fungi From Yoggoth : II
03 Fungi From Yoggoth : III
04 Fungi From Yoggoth : IV
05 Fungi From Yoggoth : V
06 Liturgia Maleficarum : Ex Divina Luce Repulsus Sum
07 Liturgia Maleficarum : Humanae Vitae Taedemus
08 Liturgia Maleficarum : Mater Abominationum, Ante Te Genuflecto
09 Liturgia Maleficarum : In All His Fathomless Glory, He Appears
10 Liturgia Maleficarum : In Perpetua Obscuritas Iacebo

DIAZEPAM – Facebook

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Swallow The Sun – Songs from the North I, II & III

Quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione

Cosa può spingere un band dedita ad un genere di nicchia come il doom ad uscire con un triplo album nell’anno domini 2015, in un periodo storico di vacche più scheletriche che magre dal punto di vista commerciale?

È vero, i SwallowThe Sun sono forse oggi, tra tutte le band di riferimento del genere, quella che possiede comunque un minimo di appeal commerciale, viste le aperture a sonorità più gotiche e melodiche evidenziatesi magnificamente nel precedente Emerald Forest and the Blackbird; in più, aggiungiamo che i finnici escono oggi sotto l’egida della Century Media, a suggellare l’impressione di un’operazione comunque pianificata con cura e ben lungi da rappresentare l’espressione di un’insana bulimia creativa ma, detto ciò, la fruizione di quasi tre ore di musica di tale fatta resta comunque affare per pochi.
Se nutrire qualche dubbio sulla resa finale complessiva di una simile mole di lavoro appare più che lecito, la sua strutturazione finisce per provocare qualche rimpianto a causa di alcune scelte non del tutto condivisibili di Raivio e soci.
Il contenuto dei tre cd, infatti, è suddiviso in maniera netta in base allo stile musicale proposto, per cui troviamo un disco 1 (intitolato Gloom) che ricalca le orme dell’ultimo full length, con le sue ampie aperture melodiche ed atmosferiche, un disco 2 (Beauty) completamente acustico ed un disco 3 (Despair) che porta i Swallow The Sun a battere un terreno ostico ed esplorato solo in parte nei primi due album, come quello rappresentato dal funeral-death/doom.
Per fortuna la montagna creativa dei nostri non ha partorito un topolino, nel senso che Songs from the North I, II & III è un’opera che resterà sicuramente impressa nella memoria degli appassionati come una delle migliori dell’anno, ma non si può sorvolare sul fatto che il disco acustico si rivela il classico vaso di coccio racchiuso in mezzo a due monumentali espressioni artistiche quali Gloom e Despair.
Bastano i 9 muniti di With You Came the Whole of the World’s Tears per capire che i Swallow The Sun sono tornati senza alcuna traccia di appannamento dovuta ai tre anni trascorsi da Emerald… : l’impronta compositiva di Raivio è un marchio di fabbrica in grado di amplificare la portata emotiva delle digressioni melodiche, mentre Kotamäki è ormai una certezza assoluta anche con le clean vocals, facendo sì che l’alternanza con il growl ed uno screaming usato con maggiore parsimonia non appaia mai forzata.
Almeno fino a Heartstrings Shattering il primo disco è di livelli irraggiungibili per molti, mentre la seconda metà è lievemente meno coinvolgente, pur risultando ugualmente di altissimo spessore.
Dopo un’ora di emozioni a profusione, Beauty rappresenta un inevitabile calo di tensione: impeccabile dal punto di vista esecutivo, il secondo cd difetta proprio in quell’afflato evocativo che dovrebbe essere insito in musica prevalentemente acustica, per evitare di renderla alla lunga inoffensiva; purtroppo la sola Songs from the North si rivela all’altezza della situazione, grazie anche al contributo in lingua madre della brava Kais Vala, mentre il resto scorre in maniera anche piacevole ma senza lasciare un segno davvero tangibile.
Con le prime note di The Gathering of Black Moths, che inaugura il disco conclusivo denominato Despair, veniamo scaraventati in atmosfere plumbee, in cui solo dosati spunti melodici rappresentano una fievole fiammella di speranza.
L’interpretazione del funeral da parte dei Swallow The Sun risente comunque dell’anima gotica connaturata al loro stile musicale, per cui l’andamento è sì dolente ma mai troppo claustrofobico, e la disperazione evocata dal titolo fornito al cd appare tangibile proprio nella sua malinconica ineluttabilità.
I finnici scendono così sul terreno preferito dei campioni del genere in questi ultimi anni, sto parlando degli Eye Of Solitude, e la battaglia è tutt’altro che impari, visto che Raivio tira fuori dal cilindro un pacchetto di brani magnifici, che si sublima nella straordinaria Abandoned by the Light: qui chitarra e tastiera (sempre ad opera del bravissimo Aleksi Munter) si alternano nel proporre partiture dolenti e capace di far rabbrividire le anime che si abbeverano di queste note.

Alla fine di questa sorta di prova di resistenza all’ascolto, ciò che resta di Songs From The North è molto e non sarà facile cancellare dalla memoria la bellezza di diversi brani contenuti nella trilogia.
Volendo fare gli incontentabili, come è giusto che sia al cospetto di quella che io considero una delle band migliori in assoluto del panorama, un disco doppio sarebbe stato il giusto mezzo che ci consentirebbe di parlare di quest’opera come di un qualcosa prossimo al capolavoro: così non è perché purtroppo, anche se lo si vorrebbe ignorare, il cd acustico c’è e non lo si può omettere ai fini della valutazione complessiva.
Però, sia chiaro, quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione da parte degli estimatori di questa splendida realtà musicale chiamata Swallow The Sun.

Disc 1 – Gloom
1. With You Came the Whole of the World’s Tears
2. 10 Silver Bullets
3. Rooms and Shadows
4. Heartstrings Shattering
5. Silhouettes
6. The Memory of Light
7. Lost & Catatonic
8. From Happiness to Dust

Disc 2 – Beauty
1. The Womb of Winter
2. The Heart of a Cold White Land
3. Away
4. Pray for the Winds to Come
5. Songs from the North
6. 66°50’N, 28°40’E
7. Autumn Fire
8. Before the Summer Dies

Disc 3 – Despair
1. The Gathering of Black Moths
2. 7 Hours Late
3. Empires of Loneliness
4. Abandoned by the Light
5. The Clouds Prepare for Battle

Line-up:
Juha Raivio – Guitars
Matti Honkonen – Bass
Markus Jämsen – Guitars
Aleksi Munter – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals
Juuso Raatikainen – Drums

SWALLOW THE SUN – Facebook

Weeping Silence – Opus IV Oblivion

Chi ama il gothic doom avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Malta è una delle nazioni più piccole d’Europa ma a livello di doom metal possiede una tradizione piuttosto radicata: non a caso nell’incantevole isola del Mediterraneo si svolge fin dal 2009 un rinomato festival dedicato a questo sottogenere musicale.

Gli Weeping Silence esplorano la parte più malinconica e melodica del doom  ovvero quella ammantata di atmosfere gotiche, con la consueta dicotomia tra voce maschile e femminile.
Chiaramente, con questo tipo di premesse, chi sperava in qualcosa di particolarmente innovativo può pure passare oltre, visto che l’affollata band maltese, composta da 7 elementi, non fa altro che riproporre le sonorità portate ai massimi livelli espressivi da nomi quali Draconian o primi Within Temptation, tanto per citarne due particolarmente pesanti.
Ma Opus IV Oblivion merita ben più di un distratto ascolto perché, a fronte di una relativa orecchiabilità, la materia è trattata nel miglior modo possibile, il che si traduce in una raccolta di brani avvincenti ed emozionanti: tutto quanto è giusto attendersi da un gruppo esperto, del resto, con già altri tre full length all’attivo nel corso di una storia musicale ultracedennale.
In effetti la componente prettamente doom si rinviene più a livello attitudinale che non stilistico: qui, infatti, non troveremo rallentamenti asfissianti od atmosfere particolarmente plumbee, complici un songwriting lineare quanto efficace e la soave (ma non stucchevole) voce di Diane Camenzuli, la quale, proprio senza andare mai fuori dalle righe, ci conduce piacevolmente lungo questo cammino malinconico ma privo di eccessive ruvidezze.
Il valore dell’album risiede appunto nella sua gradevolezza che non viene mai meno, salvo una leggera opacizzazione nella parte centrale con i due episodi forse meno brillanti, In Exile e Stormbringer, e contrassegnata da aperture improvvise nel corso delle quali gli strumenti si liberano raggiungendo picchi evocativi non trascurabili: Eyes Of The Monolith, Hidden from the Sun, Bury My Fairytale possiedono appunto queste caratteristiche, anche se la ciliegina sulla torta i nostri la collocano proprio in chiusura, con la teatrale e drammatica Gothic Epitaph, splendida ed autentico manifesto sonoro del sound della band maltese.
A corollario di una tracklist di buon livello va aggiunta la prova di spessore dell’intera band: detto della vocalist, il growl di Dario Pace Taliana ha il pregio di completarne i vocalizzi senza risultare invadente, mentre il resto della truppa erige un dolente accompagnamento sonoro, impreziosito dall’ottimo lavoro alla chitarra solista di Manuel Spiteri, oltre che da una produzione di assoluta eccellenza.
In definitiva, chi ama questo genere avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Tracklist:
1. Oblivion – Darkness in My Heart Anno XV
2. Ivy Thorns upon the Barrow
3. Eyes of the Monolith
4. Hidden from the Sun
5. In Exile
6. Stormbringer
7. Transcending Destiny
8. Bury My Fairytale
9. Gothic Epitaph

Line-up:
Diane Camenzuli – Vocals (female)
Dario Pace Taliana – Vocals
Mario Ellul – Guitars
Manuel Spiteri – Guitars (lead)
Sean Pollacco – Bass
Alison Ellul – Keyboards
Angelo Zammit – Drums

 

A Dream Of Poe – An Infinity Emerged

Ritorno per Miguel Santos con i suoi A Dream Of Poe, giunti con An Infinity Emerged al secondo full length.

Il musicista portoghese, oggi di stanza ad Edimburgo, opera di fatto in maniera prevalentemente autonoma, avvalendosi solo del contributo di Paulo Pacheco per la stesura dei testi, di un vocalist (che, benchè non sia citato nelle scarne note a mia disposizione, dovrebbe essere il britannico Kaivan Saraei) e del tocco tastieristico del ben noto ospite Kostas Panagiotou (Pantheist).
Il sound degli A Dream Of Poe è un gothic doom che ha l’indubbio pregio di sfuggire ad alcuni dei cliché del genere, a partire proprio dall’uso della voce che, contrariamente alle attese, è agli antipodi dei canonici vocioni baritonali o dai tratti gutturali, attestandosi invece su tonalità decisamente suadenti e delicate.
Il tutto funziona piuttosto bene anche se, alla lunga, un minimo di fatica nell’ascolto affiora: infatti, se l’opener Egregore gode di splendide linee melodiche, impreziosite per di più da un bellissimo assolo di chitarra, i brani che seguono sono meno brillanti e qui, probabilmente, sarebbe servito davvero un timbro vocale più deciso rispetto a quello indubbiamente bello ma a tratti un po’ lamentoso esibito dal pur bravo Sarei.
Non escludo che la mia valutazione derivi da una forma involontaria di intergralismo, tipica dell’appassionato devoto ad un genere specifico, ma in un ambito sonoro come quello proposto dagli A Dream Of Poe fatico non poco a degirerire vocalizzi alla Bellamy come quelli che si manifestano in The Isle Of Cinder.
Detto questo, l’album è decisamente valido, pur se non scorrevolissimo, ma non dimentichiamo che abbiamo a che fare con un genere come il doom, per cui un po’ di fatica in più nel recepire la proposta musicale deve essere messa in preventivo.
L’ultima traccia, Macula, si rivela una nuova ottima testimonianza dell’abilità compositiva di Santos, che in questa occasione specifica riesce ad esibire compiutamente i diversi umori che vanno a comporre un quadro complessivo plumbeo ma nel contempo piuttosto delicato; le atmosfere evocate sono più malinconiche che disperate e sono volte al tratteggio di una tristezza diffusa ma non per questo meno logorante.
Proprio per questi aspetti, in generale l’approccio al genere di Santos non è affatto scontato e di questo gli va dato senz’altro atto; tutto sommato, An Infinity Emerged, per le sue carattersthe parrebbe più adatto a mio avvisi ai fruitori del doom di stampo classico che non agli estimatori del versante gothic death del genere.
Intrigante, avvolgente, formalmente ineccepibile, ma non ancora imprescindibile.

Tracklist:
1. Egregore
2. Lethargus
3. The Isle Of Cinder
4. Lighthouses For The Dead
5. Macula

Line-up:
Miguel Santos – All Instruments
Paulo Pacheco – Lyrics

Kaivan Saraei – Vocals
Kostas Panagiotis – Keyboards

A DREAM OF POE – Facebook

MY DYING BRIDE – Intervista

In occasione dell’uscita dell’ultimo magnifico album dei My Dying Bride, “Feel The Misery”, abbiamo avuto l’onore di scambiare qualche parere al riguardo con Aaron Stainthorpe …

Grazie per questa telefonata. Mai avrei pensato a questa combinazione di eventi: The Angel and The Dark River è stato il primo disco comprato in assoluto nel rinomato Pagan Moon Records, il negozio della mia città (Torino). Avevo 16 anni e mi si apriva un universo autunnale che porterò sempre tra i più cari ricordi.

iye “Feel The Misery” è il tredicesimo album, a ben 23 anni da “As The Flower Withers”. I My Dying Bride sono a tutti gli effetti una leggenda della musica, allora ti chiedo: quale è la molla che vi spinge a produrre ancora dischi e calcare i palchi ?

Vedi … continuiamo ad amare ciò che facciamo. In tutto questo tempo non è scontato perdere la voglia, l’energia e il piacere di mettersi in discussione. L’unico denominatore comune a queste, che considero tre qualità, è sicuramente la passione. Non è certo importante essere cresciuti, anagraficamente almeno. Pensa che potrebbero scaturirne altri 25 anni di attività, in quanto nessuno di noi ha in mente di prestabilire qualcosa: divertimento e professionalità innanzi tutto.

iye Ad una sagace domanda, una corretta risposta; proseguendo sull’attuale pubblicazione … la sensazione, dopo diversi ascolti, è quella di trovarci tra le mani un album ispirato come forse non succedeva da tempo.
Senza voler sminuire la produzione precedente, “Feel the Misery” è quello che per valore complessivo più di avvicina agli storici primi 4 album. Anche tu hai avuto questa percezione ?

Di sicuro abbiamo sempre voluto creare qualcosa di innovativo e sorprendente pur seguendo sempre la stessa linea. Molti ascoltatori, senza necessariamente limitarci ai soli fans, hanno notato questa sottigliezza.
Può essere senz’altro dovuto al ritorno di Calvin e alla registrazione nei già conosciuti Academy Studios e forse per queste due coincidenze è ritornata un’atmosfera familiare. Principalmente, non è stata affatto una scelta quella di programmare un taglio ricorrente e così sembra d’essere tornati indietro nel tempo. Penso inoltre che abbiamo avuto sempre, detto con molta umiltà, un’attitudine naturale tanto nella sperimentazione quanto nella continuità. Non trovi?

iye Senza dubbio hai toccato due punti che anticipano gli argomenti delle prossime domande. A nostro avviso questa line-up è molto equilibrata, ricalcando come configurazione quella storica. Il ritorno di Calvin e il consolidamento in formazione di un talento come Shaun MacGowan hanno davvero portato qualcosa in più ai My Dying Bride?

Non è difficile risponderti: sì, direi. È piacevole riavere Calvin al fianco e sarebbe stato magnifico se avesse anche composto i riff. Come sai, sfortunatamente è riapparso quando le tracce erano quasi completate, quindi la percentuale del suo lavoro si è dovuta ridurre rispetto al suo potenziale. Andrew ha smisuratamente sgrossato le linee melodiche ( diciamo il 95%), Jeff ha ricamato con il suo unico stile qualche armonia da sovra incidere e … cosa vorresti di più come risultato? Tutto è perfetto! Ma di certo, se siete tutti in attesa di sentire Calvin come lo ricordate, sarà necessario attendere il nostro album successivo!

mdb

iye Avete aperto la strada a centinaia di band che hanno provato a seguire le vostre orme. Tutto ciò costituisce un motivo di soddisfazione oppure è anche un pungolo per continuare a essere oggi e in futuro un punto di riferimento ?

Abbiamo di certo ispirato molte altre band ma allo stesso tempo, noi stessi abbiamo tratto suggestioni da altre a seguire. Intanto è sempre piacevole constatare quanta sia l’eredità che lasci alla successiva generazione, e notare che molti giovani musicisti prendano in considerazione una tecnica o un’attitudine ci lascia decisamente rinfrancati. Ci ricordiamo quando noi stessi eravamo dall’altra parte … Ciò che permane è la necessità di creare la propria musica sotto una seconda influenza, ovvero non in riferimento al gruppo in questione quanto al messaggio che diffonde. Ecco, vedi perché non ci stupisce più se un fan di 15 soli anni è perso nell’universo My Dying Bride, nella fragilità dei testi magari più che sulla storia di Calvin (lo dice sorridendo – ndr) … Tutto questo accade in modo talmente naturale da farci sentire orgogliosi e rivestiti di armonia.

iye Mi permetto di chiederti se lo stesso vale per la scena che assieme ad altri pilastri (cito Anathema, Cathedral e Paradise Lost) voi avete edificato e sostenuto. Oltre a possedere simili affinità, allacciate un reciproco scambio affettivo o predomina una punta di rivalità?

Dunque, la domanda può sembrare scontata ma non lo è del tutto. Ad ogni modo freno subito il tuo entusiasmo nel creare un polverone: nessuna tensione. Sai bene che siamo cresciuti nella stessa zona, abbiamo avuto la medesima etichetta e suonato lo stesso genere, contemporaneamente in diverse parti del mondo. Ciò porta tuttavia al costante perfezionamento che lo spirito di aggregazione mette in competizione …
Migliorare, perfezionare e cablare il tiro porta a questo ripiegamento, ma verso sé stessi, non di certo verso i “colleghi”. Essere lontani dall’Inghilterra e scoprire che i Paradise Lost sono nella stessa zona, ci permette ancora di ritrovarci in uno stesso tavolo e passare del tempo assieme … Questo nonostante si sia comunque diversi nell’attitudine e nella scelta musicale! Poi sai bene come va, la birra aiuta spesso …

iye Nel corso della vostra ricca discografia avete provato a modificare in maniera sostanziale il vostro sound con il solo “34,788% … Complete”, un esperimento tutto sommato riuscito che però non ebbe più seguito. Come valuti a distanza di molti anni quel disco ?

Aspettavo questa citazione perché rappresenta un punto focale sul quale porre l’attenzione. La scelta è stata chiara dal primo momento in cui speravamo in un cambio direzionale, seppur momentaneo. E non abbiamo avuto dubbi nel pubblicarlo, seppure fosse apparsa una scelta difficile per come avevamo abituato con i dischi precedenti il nostro pubblico, anzi parliamo di ascoltatori in questo caso, visto che il disco non è mai stato suonato dal vivo. In compenso ne abbiamo avuto la prova soltanto dopo dell’aver fatto qualcosa era uscito addirittura fuori dai nostri stessi schemi e per questo riuscito nella sua idea embrionale. E’ un gran bell’album, il tempo è riuscito a farlo maturare, oltre ad averlo collocato in una cronologia perfettamente logica. La cover, intendo la copertina, è effettivamente inusuale, il titolo ancora di più. Direi quindi che la forma ha reso estraneo un suono fin troppo classico alla My Dying Bride. Tant’è che oggigiorno rimane uno degli album preferiti dai nostri fan, probabilmente troppo concentrati all’epoca su qualcosa che non è mai avvenuto.

iye Piacevole descrizione, minuziosa e logica, mi confermi con questo che è sempre necessario non giudicare il libro dalla copertina! Siamo giunti alla coda dell’intervista che si concluderà con altre due domande, ma anticipatamente ti ringrazio a nome dello staff per la gentilezza e degli stessi IYEziners che attendono con piacere di leggere questo scritto. La tua voce è un marchio di fabbrica inconfondibile. Per curiosità, in quale momento e perché, negli anni novanta, maturasti la decisione di abbandonare il gutturale per approdare alla decadente tonalità che ti contraddistingue ?

Dunque … Io non suono nessuno strumento musicale, quindi posso solo utilizzare al meglio la mia voce. Non mi piace, né trovo stimolante ripetermi allo stesso modo in ogni album: oltre ad annoiare me stesso, provocherei la stessa reazione nei fan. Tuttavia la musica creata in tutti questi anni, lenta, veloce, heavy, malinconica e crepuscolare prevede un simultaneo cambio che non prevede un cantato death. Tanto più se entrano i violini e sai bene ancora una volta che se qualcosa ricade in una programmazione, ci porterà lontani dalla passione svincolante e libera che abbiamo per la musica, in cui tutto è pur sempre possibile e lecito. Ho cercato in questo album di portarmi ad un’espansione vocale che, purtroppo, solo un evento casuale (e quindi sentito) ha provocato: il trapasso di mio padre, in un certo senso, mi ha ripulito dai singulti vocali. E’ davvero sottile, ma se mi capisci il “pianto” è lo stesso, ma nel contempo ben più chiaro e diretto. La percezione del dolore rimane la stessa, ma in fondo c’è ancora una natura positiva che cela sempre meno un grido di trionfo in grado di redimermi (effettivamente, citando il fatto personale, si nota come l’emotività non faccia fatica a rivelarsi – ndr) . I sospiri mi accompagnano per antonomasia, ma riuscire a spingere la voce al di là della propria emotività, rivela il mio lato intimo più sicuro e fiducioso. In ogni album farò quei passi necessari per sentirmi sempre più a mio agio, nonostante non sia Mariah Carey il mio traguardo …

iye Porterete in tour “Feel the Misery” e, in tal caso, approderete anche in Italia ?

Decisamente, peraltro il nostro tour manager è italiano. Abbiamo un’ultima data quest’anno in Germania, ma il prossimo anno tra marzo e aprile (se non maggio) porteremo finalmente questo album in Italia facendo un vero tour di qualche tappa. I nostri fan italiani (fatico a crederci …) ci seguono dal 1990 e a momenti ne sanno più loro dei nostri ricordi. Sarà, come è già da anni, un lavoraccio, perché ad ogni tour concluso, se non tra una data e l’altra, tendiamo a ritornare a casa nostra per ritemprarci. Il motivo è che ad ogni live cerchiamo e spesso riusciamo a dare qualcosa che vada oltre al solo impatto sonoro. E’ molto facile adagiarsi ed essere superficiali, un po’ più difficile essere originali ma non è impossibile trasmettere qualche cosa di simile all’empatia … almeno tra le varie possibilità questa è la nostra prima scelta, trasmettere reciprocamente la
stessa empatia che riceviamo dal nostro pubblico.

Intervista telefonica delle 20:00 (GMT+1) del 21/9/2015
Collaborazione tra Stefano Cavanna e Enrico Mazzone
Grazie alla disponibilità di Aaron Stainthorpe e ai riferimenti di Pamela Scavran.

SATURNUS + HELEVORN – 20/9/15 Collegno, Padiglione 14

Tre ore di musica magnifica; peccato per chi non c’era …

Nel raccontare una giornata di questo tipo la cosa più complessa è scegliere da che parte iniziare: quindi, seguendo un po’ l’istinto, un po’ le convenzioni, darò prima la notizia cattiva rispetto a quella buona.

La cattiva notizia è che organizzare concerti doom in Italia si sta rivelando un cimento per temerari (rappresentati nello specifico da Alex e Simone della House Of Ashes) che antepongono la passione al mero interesse economico, e se la cosa può valere in senso lato per molti di coloro che ci provano con buona parte del metal underground, lo è a maggior ragione con un genere che, in particolare dalle nostre parti, riscuote l’interesse di un numero davvero limitato di persone.
Josep Brunet, vocalist degli splendidi Helevorn, nonché ennesima bella persona che ho avuto la ventura di conoscere tra coloro che calcano i palchi metal, mi confidava d’essere più stupito che amareggiato non tanto per la propria band quanto per il fatto che ad assistere ad un concerto dei Saturnus (cosa che per chi ama il doom dovrebbe costituire un appuntamento imperdibile) ci fossero circa 30 persone, che erano ancora meno durante l’esibizione della band maiorchina.
Non è un dogma assoluto, sia chiaro, ma il fatto che per ascoltare doom, specialmente quello più estremo pur se dai connotati melodici, sia necessario possedere una buona dose di sensibilità, mi porta a pensare, alla luce delle scarse presenze (peraltro confermate in qualche modo nella precedente data bresciana), che la deriva del nostro paese verso un protervo ed edonista menefreghismo sia del tutto inarrestabile.
Del resto, in una nazione in cui nessuno pare abbia voglia di muovere il proprio culo per andare ai concerti e, anzi, da più parti si invoca persino la chiusura degli spazi all’aperto dedicati alla musica rock e metal (successo a Genova quest’estate), folle oceaniche si spostano solo quando il tutto viene insignito del marchio dell’evento epocale, al quale non si può mancare pena l’oblio eterno sui social network, che pare essere la peggiore delle condanne; aggiungiamo poi che, per organizzare l’ultimo di questi (il campovolo ligabuesco), pare addirittura che un intero quartiere di Reggio Emilia sia stato di fatto messo sotto sequestro, impedendo ai residenti di uscire o ancor peggio di entrare a casa propria: cosa dobbiamo pensare od aspettarci ancora ? Non lo so, fatto sta che, al netto di queste tristi ma dovute considerazioni, la serata al Padiglione 14 di Collegno (ecco la notizia positiva) resterà a lungo impressa nella mia memoria.
Diciamoci la verità, se da una parte constatare la sordità della maggior parte delle persone fa rabbia, dall’altra, egoisticamente, si trasforma in un vantaggio non da poco potersi godere una delle proprie band preferite (i Saturnus) ed un’altra che è sulla buonissima strada per diventarla (gli Helevorn) come se si fosse nel salotto di casa propria, a stretto contatto con i musicisti e con quelle altre poche anime unite dalla comune passione per sonorità inimitabili sotto l’aspetto evocativo.
Tre ore di musica magnifica, quindi, resa tale anche da suoni tarati ottimamente, che i pochi ma buoni della famiglia doom (come ha simpaticamente detto Josep all’inizio dell’esibizione degli Helevorn di fronte allo sparuto gruppo di spettatori) si sono goduti alla faccia di chi, nel contempo, altrove stava partecipando ad un rituale di massa con il solo scopo di poter dire “io c’ero …”, probabilmente osservando il proprio intoccabile idolo a centinaia di metri di distanza.
Gli Helevorn provenivano da un album entusiasmante come Compassion Forlorn e sul palco hanno confermato ampiamente il loro valore come musicisti e performer: Josep Brunet ha padroneggiato con disinvoltura le clean vocals che forniscono un tocco decisamente più gothic al sound degli spagnoli, mantenendo peraltro inalterato il proprio eccellente growl, Samuel Morales ha offerto una fondamentale impronta melodica con la chitarra solista, il tutto sopra il tappeto atmosferico creato dalle tastiere di Enrique Sierra; non da meno sono stati il simpaticissimo Sandro Vizcaino alla chitarra ritmica, Xavi Gil alla batteria e Guillem Calderon al basso.
I nostri hanno proposto, in un set purtroppo breve ma intenso, alcune delle perle tratte dall’ultimo album (su tutte il singolo Burden Me ed il capolavoro Delusive Eyes) oltre alla ben nota From Our Glorious Days, uno dei picchi assoluti della loro precedente discografia.
Dopo una breve pausa, l’incipit di Litany Of Rain ha annunciato la salita sul palco dei Saturnus, band per la quale ho già sprecato in passato tutti gli elogi e gli aggettivi a disposizione del mio limitato vocabolario. Posso solo aggiungere che poter ascoltare dal vivo brani capaci già di indurre alle lacrime quando si sta comodamente seduti sul divano di casa, può avere un impatto emotivo davvero devastante, ovviamente in senso positivo.
Credo che l’assunzione di nessuna droga al mondo possa esser capace di farmi provare lo stesso livello di estasi raggiunta quando i Saturnus, a circa 5 metri da me, hanno suonato quello che è il brano più bello mai composto, il cui titolo, inutile dirlo, è I Long
Devo trovare un difetto ai grandi danesi ? Eccolo: I Long meriterebbe il posizionamento come ultimo brano in scaletta, magari come bis, perché il climax che si raggiunge al termine di quelle note non può più essere ricreato successivamente dagli altri brani, per quanto ugualmente magnifici.
Altro da aggiungere ? Thomas Jensen aveva la solita aria di chi è capitato lì per caso, poi quando si è palesato il suo growl dal timbro unico si è capito che, invece, è stato lì collocato per qualche disegno superiore, e lo stesso è accaduto con i passaggi in recitato (come nella coinvolgente All Alone); i lungocriniti Gert Lund (chitarra ritmica) e Brian Hansen (basso), oltre al preciso contributo musicale hanno fornito anche una notevole presenza scenica, Henrik Glass ha picchiato il giusto senza esagerare, come il genere richiede, ed il giovane Mika Filborne si è rivelato il tastierista che fino a qualche anno fa mancava on stage ai Saturnus.
Ma il protagonista, non me ne vogliano gli altri, è stato come sempre Rune Stiassny, chitarrista che senza tecnicismi circensi, sa far parlare al cuore il proprio strumento (“You make me cry too much” gli ho confidato scherzando, ma non troppo, al termine del concerto): le linee melodiche del musicista nordico sono realmente indimenticabili, dal vivo come su disco, e sono capaci di far sprofondare la mente in un pozzo di malinconia dal quale, solo al termine, se ne verrà fuori depurati finalmente dalle brutture di un’attualità allarmante e dalle nequizie di un’umanità dai tratti ripugnanti.
Litany Of Rain, Wind Torn, I Love Thee, Christ Goodbye, ovviamente I Long e il gradito bis A Father’s Providence, sono state solo alcune delle gemme che i Saturnus hanno regalato ai pochi ma davvero fortunati presenti.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito, anche se non è certo una novità in simili occasioni, è la convinzione ed il piacere di suonare che ogni musicista ha dimostrato, nonostante un’audience così risicata: non uso volutamente il termine “professionali” perché preferisco associarlo a persone che svolgono con impegno un compito loro malgrado: nulla a che vedere con volti che apparivano rapiti dalla loro stessa musica, un atteggiamento che ha accomunato Helevorn e Saturnus con la trentina di appassionati che, immagino, mai come questa volta abbiano avuto la percezione di sentirsi un tutt’uno con chi si trovava sul palco.
A proposito di professionalità, un’avvertenza: quando parlo dei Saturnus la mia obiettività è uguale a zero, ma se chi legge queste righe ama come me tali sonorità non faticherà a ritenermi del tutto attendibile ….

P.S. Un ringraziamento speciale ai “temerari” della House Of Ashes, ai miei compagni di viaggio e a chi ha ripreso con mano ferma le immagini che potete vedere sotto.

My Dying Bride – Feel The Misery

“Feel the Misery” ricolloca i My Dying Bride al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.

L’ennesimo album (il tredicesimo, per l’esattezza) di una delle band che, in un modo o nell’altro, ti ha accompagnato per oltre un ventennio lungo i tortuosi sentieri dell’esistenza, è sempre un appuntamento al quale si giunge tra speranze e timori equamente suddivisi.

Dover parlare dei My Dying Bride cercando di restare obiettivo diventa così per me piuttosto difficile: sembra ieri quando, con una video camera in super 8, riprendevo le prime espressioni e la beata inconsapevolezza di mia figlia appena nata, con quel capolavoro di “The Angel And The Dak River” come sottofondo musicale.
Dopo vent’anni e tanta vita e troppa strada alle spalle, ritrovare Stainthorpe e soci nuovamente all’altezza dei fasti raggiunti in quei tempi è stata una gioia che va ben oltre il mero aspetto musicale.
Non posso negare che, ormai da circa un decennio, i My Dying Bride erano diventati più un caro ricordo di gioventù piuttosto che una band capace di accompagnarmi quotidianamente: altri erano i nomi che in ambito doom li avevano soppiantati nelle mie preferenze, riuscendo a comunicarmi le dolorose emozioni che i maestri di Halifax parevano non essere più in grado di riproporre con la stessa forza evocativa.
Feel The Misery ricolloca i nostri al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.
Sarà probabilmente un caso, ma il ritrovamento di una configurazione più o meno simile a quella dei tempi d’oro pare aver concorso non poco alla riuscita dell’album: il ritorno in formazione di uno dei fondatori, il chitarrista Calvin Robertshaw, unito al consolidamento di uno Shaun Macgowan splendido protagonista con il suo violino (e sorta di reincarnazione del Martin Powell che fu …), contribuiscono a ricreare quelle atmosfere che rimandano direttamente all’ultimo decennio del secolo scorso, quando la gotica decadenza dei MDB era un marchio di fabbrica magnifico ed indelebile.
And My Father Left Forever, posta in apertura e in tutti i sensi traccia apripista dell’album, fuga subito ogni residua perplessità relativa all’ispirazione dei nostri: l’incedere dolente e melanconico del sound e il tipico timbro vocale di Aaron equivalgono ad una sorta di agognato ritorno a casa dopo una prolungata assenza, al riappropriarsi di un qualcosa che si è sempre sentito proprio ed oggi tirato a lucido dopo essere stato ricoperto per diverso tempo da un velo di polvere.
La differenza, in Feel The Misery, la fa la ritrovata capacità dei My Dying Bride (già parzialmente esibita in “A Map of All Our Failures”) di proporre un lotto di brani relativamente fruibili, pur nel consueto ambito plumbeo.
Il vocalist alterna la sua consueta, ma unica, voce sofferente ad un growl sempre convincente, ergendosi a protagonista nel contesto di un lavoro comunque d’insieme, nel quale ogni musicista pare davvero offrire il meglio di sé senza il bisogno di dover strafare.
Se l’opener è un brano magnifico, non si può che dire altrettanto della successiva To Shiver in Empty Halls grazie ad una linea melodica portante di grande impatto, mentre A Cold New Curse e Feel the Misery appaiono quasi complementari nel loro incedere coinvolgente ma, invero, piuttosto simile, specie nelle parti iniziali.
La seconda metà dell’album è, a mio avviso, ancora superiore a quella che l’ha preceduta: A Thorn of Wisdom è una traccia emozionante, atmosferica e melodica che non può lasciare indifferenti, I Celebrate Your Skin cambia volto in più frangenti, mantenendo quale tratto comune un’esasperante ed inebriante lentezza; I Almost Loved You equivale alla perla “For My Fallen Angel” (da “Like Gods Of The Sun”), con Stainthorpe ed il violino di Macgowan ad edificare muri di lacrime su un toccante tappeto pianistico, mentre Within a Sleeping Forest non è solo l’unica traccia che valica i dieci minuti di durata ma costituisce davvero la chiusura di un cerchio, con il suo forte ed ispirato richiamo alle sonorità dei primi seminali album dei My Dying Bride.
Sinceramente, fatico a smettere di ascoltare Feel The Misery, pur essendo consapevole che per un’altra ora lo smarrimento e lo sgomento di un’anima tormentata saranno la mia sola compagnia.
Ma gli appassionati di doom questo chiedono, nient’altro, e farsi avvolgere nuovamente dal velo della sposa morente sarà un piacere esclusivo riservato a questi fortunati …

Tracklist:
1. And My Father Left Forever
2. To Shiver in Empty Halls
3. A Cold New Curse
4. Feel the Misery
5. A Thorn of Wisdom
6. I Celebrate Your Skin
7. I Almost Loved You
8. Within a Sleeping Forest

Line-up:
Calvin Robertshaw – Guitars
Andrew Craighan – Guitars
Aaron Stainthorpe – Vocals
Lena Abé – Bass
Shaun Macgowan – Keyboards, Violin

MY DYING BRIDE – Facebook

Orphans Of Dusk – Revenant

“Revenant”, pur nella sua veste di Ep, è già un lavoro del tutto appagante e di livello superiore alla media, ma è solleticante pensare che la band sia concretamente in grado di riprodurre la stessa qualità in una prova su lunga distanza.

Pochi giorni fa avevo benevolmente tirato le orecchie ai Luna, nella persona dell’unico musicista coinvolto, in quanto l’ultimo full length si mostrava eccessivamente derivativo, benché questo sia un aspetto, almeno in ambito doom, al quale normalmente attribuisco un peso del tutto relativo.

Gli Orphans Of Dusk, in tal senso, rappresentano un certo elemento di discontinuità in quanto, pur attingendo anch’essi in maniera signifcativa all’imprimatur di una band specifica, riescono a farlo fornendo al loro sound quell’impronta personale che nell’esempio appena citato latitava quasi del tutto.
Il duo oceanico, formato dal neozelandese James Quested agli strumenti e dall’australiano Chris G. alla voce, offre un’interpretazione efficace ed elegante del gothic doom omaggiando a più riprese i monumentali Type 0 Negative nella loro veste più oscura, ma senza dimenticare di inasprire il sound di venature più robuste, oltre che tradizionalmente devote al genere come nel drammatico incipit strumentale di August Price, grazie anche ad un buonissimo growl che va ad alternarsi con sapienza ad una timbrica profonda che richiama non poco quella dell’indimenticabile Peter Steele.
Revenant consta di quattro brani per una mezz’ora scarsa di musica in grado di riconciliare gli appassionati con il genere, finalmente, senza dover ricorrere a particolari artifici. È fuor di dubbio che Beneath the Cover of Night, ad esempio, paia a tratti un riuscitissimo outtake di “October Rust”, ma sono le doti compositive degli Orphans Of Dusk a fare la differenza, facendoli balzare agevolmente da un ipotetico status di opachi scopiazzatori a quello di continuatori legittimi ed ispirati del sound di una delle band più influenti degli ultimi vent’anni.
Sarà difficile non restare incantati dalle atmosfere soffuse, melodiche e pervase da un non comune gusto malinconico che gli Orphans Of Dusk riversano nelle proprie composizioni: Revenant, pur nella sua veste di Ep, è già un lavoro del tutto appagante e di livello superiore alla media, ma è solleticante pensare che la band sia concretamente in grado di riprodurre la stessa qualità in una prova su lunga distanza; intanto il duo oceanico è entrato nell’orbita di un’importante label di settore come la Solitude e questo è già un bel segnale.

Tracklist:
1. August Price
2. Starless
3. Nibelheim
4. Beneath the Cover of Night

Line-up:
Chris G. – Vocals
James Quested – Guitars, Synths & Bass
Dan Nahum – Session Drums

ORPHANS OF DUSK – Facebook

Autumnia – Two Faces Of Autumn

Interessante riedizione dei due primi lavori degli Autumnia

Dopo aver parlato nei giorni scorsi dell’ultimo album degli Apostate restiamo in Ucraina per vedere cosa ci offre quest’uscita degli Autumnia.

Intanto, se nel caso citato in precedenza, si trattava del nuovo disco di una band riformatasi di recente, in questo caso ci troviamo di fronte ad un lavoro retrospettivo che unisce in una sola confezione, nel formato del doppio CD, i primi due dischi di un combo dalla storia più recente ma anche più noto.
È interessante, infatti, poter seguire, tramite l’ascolto di una coppia di album di buon valore, l’evoluzione della band di Alexander Glavniy nel corso degli anni.
Il musicista, avvalendosi di una delle migliori voci del settore come quella di Vladislav Shahin dei Mournful Gust, pubblicò nel 2004 un disco d’esordio davvero eccellente, probabilmente un po’ troppo devoto a tratti ai primissimi Anathema e My Dying Bride, ma anche per questo capace di rievocare in maniera competente e con la dovuta intensità le sonorità seminali che, qualche anno dopo averle tenute a battesimo, quelle stesse storiche band avrebbero abbandonato.
Drammatico e melodico nelle giuste dosi, In Loneliness of Two Souls introdusse così nel migliore dei modi il nome degli Autumnia al proscenio del doom europeo.
In By the Candles Obsequial, due anni dopo, fecero il loro ingresso nel sound pesanti influssi gothic accentuati dall’uso massiccio delle tastiere e dal contributo di una voce femminile in un brano che, se da un lato arricchirono e resero più accattivante la proposta, dall’altra fece apparire meno genuino e più artefatto l’operato del duo ucraino. Tecnicamente di livello superiore al predecessore, l’album destava una migliore impressione di primo acchito per poi mostrarsi non sempre troppo profondo: sicuramente un lavoro di buon livello, in ogni caso, in qualche modo propedeutico all’ulteriore passo verso sonorità ancor più eleganti che sarebbe avvenuto con “O Funeralia”, ultimo parto discografico degli Autumnia datato 2009.
Questa raccolta edita dalla Solitude, arrivata dopo un lungo periodo di silenzio, potrebbe far presagire un ritorno della band con materiale inedito. La perdita di Shahin, che nel 2010 scelse di dedicarsi esclusivamente ai suoi Mournful Gust, non è sicuramente da poco, visto il valore del soggetto, ma al di là di tutto sono piuttosto curioso di vedere che scelte potrebbe compiere oggi Glavniy, un musicista che, a mio modesto parere, ha nelle proprie corde il potenziale per comporre quell’album di grandissimo spessore che finora ha solo sfiorato in occasione del pur ottimo album di debutto.

Tracklist:
CD1
1….By Your Hand
2.Before Leave for Ever
3.In Sorrow and Solitude
4.At Eternal Parting
5.Pray for Me
6.Into the Grave
CD2
1.Increasing the Grief Terrestrial
2.With Wailing and Lament
3.Bitterness of Loss
4….And the Life Dies Away…
5.In Loneliness of Two Souls

Line-up:
Alexander Glavniy – All Instruments
Vladislav Shahin – Vocals

Dantalion – Where Fear Is Born

Quello che forse hanno perso a livello di peculiarità del sound, i Dantalion lo hanno guadagnato in immediatezza senza per questo smarrire quel gusto per composizioni dai tratti oscuri e malinconici che li contraddistingueva anche nella loro precedente incarnazione.

Gli spagnoli Dantalion sono attivi già da diversi anni, nel corso dei quali sono passati dalle sonorità di stampo black degli esordi, stemperate con il tempo in umori più melodici e dalle sfumature depressive per approdare infine all’attuale forma di gothic-death doom.

La trasformazione riuscita in maniera sicuramente efficace, a giudicare dalla resa di questo ultimo album Where Fear Is Born, che presenta una serie di brani piuttosto efficaci per quanto del tutto in linea con le tendenze del genere. La band di Vigo mette sul piatto tutta la propria esperienza ner disegnare passaggi struggenti, per lo più affidati ad un lavoro chitarristico che non lesina anche assoli prolungati.
Brani medio lunghi si susseguono senza particolari momenti di stanca, mostrando al contrario più di un episodio di splendida fattura tra i quali, su tutti, spicca The Tree of the Shadows.
Il rimpasto di line-up che vede quali superstiti della formazione originaria i soli Villa e Brais, si è rivelato funzionale al nuovo corso intrapreso dai Dantalion: l’attuale vocalist Diego è pressoché antitetico al predecessore Sanguinist, dall’urlo di matrice depressive, esibendo un ottimo growl, mentre appare meno convincente nelle parti pulite e, nel contempo, gli altri due nuovi arrivi svolgono senza sbavature il loro compito.
Il risultato finale è un lavoro senz’altro bello, ovviamente dalla ridotta componente innovativa, con il quale i galiziani si vanno a collocare sulla scia degli Helevorn e delle altre band che stanno portando la scena doom spagnola ad emergere in maniera prepotente negli ultimi anni.
Quello che forse hanno perso a livello di peculiarità del sound, i Dantalion lo hanno guadagnato in immediatezza senza per questo smarrire quel gusto per composizioni dai tratti oscuri e malinconici che li contraddistingueva anche nella loro precedente incarnazione.
Nonostante l’oggettiva bontà di questo lavoro, finisco ugualmente per rimpiangere la band capace di proporre quell’intrigante mix di DSBM e gothic-doom che tanto mi aveva affascinato in “Return to Deep Lethargy”.
Va da sé che bisogna prendere atto del fatto che i Dantalion di oggi sono fondamentalmente un’altra band, né migliore né peggiore, semplicemente diversa.

Tracklist:
1. Revenge in the Cold Night
2. Raven’s Dawn
3. Lost in a Old Memory
4. The Tree of the Shadows
5. Nightmare….
6. Listening to the Suffering of the Wind
7. Black Blood, Red Sky

Line-up:
Villa – Drums
Brais – Guitars
David – Bass
Andrés – Guitars
Diego – Vocals

DANTALION – Facebook

Ordog – Trail For The Broken

Probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà apprezzabile quest’album, ma chi volesse capire da dove nasce la mia parziale delusione vada a riascoltarsi “Remorse”.

I finlandesi Ordog solo tre anni fa si erano rivelati con un disco straordinario come “Remorse”, nel quale fornivano un interpretazione del funeral doom del tutto personale, sia per i suoni prescelti sia per l’approccio decisamente naif alla materia.

Pertanto mi sono avvicinato speranzoso a questo nuovo Trail for the Broken, quarto full-length della loro discografia, ricevendone in cambio una parziale delusione.
Intendiamoci, il disco di per sé non è affatto disprezzabile e contiene, anzi, diversi episodi di ottima fattura; il fatto è, però, che delle sonorità plumbee e sofferte del suo predecessore non è rimasto quasi più nulla visto che quello che potremo ascoltare in questo frangente è un gothic-prog-doom dai tratti sempre piuttosto anticonvenzionali ma ben lontano dall’evocare le atmosfere malate o dal riprodurre gli spunti geniali del suo predecessore.
Se gli Ordog, finchè erano alle prese con il funeral sghembo di “Remorse”, riuscivano a sopperire ad alcune lacune di stampo esecutivo grazie alla loro particolare sensibilità compositiva, con l’approdo a sonorità più fruibili si spingono in territori nei quali non sempre si trovano a proprio agio, specie per l’uso di clean vocals non all’altezza che affossa in più parti il disco anche quando vengono espressi spunti strumentali di indubbio spessore.
La voce di Aleksi Martikainen è infatti troppo piatta e talvolta neppure sufficientemente intonata per fare presa su un pubblico più ampio, come si presume sia stato l’intento dei finnici con questo evidente salto stilistico, ed il virtuale accantonamento del più consono growl non si rivela una scelta azzeccata.
L’album vive così di sprazzi di buona musica nei quali l’abilità dei nostri nell’imbastire melodie struggenti non viene meno, il tutto però è caratterizzato da un’eccessiva discontinuità e, laddove si centra il bersaglio con due brani segnati da un bel lavoro di tastiera come Devoted to Loss e Enter The Void, oppure come con I Ceased to Dream, che si risolleva dopo un avvio poco incisivo grazie a un finale decisamente riuscito, bisogna fare i conti anche con un episodio invero sconcertante per la sua piattezza come Abandoned.
Ma forse io sono severo per troppo amore nei loro confronti e, probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà comunque apprezzabile quest’album che, come già detto, non sarebbe corretto liquidare come un qualcosa di negativo; se vogliamo tracciare un parallelismo, il loro percorso rassomiglia non poco, anche come esito, a quello dei Pantheist, partiti come i finnici da una base funeral-death doom, poi abiurata per approdare a sonorità più marcatamente gotiche e progressive.
Semplicemente, chi ne avesse voglia, vada a riascoltarsi la title track di “Remorse” quando, dopo tredici minuti di autentica agonia basati su passaggi pianistici minimali

ed un riff distorto all’inverosimile, il brano esplode in un delirio psichedelico degno dei migliori Bigelf: l’esperienza di questo ascolto varrà più di mille parole per spiegare in maniera chiara e netta chi erano gli Ordog nel 2011, una band in grado di raggiungere magari pochi intimi ma capace di regalare loro momenti indimenticabili, e quello che sono oggi, un gruppo che piacerà senz’altro a molte più persone senza riuscire probabilmente a lasciare una traccia tangibile nel cuore di alcuno.

Tracklist:
1. The Trail
2. Scythe
3. The Swarm of Abhorrence
4. Devoted to Loss
5. Enter the Void
6. I Ceased to Dream
7. Abandoned
8. The Crows of Towerpath

Line-up :
Valtteri Isometsä – Guitars, Drums, Vocals (backing)
Aleksi Martikainen – Vocals
Jussi Harju – Keyboards
Ilkka Kalliainen – Bass

ORDOG – Facebook

Descend Into Despair – The Bearer of All Storms

La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.

Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.

Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth

Line-up :
Denis Ungurean – Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars (lead), Programming, Drums, Keyboards
Iulia Bulancea – Bass
Orza Radu – Drums
Cosmin Farcău – Guitars (rhythm)
Florentin Popa – Keyboards

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Lorelei – Ugrjumye Volny Studenogo Morja

Ottimo esordio per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.

L’esordio su lunga distanza dei Lorelei arriva in un momento di grande fermento della scena gothic death-doom russa.

Si rischia d’essere ripetitivi nell’affermare che le uscite proposte dalla Solitude e dalla BadMoodMan hanno ormai raggiunto un livello qualitativo tale da costituire un vero e proprio marchio di fabbrica. Dopo gli splendidi lavori di Revelations Of Rain e Shallow Rivers, Ugrjumye Volny Studenogo Morja sposta le coordinate musicali verso un gothic dai toni drammatici, enfatizzati dalla consueta dicotomia tra voce lirica e growl maschile. Quando entrambe le componenti vengono eseguite in maniera eccellente come in questo caso e il tutto va ad inserirsi in un contesto musicale raffinato e intenso come quello messo in scena dai Lorelei, ogni considerazione sulla prevedibilità di un disco simile diventa francamente superflua. I tre quarti d’ora di questo lavoro, che la band moscovita dedica al Rinascimento, con particolari riferimenti alla poetica del Petrarca (come almeno noi italiani abbiamo la possibilità di capire dal frequente inserimento di versi recitati nella nostra lingua) rappresentano qualcosa in più di un ideale “bignami” del gothic death-doom: ciò avviene grazie a brani che trasudano romanticismo da ogni nota, esaltati da un’esecuzione strumentale sobria quanto emozionante, dall’impeccabile intonazione lirica esibita da Ksenia Mikaylova e dal growl possente di E.S, (già noto nella scena come anima e voce degli Who Dies In Siberian Slush). Il disco non raggiunge vette epocali proprio perché, nel suo songwriting, è presente quel pizzico di autoreferenzialità derivante dallo stretto legame che unisce gran parte delle doom band dell’area moscovita, aspetto che inevitabilmente tende a rendere piuttosto omogenei i tratti stilistici, nonché i suoni a livello di produzione. Ma al di là di questo e del fatto che l’uso dell’idioma russo, anche qui, come nel caso dei Revelations Of Rain, finisce per precludere a questo prodotto una maggiore diffusione , non si può fare a meno di apprezzare brani, intrisi di un pathos degno dei componimenti del poeta fiorentino, come le magnifiche Ten’ju Bezlikoj … e Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali …, episodi che spiccano all’interno di un contesto complessivo comunque di assoluto valore. Ottimo esordio, quindi, per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.

Tracklist:
1. Intro
2. Holod Bezmolvnogo Zimnego Lesa…
3. Ten’ju Bezlikoj…
4. Ugrjumye Volny Studenogo Morja…
5. La Vita Fugge, Et Non S’arresta Una Hora…
6. Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali…
7. Holodnyj Prizrachnyj Rassvet…
8. Raj Poterjan…
9. Outro

Line-up :
Alexandr Grischenko – Bass
Andrey Osokin – Guitars
Alexey Ignatovich – Guitars, Vocals
Marina Ignatovich – Keyboards
Ksenia “Serafima” Mikhaylova – Vocals

Guest: E.S. – Vocals

Graveyard Of Souls – Shadows Of Life

L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

I Graveyard Of Souls sono una band spagnola di recente formazione dedita a un death-doom melodico dagli evidenti rimandi novantiani.

Raul e Angel, che non sono certo musicisti alle prime armi e che sono attivi anche con le death band Authority Crisis e Mass Burial, in questo loro disco d’esordio sfogano evidentemente il loro lato più malinconico, oltre all’esplicita devozione verso le sonorità che portarono in auge, tra gli altri, i primi Tiamat (quelli fino a “Clouds”), i Crematory e, per chi se li ricorda, i Godgory.
Quindi più che di death-doom, per Shadows Of Life, potrebbe essere più appropriato parlare di death melodico, però nella sua accezione più oscura e comunque piuttosto lontana da quello che conosciamo anche come “Gothenburg Sound”.
Detto questo, l’esordio dei Graveyard Of Souls non arriverà a stravolgere le gerarchie dei sottogeneri citati, ma si segnala come un’opera ben più che dignitosa anche se, probabilmente, si rivelerà di maggiore interesse per i “diversamente giovani”, come il sottoscritto, che vissero quell’epoca già in età adulta.
Il lavoro della coppia iberica si fa apprezzare per la sua genuinità, unita ad una serie di melodie azzeccate, il tutto realizzato tramite un approccio piuttosto naif e privo di particolari raffinatezze stilistiche ma ugualmente efficace: brani come la title-track o la successiva Dreaming Of Some Day To Awake convincono grazie a linee chitarristiche capaci di imprimersi nella memoria senza eccessive difficoltà e la stessa cover di Mad World dei Tears For Fears, operazione dal notevole rischio di effetto boomerang, viene proposta in una maniera piuttosto credibile.
L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

Tracklist :
1. Genesis
2. Shadows of Life
3. Dreaming of Some Day to Awake
4. Memories of the Future (We Are)
5. Follow Me
6. Mad World
7. Solitude’s My Paradise
8. Dead Earth
9. There Will Come Soft Rains

Line-up :
Raúl
Angel

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

Dead Summer Society – My Days Through Silence

A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.

A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.

Per l’occasione Mist recupera e rielabora alcuni dei brani presenti in forma strumentale nel demo del 2010 “The Heart Of Autumnsphere” arricchendoli con la voce di Trismegisto (Cult Of Vampyrism), già ospite nel recente lavoro: il risultato è una piccola gemma di gothic doom che non fa che confermare quanto già recentemente espresso in sede di recensione sulla bontà dell’operato del musicista molisano.
Chiaramente, l’operazione non può discostarsi dal quadro complessivo fornito dalle precedenti uscite, pertanto ci troviamo di fronte a composizioni nelle quali, spesso, ai delicati arpeggi di Mist fanno da contraltare un abrasivo screaming o una profonda voce pulita, il tutto funzionale alla creazione di atmosfere intense ed emozionanti.
The Heart Of Autumnsphere e la title track sono brani emblematici in questo senso e, nonostante la loro natura di brani metal, si rivelano in realtà due preziosi affreschi sonori che non ci si stanca mai di ascoltare; leggermente diversa Army Of Winter (che nell’occasione è oggetto di una terza rielaborazione visto che il brano faceva parte anche di “Visions From A Thousand Lives”) per il suo andamento ritmico che richiama, almeno inizialmente, gli inarrivabili Katatonia di “Brave Murder Day”.
Endless è un breve strumentale, dalle iniziali pulsioni elettroniche, posto in chiusura di un lavoro breve ma che lascia intravvedere le enormi potenzialità dei Dead Summer Society; attendiamo quindi con fiducia la prossima prova su lunga distanza.

Tracklist :
1. The Heart of Autumnsphere
2. My Days through Silence
3. Army of Winter (March of the Thousand Voices)
4. Endless

Line-up :
Mist – All Instuments
Trismegisto – Vocals