Ruins va ben oltre le già elevate aspettative, proiettando i Marianas Rest ai vertici di una scena melodic death doom che, in Finlandia, pare davvero attingere ad un filone aureo apparentemente inesauribile.
Dopo un primo album splendido come Horror Vacui, pubblicato nel 2016, c’era una certa attesa per una sorta di prova del nove che per una band è il secondo full length, quello che ha il compito di consolidare e magari evolvere quanto di buono già mostrato in occasione dell’esordio.
Ruins in realtà va ben oltre le aspettative, proiettando la band finlandese ai vertici di una scena melodic death doom che, nella terra dei mille laghi, pare attingere ad un filone aureo apparentemente inesauribile.
I Marianas Rest si presentano con Kairos, un brano che per ritmica ed interpretazione vocale mostra più di una inclinazione black che ben si sposa con l’incedere ricco di tensione, addolcita con il contributo melodico di un sempre superbo lavoro chitarristico; la successiva canzone, The Spiral, è un’altra delle travi portanti del lavoro, in virtù di uno sviluppo a tratti più pacato ma altamente drammatico.
Dopo aver regalato un quarto d’ora di musica magnificamente intensa il gruppo finnico continua a sciorinare brani che non lasciano spazio ad indugi o riempitivi: i ritmi tendono mediamente ad accelerare senza che, però, il senso di malinconia che pervade l’intero lavoro finisca per essere messo in secondo piano; tra queste tracce spicca una trascinante Unsinkable, che appare l’ideale sintesi di un sound che collega al meglio il tragico incombere dei migliori Swallow The Sun con la vocazione melodica degli Insomnium.
Quando si arriva al termine di un’altra gemma come Restitution, ben più che soddisfatti di quanto già ascoltato, con la traccia conclusiva Omega l’archiviazione di Ruins come ottimo disco viene messa in discussione visto che tale valutazione rischia di apparire persino ingenerosa: il brano capolavoro trova spazio proprio in coda, con il suo crescendo emotivo irresistibile che conduce ad un finale dominato da un lunghissimo e commovente assolo di chitarra.
Come l’aquila, che è il simbolo ed il nome in lingua madre della loro città, Kotka, i Marianas Rest spiccano un maestoso volo verso le vette più altre del genere, sedendosi con pari dignità allo stesso tavolo di quelle band che hanno rappresentato la naturale quanto inevitabile fonte d’ispirazione.
Tracklist:
1. Kairos
2. The Spiral
3. Hole in Nothing
4. The Defiant
5. Unsinkable
6. Shadows
7. Restitution
8. Omega
Line-up:
Harri Sunila – Guitars
Nico Mänttäri – Guitars
Jaakko Mäntymaa – Vocals
Nico Heininen – Drums
Niko Lindman – Bass
Aapo Koivisto – Keyboards
Star-Crossed è un lavoro maturo e impeccabile sotto tutti i punti di vista, e potrebbe essere l’opera ideale per portare definitivamente il nome dei Lysithea all’attenzione anche degli appassionati europei.
Nati come progetto solista di natura esclusivamente strumentale del neozelandese Mike Lamb, dal 2014 i Lysithea sono diventati un duo con l’approdo anche alla voce di Mike Wilson, compagno di Lamb negli ottimi Sojourner.
Negli ultimi tre full length, quindi, il death doom melodico della band di Dunedin ha assunto una fisionomia meglio definita ed anche più appetibile per un mercato comunque ristretto come quello riguardante tali sonorità. Star-Crossedmette in mostra una notevole maestria nel maneggiare la materia in virtù di una serie di brani in cui confluiscono gli insegnamenti delle migliori band di settore, anche se come spesso accade chi proviene dall’Oceania tende a guardare maggiormente alla scuola statunitense piuttosto che a quella europea, ed ecco quindi che sono soprattutto i Daylight Dies a fungere quale ideale punto di riferimento.
È anche vero però che il sound dei Lysithea, in tale commistione, si nutre sovente più del melodic death che non del gothic doom e questo conferisce al tutto una buona fruibilità che non va comunque a discapito di un malinconico incedere, che si accentua a partire dallo strumentale Celeste e che si fortifica con le sue ultime tracce Unearthly Burial
e Fever Dream che vedono un incremento della drammaticità del sound. Star-Crossed è un lavoro maturo e impeccabile sotto tutti i punti di vista, e potrebbe essere l’opera ideale per portare definitivamente il nome dei Lysithea all’attenzione anche degli appassionati europei.
Tracklist:
1. An Empty Throne
2. Away
3. The Longing
4. Celeste
5. Unearthly Burial
6. Fever Dream
Line-up:
Mike Lamb – All instruments
Mike Wilson – Vocals, All instruments
Melancholia è un’opera matura ed impeccabile, da qualsiasi punto di vista la si voglia osservare: neppure la configurazione da one man band riesce a scalfire il valore di quello che è destinato a restare uno dei migliori lavori del 2019 in ambito melodic death doom
Questo secondo full length per il progetto solista dello svedese Jan Johansson, denominato Vanha, ci consegna una nuova splendida realtà musicale in grado di ammaliare gli amanti del death doom melodico.
Melancholia è un lavoro contenente spunti evocativi che si susseguono senza soluzione di continuità e pongono questo musicista quale vertice del genere nel suo paese, stante la fine dei When Nothing Remains e la perdurante mancanza di nuovi lavori da parte dei Doom Vs. di Johan Ericson.
Il nostro Jan maneggia la materia esattamente come si attende chi la ama, quindi nell’album altro non si troverà se non quanto programmaticamente promesso dal titolo. I sei brani medio lunghi si sviluppano esibendo costantemente un dolente sentire che trova, poi, puntualmente sfogo in magnifici spunti chitarristici e si fa davvero fatica a scegliere l’una o l’altra traccia come possibile emblema della bontà dell’opera.
Dovendolo fare, personalmente opto per le tracce incastonate al centro dell’album, Starless Sleep, dalle ritmiche ulteriormente rallentate e con le sei corde di Johansson che offrono linee strappalacrime e, soprattutto, Your Heart in My Hands, sette minuti di commozione provocata dall’alternarsi di un lieve tocco pianistico al consueto affastellarsi di melodie sempre evocative e mai stucchevoli. Melancholia è un’opera matura ed impeccabile, da qualsiasi punto di vista la si voglia osservare: neppure la configurazione da one man band riesce a scalfire il valore di quello che è destinato a restare uno dei migliori lavori del 2019 in ambito melodic death doom
Tracklist:
1. The Road
2. Storm of Grief
3. Starless Sleep
4. Your Heart in My Hands
5. Fade Away
6. The Sorrowful
As We Slowly Fade è un album che non deve sfuggire a chi apprezza il death doom melodico nelle sue espressioni emotivamente più elevate.
As We Slowly Fade è il sesto full length degli Helllight ed esce giusto dieci anni dopo quel Funeral Doom che fece balzare all’attenzione degli appassionati il nome della band di Fabio De Paula.
Mi è capitato di ascoltare, qualche mese fa, quell’opera che presentava una montagna di intuizioni magnifiche, sia pure inserite all’interno di una struttura perfettibile sotto diversi aspetti, e non si può fare a meno di notare come il musicista brasiliano abbia intrapreso una lenta ma costante progressione che ha portato il suo gruppo ad essere uno dei nomi più rispettati in ambito doom, non solo in Sudamerica.
Il death doom melodico e atmosferico sciorinato in As We Slowly Fade, del resto, è quanto mai europeo per stile ed espressione musicale, trovandosi a gravitare nell’orbita dei Saturnus assieme a realtà quali Doom Vs. e When Nothing Remains: il lavoro chitarristico di De Paula è di primissima qualità, così come tutto il comparto strumentale che vede il fedele Alexandre Vida al basso e il neo arrivato Renan Bianchi alla batteria a fornire un puntuale supporto ritmico.
La voce è invece ciò che in certi momenti può assumere un carattere divisivo: se il growl è assolutamente e positivamente nella norma, le clean vocals continuano a lasciare qualche dubbio per il loro essere sempre un po’ troppo stentoree e con l’effetto di attenuare il carico di drammaticità del songrwiting; sarà un caso, o forse no, se per me i brani migliori dell’album sono The Ghost e The Land Of Broken Dreams, gli unici nei quale De Paula si astiene dall’esibire la voce pulita e forse anche per questo, ma non solo, risultano i più vicini ai lidi funeral. Ma questo resta in qualche modo un punto che più di altri è strettamente connesso alla soggettività: quel che conta è che la musica degli Helllight, ancora una volta, non delude offrendo un pregiato dono a tutti gli appassionati di questo tipo di doom; la title track, While The Moon Darkens, e Bridge Between Life And Death sono infatti tracce lunghe ma ricche di magnifici spunti e caratterizzate da un elevato tasso di evocatività.
Fa storia a sé la conclusiva Ocean, canzone alla quale dà il suo contributo anche una voce femminile e nella quale il leader regala alcuni minuti finali di struggenti melodie chitarristiche: una degna coda per un album che, come d’abitudine degli Helllight, si rivela impegnativo per l’ascoltatore soprattutto a causa di una durata che come sempre supera abbondantemente l’ora. As We Slowly Fade è, in definitiva, un album che non deve sfuggire a chi apprezza il death doom melodico nelle sue espressioni emotivamente più elevate.
Tracklist:
1 Intro
2 As We Slowly Fade
3 While The Moon Darkens
4 The Ghost
5 Bridge Between Life And Death
6 The Land Of Broken Dreams
7 Ocean
Line-up:
Fabio de Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Renan Bianchi – Drums
I cinquanta minuti di musica contenuti in Dor sono lo stato dell’arte del death doom melodico in questo momento, in quanto mi riesce difficile immaginare altre band oggi, se non i soli Saturnus, capaci di sollecitare con la stessa continuità le corde emotive degli appassionati.
Credo d’aver già parlato più volte (magari a sproposito) dell’effetto catartico che le forme più oscure e malinconiche del doom possono rivestire nei confronti degli spiriti maggiormente sensibili, specialmente quando si ritrovano a dover mettere assieme i cocci di una fragile esistenza.
La musica è il collante ideale per provare, se non a risolvere, sicuramente a riassemblare parzialmente quanto il corso della vita sta provando a mandare in frantumi e, in tal senso, in coincidenza dell’uscita di ogni album che vede coinvolto Daniel Neagoe, sia con gli Eye Of Solitude sia con il suo più recente progetto Clouds, è un po’ come avere la possibilità di ascoltare le parole di un amico che, invece di edulcorare inutilmente la realtà, decide di mostrare tutto il dolore del modo facendo scendere lacrime liberatorie e purificatrici.
Daniel, rispetto a molti altri grandi del settore, ha una prolificità compositiva che lo contraddistingue in maniera decisiva: per fare un esempio, negli ultimi sei anni, il tempo necessario per ascoltare un nuovo (capo)lavoro degli Evoken dopo Atra Mors, il musicista rumeno con le sue due band principali ha pubblicato complessivamente ben sette full length ed un numero considerevole di ep e singoli, tutto materiale di spessore artistico incommensurabile.
Rispetto agli EOS, con i Clouds Neagoe esplora il lato più melanconico e atmosferico del doom, coerentemente con quello che era stato l’intento manifestati all’epoca dell’esordio con Doliu, ovvero quello di omaggiare la memoria di chi non è più tra noi.
Tutto questo porta il sound di un album stupendo come Dor ad essere quasi antitetico per approccio al capolavoro degli Eye of Solitude che fu Canto III: mente in quel caso il senso della tragedia e del fallimento umano, nella vana ricerca di un senso all’esistenza, era qualcosa di tangibile, quasi fisico, ed esibito in maniera mirabilmente drammatica, qui il dolore è meno intenso e più soffuso, reso sopportabile nel suo essere diluito lungo brani intrisi di splendide melodie ed interpretati magistralmente dallo stesso Daniel e dagli ospiti che, come di consueto, arricchiscono ogni lavoro targato Clouds.
I cinquanta minuti di musica contenuti in Dor sono lo stato dell’arte del genere in questo momento, in quanto mi riesce difficile immaginare altre band oggi, se non i soli Saturnus, capaci di sollecitare con la stessa continuità le corde emotive degli appassionati, i quali non potranno che essere soggiogati dalla bellezza di questi sei brani dall’incedere struggente e in grado di indurre alla commozione dalla prima nota di Forever and a Day all’ultima di Alone. TheLast Day Of Sun è un grido di dolore in cui la disperazione (No one to hear my endless story / No one to set me free) si alterna alla disillusione, una prova di sommo lirismo che Daniel ci regala, assieme alla limpidezza di When I’m Gone, in cui ritroviamo la gradita partecipazione della bravissima Gogo Melone, e all’abbandono di The Forever Sleep, interpretata magistralmente da Pim Blankenstain (Can I close my eyes / This must be the night I die / Never to wake up again / The forever sleep and no more pain).
Il finale della title track è letteralmente lacerante nel sua tragica bellezza, mentre in Alone si può apprezzare lo splendido operato della giovane violinista Irina Movileanu, il cui tocco avvicina non poco il brano agli episodi più evocativi dei sempre imprescindibili My Dying Bride.
I Clouds odierni ripropongono la line-up a forte componente rumena già vista all’opera dal vivo quest’anno che comprende, oltre all’appena citata Irina, la base ritmica dei Descend Into Despair (Alex Costin e Luca Breaz) ad accompagnare l’ormai consolidata presenza dell’altro loro compagno Xander Coza alla chitarra, ai quali si aggiunge Indee Rehal-Sagoo, il quale non collaborava in studio con Neagoe dai tempi di Canto III; non so se tutto questo abbia contribuito a rendere i Clouds (al netto della sempre gradita partecipazione dei vari ospiti) un qualcosa di più vicino che in passato all’idea di band canonica, fatto sta che Dor si rivela a mio avviso il punto più alto di una discografia già comprensiva di gemme come Doliu, Departe e lo stesso Destin, ma indipendentemente da ciò, l’importante è sapere che “l’amico” di cui si parlava all’inizio è sempre lì, pronto a renderci più sopportabili i rovesci e le sventure dell’ esistenza esibendone senza filtri la sua ineluttabile caducità.
Tracklist:
1. Forever and a Day
2. The Last Day of Sun
3. When I’m Gone
4. Dor
5. The Forever Sleep
6. Alone
Un’altra opera di grande consistenza per questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.
Per il suo nuovo lavoro a nome Sorrowful Land, Max Molodtsov non ha lasciato nulla di intentato, radunando diversi nomi di spicco della scena doom e assegnando loro il compito di arricchire questo secondo full length del suo progetto, intitolato I Remember.
In ogni brano troviamo voci note alla platea di appassionati del death doom come due figure carismatiche del peso di Daniel Neagoe (Clouds, Eye Of Solitude) ed Evander Sinque (Who Dies In Siberian Slush, Umercenaries) ma non solo, se pensiamo anche alla presenza di Kaivan Sarei (A Dream Of Poe), Vladislav Shahin (Mournful Gust) e Daniel Arvidsson (Draconian), oltre al prezioso contributo chitarristico di Vito Marchese dei Novembers Doom.
Quanto di buono già dimostrato dal musicista ucraino con i precedenti lavori, trova in I Remember una sua ideale finalizzazione proprio grazie alla varietà di soluzioni consentite dal diversi stili vocali degli ospiti; pertanto, se la suadente voce pulita di sarei si presta ad un brano morbidamente malinconico come And Wilt Thou Weep When I Am Low?, il growl antologico di Neagoe sposta la successiva canzone When the World’s Gone Cold su ritmi più rallentati ed atmosfere più tragiche, anche se l’intreccio tra le clean dello stesso Daniel e di Max ingentilisce il tutto senza dimenticare il limpido e melodico chitarrismo del musicista ucraino. A Father I Never Had è una delle perle del lavoro e anche il solo brano in cui Molotsdov non si avvale di ospiti: il suo stile vocale, del resto, non sfigura certo per espressività e l’innata facilità nello sciorinare linee chitarristche magnifiche (non dissimili da un modello come quello rappresentato da Johan Ericsson) rende questa traccia davvero splendida.
In Weep On, Weep On troviamo un altro dei growl più efficaci della scena, quello di Evander Sinque, personaggio di spicco della scena moscovita del quale non avevamo più avuto il piacere di ascoltare il profondo timbro dopo la prematura scomparsa del suo storico sodale Gungrind: il brano è meno immediato nonché il più aspro e più profondo della tracklist, nonostante non venga mai meno il tocco atmosferico che è tratto comune dell’intero lavoro.
In I Am the Only Being Whose Doom tocca ad una delle icone della scena ucraina, quel Vladimir Shahin che con i suo Mournful Gust è stato uno dei primi nella sua terra ad esplorare con perizia quelle dolenti sonorità; la sua interpretazione vocale dona grande enfasi ad un brano in cui anche il tocco chitarristico di Marchese, differente da quello di Molotsdsov, conferisce una certa discontinuità rispetto alle altre tracce.
L’album si chiude con un’altra gemma imperlata di dolore come The Kingdom of Nothingness, interpretata da un ottimo Daniel Arvidsson, usualmente solo chitarrista nei Draconian, andando mettere il tassello finale ad un’altra opera di grande consistenza di questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.
L’unica nota di biasimo attribuibile a Molodtsov è la scelta di una copertina che non rende giustizia alla bellezza dell’album, la di là dei significati reconditi che magari questa possa rivestire all’interno del contesto lirico: un peccato veniale che non rende affatto meno appetibile per gli appassionati del death doom melodico un lavoro come I Remember.
Tracklist:
1. And Wilt Thou Weep When I Am Low?
2. When the World’s Gone Cold
3. A Father I Never Ha
4. Weep On, Weep On
5. I Am the Only Being Whose Doom
6. The Kingdom of Nothingness
Questa prima uscita dei Voidhaven ci regala una nuova band con i cromosomi doom al collocati al posto giusto per offrirci, nel prossimo futuro, un’interpretazione del genere qualitativamente all’altezza di questo graditissimo primo assaggio.
Prima uscita omonima con questo ep per i tedeschi Voidhaven, band che annovera tra le sue fila due membri degli Ophis (Simon Schorneck e Philipp Kruppa)
Con tali premesse, unite al fatto che poi gran parte della band ha un passato anche nei Crimson Swan, nome meno noto ma pur sempre gravitante nella cerchia del doom, il sound offerto è ovviamente ben orientato verso una direzione malinconica seppure piuttosto melodica, grazie anche al ricorso consistente alle clean vocals.
I due brani in scaletta, che si attestano attorno ai dieci minuti di durata, si rivelano sufficientemente probanti riguardo alle potenzialità di questa nuova band, e non è certo un caso se la Solitude se ne è già assicurata le prestazioni.
I Voidhaven raggiungono un ideale equilibrio tra il funeral melodico degli Ophis ed il gothic doom dei Crimson Swan, andandosi ad attestare su territori contigui a Swallow The Sun ed Evadne, in virtù di un sound per lo più dolente ed atmosferico, sporcato solo di tanto in tanto da qualche ruvidezza rappresentata da riff più robusti e dall’uso del growl.
Troviamo così una The Floating Grave nel complesso più suadente mentre, a seguire, Beyond the Bounds of Sleep mostra tratti più drammatici, anche se il cantato pulito normalmente si snoda come avviene nelle band citate, andando a coincidere con i passaggi più intensi dal punto di vista emotivo.
Ne consegue che questa prima uscita dei Voidhaven ci regala una nuova band con i cromosomi doom al collocati al posto giusto per offrirci, nel prossimo futuro, un’interpretazione del genere qualitativamente all’altezza di questo graditissimo primo assaggio.
Tracklist:
1. The Floating Grave
2. Beyond the Bounds of Sleep
Line-up:
Jakob Bass, Vocals (backing)
Martin Drums
Marcos Lege Keyboards
Simon Schorneck Guitars, Vocals
Phil Guitars
Dead Men Do Not Suffer, grazie al lavoro chitarristico di grande classe fornito da Cristiano Costa, pur essendo catalogabile alla voce death doom potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.
Il Brasile non sembrerebbe essere terreno fertile per il doom come per i generi più estremi o il metal classico, almeno a livello quantitativo; la qualità, invece, non può essere messa in discussione se pensiamo ad una scena capace di offrire nomi già consolidati come HellLight eMythological Cold Tower, o di più recente affermazione come i Jupiterian.
A provare ad inserirsi in tale novero provano gli Aporya, band nata solo scorso anno per l’impulso del chitarrista Cristiano Costa che ha poi trovato il suo ideale completamento nel vocalist Tiago Monteiro: Dead Men Do Not Suffer è il titolo del loro interessante esordio, all’insegna di un death doom melodico che a tratti ricorda i Tiamat epoca Clouds, specialmente in un brano come One More Day, forse anche a di un’impostazione vocale a tratti simile a quella utilizzata ai tempi da Edlund, con un growl non troppo profondo e a tratti quasi sussurrato.
Al di là di questo, si capisce che gli Aporya sono un progetto nato dalla mente di un chitarrista proveniente dal metal classico, visto l’abbondante quanto appropriato ricorso ad assoli dolenti e melodici che prendono piede, soprattutto, nella seconda metà dell’album, invero ingannevole al suo avvio con un brano death tout court (ma notevolissimo) come Cry of the Butterfly, che va a spezzare l’iniziale incantesimo creato dalla tenue intro Blood Rain.
Da The Sad Tragedy (I’m Crushed Down) in poi il lavoro comincia ad assumere le coordinate promesse, ovvero quelle di un death doom melodico, elegante ma dall’impatto emotivo che si mantiene sempre apprezzabile, grazie al connubio tra le linee chitarristiche, il soffuso supporto delle tastiere ed un’interpretazione vocale che non va a sovrapporsi in maniera eccessiva alle tessiture strumentali. Dead Men Do Not Suffer prende quota ancora più nella sua parte finale, in coincidenza con quei brani nei quali Costa sfoga tutto il suo sentire melodico abbinato ad un tocco chitarristico di grande classe; anche per questo l’album, pur essendo catalogabile alla voce death doom, potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.
In definitiva gli Aporya si rivelano una gradita sorpresa e l’approdo alla configurazione di band vera propria, finalizzata alla riproposizione dal vivo dei brani contenuti nell’album, non potrà che rivelarsi un valore aggiunto nell’ambito di un percorso iniziato nel migliore dei modi.
Tracklist:
1. Blood Rain
2. Cry of the Butterfly
3. The Sad Tragedy (I’m Crushed Down)
4. Little Child in the Grave
5. One More Day
6. Pain and Loneliness
7. Dead Men Do Not Suffer
Un ep che conferma il nome Sorrowful Land come un qualcosa che va ben oltre lo status di progetto futuribile, trattandosi di una realtà alla quale si chiede solo di continuare su questa strada anche in futuro.
A distanza di circa un anno Max Molodtsov torna a farsi sentire con il suo progetto solista Sorrowful Land.
Avevo già parlato più che bene del full length d’esordio Of Ruins …, che metteva in mostra qualità sopraffine sia dal punto di vista compositivo che esecutivo, andando anche oltre a quanto di buono già fatto con la sua band principale, i gotici Edenian.
In occasione del lavoro su lunga distanza avevo fatto notare una devozione piuttosto marcata nei confronti degli When Noting Remains (con tanto di imprimatur derivante dalla partecipazione come ospite di Peter Laustsen) e tutto sommato con questo lungo ep intitolato Where The Sullen Waters Flownon sembra che le coordinate siano variate più di tanto e, ci tengo a ribadirlo, questo non è assolutamente da considerare un punto negativo.
Infatti, nei tre lunghi brani che si avvicinano complessivamente alla mezz’ora di durata, il polistrumentista ucraino conferma lo spessore del proprio talento naturale per la composizione di musica struggente e colma di melodia mai stucchevole, grazie ad un lavoro chitarristico elegante e sobrio allo stesso stesso tempo.
Niente da eccepire quindi su questo gradito ritorno in tempi relativamente brevi (per le abitudini in uso nel genere) con un trittico di brani di grande efficacia tra i quali, a mio avviso, spicca l’ultimo, The Night Is Darkening Around Me, nel quale avviene un parziale spostamento verso un sound ancor più legato al suono della chitarra solista, questa volta con Saturnus e Doom Vs. nel mirino.
Ripeto che la citazione dei vari riferimenti non deve essere intesa come un’accusa di derivatività, bensì quale tentativo di fornire un’idea di cosa attendersi a chi si avvicina all’ascolto di questo lavoro, con la certezza che chi ama questo genere musicale l’ultimo dei problemi che si pone è proprio quello dell’originalità, specialmente quando il pathos e l’intensità si mantengono sempre al livello offerto da Where The Sullen Waters Flow.
Un ep che conferma il nome Sorrowful Land come un qualcosa che va ben oltre lo status di progetto futuribile, trattandosi di una realtà alla quale si chiede solo di continuare su questa strada anche in futuro.
Tracklist:
1.As I Behold Them Once Again
2.Where The Sullen Waters Flow
3.The Night Is Darkening Around Me
Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.
Il primo full length del progetto solista denominato I, Forlorn, dietro al quale troviamo il musicista olandese Jurre Timmer, si propone come uno dei debutti su lunga distanza più riusciti in ambito death doom melodico negli ultimi tempi.
My Kingdom Eclipsed è un album nel quale viene sviluppato al meglio il potenziale atmosferico ed evocativo del genere, e ciò avviene attraverso un’interpretazione magistrale sia a livello vocale che strumentale, in aggiunta a doti compositive di primo livello.
Timmer, che in quest’occasione si firma con il nickname I, non è uno sconosciuto nell’ambiente, in quanto attivo già da qualche anno con un altro progetto solista denominato Algos, mentre dalle nostri parti ha collaborato in veste di vocalist alla riuscita del primo album de Il Vuoto, ma non c’è dubbio che quanto fatto con il monicker I, Forlorn lo ponga ancor di più all’attenzione generale.
Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed, pur con qualche sconfinamento nel funeral, è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.
Chiaramente I, Forlorn non apre un nuovo fronte nel genere ma raccoglie il meglio delle istanze già espresse in passato da Saturnus, Officium Triste, Doom Vs. e When Nothing Remains, mettendo sul piatto un’ora abbondante di musica dolente e coinvolgente che trova il suo picco, come è giusto che sia, nella title track, un monumento di depressiva bellezza che si sublima in un finale davvero toccante. My Kingdom Eclipsed è un album inattaccabile per qualità e potenziale evocativo, composto da una musicista come Jurre Timmer dotato di quella innata sensibilità che è poi la dote in comune con la fascia di ascoltatori ai quali la sua opera è rivolta.
Tracklist:
1. Behind the Sun
2. House of Glass
3. My Kingdom Eclipsed
4. Hysteria
5. Spiral’s End
6. Through Her Eyes
7. The Fragile Beast
8. Embers
Rispetto alla pre-produzione ascoltata diversi anni fa, il growl di Sébastien Pierre conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.
Quattro anni fa rinvenni on line un album intitolato Further Nowhere, a nome Cold Insight, che mi aveva incuriosito in quanto si trattava del progetto solista di Sébastien Pierre, tastierista degli ottimi ma appena disciolti death-doomsters francesi Inborn Suffering, nonché partner di Jari Lindholm nei magnifici Enshine
La musica contenuta in quelle tracce di natura esclusivamente strumentale mi colpì favorevolmente, tanto che ritenni di scrivere due righe al riguardo, ben conscio del fatto che si trattava di una pre-produzione messa in circolazione sul web per sondare il terreno, come ci tenne a chiarire anche il musicista francese, pur se lusingato dal riscontro positivo.
Approdato ad un’etichetta specializzata in musica oscura e di qualità come la Naturmacht / Rain Without End, Pierre ha finalmente dato alle stampe la versione definitiva di Further Nowhere e, come era prevedibile, l’inserimento della voce rende un’opera magnifica quella che nel 2013 era apparsa un già notevole abbozzo.
Il growl di Sébastien conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.
Ovviamente le tracce che già a suo tempo mi avevano colpito per la loro bellezza vengono esaltate in questa loro nuova veste, impreziosita dal contributo alla chitarra dello stesso Lindholm ed del suo connazionale (nonché compagno negli Exgenesis) Christian Netzell alla batteria: così, affreschi melodici e dal groove irresistibile come The Light We Are, Above ed Even Dies A Sun (solo per citare quelle che prediligo) vengono offerte all’interno di un progetto che trova finalmente un suo sbocco ben definito, e sarebbe stato un vero delitto se ciò non fosse avvenuto.
L’unica traccia che ha conservato la propria veste strumentale è proprio la title track, ed è giusto così perché, in fondo, è tra tutte quella che esprime le melodie più struggenti e che, forse, sarebbero state intaccate dall’inserimento delle vocals; la chiusura invece è affidata a Deep, unico brano non presente nella prima stesura e dotato di un chorus che non lascia scampo, come del resto avviene in quasi tutte le altre canzoni, nelle quali questa capacità da parte di Pierre viene perpetuata con un approccio non dissimile a quello dei migliori Amorphis.
L’ascolto di questo effettivo primo full length targato Cold Insight conferma una volta di più quanto ho sempre sostenuto riguardo alla tendenza ormai diffusa, emersa in questi ultimi anni, di pubblicare opere interamente strumentali: avendo, per una volta, l’occasione di confrontare lo stesso lavoro nell’una e nell’altra versione, si può oggettivamente constatare come non ci sia competizione tra le due soluzioni, in particolare quando le linee vocali sono incisive ed espressive come quelle del musicista parigino.
Alla fine della recensione scritta quattro anni fa per In Your Eyes Eyes affermavo che a un album come Furter Nowhere mancava solo la parola … ora che l’ha trovata è davvero un bel sentire.
Tracklist:
01. The Light We Are
02. Midnight Sun
03. Sulphur
04. Close Your Eyes
05. Above
06. Rainside
07. Stillness Days
08. Even Dies a Sun
09. Distance
10. I Will Rise
11. Further Nowhere
12. Deep
Line-up:
Sébastien Pierre – vocals, keyboards, guitar, bass
Jari Lindholm – guitar solos, mixing, mastering
Christian Netzell – drums
L’opera prima dei Ruin è senz’altro valida, magari non ancora all’altezza delle migliori espressioni del genere, ma ricca di spunti interessanti che fanno ragionevolmente ritenere i due musicisti dell’Alberta in possesso di tutti i mezzi per incidere, con ancor più efficacia e convinzione, alla prossima occasione.
Prima apparizione per i canadesi Ruin, autori di un death doom melodico di buona fattura.
L’intento di offrire un’interpretazione molto più malinconica che non pervasa da umori drammatici, da parte del duo proveniente dall’olimpica Calgary, è piuttosto scoperto, per cui è più la gradevolezza dell’insieme a colpire l’ascoltatore anziché il ricorso a sonorità plumbee o venate di toni drammatici.
Questo, se da un lato conferisce una buona fruibilità al lavoro, dall’altro gli fa perdere un po’ in profondità, impedendogli forse di lasciare un segno più marcato.
Infatti, quando il sound si avvolge maggiormente di tonalità oscure ed inquiete, l’album subisce una notevole scossa: ne è esempio eloquente l’ottima The Core, il cui andamento decisamente più cupo ricorda non poco l’operato dei Doomed, specialmente nel suono della chitarra; resta comunque molto valido l’approccio dei due ragazzi canadesi nel suo complesso, proprio perché il lavoro appare ben costruito e sempre piacevole nella sua linearità (da non confondere con banalità).
Oltre al brano già citato, sono rimarchevoli gli spunti più robusti ed emotivamente impattanti, esibiti in Beyond Good and Evil e Withering of Gaia, e le melodie tenuamente funeree della conclusiva A Distant View; buono ed appropriato l’utilizzo alternato del growl e delle clean vocals, pur se quest’ultime perfettibili, mentre la prestazione strumentale è piuttosto limpida, avvalendosi anche di una produzione soddisfacente.
In definitiva, l’opera prima dei Ruin è senz’altro valida, magari non ancora all’altezza delle migliori espressioni del genere, ma ricca di spunti interessanti che fanno ragionevolmente ritenere i due musicisti dell’Alberta in possesso di tutti i mezzi per incidere, con ancor più efficacia e convinzione, rispetto a quanto già esibito positivamente in questa occasione
Tracklist:
1. Contagion I
2. Beyond Good and Evil
3. And She Wept
4. The Core
5. Cubensis
6. The Sleeper Awakens
7. Withering of Gaia
8. Chapter One
9. Contagion II
10. A Distant View
Line-up:
Zach Boser – Bass, Drum programming, Guitars, Piano, Synthesizers, Vocals
Adam Smith – Drum programming, Lyrics, Piano, Vocals
Quello che fino a qualche anno fa era una gruppo in chiara ascesa può essere considerato, fin da oggi, una realtà tangibile ed affermata, perché comporre due album di siffatto valore è prerogativa solo delle band di levatura superiore alla media.
I Kaunis Kuolematon nel 2014 erano stati autori dell’ottimo Kylmä kaunis maailma, mirabile esempio di death doom melodico, cantato interamente in finlandese.
Dopo circa tre anni, la band di Hamina, cittadina sul Golfo di Finlandia ad est della capitale, ritorna con Vapaus (libertà) con la fondata ambizione di dare la scalata alle vette del genere, in patria e di conseguenza anche in Europa.
Il risultato non poteva essere migliore: i Kaunis Kuolematon affinano il sound proposto nel precedente album senza perdere nulla in carica emotiva e ricerca melodica.
Come in Kylmä kaunis maailma, l’uso della doppia voce è esemplare, e l’arcigno growl di Olli Suvanto è il contraltare perfetto delle evocative clean vocals del chitarrista Mikko Heikkilä: proprio questa alternanza, unita ad un sound molto più malinconico che drammatico, rende l’ascolto coinvolgente ed accattivante dalla prima all’ultima nota.
La stupenda intro Alkunasat è già sufficiente per dimostrare lo doti tecniche e compositive della band fininica, che poi con Eloton si lanciano in un brano di intensità spasmodica arricchito da appropriati innesti di voce femminile; complessivamente più d’impatto che d’atmosfera è invece Hurskas, ideale preparazione del terreno al capolavoro dell’album, Yksin.
In questi cinque minuti e mezzo esplode letteralmente il talento tecnico e compositivo del quintetto, capace di andare a sfidare con argomenti importanti le massime band del settore: la voce pulita racconta di quella solitudine evocata dal titolo, prima che uno dei chorus più struggenti ascoltati negli ultimi anni si schiuda in tutta la sua fragorosa bellezza.
Il livello non scende, se non impercettibilmente, con la più robusta Tuhottu elämä, uscita come singolo a febbraio e per la quale è stato girato un video che è l’ideale seguito di quello toccante che accompagnava En Ole Mitään nel precedente full length; Ikuinen ikävä e Ikaros forse risentono più del confronto, pur essendo ottime canzoni che riescono a non far scemare la tensione dell’album, prima che Arvet ne riporti nuovamente i toni ai massimi livelli, mantenuti dalla chiusura più rarefatta ed intimista di Sanat jotka jäivät sanomatta.
Se per l’album precedente avevo scomodato quale ovvio riferimento i connazionali Swallow The Sun, in Vapaus la band alla quale i Kaunis Kuolematon maggiormente si avvicinano sono gli Hamferð, sia per l’abbinamento vocale (che però nei faroeriani è tutta opera di un solo cantante, lo stupefacente Jón Aldará), sia per l’uso di un idioma peculiare che forse fa perdere nell’immediato la comprensione dei testi ma che, nel contempo, ammanta di ulteriore fascino la proposta della band.
Comunque sia, quella dei Kaunis Kuolematon è una cifra stilistica piuttosto personale e, soprattutto, pregevole e matura in ogni suo frangente: quello che fino a qualche anno fa era una gruppo in chiara ascesa può essere considerato, fin da oggi, una realtà tangibile ed affermata, perché comporre due album di siffatto valore è prerogativa solo delle band di levatura superiore alla media.
Tracklist:
1. Alkusanat
2. Eloton
3. Hurskas
4. Yksin
5. Tuhottu elämä
6. Ikuinen ikävä
7. Ikaros
8. Arvet
9. Sanat jotka jäivät sanomatta
Line up:
Jarno Uski – Bass
Miika Hostikka – Drums
Ville Mussalo – Guitars
Olli Suvanto – Vocals (lead)
Mikko Heikkilä – Guitars, Vocals (clean)
Like Crows For The Earth è, un album magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore
Sono passati quattro anni dall’ottimo full length Drown In The Sea Of Life ed oggi ritroviamo i Tethra alle prese con un nuovo album intitolato Like Crows For The Earth.
Come spesso accade a troppe band, il vocalist Clode, unico membro originale rimasto, nel frattempo ha dovuto rivoluzionare la line-up approdando ad una formazione a cinque che, rispetto al passato, si avvale dell’apporto di due chitarristi.
Troviamo così, ad affiancare il musicista novarese, Luca Mellana e Gabriele Monti alle sei corde, Salvatore Duca al basso e Lorenzo Giudici alla batteria, a comporre un organico che, a giudicare dall’esito finale, si rivela del tutto all’altezza della situazione, con l’auspicio che ciò possa garantire a lungo termine una certa stabilità.
Come per il suo predecessore la produzione è stata affidata alle mani esperte di Mat Stancioiu, mentre anche il mastering, eseguito da parte dell’eminenza grigia del doom Greg Chandler (Esoteric), e l’artwork, curato da Marco Castagnetto, sono indicatori netti della volontà di non trascurare il benché minimo particolare, in modo da consegnare al pubblico un prodotto impeccabile sotto tutti gli aspetti.
L’obiettivo viene ampiamente raggiunto in virtù di un scrittura varia, che porta i Tethra a spaziare tra le diverse anime del doom, partendo dal gothic, passando a quello di matrice più classica per giungere, infine, a quello dai toni dolenti ed animato da pulsioni death: il tutto viene sviluppato con la massima consapevolezza e maturità, riuscendo nella non facile impresa di mantenere un’impronta ed un’identità precisa, nonostante la tracklist sia composta da una serie di brani dotati ciascuno della propria peculiarità.
L’album si apre con la breve intro acustica Resilience che prepara il terreno a Transcending Thanatos, episodio già sufficientemente indicativo di una maggiore propensione gotica: in particolare lo splendido e trascinante refrain ha riesumato nella mia memoria di vecchio appassionato i misconosciuti olandesi Whispering Gallery, autori di tre oscuri gioelli di death doom melodico all’inizio del secolo. Prelude to Sadness, altro strumentale, introduce Springtime Melancholy, canzone che, pur restando nei canoni del doom tradizionale, mostra una volta di più una maggiore propensione melodica che trova sfogo nell’ottimo assolo conclusivo di Luca Mellana.
E’ il sitar ad aprire Deserted, traccia che, nonostante l’incipit di tutt’altro tenore, si rivela il brano più trascinante ed immediato del lotto, in virtù di un riffing micidiale, un chorus di grande presa ed un break centrale contrassegnato da un altro azzeccato assolo: insomma, qui si trovano tutti gli ingredienti necessari per imprimere la traccia nella memoria, mantenendo intatta la profondità del genere proposto.
L’interludio Subterranean mette in mostra le doti vocali di Clode, che se già prima era lecito considerare un vocalist di indubbio valore, con questo lavoro innalza ulteriormente il proprio livello, spiccando per versatilità e spaziando da tonalità estreme (growl con qualche sconfinamento nello screaming) a profonde ed evocative clean vocals che non possono che rimandare a quelle di Fernando Ribeiro, uno dei modelli di riferimento per chiunque si cimenti in questo genere musicale.
Subito dopo si palesa il momento in cui l’album trova la sua ideale sublimazione con un brano magnifico come The Groundfeeder, che si può considerare idealmente il manifesto musicale dei nuovi Tethra, unendo alla perfezione le diverse anime del sound ed andando a lambire, in certi passaggi strumentali, l’emozionalità dei migliori The Foreshadowing. Entropy è l’ultimo dei frammenti acustici, preparatorio al trittico finale aperto dalle belle melodie chitarristiche di Synchronicity Of Life And Decay, traccia che si sviluppa poi in maniera piuttosto ritmata e chiusa ancora una volta da un assolo brillante che riporta, infine, al punto di partenza, mentre Earthless spinge ancor più sul versante gothic grazie a linee melodiche irresistibili che si alternano a passaggi più rarefatti, esaltati da una prestazione superlative di Clode dietro al microfono: ancora un brano magnifico per intensità e attrattività.
A chiudere il lavoro ci pensa la title track, ultima delle gemme offerte da un album di qualità a tratti sorprendente, il cui suggello non può che essere il brano più malinconico ed oscuro del lotto, esempio magistrale di come il doom possa offrire quel turbinio di sensazioni che ad altri generi non sempre è concesso fare. Like Crows For The Earthè, semplicemente, un disco magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore, grazie all’approdo ad una forma capace di veicolare in maniera più diretta ed efficace quei toni dolenti e malinconici che sono la componente imprescindibile del genere.
Tracklist:
1.Resilience (intro)
2.Transcending Thanatos
3.Prelude To Sadness
4.Springtime Melancholy
5.Deserted
6.Subterranean
7.The Groundfeeder
8.Entropy
9.Synchronicity Of Life And Decay
10.Earthless
11.Like Crows For The Earth
“Kylmä Kaunis Maailma” è un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.
Dopo aver recensito per ben due volte i Kuolemanlaakso eccoci alle prese con un monicker piuttosto simile come quello dei Kaunis Kuolematon; inutile dire che anche qui ci troviamo immersi mani e piedi nella magnifica terra dei mille laghi alle prese con un’altra band che potrebbe rivelarsi tra le scoperte più eccitanti dell’anno.
L’uso del condizionale non è riferito a dubbi sul contenuto musicale di Kylmä Kaunis Maailma bensì proprio alla difficoltà che avrete avuto (almeno che non abbiate ascendenze finniche) nel pronunciare correttamente il titolo; il ricorso integrale alla lingua madre rischia, infatti, di rivelarsi un ostacolo per quelle fasce di ascoltatori meno forniti di pazienza e di apertura mentale.
Superato questo relativo scoglio risulta però facile innamorarsi perdutamente dei Kaunis Kuolematon, capaci di comporre un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.
Lo spettro nobile quanto ingombrante dei Swallow The Sun aleggia inevitabilmente sul disco, e non è escluso che l’artificio linguistico sia anche un modo per rendere meno automatici certi accostamenti, ma va detto che, al di là di similitudini più o meno evidenti, i nostri mantengono quale tratto comune con i loro maestri soprattutto la stupefacente capacità di comporre melodie difficilmente accantonabili, inserendole in un contesto sonoro robusto ma sempre dotato del giusto equilibrio.
La prestazione vocale di Olli Saakeli Suvanto è eccellente, priva com’è di sbavature nelle parti in growl e in screming (sulla falsariga quindi del miglior Kotamaki), così come quella di Mikko Heikkilä, il quale in aggiunta alle sei corde si occupa anche delle evocative clean vocals, utilizzate a profusione nei brani più rilassati e in quelli dai tratti epicheggianti.
Il livello complessivo ben oltre la media non impedisce a qualche traccia di spiccare sulle altre, in particolare la splendida En ole mitään, dal tasso emotivo irresistibile e abbinata anche ad un video strappalacrime, o la successiva Sieluni sirpaleet, senza dimenticare la superlativa Aamu.
Anche se i Kaunis Kuolematon si fanno preferire nei frangenti più emozionali, pure quando spingono sull’acceleratore risultano coinvolgenti spostandosi decisamente sul versante death melodico, ma in ogni singolo momento dell’album la band finnica dimostra una spiccata personalità che riesce a farle superare con disinvoltura i limiti imposti dal genere e le inevitabili comparazioni con i nomi più pesanti del settore.
Come detto in avvio, la scelta di cantare in lingua madre temo che possa comportare la chiusura di diverse porte nei confronti dei Kaunis Kuolematon, almeno al di fuori dei confini patri, mentre, per loro fortuna, sul fronte interno si trovano ad avere a che fare con una popolazione numericamente esigua ma incredibilmente ricettiva verso generi musicali che altrove (qualcuno ha detto Italia ?) non vengono minimamente presi in considerazione a livello mediatico (ci tengo a ricordare che nel 2006 la Finlandia trionfò all’Eurofestival mandando in propria rappresentanza nientemeno che i Lordi)
Ma, al di là di tutte queste considerazioni, Kylmä Kaunis Maailma resta a mio avviso uno dei migliori dischi usciti in questo primo terzo del 2014 e tanto deve bastare per spingervi a fare una piacevole full-immersion di finlandese.
Tracklist:
1. Pimeyden valtakunta
2. Itsestään kuollut
3. Kivisydän
4. Kuolematon
5. En ole mitään
6. Sieluni sirpaleet
7. Pahan kasvot
8. Aamu
9. Haudasta hautaan
Line-up:
Jarno Uski – Bass
Miika Hostikka – Drums
Olli Saakeli Suvanto – Vocals
Ville Mussalo – Guitars
Mikko Heikkilä – Guitars, Vocals (clean)
La scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringono la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta.
Ho amato da subito la musica degli HellLight, fin da quel “Funeral Doom” (titolo programmatico anche se per certi versi fuorviante), secondo full-length nel quale, pur tra diverse imperfezioni, la band paulista mostrava un potenziale melodico ed evocativo in grado di esplodere da un momento all’altro.
Il successivo “…And Then, The Light Of Consciousness Became Hell…” aveva confermato quelle impressioni, rafforzate da un evidente progresso dal punto di vista della tecnica strumentale e della produzione. Tutto ciò faceva pensare che il quarto album sarebbe potuto essere quello della definitiva consacrazione ma, pur essendo stato compiuto un ulteriore passo avanti, non è andata proprio così, perché quei piccoli difetti strutturali che gli HellLight si trascinano dietro fin dagli esordi non sono ancora del tutto scomparsi. Intendiamoci, No God Above, No Devil Below, è un bellissimo disco, straconsigliato a chi apprezza il doom nella sua versione più melodica, malinconica ed accessibile, ma l’impressione che resta, al termine di questi quasi 80 minuti di musica, è quella di una band che non è ancora riuscita a compiere il passo decisivo per raggiungere un livello prossimo a quello dei Saturnus, tanto per restare nel medesimo ambito stilistico, anche se mi rendo conto che non stiamo parlando di un qualcosa alla portata di tutti. Pregi e difetti della band guidata dal chitarrista e cantante Fabio De Paula sono essenzialmente racchiusi negli oltre venti minuti complessivi della title-track e della successiva Shades Of Black: uno spiccato senso melodico al servizio di meste partiture tastieristiche, l’alternanza tra un profondo growl ed una stentorea voce pulita, ritmiche pachidermiche e assoli di chitarra di stampo classico nonché di eccellente gusto e fattura. Sfido chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità a non commuoversi ascoltando l’incipit di Shades Of Black, il tipico brano che da solo vale un intero disco, peccato che la scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringano la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta. Perché, diciamocela tutta, ogni volta che Fabio De Paula decide di prodursi nelle sue evoluzioni chitarristiche riesce a regalare momenti realmente indimenticabili, e questo è sicuramente un significativo punto di contatto con i Saturnus; ma, mentre in questi ultimi Thomas Jensen si limita saggiamente ad esibire, oltre al proprio profondo growl, soltanto alcune parti recitate, negli HellLight l’uso delle clean vocals appare forzato se non addirittura superfluo, visto che già la sola struttura compositiva dei brani contribuisce a creare emozioni in abbondanza. Il resto dell’album segue di norma uno schema consolidato, con brani contraddistinti da una lunga e più pacata parte introduttiva che sfocia in un finale nel quale si erge a protagonista la sei corde del leader , fatta eccezione per Path Of Sorrow, con la sua struttura di stampo autenticamente funeral; tutto ciò rischia talvolta di appesantire l’ascolto di No God Above, No Devil Below, anche se per chi apprezza il genere la cosa si rivelerà un piacevole sacrificio. Forse sono stato eccessivamente critico nei confronti degli HellLight, e ciò che mi ha trasmesso davvero questo loro ultimo lavoro lo mostra chiaramente il voto piuttosto elevato assegnatogli; purtroppo, però, in un’ottica di ricerca del meglio, non si può sorvolare su quei particolari che, per ora, impediscono il definitivo decollo ad una band capace di creare con una simile naturalezza melodie talmente coinvolgenti. Ma, si sa, a volte il troppo amore rende le persone particolarmente esigenti …
Tracklist :
1. Intro
2. No God Above, No Devil Below
3. Shades of Black
4. Unsacred
5. Legacy of Soul
6. Path of Sorrow
7. Beneath the Lies
8. The Ordinary Eyes
Line-up :
Fabio De Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums